È COME LA FINE DEL MONDO

Ieri notte è ripartita in grande stile l’offensiva russo-siriana nel Nord-Ovest della Siria contro la Turchia e i suoi alleati dell’opposizione armata siriana. Negli ultimi tre mesi nella provincia di Idlib oltre 900 mila persone sono state costrette a lasciare le loro case. «È un popolo stremato in fuga dalla guerra, da bombe che hanno distrutto abitazioni, scuole e ospedali. È un fiume umano, con almeno 500 mila bambini che cercano di sopravvivere in campi sovraffollati, tra la morsa del gelo e della malnutrizione, davanti ad un unico orizzonte che si infrange con una frontiera chiusa, quella tra Siria e Turchia» (Vaticannews). Lo sfollamento di massa non è un semplice “effetto collaterale” della guerra che oppone la Turchia alla Russia e alla Siria, ma un obiettivo scientemente ricercato e pianificato dai macellai russo-siriani. Inutile dire che il regime turco collabora attivamente alla “catastrofe umanitaria” in corso ormai da molto tempo. Per l’Imperialismo Unitario (ne fanno parte grandi e piccole potenze, grandi e piccole nazioni, imperialismi globali e regionali) gli interessi sono tutto, la vita delle persone niente; esso è unitario in questo peculiare significato: si pone unitariamente contro gli interessi dell’umanità in generale, e delle classi subalterne, in particolare. Al suo interno questo Imperialismo è invece altamente conflittuale.

«È come la fine del mondo», ha affermato Fouad Sayed Issa, il fondatore di Violet, un’organizzazione umanitaria siriana “senza scopo di lucro”; «anche se hai soldi, non troverai nulla da affittare o acquistare. Le tende sono piene e non ci sono più campi» (New York Times). «“Questa regione sta per diventare il più grande cumulo di macerie del mondo, disseminata di cadaveri di un milione di bambini”: a dirlo è il coordinatore delle Nazioni Unite per le emergenze umanitarie, Mark Lowcock, che non trova più superlativi per descrivere l’orrore che stanno vivendo gli abitanti della regione di Idlib, vittime della guerra totale lanciata dal regime siriano per riconquistarla a qualsiasi costo. Chi sono le vittime? Perché la situazione a Idlib è cosi apocalittica? La Turchia ha accolto finora circa 3,5 milioni di rifugiati siriani, ma dal 2015 ha chiuso la frontiera. Un’inchiesta del giornale libanese l’Orient le jour sui trafficanti di esseri umani spiega che la Turchia non teme di sparare sui disperati che cercano di passare il confine e che il costo di un passaggio di contrabbando, che fino al 2016 era di cento dollari, oggi può arrivare a tremila. Dall’altra parte c’è l’offensiva del regime di Bashar al Assad appoggiata dalle forze russe. Oggi, a parte la paura delle bombe, nessuna delle persone che vive nella zona pensa di potersi ritrovare di nuovo sotto il regime di Assad dopo quello che hanno vissuto» (Internazionale).

Papa Francesco ha lanciato da Bari l’ennesimo appello «agli uomini di buona volontà» (sic!): «Cari fratelli e sorelle, mentre siamo riuniti qui a pregare e a riflettere sulla pace e sulle sorti dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo, sull’altra sponda di questo mare, in particolare nel nord-ovest della Siria, si consuma un’immane tragedia. Dai nostri cuori di pastori si eleva un forte appello agli attori coinvolti e alla comunità internazionale, perché taccia il frastuono delle armi e si ascolti il pianto dei piccoli e degli indifesi; perché si mettano da parte i calcoli e gli interessi per salvaguardare le vite dei civili e dei tanti bambini innocenti che ne pagano le conseguenze. Preghiamo il Signore affinché muova i cuori e tutti possano superare la logica dello scontro, dell’odio e della vendetta per riscoprirsi fratelli, figli di un solo Padre, che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi». Un Papa ovviamente non può che dire questo. Chi scrive, che notoriamente Papa non è, purtroppo è invece costretto a prendere atto dell’ennesima carneficina prodotta dalla logica del potere (economico, politico, ideologico, in una sola parola: sistemico), la quale non si lascia commuovere da nessuna preghiera, da nessun pianto di bimbo, di vecchio, di donna e di uomo. Non c’è niente da fare: se l’uomo non esiste, tutto il male concepibile è anche possibile e altamente probabile – anche sotto forma di virus…

Aggiunta del 29 febbraio 2020

«Erdogan ha fatto annunciare che la sua guardia costiera e l’esercito non fermeranno più i profughi siriani che proveranno ad attraversare l’Anatolia per dirigersi verso la Grecia e l’Europa» (La Repubblica). La Turchia, più interessata a massacrare i curdi e a presidiare un’area che giudica di suo vitale interesse strategico, che a salvare vite umane, continua a usare i profughi siriani come arma di ricatto nei confronti degli “alleati” europei, i quali da anni pagano Ankara per gestire la scottante questione. Gli europei amano delegare ad altri il pur necessario “lavoro sporco”. Intanto l’offensiva russo-siriana continua, con la scusa della lotta al terrorismo: «Il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ha fatto sapere a Ginevra l’intenzione di Mosca di non sospendere le ostilità perché “significherebbe capitolare di fronte ai terroristi, e persino ricompensarli per le loro attività in violazione dei trattati internazionali e di numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu”. Fatto sta che nel nord della Siria è emergenza umanitaria su scala biblica, con un milione di persone in fuga dai bombardamenti accalcate in prossimità del confine turco da quale passano solo le armi e i beni logistici diretti a sud» (Notizie Geopolitiche). L’Onu? Nient’altro che «un covo di briganti»!

Centinaia di migliaia di persone sono insomma stritolate nella micidiale morsa di contrapposti interessi che hanno una sola logica: quella del Potere – economico, politico, ideologico. Inutile dire che ci toccherà assistere al vomitevole rimpallo delle responsabilità da parte di tutti i Paesi (compresi quelli europei) coinvolti nella vicenda, perché la colpa per il sangue versato e per le sofferenze inflitte agli inermi ricade sempre sulla testa degli altri – dei nemici.

UN’UMANITÁ GASATA

La prima vittima di una guerra è sempre la verità: ciò è stato vero in passato e lo è soprattutto oggi, in un’epoca in cui le guerre nemmeno si dichiarano, e che quando si “fanno” (magari “per procura”), spesso vengono definite “umanitarie” da chi ha interesse a promuoverle. Anche oggi qualcuno viene e ricordarcelo: «Ognuno si difende come può, ben sapendo che la prima della vittima di una guerra è sempre la verità». Così scrive oggi Alberto Negri su Il Sole 24 Ore commentando l’ennesima strage siriana. Ma c’è una verità ben più profonda, che non spetta certo agli analisti di geopolitica e ai politici che amministrano la nostra esistenza mettere in luce, che orienta la mia valutazione anche per ciò che riguarda l’episodio bellico di ieri: la natura sociale del conflitto siriano.

Un massacro in più o in meno non può certo cambiare il mio giudizio sul regime siriano e, soprattutto, su ciò che ho definito il Sistema Mondiale del Terrore, concetto che spiega anche la strage di San Pietroburgo. A suo tempo anche Giulio Regeni sperimentò la crudeltà di questo mostruoso sistema terroristico che sfrutta e uccide; tutti i Paesi del pianeta ne sono parte organica, sebbene a vario titolo e con diverso peso specifico. Anche il concetto di Imperialismo va benissimo per orientarci nel caos: grandi e piccoli imperialismi si contendono la torta del Potere (economico e geopolitico); ognuno vuole la propria fetta, anche piccola, a volte piccolissima, e sono disposti a prenderla con tutti i mezzi a disposizione. E noi, i “civili”, siamo continuamente esposti alla fenomenologia di questa guerra sistemica, che a volte reclama vittime in carne ed ossa, in Siria come in Russia, in Turchia come in Francia. Come ho scritto qualche tempo fa, siamo tutti vittime e ostaggi del Sistema Mondiale del Terrore, o Capitalismo mondiale che dir si voglia.

«L’umanità è morta oggi in Siria», ha detto ieri Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia. La verità è che l’umanità muore tutti i santi giorni, ovunque nel mondo.

Ecco perché non ho bisogno di aspettare inchieste internazionali di qualche tipo (l’ONU non è che un «covo di briganti»), volte a stabilire chi ieri ha usato il gas nervino Sarin contro i civili siriani (come nell’agosto 2013: oltre 1500 morti), per schierarmi contro tutte le parti in conflitto: contro il macellaio/chimico di Damasco Bashar Assad (peraltro degno figlio di cotanto padre) e i suoi alleati, Russia e Iran in primis (con la Cina che non gli fa mancare il suo sostegno politico); e contro chi lo combatte con gli stessi mezzi non certo per far trionfare la causa della libertà, della giustizia e dei “diritti umani”, bensì per i già menzionati interessi di potere, all’interno della Siria e in tutta la regione mediorientale. E qui chiamo in causa l’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Turchia, l’Arabia Saudita. L’elenco è lungo, da una parte e dall’altra, e qualche Paese può dunque essermi sfuggito. Tuttavia non commetterò il grave errore di non citare l’Italia tra le piccole/medie potenze regionali da sempre interessate a raccogliere bottino in Nord’Africa (vedi Libia) e in Medio Oriente.

Quella che va in scena ormai da sei anni in Siria non è «una guerra sporca», come dicono taluni sinistrorsi che si nascondono dietro la complessità geopolitica del conflitto forse perché si vergognano di sostenere apertamente il regime di Assad e i Paesi che lo puntellano (per quanto tempo ancora?); si tratta invece, e mi scuso per la ripetizione, di una guerra per il Potere, un Potere che si “declina” nei tradizionali termini capitalistici. Punto. Su un’analisi più dettagliata del conflitto siriano rimando ai tanti post pubblicati sul Blog – e raccolti nel PDF La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.

Scrive su Repubblica Vittorio Zucconi, dopo aver denunciato il prepotente ritorno alla moda della «“Realpolitik” cara ai Kissinger e ai Nixon (e nel nostro piccolo agli Andreotti)»: «Sulle doppie rovine della dottrina del “cambio di regime” cara a Bush e poi della “primavera araba” coltivata da Obama e da Hillary Clinton, si rialza trionfante il cinico realismo». Ma cinico – cioè disumano – è il Sistema Mondiale del Terrore in quanto tale, e lo è stato sempre, anche quando andava di moda la geopolitica cosiddetta “idealista” che tanto piace a Zucconi e ai suoi amici progressisti.

Confesso a chi legge queste modeste riflessioni che ciò che oggi mi irrita è soprattutto la consapevolezza che la mia “denuncia” non salverà un solo bambino, un solo vecchio, una sola donna, un solo uomo, in Siria e altrove. Dare voce all’impotenza delle classi subalterne non è certo gratificante.

YEMEN E SIRIA. DUE PAESI, LA STESSA GUERRA

untitledMentre l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale è tutta concentrata sul macello siriano e sul tragico destino della popolazione civile rimasta intrappolata tra le macerie di Aleppo, nello Yemen si continua a morire: «Sanaa (Yemen), 9 ottobre 2016. È di 155 morti e oltre 500 feriti il bilancio ufficiale, seppur provvisorio, delle vittime del raid aereo compiuto oggi a Sanaa. Le bombe hanno colpito in pieno una sala dove era in corso un funerale del padre di un esponente di spicco dei ribelli sciiti Houthi (*). Nella sala c’erano circa 2 mila persone per partecipare ai funerali di Ali bin Al-Ruwaishan, padre del ministro dell’Interno del governo dei ribelli Houthi, Jalal al Ruwaishan. Tra gli esponenti di spicco dei ribelli sciiti yemeniti che hanno perso la vita in questo attacco c’è il sindaco di Sanaa, Abdel Qader Hilal. Il ministero degli Esteri iraniano ha condannato l’attacco così come il leader delle milizie sciite libanesi Hezbollah, che ha tenuto stasera un discorso pubblico in occasione delle celebrazioni di Ashurà a Beirut. Da parte sua la coalizione a guida saudita nega qualsiasi responsabilità per il raid sul funerale» (Quotidiano.net). Negare, negare sempre, anche contro ogni più bruciante evidenza: è, questa, una linea di difesa adottata con successo da tutti i criminali che possono vantare uno status di legittimità politica sul piano internazionale. Salvo inattesi rovesci sul fronte militare… La domanda che però dobbiamo farci per non rimanere vittime della guerra propagandistica degli Stati (di tutti gli Stati) è la seguente: chi giudica sulla legittimità etico-politica di un’azione bellica? La domanda può essere riformulata in questi altri e più generali termini: da quale prospettiva osserviamo il processo sociale (massacri bellici inclusi) mondiale?

Dopo l’ennesimo “incidente di percorso” in terra yemenita Ned Price, portavoce della Sicurezza nazionale USA, ha fatto sapere che gli Stati Uniti sono «molto turbati da una serie di attacchi ai civili»: «Alla luce di ciò che è accaduto adesso abbiamo cominciato a rivedere il mostro già abbastanza ridotto sostegno alla Coalizione e lo renderemo compatibile con i principi, i valori e gli interessi degli Stati Uniti, tra cui vi è la fine immediata di questo conflitto. La cooperazione con l’Arabia Saudita non è un assegno in bianco». I principi, i valori e gli interessi che ispirano la politica estera della prima potenza imperialista del pianeta non sono compatibili con l’uso indiscriminato della forza militare, come peraltro attesta nel modo più evidente l’intera storia degli Stati Uniti. Scherzo per allentare la tensione. Inutile dire che l’altro imperialismo da sempre ispirato da principi, valori e interessi che stanno al vertice della scala etica (sì, alludo alla Russia) gongola dinanzi al “turbamento” dei competitori a stelle e strisce. Nelle conversazioni “da bar” si dice: «Il più pulito dei due ha la rogna». Discutibile sotto l’aspetto dottrinario, la battuta rende bene l’idea.

Com’è noto, la Coalizione a guida saudita, costituitasi a marzo dello scorso anno e sostenuta politicamente e militarmente dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra, dalla Francia, dall’Italia e dalla Spagna, è composta da Bahrain, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania, Marocco e Sudan; il “fronte sciita” che sostiene gli Houthi è guidato dall’Iran, potenza regionale in forte ascesa. «La partita a scacchi che si sta svolgendo tra Iran e Arabia Saudita non è solamente in Siria ma anche nei paesi della Penisola Arabica come lo Yemen. La guerra civile yemenita tra i ribelli Houthi, sostenuti da Teheran (che però nega), e le forze sunnite del governo di Abd Rabbo Mansour Hadi, appoggiate dai sauditi, ha raggiunto livelli critici dopo l’intervento militare della coalizione della Lega Araba volto a sconfiggere gli Houthi. L’intervento, criticato dall’Iran, non ha avuto i risultati sperati visto la resistenza delle forze sciite e la loro capacità di muoversi nelle zone montagnose di confine con l’Arabia Saudita. Nei giorni scorsi le forze Houthi hanno compiuto lanci di missili balistici verso e postazioni militari dei sauditi oltreconfine, che li hanno intercettati: i missili, secondo americani e sauditi, sono risultati di provenienza iraniana, cosa che constata l’esistenza di un supporto logistico di Teheran alle forze ribelli» (F. Cirillo, Notizie Geopolitiche). Sulla competizione fra “fronte sciita” e “fronte sunnita” rinvio al post Alcune considerazioni sul conflitto mediorientale.

Secondo Human Rights Watch, «Stati Uniti, Regno Unito, Francia, e altre nazioni occidentali dovrebbero sospendere tutte le vendite di armi all’Arabia Saudita, almeno fino a quando smetterà i suoi attacchi aerei illegali nello Yemen». I massacri causati dagli attacchi aerei “legali” vanno dunque bene? Lo so, si tratta di una domanda sciocca, tipica di chi irride l’aureo e umanissimo principio del “male minore”: la guerra è sempre brutta, si capisce, ma lo è di più se essa si dispiega in modo selvaggio, ossia se gli attori in campo non rispettano le leggi che il Diritto internazionale ha previsto anche per il conflitto armato fra gli Stati. Se tutti i Paesi si attenessero alle buone maniere prescritte dal Diritto internazionale, questo mondo sarebbe un luogo meno brutto e cattivo. Forse… Scusate, ma dinanzi a queste idiozie legaliste il mio piccolo cervello si rifiuta di funzionare, per cui mi tengo cara la sciocca ironia di cui sopra. A forza di ingoiare, anno dopo anno, pane e “male minore”, «stiamo creando nel mondo reale l’Inferno di Dante» (Tom Hanks). Io non sarei così ottimista…

Su un documento redatto lo scorso marzo dalle Nazioni Unite si legge che nello Yemen «gli attacchi sono avvenuti sui campi per sfollati interni e dei rifugiati; sui raduni civili, compresi i matrimoni; sui veicoli civili, sugli autobus, sulle strutture mediche, le scuole, le moschee, i mercati, le fabbriche e i magazzini di stoccaggio degli alimenti, sull’aeroporto di Sana’a, sul porto di Hudaydah e le vie di transito nazionali». Se uno Stato nazionale massacra la gente inerme, si tratta di una «legittima operazione bellica», o al più di un errore, di un effetto collaterale: dopo tutto, la guerra non è mai stata un pranzo di gala; se la stessa poco commendevole azione ha come protagonisti i cosiddetti “ribelli”, chiamati anche terroristi, ecco che magicamente ci troviamo dinanzi ad «inaccettabili azioni terroristiche». Due pesi e due misure? Esatto! Lo schema appena considerato naturalmente si ripete inalterato a diverse latitudini, come vediamo in Siria, in Turchia, in Israele, ovunque un “legittimo governo” è chiamato a tenere a bada dei “ribelli”, o “terroristi” che dir si voglia. All’Onu grandi e piccole Potenze si accapigliano intorno a queste distinzioni, le quali non hanno nulla a che fare con il cosiddetto Diritto internazionale astrattamente considerato (esattamente come quello interno alle singole nazioni, il Diritto internazionale non è che il diritto del più forte), mentre hanno molto a che vedere con interessi economici e geopolitici di grande peso, tale da schiacciare gli individui metaforicamente e, a volte, realmente. Per questo ho definito, con un trasparente intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo, Sistema Mondiale del Terrore la società che ci ospita, la cui violenza sistemica (economica, politica, ideologica, psicologica) non smette di crescere e di radicalizzarsi, con improvvise accelerazioni che sempre più spesso sono segnalate dallo scorrere del sangue, del sangue vero, e non solo da quello metaforico.

Anche il nostro “pacifico” Paese dà il suo non disprezzabile contributo alla carneficina di donne, bambini e vecchi che hanno la sventura di vivere nelle aree yemenite toccate dal conflitto. «L’Italia guarda con grande interesse al ruolo dell’Arabia Saudita, per la stabilità della regione, e al rafforzamento dei rapporti bilaterali tra i due paesi», ha dichiarato qualche giorno fa la Ministra della Difesa Pinotti, la quale il 4 ottobre si è recata in visita dagli alleati sauditi. «Al centro dei colloqui tra la ministra Pinotti e il re saudita ed in particolare il Vice principe ereditario e ministro della Difesa, Muhammad Bin Salman, vi sono stati nuovi “contratti navali”. “The talks are said to have focused on naval deals between both countries” – riporta testualmente il sito Tactical Report. Considerato che i colloqui erano tra ministri della Difesa non è difficile immaginare che si sia trattato di navi militari. Lo fa capire chiaramente l’agenzia di stampa saudita: “They discussed bilateral relations and ways to enhance them, especially in the defense field”. Non a caso, quindi, nella delegazione italiana era presente il Segretario Generale della Difesa e Direttore Nazionale degli Armamenti, il Generale di Squadra Aerea Carlo Magrassi. Per il ministero della Difesa il centro dei colloqui sarebbe invece stato “la formazione e l’addestramento militare”. “Durante il meeting si è parlato dello sviluppo della cooperazione bilaterale con un focus particolare sui settori della formazione e dell’addestramento militare” – riporta il comunicato ufficiale del Ministero. Di addestramento militare hanno sicuramente bisogno soprattutto gli avieri sauditi che da oltre un anno e mezzo stanno bombardando lo Yemen senza alcun mandato internazionale, ma sostenuti dall’intelligence di Stati Uniti e Regno Unito» (Unimondo.Org). La spessa cortina di silenzio mediatico che ha coperto la missione italiana in Arabia Saudita dimostra che quando vuole il nostro Paese sa ben recitare il ruolo della piccola ma seria potenza regionale dalle grandi ambizioni – quantomeno adeguate ai suoi interessi economici e geopolitici, vivaddio! E già che ci siamo: Evviva l’Italia! Ops… Il nazionalista che c’è in me per un istante ha preso il sopravvento, come quando assisto a una partita di calcio degli Azzurri; basta distrarsi un attimo, ed è fatta. Chiedo scusa al lettore devoto all’internazionalismo proletario!

«Chiediamo alla coalizione a guida saudita e ai governi che la supportano, in particolare Stati Uniti, Regno Unito e Francia, di garantire l’applicazione immediata di misure volte ad aumentare in modo sostanziale la protezione dei civili. Il fatto che staff medico e persone malate o ferite vengano uccise all’interno di un ospedale dice tutto sulla crudeltà e la disumanità di questa guerra». Così dichiarava Joan Tubau, direttore generale di Medici Senza Frontiere lo scorso 15 agosto, dopo il bombardamento aereo contro l’ospedale di Abs che provocò 19 morti e 24 feriti. Personalmente non ricordo nessuna guerra, lontana o vicina nel tempo, che non abbia avuto gli odiosi requisiti della crudeltà e della disumanità. Nessuna. Ma dai coraggiosi medici che corrono in soccorso delle vittime, non si può certo pretendere anche una concezione critico-rivoluzionaria del mondo; per come la vedo io, il problema non sta nella mancanza di “coscienza di classe” di Tubau e compagni, ma nell’impotenza sociale e politica delle classi subalterne del pianeta. La rituale marcia pacifista Perugia-Assisi si è svolta sotto gli auspici dello slogan francescano Vinci l’indifferenza; ma si tratta piuttosto di vincere l’impotenza, appunto.

A propositi di “concezione critico-rivoluzionaria” e di “coscienza di classe”! Scrive Piotr, un esponente del partito che combatte «l’egemonismo statunitense e il neoliberalismo» di stampo occidentale: «Il messaggio della Russia è chiaro: Signori (anzi “partner occidentali”), non ci spaventate. Odiamo la guerra ma siamo pronti a combatterla. E lo sapete bene. E sapete bene che quando la Russia deve difendersi può diventare brutale. Attenzione allora a due cose. Gli statunitensi pensano che sia possibile un’escalation, da uno stato di guerra circoscritto a uno generalizzato e nel frattempo vedere come reagisce l’avversario. Pensano ciò perché a parte la Guerra Civile hanno sempre combattuto le altre guerre al di fuori dai loro confini. I Russi invece avranno la guerra subito in casa. I missili della NATO stanno ora solo a 100 km da San Pietroburgo. La guerra per loro sarà per forza di cose da subito totale. Questo gli Europei lo capiscono (ci sono già passati), ma gli USA no. Ecco allora la seconda cosa a cui fare attenzione. Se gli USA, presi da disperazione e scelleratezza, arriveranno veramente a un passo dalla guerra con la Russia, la NATO si sfascerà. Basterà questo a salvarci? Ad Aleppo si gioca il destino del mondo». Personalmente non ho la stessa certezza di Piotr sull’assoluta importanza strategica di Aleppo, anche se ovviamente non sottovaluto (sarebbe davvero impossibile!) la dimensione geopolitica del conflitto che ha trasformato quella città in un abisso di violenze, di morte, di dolore. Ma non è sull’aspetto strategico e geopolitico della questione che intendo brevemente soffermarmi.

«Ad Aleppo si gioca il destino del mondo»: e sia! Ma di quale mondo si parla qui? Si tratta forse del mondo dominato dal Capitale, dagli Stati nazionali, dall’Imperialismo (mondiale e regionale, “occidentale” e “orientale”) e da ogni sorta di “brama di potere”? Non c’è dubbio. Ora, lungi dal condannare in blocco, “senza se e senza ma”, questo disumano mondo; il mondo appunto dello sfruttamento, dell’oppressione sociale e delle guerre, Piotr prende piuttosto posizione a favore di una cosca capitalista/imperialista: quella che riunisce tutte le nazioni nemiche degli Stati Uniti, a cominciare da quella Russia che «odia la guerra» ma non ne ha paura – a differenza del poco virile Occidente che preferisce lasciare ai suoi servi sciocchi mediorientali il lavoro sporco! La posizione qui presa di mira illustra perfettamente, e solo per questo ne faccio oggetto di critica sommaria, l’abisso che corre tra il punto di vista geopolitico (nel caso specifico orientato in senso antiamericano e filosovietico, pardon: filorusso) delle classi dominanti, espresso dai suoi intellettuali variamente orientati in senso ideologico (“realisti”, “idealisti”, “marxisti”, “liberisti”); e il punto di vista a esso antagonista che invita – ahimè inutilmente! – le classi subalterne di tutto il mondo a piantare un cuneo nel cuore del «drago dalle molteplici spire» (Sofocle), anziché sostenere una qualsiasi di quelle spire contro le altre.

Il 7 ottobre Piotr pubblica un altro articolo il cui titolo lascia davvero poco spazio all’immaginazione: L’ultima guerra. Leggiamo (e tocchiamo ferro, o qualche altro scaramantico articolo): «È col cuore grave che sono costretto a prendere atto che dal giorno 6 ottobre 2016 una guerra tra la Russia e gli USA è possibile in ogni momento. Una guerra che può avere devastanti effetti anche per noi. Per quanto sia orrendo e penoso parlarne, bisogna farlo, perché i grandi media nascondono questa serissima eventualità. Non ne parlano perché vogliono continuare a farci pensare a una guerra mondiale come a un videogioco e perché vogliono continuare a convincerci che lo Zio Sam alla fine prevarrà, perché è il più forte e perché è nel giusto, qualsiasi cosa faccia. […] L’unica possibilità di uscirne vivi è che l’impero si de-imperializzi, accetti un mondo multipolare e in quello negozi la propria nuova posizione. Il contrario della dottrina dei neocon. Noi, l’Italia e i Paesi europei, dobbiamo facilitare, promuovere questa inversione di marcia. Per farlo dobbiamo opporci alle politiche imperiali, non c’è altro da fare». Per il Nostro, come per molti altri “antimperialisti”, nel mondo esiste un solo vero polo imperialista: quello cosiddetto occidentale a guida statunitense. Le mosche cocchiere dell’”antimperialismo militante” lavorano notte e giorno, giorno e notte per dividere quel polo: «Occorre privilegiare i rapporti non coi settori disponibili a un olocausto nucleare ma con quelli disponibili ad adattarsi al mondo multipolare». Da questo punto di vista, è meglio tifare per l’”isolazionista” Trump o per l’”internazionalista” Clinton in vista delle prossime Presidenziali? Ardua risposta! Nel dubbio, il mio piccolo cervello mi invita (vedi il mio attuale stato di schizofrenia!) a mandarli entrambi a quel Paese, quello che piace tanto ai grillini.

cartina-moEcco dunque il mondo che piace a certi “antimperialisti” nostalgici della Guerra fredda: il «mondo multipolare», la “democrazia imperialista”, il pluralismo degli interessi nazionali. Ora, dal punto di vista delle classi dominate, si scorge forse qualche pur lieve differenza tra mondo unipolare, mondo bipolare e mondo multipolare? A me non pare; dalla mia prospettiva si tratta di tre differenti assetti geopolitici dello stesso disumano – o capitalistico – mondo. Ma Piotr non è d’accordo; egli vede agire nel mondo due opposte forze: quelle del Male, «disponibili a un olocausto nucleare» perché accecati da una demoniaca follia che si ribella anche agli interessi economici del Capitale e agli interessi politici degli Stati, e quelle del Bene, «disponibili ad adattarsi al mondo multipolare». Come si fa a non appoggiare le forze del Bene?! «Se, come penso, solo il potere politico è in grado di avere un progetto grandioso, occorre allora che negli USA riesca ad esprimersi un potere il cui grandioso progetto sia quello di non fare una guerra. Non sarebbe la fine dei problemi, perché l’inizio dei problemi è la cattiva infinità del processo di accumulazione. E quindi non è nemmeno la rivoluzione, ma non si può fare nessuna rivoluzione se si è tutti morti». Qui sottoscrivo, senza alcuna ironia (almeno ci provo!): «non si può fare nessuna rivoluzione se si è tutti morti». Prima dobbiamo conquistare la possibilità di rimanere in vita, e solo dopo, eventualmente, possiamo pensare di fare la rivoluzione. La logica di Piotr appare inattaccabile. Giungiamo alla conclusione: «È vero, spesso gli schemi si ripetono. Anche John Hobson all’inizio del secolo scorso implorava l’Impero Britannico di adeguarsi al nuovo mondo multipolare di allora per evitare una guerra mondiale. Ma l’Impero s’impuntò e così iniziò un lunghissimo conflitto armato segnato da due grandi battaglie. La prima fu chiamata I Guerra Mondiale e la successiva II Guerra Mondiale. L’Impero vinse nella conta finale dei morti, ma perse l’egemonia mondiale che passò agli USA. È vero, il genere umano c’è ancora, ma gli schemi non si ripetono nelle stesse condizioni. Mai. Le devastazioni della I Guerra Mondiale (che doveva essere l’ “ultima guerra”) superarono quelle di tutte le guerre precedenti, ma vennero ampiamente surclassate da quelle della II Guerra Mondiale (che doveva essere l’”ultima guerra”). Ma le devastazioni della III Guerra Mondiale non verranno superate da quelle seguenti perché non rimarrà più niente da devastare. Quella con molta probabilità sarà veramente l’ultima guerra». Come diceva il bravo cantante, lo scopriremo solo vivendo – o solo crepando, nella peggiore delle ipotesi, nel caso in cui dovessero prevalere, anche in grazia delle sciagurate posizioni qui espresse dal sottoscritto, le demoniache forze del Male.

Siccome mi sento inadeguato dinanzi alla stringente logica storica di Piotr, finisco questo modesto pezzo nascondendomi dietro l’autorità di un celebre antimperialista (senza le solite virgolette!): Herman Gorter, il quale nell’autunno 1914 scriveva quanto segue: «Causa di questa prima guerra mondiale è il capitalismo. Il capitalismo mondiale, che cerca di espandersi. Tutti gli Stati cercano piazze di smercio per i loro prodotti, cercano fonti di alti interessi pei loro capitali. L’imperialismo non vuole solo colonie, vuole anche sfere d’influenza per il commercio e un monopolio industriale e finanziario. […] Tutte le chiacchiere dei partiti borghesi e socialisti e dei loro organi, che si fa una guerra di difesa, e che si è stati costretti a farla perché si era aggrediti, non sono che un inganno, destinato a nascondere la propria colpa sotto una bella apparenza. Dire che la Germania o la Prussia o l’Inghilterra è la causa della guerra sarebbe tanto stolido e falso, quanto l’affermare che la crepa nata in un vulcano è la causa dell’eruzione. Da anni ed anni tutti gli Stati europei si armavano per questo conflitto. Tutti vogliono soddisfare la propria rapace avidità. Tutti sono egualmente colpevoli» (**). Tutti egualmente colpevoli, “aggressori” e “aggrediti”, perché tutti assoggettati alla Potenza sociale chiamata Capitale, un “Impero del Male” anonimo e dal carattere sempre più aggressivo – “a 360 gradi”: dalla sfera economica a quella politica e geopolitica, da quella culturale e ideologica a quella psicologica.

Più si rafforza la tendenza del Capitale a mettere ogni cosa e ciascuno nel tritacarne del processo economico-sociale chiamato a generare profitti e rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, e più si rafforzano le spinte identitarie d’ogni tipo: politiche, culturali, linguistiche, religiose, etniche, razziali, sessuali (non a caso spesso faccio riferimento all’esibita virilità dello “Zar” Vladimir) e quant’altro. È questa maligna dialettica che bisogna comprendere per evitare di finire intruppati sotto questa o quella bandiera ultrareazionaria, in questa o quella tifoseria nazionale o/e imperialista – magari inseguendo l’”antimperialismo” (di nuovo le antipatiche virgolette!) a senso unico di certi ex filosovietici.

(*) «Il golpe degli houthi (sciiti), dietro al quale vi sarebbe l’Iran (che però nega), è arrivato nel gennaio 2015 dopo che per mesi avevano chiesto invano alcuni riconoscimenti come l’inserimento di 20mila appartenenti alla minoranza sciita nelle forze armate governative, l’assegnazione di 10 ministeri e l’inclusione nella regione di Azal, di Hajja e dei governatorati di al-Jaw. […] Si calcola che dall’inizio della guerra civile i morti siano già 7mila, di cui la maggioranza civili (G. Keller, Notizie Geopolitiche).(**) H. Gorter, L’imperialismo, la guerra mondiale e la socialdemocrazia, pp. 51-52, Edizioni Avanti!, 1920.

MACELLO SIRIANO. C’ERA UNA VOLTA IL MOVIMENTO PACIFISTA…

colomba-medio-orienteUn morto è una tragedia, un milione di morti sono una statistica.

Fecero un deserto e lo chiamarono Pace.

«Pacifism won’t work», Il pacifismo non funziona: così titolava a tutta pagina il Catholic Herald nel numero uscito lo scorso 29 aprile. Come non essere d’accordo? Certo, si tratta poi di capire il senso ideologico e politico di questa mera constatazione dei fatti. L’articolo di Adriano Sofri pubblicato ieri dal Foglio può forse aiutarci a cogliere qualche aspetto significativo del problema messo sul tappeto dalla rivista cattolica, la quale, detto en passant, paventa una “deriva pacifista” da parte della Chiesa di Roma che la porterebbe a rinnegare il principio del «legittimo uso della forza nelle situazioni peggiori». Scrive Sofri:

«Esattamente nelle ore in cui il mattatoio di Aleppo culmina nei crimini di guerra di Putin e Assad contro inermi ostaggi del fanatismo jihadista, […] i nobili pacifisti – nobili davvero, ci credono davvero, quando si mobilitano per lasciare indisturbato il genocidio di Ninive e quando si mobilitavano per lasciare indisturbato il genocidio di Srebrenica – chiamano guerra il soccorso, e credono sinceramente di opporsi alla guerra quando si oppongono al soccorso. […] La Siria è l’esempio più perverso e colossale nella storia contemporanea dei disastri dell’omissione di soccorso. Cinque anni fa Assad scatenò una violenza ottusa e spietata contro i ragazzi delle sue scuole e i suoi sudditi che volevano farsi cittadini. Tre anni fa Assad violò provocatoriamente la solenne Linea Rossa fissata da un Obama renitente e illuso che non l’avrebbe mai davvero superata. Assad è un criminale all’ingrosso ma non è stupido: aveva capito bene Putin e aveva capito bene Obama. Forse avevano capito bene anche il pacifismo e il Papa. […] Che i curdi si battano e valorosamente e dalla parte giusta sono disposti più o meno volentieri ad ammetterlo tutti: ma anche i più incantati sostenitori del valore delle curde e dei curdi del Rojava parlano più volentieri del confederalismo democratico sperimentato colà che della combinazione fra il loro valore militare e l’apporto aereo degli americani e dei francesi. Senza il quale Kobane sarebbe ancora in mano all’Isis, più o meno come le città italiane di settant’anni fa in cui pure si battevano arditamente e immaginavano un mondo giusto i partigiani». Sofri conclude il suo articolo ribadendo la necessità «di invocare una polizia internazionale a protezione di chi soccombe, nel momento in cui soccombe».

Ora, non so se sia meno “utopista” la mia posizione radicalmente anticapitalista, che incita (peraltro inutilmente!) le classi ovunque oppresse, sfruttate e macellate a rispondere alla guerra dei padroni del mondo con la guerra di classe spinta fino alla rivoluzione sociale (campa cavallo!), o l’interventismo “umanitario” di Sofri, indicazione politica che peraltro è perfettamente organica al Sistema Mondiale del Terrore – un po’ come la Croce Rossa è da sempre organica al sistema della guerra. Quando parla di «polizia internazionale» egli certamente pensa ai mitici “caschi blu” dell’Onu («e ho detto tutto», come dicevano i fratelli Caponi); ma pensa anche all’imperialismo, pardon: all’internazionalismo democratico e progressista del Presidente Obama, il quale per molti suoi tifosi europei, oggi delusi, è rimasto vittima della sempre attiva sindrome di Monaco (correva l’anno 1938), mentre per sovramercato incombe sui destini del mondo la sinistra ombra isolazionista dell’inquietante Trump.

Certo è, che il silenzio emesso negli ultimi anni dal movimento pacifista, così reattivo e rumoroso tutte le volte che gli Stati Uniti hanno monopolizzato la scena bellica in qualche parte del pianeta (in Afghanistan e in Iraq, ad esempio), è davvero assordante, cosa che, a mio avviso, porta acqua al mulino delle tesi di chi ha sempre denunciato la sudditanza ideologica di quel movimento, o almeno della sua parte più organizzata e militante, nei confronti del vecchio antiamericanismo di matrice “comunista”, eccellente supporto politico-ideologico dei Paesi concorrenti della Potenza americana. Ma ovviamente non tutti la pensano così.

«Le fotografie dei bambini siriani feriti e morti nei bombardamenti indignano, ma non mobilitano. Nessuno si muove per mettere fine alle strage di Aleppo. Perché? Ne abbiamo parlato con Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della Pace e tra i promotori della Marcia Perugia – Assisi. Cosa risponde a chi vi contesta di aver fatto grandi mobilitazioni quando la controparte erano gli Stati Uniti, per esempio al tempo di Bush? “No, non è cosi, queste sono solo le solite vecchie polemiche. Certo c’è stato negli anni chi si è mobilitato esclusivamente per quello (contro gli Stati Uniti, ndr), ma il movimento per la pace italiano ha radici antiche e ben altro spessore. E sono convinto che rinascerà”. Questo è un auspicio e nel frattempo? “Dobbiamo interrogarci, riflettere, senza scaricare le responsabilità su altri”» (P. Bosio, Radio Popolare, agosto 2016). Buona riflessione, dunque.

Nel frattempo le agenzie di tutto il mondo informano che «Le forze governative siriane, sostenute dall’aviazione russa, da militari iraniani e dagli Hezbollah libanesi, si preparano a un’offensiva di terra senza precedenti contro Aleppo Est». Pare che Putin stia valutando una soluzione di stampo ceceno per la martoriata città siriana: farne una tabula rasa, come accadde alla fine degli anni Novanta a Grozny. Della serie: Fecero un deserto e lo chiamarono Pace.

«Da venerdì, 96 bambini sono stati uccisi e 223 sono stati feriti dai bombardamenti effettuati sulla città di Aleppo. A riferirlo è l’Unicef, che ha definito “un incubo vivente” quello in cui sono “intrappolati” i piccoli siriani: “Non ci sono parole per descrivere le sofferenze che stanno patendo”» (TGcom 24). L’altro aspetto tragico dell’incubo vivente è che nessuno può dire oggi di non saperne niente: tutti sappiamo tutto in tempo reale: a colazione, a pranzo e a cena. E a questo punto i fratelli Caponi avrebbero saputo come ben chiosare. Rimane da dire che «Il segretario di Stato americano, John Kerry, ha minacciato di congelare la cooperazione con la Russia sulla Siria. Gli Stati Uniti stanno valutando inoltre “opzioni non diplomatiche” per far fronte alla crisi siriana». Il linguaggio politicamente corretto degli imperialisti “occidentali” è davvero comico: «opzioni non diplomatiche»! Ecco perché molti analisti geopolitici ascoltano più volentieri il rude e virile linguaggio di Putin.

A proposito del movimento pacifista, Francesca Borri la pensa in modo diverso da Flavio Lotti; in un articolo pubblicato qualche mese fa su Internazionale (Perché i pacifisti in occidente non manifestano contro Assad) scrive: «La solidarietà esiste, non è vero che il movimento pacifista non ha più capacità di mobilitazione. Il problema è che in Siria sta con Assad. Sta con l’uomo che ha usato ogni arma possibile contro i siriani, dai gas alla morte per fame, l’uomo che ha inventato i barili esplosivi, che per anni ha bombardato tutti tranne i jihadisti dello Stato islamico. L’uomo che ha finito per uccidere o ferire il 12 per cento della popolazione che sostiene di governare. Ma che è da molti considerato il male minore. Perché tutto è meglio dell’islam. E non importa che oltre la metà dei siriani, ormai, siano sfollati o rifugiati, non importa che quattro siriani su cinque siano sotto la soglia di povertà e che un milione di loro vivano mangiando erba e bevendo acqua piovana, e che secondo gli economisti ci vorranno 25 anni perché il paese torni a essere quello di prima della guerra, quando secondo le Nazioni Unite il 30 per cento dei siriani viveva già sotto la soglia di povertà. Non importa che Assad abbia demolito la Siria, non importa che abbia distrutto un’intera generazione, che abbia trasformato i siriani in un popolo di mendicanti, coperti di fango e stracci agli angoli delle nostre strade, annegati sulle nostre coste. Non importa che proprio come i suoi tanto criticati oppositori resista solo grazie al sostegno esterno, che non riesca a vincere questa guerra neanche con l’appoggio di Hezbollah, della Russia, dell’Iran e di centinaia di mercenari: non importa che stiamo mantenendo al potere uno che in realtà non ha potere. Non importa: perché Assad è laico. E questa, per noi, è l’unica cosa che conta».

Ma “noi” chi? Noi “occidentali”? noi “pacifisti”? In ogni caso, chi scrive è ovviamente schierato anche contro gli interessi dei Paesi “occidentali”, a cominciare da quelli italiani, che nell’area mediorientale non sono irrilevanti, tutt’altro – e non sempre in armonia con gli interessi degli “alleati” europei: vedi Libia. Quanto al pacifismo, no, decisamente non posso definirmi un pacifista. D’altra parte, la pace è un lusso che questo mondo disumano – perché fondato su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – non può concedersi.

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Ormai da molti mesi, “tregua umanitaria” dopo “tregua umanitaria”, “cessate il fuoco” dopo “cessate il fuoco”, il patetico Staffan De Mistura, l’inviato dell’Onu per la Siria dal luglio 2014, ripete ai suoi tanti interlocutori il miserabile mantra che segue: «Se entro poche ore, al massimo pochi giorni, non si arriva a un accordo tra le parti, la Siria precipiterà in un completo e definitivo caos». Precipiterà? Evidentemente a De Mistura l’inferno siriano che dal 2011 divora migliaia di vite non dà ancora l’idea di un caos completo e definitivo. È anche vero che al peggio non c’è fine, e difatti oggi egli è costretto ad ammettere: «Sta succedendo l’orrore, Aleppo sta bruciando, è urgente fermare questi bombardamenti». Intanto, mentre scrivo questo post bombe incendiarie cadono su Aleppo a cura delle forze lealiste supportate dall’alleato russo: l’inferno va continuamente alimentato! «Rendere la vita intollerabile e la morte probabile. Aprire una via di fuga oppure offrire un accordo a quelli che se ne vanno o che si arrendono. Lasciare che se ne vadano, uno a uno. Uccidere chiunque resti. Ripetere da capo fino a che il paesaggio urbano, ormai deserto, diventa tuo»: è la tattica nota come “starve-or-submit” applicata dall’esercito siriano ad Aleppo descritta dal New York Times.

Sempre De Mistura è convinto che Aleppo sia «la Stalingrado siriana», e che «chi vince lì fa pendere la bilancia dalla sua parte»: di qui il carattere particolarmente micidiale che il conflitto siriano ha assunto in quella martoriata città, ridotta a un ammasso di case sventrate, a una mortifera trappola che tiene sotto sequestro migliaia di vecchi di donne e di bambini, prezioso materiale biologico da offrire in sacrificio al Moloch. Beninteso il Moloch ha un nome preciso: Sistema Mondiale del Terrore, che poi è uno dei diversi nomi che si possono dare agli interessi economici e geopolitici che fanno capo a grandi, medie e piccole Potenze, e che pretendono di venir soddisfatti con tutti i mezzi necessari: da quelli più “pacifici” a quelli più violenti. Anche il nome di Imperialismo va benissimo, e come sempre, almeno all’avviso di chi scrive, esso va attribuito a tutti gli attori in campo, “simmetrici” e “asimmetrici” che siano, a tutti gli eserciti, “regolari” e “irregolari”, che da anni alimentano le fiamme dell’inferno mentre l’inviato dell’Onu per la Siria si trastulla in pietosi ammonimenti che suscitano solo ilarità nei piani alti del famigerato Sistema. D’altra parte, cosa potrebbe dire e fare di diverso un Alto rappresentante diplomatico dell’Onu, di questo «covo di briganti», per esprimermi leninianamente, chiamato a ratificare e a difendere i rapporti di forza fra le Potenze sanciti dalla Seconda Carneficina mondiale? «”Questi sono giorni agghiaccianti, tra i peggiori da quando è iniziato il conflitto in Siria. Il deterioramento della situazione ad Aleppo sta raggiungendo nuove vette di orrore”, dice l’inviato speciale dell’Onu, Staffan de Mistura, durante la riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza, ribadendo la sua “delusione” per il mancato accordo sulla ripresa del cessate il fuoco deciso il 9 settembre da Usa e Russia. Ormai ad Aleppo “non si possono più contare i morti, a causa del caos che regna” nella seconda città siriana, “nella parte est sono assediate 275mila persone. L’assedio dura da più di 20 giorni» (La repubblica, 23 settembre 2016). Una “delusione” che non mi sento di poter condividere; in un post del 2015 dedicato alle Barrel Bombs usate dal famigerato perito chimico di Damasco, mi chiedevo retoricamente: «Non sarà che all’Onu non si muove foglia che l’Imperialismo (naturalmente a cominciare dalle Potenze maggiori: Stati Uniti, Russia, Cina, Unione Europea a trazione tedesca) non voglia?». «Se mi dimettessi», ha dichiarato qualche giorno fa De Mistura, «vorrebbe dire che la comunità internazionale sta abbandonando la Siria, che l’Onu sta abbandonando la Siria; non manderemo questo segnale». L’opinione pubblica internazionale tira un grosso sospiro di sollievo e sentitamente l’umanità tutta ringrazia. Diciamo…

Fino a che punto, poi, regge l’analogia tra Stalingrado e Aleppo che intriga non pochi analisti geopolitici, soprattutto quelli orientati in senso “antimperialista” (leggi: antiamericana e filo-russa)? A mio avviso essa è fondata solo per ciò che concerne l’aspetto infernale (leggi mostruosamente disumano) delle due battaglie; ricordo a me stesso che nel febbraio 1943 Berlino e Mosca imposero ai rispettivi eserciti impegnati nella città che portava il nome del dittatore russo di non arretrare di un solo millimetro, pena l’immediata fucilazione per alto tradimento – com’è noto, i commissari politici sovietici sparavano alla schiena ai soldati che scappavano o si ritiravano, cosa che può apparire eticamente ineccepibile, oltre che politicamente giustificata e corretta, solo agli occhi di chi condivide il punto di vista ultrareazionario della difesa della patria, a maggior ragione se “socialista”, costi quel che costi. Io sostengo invece la necessità del disfattismo rivoluzionario sempre e comunque. Ma questo è un altro discorso.

Per il resto, non mi sembra che l’analogia di cui sopra abbia solidi appigli storici e geopolitici, anche volendo dar credito all’altra analogia, quella cioè che presenta il Califfato Nero nei panni del nuovo nazifascismo. Forse è la battaglia di Sarajevo tra serbi e bosniaci degli anni Novanta del secolo scorso che può prestarsi a qualche analogia con ciò che accade ad Aleppo, ma il rischio della forzatura storico-politica è sempre in agguato e ciò mi consiglia di non lanciarmi a cuor leggero in analogie di qualche tipo. Del resto, i mattatoi si somigliano un po’ tutti, orrore più, orrore meno.

L’analogia Stalingrado-Aleppo naturalmente viene incontro alla propaganda di Assad e di Putin, i quali in tutti questi anni si sono “venduti” all’opinione pubblica internazionale come i soli veri protagonisti nella “guerra di liberazione” dalle forze del male che oggi indossano i neri panni dell’esercito che massacra nel Santo e Misericordioso nome di Allah. E, infatti, fu il Presidente siriano a tirare in ballo la battaglia di Stalingrado in un messaggio al compare di merende Putin dello scorso maggio reso pubblico dalla Tass: «Aleppo, come molte città siriane, è come Stalingrado. La loro resistenza dimostra che la Siria, il suo popolo e l’esercito non accetteranno meno di una vittoria assoluta sul terrore e la sconfitta totale dell’aggressione». Quanto poco interessi «il suo popolo» al macellaio coi baffetti di cui sopra, è cosa che tutti sanno, anche se qualcuno che dalle nostre parti affetta pose da “antimperialista” duro e puro fa finta di niente, quando non è indaffarato nel negare l’evidenza chiamando in causa il “pensiero unico” occidentale, il servilismo filoamericano dei media mainstream (*) e il complotto internazionale ordito dall’imperialismo occidentale per far fuori il virile Vladimir Putin e il laico Bashar al Assad. Insomma, continua lo strabismo di certo “antimperialismo” italico (un tempo amico del “socialismo reale” di marca sovietica), il quale esattamente come i pennivendoli dell’imperialismo occidentale che critica si è scelto un fronte dei buoni (Russia, Siria, Iran) da sostenere contro il fronte dei cattivi (dagli Stati Uniti a Israele, passando per la Turchia, Arabia Saudita, ecc.). (Brevissima precisazione: qui scrivo “occidentale” solo per sintetizzare un concetto che andrebbe approfondito). Sparare a palle incatenate contro tutti i responsabili del macello siriano per simili “antimperialisti” equivale a fare dell’internazionalismo astratto, dell’antimperialismo parolaio perché incapace di fare politica. Il problema è che certi “antimperialisti” hanno imparato a fare una sola politica: quella delle classi dominanti, ossia di una loro fazione – non importa se nazionale o internazionale – contro quella avversaria.

È ovvio che l’antiamericanismo ideologico di chi vede in opera, e denuncia, solo un imperialismo (il solito, sempre quello, dal 1945 in poi), mentre è pronto a sostenere, o quantomeno a giustificare, le ragioni, a mio modesto avviso non meno reazionarie e disumane, dei Paesi che in qualche modo lo contrastano non aiuta il lavoro di coloro che si sforzano di smontare la propaganda dei governi occidentali senza per questo portare acqua al mulino dei governi che promuovono gli interessi imperialistici dei Paesi concorrenti, non importa se grandi o piccoli, “occidentali” o “mediorientali”, del “Nord” o del “Sud” del mondo. L’autonomia di classe, se non è una vuota frase da spendere sul mercato della politica pseudo rivoluzionaria, non si arresta ai confini nazionali, ma si esercita anche sul terreno della competizione interimperialistica, ovunque e comunque (in forma economica, diplomatica, militare) essa si esplichi.

Ma chi sono io per criticare i tifosi di Putin, il Caro Leader che sta cercando di rialzare il prestigio della Madre Russia dopo la catastrofe sovietica, e di Assad, l’altrettanto Caro Leader che sta lottando con tutti i mezzi necessari (compreso l’uso di cloro e di gas nervino) per evitare il doloroso (per chi?) regime-change voluto dalle oscure forze del Male? Ben poca cosa! Ma lo faccio lo stesso…

Intanto la guerra siriana si incattivisce ulteriormente, e il regime di Assad fa ancor più largo uso delle bombe incendiarie, sempre supportato dall’alleato russo. «La riunione del Consiglio è stata convocata da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti per aumentare la pressione sulla Russia, principale alleato del regime siriano, e far cessare i bombardamenti su Aleppo dando così la possibilità di ristabilire la tregua negoziata tra Washington e Mosca. “Portare la pace in Siria è un compito quasi impossibile ora”, dichiara l’ambasciatore russo all’Onu, Vitaly Churkin, “Damasco ha mostrato una moderazione invidiabile”» (La Repubblica). Il cinismo dell’ambasciatore russo all’Onu (che ha accusato Washington di aver «distrutto gli equilibri del Medio Oriente usando i terroristi di al Nusra per rovesciare il governo») si limita a esprimere il cinismo degli interessi contrastanti, mentre l’attivismo “pacifista” del cosiddetto fronte occidentale, per un verso lascia trapelare la preoccupazione di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti di perdere la guerra siriana, e per altro verso appare come un estremo tentativo volto a spingere la Russia a sacrificare Assad. Quest’ultimo sa benissimo cosa rischia, e difatti agisce nella sola maniera che oggi può consentirgli di mantenersi in sella: incrementare gli sforzi bellici contro i ribelli, riacquistare potere contrattuale su scala nazionale e internazionale con tutti i mezzi necessari, anche a costo di mettere in imbarazzo l’alleato russo, il quale d’altra parte ha dimostrato in diverse occasioni fin dove può spingersi il suo realismo geopolitico: vedi Crimea, fra l’altro.

L’ambasciatrice americana all’Onu, Samantha Power, ha preso di mira frontalmente la politica siriana di Mosca: «La Russia in Siria non sta sponsorizzando la lotta al terrorismo, ma la barbarie». Dopo aver ricordato quanto disse Hillary Clinton un anno fa (se ricordo bene): «l’Isis è una nostra creatura che ci è sfuggita di mano», mi permetto di correggere la Power: tutti gli attori in campo in Siria stanno “sponsorizzando” il Sistema mondiale del terrore e la barbarie. Ammetto che questa è una tesi che difficilmente troverà orecchie all’Onu. E non solo da quelle parti…

(*) «Di manipolato nella rivolta siriana c’è tantissimo. Ed è un problema, perché si tratta di un conflitto coperto in gran parte dai social media, da attivisti legati all’una o all’altra parte del conflitto. Di bufale e mezze verità ne sono circolate moltissime (di un paio ne parlo nel libro). Ma purtroppo molti degli orrori di cui sentiamo sono reali. L’attacco chimico contro Ghouta è stato documentato da un’indagine Onu e da uno studio separato di Human Rights Watch”. […] Uno degli errori principali di Assad è stato rispondere fin da subito con la violenza. Bisogna ricordare che le proteste sono iniziate in modo pacifico, e c’è chi dice che se il regime fosse andato incontro ai dissidenti, per esempio revocando lo stato di emergenza che vigeva dagli anni Sessanta, non ci sarebbe stata alcuna guerra civile e forse Assad avrebbe potuto anche “conservare il posto” senza spargimento di sangue. Quanto ai qaedisti, il problema non è tanto lasciare loro spazio, quanto il fatto che sono bravissimi a prenderselo da solo. Gli elementi più moderati dell’opposizione armata non hanno ricevuto un grande sostegno esterno, specie dall’Occidente, e questo ovviamente ha fatto il gioco di al-Qaeda. Ma purtroppo, anche indipendentemente da questo, quando un conflitto si prolunga accade spesso che gli elementi più radicali si consolidino» (Anna Momigliano, autrice di Il macellaio di Damasco, Vanda E., 2013).

Il macellaio di Damasco

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La guerra contro il Califfato Nero è un mero pretesto politico, diplomatico e ideologico dietro il quale nascondere agli occhi della cosiddetta opinione pubblica internazionale la più classica delle competizioni interimperialistiche per il Potere: solo gli sciocchi e gli ingenui tardano a capire questa elementare verità che diventa sempre più evidente massacro dopo massacro, fallimento diplomatico dopo fallimento diplomatico – o gioco delle parti che dir si voglia.

«La Turchia si dice pronta ad affiancare l’Arabia Saudita in un’operazione di terra in Siria, se la Coalizione anti-Is appronterà questa strategia». Nel frattempo la stessa Turchia attacca i curdi, «che nell’area di Aleppo si battono contro l’Is», e, insieme all’Arabia Saudita, appoggia sempre più apertamente l’«opposizione democratica sunnita» che si batte contro il regime sanguinario di Assad. Mosca dichiara di voler intensificare, e di molto, i raid aerei per sradicare definitivamente lo Stato Islamico dalla Siria; lodevole – si fa per dire – intenzione che corrisponde in realtà a una promessa di morte consegnata all’opposizione armata siriana anti-Assad. Iraniani sul terreno e russi dal cielo: il macellaio di Damasco ha di che rallegrarsi, almeno per adesso. Bashar al-Assad sfoggia comunque il solito ottimismo: «Riconquisterò tutto il Paese ma potrebbe volerci molto tempo e un alto prezzo» – soprattutto in vite umane, si capisce.

Ancora più alto di quello già pagato dal disgraziato popolo siriano? Davvero il peggio non conosce limite. La martirizzata e inerme popolazione siriana è presa in mezzo dagli opposti interessi: c’è chi muore a causa di un raid aereo russo (ma anche le artigianali barrel bombs gettate sulla gente dagli elicotteri siriani fanno bene il loro sporco lavoro) o in seguito a una micidiale controffensiva terrestre dell’esercito “regolare” o delle milizie anti-Assad; c’è chi muore per fame, come gli internati nei campi di sterminio nazisti (Primo Levi lo aveva intuito: la radice del Male è ancora attiva; io dico: sempre più attiva), e ci sono le moltitudini che scappano dal teatro di guerra per andare a bussare alle porte della – cosiddetta – Fortezza Europa. Molti profughi, poi, sperimentano il mare d’inverno, o d’inferno, e muoiono in un macabro stillicidio che ormai non commuove più nessuno. La nostra soglia del dolore è molto adattabile alle circostanze, e l’etica deve fare i conti con la routine quotidiana.

obama-e-putin-in-siria-737216Intanto Washington continua a controllare la situazione a distanza di sicurezza (ma sempre più ravvicinata), lasciando agli alleati in loco il lavoro sporco; tuttavia un suo coinvolgimento diretto militare in Siria non è affatto scongiurato: «Il segretario di Stato Usa John Kerry in un’intervista a Orient Tv di Dubai avverte che se “il presidente siriano Assad non terrà fede agli impegni presi e l’Iran e la Russia non lo obbligheranno a fare quanto hanno promesso, la comunità internazionale non starà certamente ferma a guardare come degli scemi: è possibile che ci saranno truppe di terra aggiuntive». «Truppe di terra aggiuntive» a stelle e strisce? Il Presidente Obama assicura che non ci sarà un nuovo Iraq, ma sostiene anche che Putin e Assad devono smetterla di concentrare i loro sforzi nel tentativo, peraltro abbastanza riuscito, di annientare i «gruppi di opposizione legittimi». Ma su cosa si debba intendere per «gruppi di opposizione legittimi» e per «forze terroristiche» non c’è ovviamente comunanza di idee nei vari tavoli diplomatici e nelle Conferenze sulla “sicurezza e sulla pace”, le quali si esauriscano puntualmente in un nulla di fatto in attesa di poter ratificare i rapporti di forza creati sul campo. (Allora perché si tengono? Perché all’opinione pubblica e ai media bisogna pur vendere qualcosa: la propaganda non è un optional!). Come insegna la geopolitica di orientamento realista (la stessa che, ad esempio, in queste ore consiglia Roma a non polemizzare troppo con il Cairo), l’amico è per definizione legittimo, mentre il nemico facilmente viene rubricato come terrorista: il tutto si riduce dunque a questa realistica domanda: amico o nemico di chi?

Imminente sembra invece un intervento militare americano in Libia, in sinergia con gli alleati della Nato; l’operazione pare essere pronta fin nei dettagli e si tratterebbe solo di stabilire il momento più opportuno per renderla effettiva. Si parla comunque di pochi giorni. A quanto pare le aziende italiane presenti in Libia hanno già ricevuto l’ordine di rimpatriare il loro personale che si trova ancora presso i giacimenti. Per evitare discussioni con Roma, già scottata dall’intervento militare del 2011, all’Italia sarebbe chiesto solo l’uso logistico della base militare di Sigonella per i rifornimenti. Ma sul tipo di partecipazione militare dell’Italia nell’ambito di questa ennesima operazione “antiterroristica” rimangono diversi nodi da sciogliere. In ogni caso, il governo italiano rivendica un ruolo di primissimo piano nell’operazione, per i forti interessi economici che l’Italia vanta nel Paese africano, per la sua collocazione geopolitica e per il noto retaggio storico.

Il Premier russo Dmtri Medvedev ha dichiarato che le relazioni fra Russia e Occidente sono tornate al punto di «una nuova guerra fredda»; i leader dei Paesi dell’Est europeo un tempo “fraternamente” associati all’Imperialismo “sovietico” l’hanno subito corretto: dopo la Crimea e la Siria non si può più parlare di Guerra Fredda, ma piuttosto di Guerra Calda. Inutile dire che tutto questo parlare di nuova Guerra Fredda ha fatto venire i lucciconi agli occhi ai numerosi nostalgici del mondo precedente la caduta del Muro di Berlino: come sarebbe bello (per questi non invidiabili personaggi, s’intende) se il virile Vladimir si convertisse al “comunismo”!

«Siamo in una guerra perché il terrorismo ci combatte», ha detto il premier francese Manuel Valls dal pulpito della Conferenza di Monaco sulla Siria. No, siamo in guerra perché il Sistema Mondiale del Terrore da sempre terrorizza, sfrutta, saccheggia e massacra l’umanità e la natura. Come ho sostenuto altre volte, di questo sistema mortifero fanno parte tutte le nazioni, tutti gli Stati (eventualmente anche in guisa di Califfati Neri!), tutte le Potenze: grandi e piccole, globali e locali. Anche l’attivismo italiano in Africa e, ovviamente, in Libia deve essere letto alla luce di quanto appena scritto. Non dimentichiamo che i raid aerei francesi contro il regime di Gheddafi nel marzo 2011 ebbero come primo obiettivo gli interessi italiani in quel Paese che galleggia sul petrolio e sul gas, come peraltro non mancò di denunciare l’allora inascoltato e riluttante Premier Berlusconi, sbertucciato apertamente dalla Merkel e da Sarkozy. Ma allora i “pacifisti” osservarono il più assoluto silenzio, godendosi gli imbarazzi, le contraddizioni e le difficoltà del “puttaniere di Arcore”, amico dell’ex dittatore di Tripoli, oltre che di Putin.

Questo solo per dire che anche il Belpaese, nel suo piccolo, è parte organica del Sistema Mondiale del Terrore. Quando riflettiamo sul cosiddetto terrorismo di matrice islamica che viene a massacrarci in casa nostra, mentre beviamo una birra o ascoltiamo della musica, sforziamoci di allargare la nostra visuale fino ad abbracciare un terrorismo sistemico ben più grande, che lo comprende, e che ci dichiara guerra tutti i santi giorni.

«La minaccia», ha continuato il progressista Valls, «non diventerà minore. È mondiale. Ci saranno altri attacchi, attacchi su vasta scala, è una certezza. Questa fase di “iper-terrorismo” durerà a lungo, forse un’intera generazione, anche se dobbiamo combatterla con la massima determinazione». Di qui lo stato d’emergenza permanente dichiarato in Francia. Su questo punto rimando a un mio precedente post (Stato di diritto e democrazia). Ora, dal mio punto di vista ciò che appare più odioso non è tanto osservare i movimenti dei miei nemici (coloro che, a vario titolo, servono il Dominio), i quali dopo tutto fanno i loro interessi e il loro mestiere, secondo una logica del tutto comprensibile, sebbene spesse volte essa appare contorta nella sua fenomenologia politica; mi risulta assai più odioso constatare l’impotenza di chi subisce sulla propria pelle quegli interessi e quell’azione al servizio delle classi dominanti. Parlo della Siria, dell’Italia, della Francia, della Russia, della Cina: del mondo.

Il Manifesto l’altro ieri ha salutato Giulio Regeni con il solito invito, diventato ormai l’ennesimo luogo comune del politicamente corretto di marca sinistrorsa, a restare umani. Ma che “restiamo umani” d’Egitto! Piuttosto diventiamo umani. Devo essere sincero: la vedo brutta.

SALAMA KILA SULL’INFERNO SIRIANO

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«La sinistra ha in effetti continuato a interpretare le vicende siriane come un complotto dell’imperialismo americano contro le politiche di “resistenza” antistatunitense. A cosa è dovuto questo errore teorico? Perché di una teoria si tratta, per quanto possa aver condotto a una presa di posizione decisamente immorale» (S. Kila)

Voglio essere sincero fino alla brutalità e al settarismo più spinto (anche per giungere rapidamente al punto di caduta di questo breve post): l’”internazionalismo” di cui parlano molti “anticapitalisti militanti” si risolve in un antiamericanismo vecchio stile e in un antieuropeismo che strizza l’occhio a una prospettiva sovranista giocata in chiave antiglobal. Pura politica (e geopolitica) borghese, insomma. Borghese, ci tengo a precisarlo, nell’accezione ultrareazionaria che questo termine-concetto non può non avere nel XXI secolo, nell’epoca della Società-Mondo dominata dal Capitale. Insomma, non siamo più ai tempi del noto Manifesto di Marx ed Engels, quando nel cuore stesso dell’Europa la borghesia era “chiamata” dalla storia a recitare un ruolo rivoluzionario di eccezionale importanza, né ai tempi di Lenin, quando la politica comunista dell’autodeterminazione dei popoli ben si sposava con l’internazionalismo proletario (cosa che peraltro non impediva ai comunisti di allora di irridere ogni illusione circa l’autonomia reale delle piccole patrie nei confronti delle grandi potenze mondiali), e non siamo nemmeno negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo, allorché la lotta di liberazione nazionale dei Paesi assoggettati al vecchio e al nuovo colonialismo ebbe anch’essa una connotazione storicamente progressiva, anche se la loro coloritura ideologica pseudo socialista (vedi la Cina maoista e molti altri Paesi asiatici e africani) andava ad alimentare l’acqua avvelenata del cosiddetto «socialismo reale» di marca stalinista. Oggi tutto il pianeta giace sotto il plumbeo cielo del rapporto sociale capitalistico, e la famosa (per alcuni famigerata) «Questione Nazionale» si dà, almeno nei suoi termini marxiani e leniniani, in forma del tutto marginale, residuale (il “classico” esempio è naturalmente quello palestinese), e certamente essa non riguarda la dialettica interna allo scontro interimperialistico fra Paesi di diversa potenza sistemica: l’ineguale sviluppo sistemico (economico, tecnologico, scientifico, militare), declinato sempre in termini dinamici e relativi, è infatti un dato ineliminabile della nostra realtà storico-sociale. Lo so, è facile passare dall’illusione delle piccole patrie all’illusione dei piccoli – ma quanto aggressivi, all’interno e all’esterno – imperialismi. Ma tant’è!

Per molti sinistri radicali, e così veniamo al punto, l’eroe del momento è il Putin che sostiene “sfacciatamente” il regime sanguinario di Bashar al-Assad in feroce lotta con gli altrettanto sanguinari soggetti nazionali e internazionali che gli contendono il potere sulla pelle di una popolazione sempre più stremata e ridotta a brandelli. Certi portatori d’acqua al mulino dell’imperialismo “più debole” (la Russia? la Cina? l’Iran?) si nascondono ancora dietro la teoria maoista del «Nemico principale», la quale (soprattutto nella sua traduzione occidentale) trasudava da tutti i pori conservazione sociale e violenza imperialista già al momento della sua elaborazione. Figuriamoci oggi, nell’epoca del dominio totale (o totalitario) del Capitale! Per questi personaggi l’autonomia di classe non è qualcosa che bisogna costruire qui e subito, nella dimensione nazionale come in quella internazionale (una distinzione, questa, sempre più “problematica”); non è la sola strada in grado di togliere le classi dominate dell’intero pianeta dalla condizione di subalternità nella quale si trovano, ma una locuzione che rimanda necessariamente a concezioni «dottrinarie e settarie» del conflitto sociale nonché a pratiche «minoritarie» incapaci di reale incisività. Naturalmente il problema, per un autentico anticapitalista, non è quello di essere incisivi “a prescindere” (magari sostenendo un imperialismo contro un altro imperialismo, una fazione borghese nazionale contro un’altra fazione, un «Piano B» tipo Varoufakis* contro un «Piano X» imposto da Tizio), ma di esserlo sul terreno della lotta di classe – che non pochi “comunisti” confondono con la lotta fra imperialismi di grande, media e piccola dimensione. Anche qui si può toccare con mano il maligno retaggio dello stalinismo (di qua il «Campo socialista», di là il «Campo capitalista»). Ma sulla sindrome della mosca cocchiera ho già scritto abbastanza nel recente passato.

È dunque sulla Siria che intendo richiamare l’attenzione del lettore, rinviandolo a un interessante articolo (La sinistra e la rivoluzione siriana) di Salama Kila, «uno scrittore e intellettuale palestinese. Per le sue posizioni contro il regime di Damasco è stato più volte arrestato, torturato ed infine espulso dalla Siria. Questo articolo è originariamente apparso sulla rivista Critica Marxista (n. 2-3/2015, Giugno 2015), che ringraziamo per la cortese concessione» (da Osservatorio Iraq). Già nel 2012 ho avuto l’occasione di richiamare l’attenzione sull’inferno siriano riportando un’analisi del conflitto sociale in Siria apparsa sulla stessa rivista.

Credo che la cosa possa essere di una qualche utilità, soprattutto nel momento in cui la guerra in Siria pare essere entrata in una nuova, più calda e “problematica” fase, sempre più connotata in senso schiettamente imperialista. Spero di ritornare quanto prima in modo più puntuale sulla guerra siriana, anche per mettere in luce l’interessante dialettica tra la “diplomazia armata” della Francia e la “diplomazia disarmata” dell’Italia, Paese che non vuole cedere ad altri la sua tradizionale zona di influenza in Medio Oriente e in Nord Africa: l’operazione-Gheddafi insegna!

Non condivido tutti i passaggi dell’articolo di Kila, ad esempio per ciò che riguarda la supposta natura «rivoluzionaria» delle cosiddette Primavere Arabe (d’altra parte, Marx definiva «rivoluzionario» il processo sociale capitalistico in quanto tale per la sua tendenza a rimodellare sempre di nuovo la “struttura” e la “sovrastruttura” della società: tutt’altro che raramente anche i movimenti sociali più “arrabbiati” rientrano in questo schema); ciò tuttavia non mi impedisce di cogliere e mettere in luce il maggior merito dell’articolo: mettere in luce «la “posizione immorale”, giacché arriva quasi a giustificare i crimini contro l’umanità commessi dal regime», di certa estrema sinistra “anticapitalista” e “internazionalista”. Buona lettura!

g5__700* Qualche giorno fa un mio amico mi metteva a parte della seguente riflessione: «Ma come fanno certi militanti dell’anticapitalismo radicale a nutrire illusioni perfino su personaggi ultrareazionari del calibro di un Lafontaine, di un Varoufakis, di un Fassina [e qui bisogna trattenersi dal ridere!], di un Melenchon, di un Corbyn?». Tsipras era incluso nell’elenco “anticapitalista” fino a qualche mese fa, prima del noto “tradimento” referendario; a me pare che il Compagno Papa possa prenderne degnamente il posto. Riprendo la lamentela dell’amico: «Come possono costoro credere che un simile personale politico al servizio, sebbene “da sinistra”, dello status quo sociale possa dare un qualche, anche minimo, contributo allo sviluppo della lotta anticapitalista? Davvero non riesco a capirlo. Solo un esorcista o un Freud potrebbe illuminarmi». A me, invece, basta e avanza il solito mangia crauti di Treviri. (Secondo la mia personalissima interpretazione, si capisce. Ma chi non interpreta, scagli la prima critica!).

In effetti è il mio amico a palesare, almeno ai miei settari occhi, un grave difetto concettuale: egli guarda infatti la faccenda da una prospettiva sbagliata, ossia puramente ideologica (se non addirittura semplicemente fraseologica: tipico dell’intellettuale in generale, e dell’intellettuale made in Italy in particolare); in altri termini l’amico prende sul serio lo sbandierato anticapitalismo degli “anticapitalisti militanti”, i quali più che farsi delle illusioni sui personaggi summenzionati ne condividono, nella sostanza, la concezione “dottrinaria”, la prospettiva politica, e magari anche i riferimenti alla storia passata e recente del “movimento operaio”: «Da Marx a Chávez». I «militanti dell’anticapitalismo radicale» di cui parla il mio amico concepiscono come “anticapitalismo” la lotta senza se e senza ma non al Capitalismo tout court ma piuttosto alla sua versione cosiddetta neoliberista (vedi i concetti di turbo-capitalismo, Capitalismo selvaggio, Finanzcapitalismo e via di seguito sfornati negli ultimi venti anni), e il “socialismo” che hanno in testa non supera di un millimetro la dimensione del Capitalismo di Stato. «Nazionalizzare le ferrovie, riaprire le miniere, imbrigliare banche, finanza e mercati, cantare Bandiera rossa, fare una dieta vegetariana, portare calze medio-basse con i bermuda, andare in bicicletta, tifare contro la Nato e per i palestinesi e finanche per Hamas» (Il Foglio, 15 settembre 2015). Questo programmino old style basta ad esempio a Giuliano Ferrara, e a gran parte dell’intellighentia occidentale di “destra” e di “sinistra”, per fare di Jeremy Corbyn l’ennesimo nipotino di successo di Marx. Ma forse è l’invidia che mi fa parlare! E poi chi scrive non è un «socialista e marxista senza complessi» come l’asciutto Corbyn – almeno secondo l’autorevole definizione del già citato Elefantino.

Limes, 1/10/2015

Limes, 1/10/2015

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LE BARREL BOMBS DEL REGIME SULLA MARTORIATA POPOLAZIONE SIRIANA

CMYK baseQuattro anni di mattanza, e non sentirli. Anche perché nel frattempo siamo stati distratti da altri bagni di sangue occorsi qua e là nel vasto mondo. Per non parlare della crisi ucraina, della crisi (fra tragedia e farsa) greca e dell’insorgenza del Califfato Nero a pochi chilometri dalla Sicilia, a proposito del quale ieri Renzi, da Sharm el-Sheikh, ha dichiarato che bisognerà quanto prima intervenire in Libia prima che sia troppo tardi. Segno che l’attivismo egiziano in Cirenaica comincia a destare qualche preoccupazione nella classe dirigente del Belpaese. La Libia “insiste” pur sempre nel nostro cortile di casa!

Rimane il fatto che sono trascorsi appunto quattro anni dal 15 marzo del 2011, quando migliaia di persone scesero in piazza ad Aleppo e Damasco, le due città più grandi della Siria, per protestare contro il regime del Presidente Bashar al-Assad. Fu una delle prime manifestazioni di dissenso di massa della storia recente del Paese. Nei giorni successivi, il regime reagì con arresti, uccisioni, sparizioni e torture, ma senza riuscire a fermare l’opposizione. In poche settimane le proteste si allargarono a tutta la Siria. A maggio Assad fu costretto a schierare l’esercito nelle strade. Le timide aperture economiche e politiche (più economiche che politiche, in verità) cui sono stati costretti i vecchi regimi arabi per sopravvivere allo tsunami della globalizzazione capitalistica*, sono state sufficienti perché il vaso di Pandora delle contraddizioni e delle magagne sopite per decenni si frantumasse. La transizione pacifica ed “equilibrata” (ossia centrata sul compromesso tra vecchi e nuovi interessi) dal vecchio al nuovo regime non sempre è possibile, come ha sperimentato anche Mubarak. Anche perché l’insidioso conflitto sociale è sempre in agguato.

L’opposizione siriana, sobillata e illusa dai nemici esterni della Siria (dall’Arabia Saudita agli Stati Uniti**), raccolse la sfida del regime e passò dopo qualche esitazione sul terreno dello scontro militare aperto. Da quel momento, la popolazione siriana è presa tra due fuochi, dal mio punto di vista egualmente ultrareazionari e quindi da non sostenere e anzi da combattere politicamente sulla scorta, per così dire, di un minimo salariale di “internazionalismo proletario” – lo so, roba aliena per i teorici dell’alleanza con «l’imperialismo più debole».

Insomma, abbiamo a che fare con una “sporca guerra” che ha causato finora 220mila morti (solo nel 2014 i morti tra i civili sono stati almeno 76mila), una media di 25mila feriti al mese, diversi milioni di rifugiati, oltre 10 milioni di sfollati ancora sequestrati nell’inferno siriano. Nel 2014 i bambini che hanno avuto bisogno di aiuto sono stati 5,6 milioni: il 31 per cento in più rispetto all’anno precedente. Un inferno coi fiocchi, non c’è che dire. E domani entriamo nel quinto anno di «una tragedia senza fine», «la più grande catastrofe umanitaria dopo la Seconda guerra mondiale». A mio modesto avviso «la più grande catastrofe umanitaria dopo la Seconda guerra mondiale» rimane la Società-Mondo del XXI secolo che rende possibile su questo pianeta ogni sorta di sfruttamento, di sofferenza e di violenza. Ma queste sono mere opinioni, si capisce. Andiamo ai fatti!

«A quattro anni dall’inizio del conflitto in Siria, questa guerra continua a vivere di una violenza brutale che non fa distinzione tra civili e combattenti, né rispetta lo status di protezione del personale e delle strutture sanitarie», ha dichiarato Joanne Liu, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere. Secondo Human Rights Watch «Il governo siriano sta facendo piovere bombe di barili esplosivi sui civili a dispetto di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) votata all’unanimità, all’inizio di quest’anno». Vatti a fidare delle Risoluzioni targate Nazioni Unite! In effetti, l’esercito fedele al regime sanguinario di Assad sta facendo un largo uso delle cosiddette bombe a botte (barrel bombs), molto efficaci quando si vuole massacrare, storpiare e terrorizzare una popolazione inerme in poco tempo e in economia. Pare che gli effetti di una barrel bombs (esplosivo misto a pezzi di metallo) siano a dir poco orribili. La parola, come si dice, agli esperti:  «La barrel bomb è in sostanza un barile di acciaio, riempito di materiale esplosivo, schegge di ferro e spesso anche con materiale infiammabile come la benzina. Una volta sganciata dall’elicottero, oltre a provocare impressionanti danni materiali, la deflagrazione coinvolge anche le zone circostanti, soprattutto a causa delle schegge di acciaio contenute nel barile. L’effetto materiale è ovviamente devastante: tuttavia, il motivo che spinge l’esercito siriano all’utilizzo di tale arma è soprattutto l’effetto psicologico che sprigiona. Se da un lato, infatti, le armi regolari riescono – seppur con margini di errore – a discriminare tra differenti bersagli (militare, civile e così via), la barrel bomb non fa nulla di tutto ciò. Infatti, l’effetto combinato di schegge, benzina e materiale esplosivo rende impossibile anche solo prevedere sino a dove l’esplosione provocherà delle conseguenze, provocando un vero senso di terrore sia sulla popolazione civile che sui ribelli» (G. Farsetti, Europae, 30 aprile 2014).

Naturalmente il leader baathista amico di molti Social Sovranisti (notare l’acronimo: SS) italiani ha negato di conoscere cosa siano le barrel bombs, anche messo dinanzi alle schiaccianti prove fotografiche e televisive (ormai l’Orrore va in diretta streaming, e così il pubblico di casa ha modo di avvezzarsi): «Usiamo altre armi e bombe per contrastare i terroristi e difendere i civili, e d’altra parte ognuno è libero di fare ciò che vuole nel suo paese». Una risposta impeccabile, degna del ruolo escrementizio che egli ricopre al servizio di particolari interessi nazionali e sovranazionali – che fanno capo all’Iran, alla Russia e alla Cina.

Sempre secondo Human Right Watch «Il governo siriano sta usando mezzi e metodi di guerra che non distinguono tra civili e combattenti, rendendo gli attacchi indiscriminati e quindi illegittimi». Ma è almeno dalla Spagna 1937 che l’aviazione militare non discrimina più tra “civili” e “combattenti”! Di più: sono proprio i “civili” l’obiettivo strategico più importante da colpire, per affrettare la resa senza condizioni del nemico. Come disse una volta Hitler, supplicato dai suoi ultimi fedelissimi perché salvasse i pochi quartieri di Berlino risparmiati dai democratici bombardamenti aerei, «in questa guerra non ci sono civili: il fronte è ovunque». Tesi analoghe fanno parte del dibattito politico e culturale occidentale a partire dalla Grande Guerra, con una significativa anticipazione: la guerra franco-prussiana del 1870-71.

Invocare la legittimità internazionale in materia bellica significa fare dell’involontario cinismo. Né più né meno. Perché come sempre a giudicare della legittimità della carneficina sono i rapporti di forza, e il Diritto giusto è sempre quello affermato da chi vince sul campo – e il “tavolo diplomatico” è un’estensione di questo campo, è la continuazione della guerra con… . Il cinismo delle cose va dunque messo in questione radicalmente, anche perché lo sforzo di mitigare il Moloch attraverso Dichiarazioni e Petizioni si dimostra sempre di nuovo non più che una pia illusione. Di più: un inganno al servizio dello status quo.

«Dire che l’85% delle luci della Siria restano spente durante la notte forse farà aumentare i visitatori di qualche sito web e potrà anche essere “scientificamente” interessante, ma non potrà far capire qual è la situazione in Siria. E, soprattutto, non spiega come e perché la maggiore organizzazione internazionale del mondo, le Nazioni Unite, in Siria, abbia miseramente fallito» (A. Mauceri, Notizie Geopolitiche). Forse perché si tratta di un «covo di briganti», per esprimermi leninianamente, chiamato a ratificare e a difendere i rapporti di forza fra le Potenze sanciti dalla Seconda Carneficina mondiale? Non sarà che all’ONU non si muove foglia che l’Imperialismo (naturalmente a cominciare dalle Potenze maggiori: Stati Uniti, Russia, Cina, Unione Europea a trazione tedesca) non voglia? Avanzo solo delle ipotesi, intendiamoci. Qui nessuno ha la verità in tasca! È altresì vero che qui nessuno è così sciocco da farsi delle illusioni “umanitarie” sull’ONU.

 

* Il processo sociale che chiamiamo globalizzazione capitalistica ha messo in crisi equilibri di potere tanto sul terreno geopolitico (ossia nel confronto fra le grandi, medie e piccole potenze, fra imperialismi mondiali e fra imperialismi, più o meno “straccioni”, regionali), quanto su quello politico-sociale nazionale. Tutto l’edificio capitalistico mondiale, da Nord a Sud, da Ovest a Est, è stato scosso dal terremoto capitalistico che dura ormai dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando appunto il processo di globalizzazione subì una brusca accelerazione, registrata dai sismografi come “rivoluzione” – o “controrivoluzione”, punti di vista – neoliberista (reaganismo, thatcherismo, finanziarizzazione dell’economia, ecc.) e come ascesa degli ex Paesi poveri (Cina e India, in primis) al vertice del Capitalismo mondiale. Naturalmente questo terremoto non è stato causato, come sono inclini a pensare la gran parte degli storici e degli analisti geopolitici, dal trionfo del Capitalismo sul Comunismo (o «socialismo reale») come esito della Guerra Fredda. Questo per il semplice fatto, almeno a mio modo di vedere, che ciò che allora (e purtroppo ancora oggi) veniva rubricato come “Comunismo” non era che un Capitalismo di Stato gravato da molte e alla fine fatali magagne. La storia del Capitalismo mondiale è punteggiata da brusche accelerazioni, le quali si registrano soprattutto in corrispondenza di acute crisi economico-sociali. Come osservava Marx, per il Capitalismo le crisi rappresentano sempre un punto di svolta positivo. Salvo impreviste “precipitazioni rivoluzionarie”…

Dicevo che tutto l’edificio mondiale è stato scosso violentemente dal processo sociale della globalizzazione, e la crisi scoppiata nel 2008 ha mostrato le crepe che si sono aperte negli anni nella sua struttura. Non si comprendono le cosiddette “Primavere Arabe”, né gli eventi europei degli ultimi anni (accelerazione nella “germanizzazione” dell’UE, conflitto nell’Est europeo, ecc.), se non alla luce di questo quadro generale.

Il terremoto capitalistico scuote dunque equilibri di potere internazionali e nazionali, e spinge le masse più povere del pianeta a rivendicare una ricchezza vista magari solo in televisione e su Internet. Ma la “colpa”, ovviamente, non è della tecnologia massmediologica occidentale, come pensano certi ideologi ammalati di feticismo. Così come la delusione e la frustrazione delle masse giovanili mediorientali (e dei giovani immigrati arabi di seconda e terza generazione che vivono in Europa) non si spiegano certo tirando in ballo una supposta cattiva interpretazione del Corano.

* * «Già nel 2014 l’ex Segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha ammesso in modo sorprendente che l’Isis “è stato un fallimento. Abbiamo fallito nel voler mettere in piedi una guerriglia anti al-Assad credibile. La forza di opposizione che stavamo creando era composta da islamisti, laici e da gente nel mezzo: l’incapacità di fare ha lasciato un grande vuoto che i jihadisti hanno ormai occupato. Spesso sono stati armati in modo indiscriminato da altre forze e noi non abbiamo fatto nulla per evitarlo”. […] A fronte di questo quadro John Kerry ha detto due giorni fa in un’intervista alla Cbs che “alla fine dobbiamo negoziare » (E. Oliari, Notizie Geopolitiche, 17 marzo 2015). Scrivevo lo scorso agosto: «La “proposta indecente” di Bashar el Assad agli odiati nemici americani ha fatto molto rumore. Molto rumore per nulla, a giudicare dalla freddezza con cui il Presidente Obama sembra aver accolto la “generosa” iniziativa politico-diplomatica del rais siriano. Ma la situazione è, come si dice, fluida, e scenari impensabili solo pochi giorni fa oggi possono concretizzarsi a dispetto di ogni logica nutrita a pane e ideologia – filo o anti-occidentale». Alla fine pare che la strategia sanguinaria del macellaio di Damasco stia avendo successo. Complici l’Iran e la Russia, si capisce.

 

 

BLACK SITES USA, DIRITTI UMANI E BENALTRISMO

Guantanamo-Bay-007Scrive Alessandro Mauceri su Notizie Geopolitiche (4 aprile): «Nel 2009 Obama promise di chiudere i black sites, ma da allora pare che poco o nulla sia cambiato né per quanto riguarda questi luoghi di detenzione né per quanto riguarda le “tecniche rafforzate” adottate. La verità è che, come sempre, le promesse fatte durante le elezioni sono poi rimaste solo parole al vento. Così è stato per Guantanámo e per gli altri centri di tortura degli Stati Uniti [..] Dei black sites si è tornato a parlare solo grazie alla pubblicazione da parte del quotidiano The Washington Post, di un rapporto in 6.300 pagine stilato dalla commissione Servizi Segreti del Senato federale, ufficialmente top secret. In questo rapporto si parlerebbe anche delle tecniche adottate dai “paladini dei diritti umani” statunitensi. Tecniche come costringere i detenuti a rimanere a lungo immersi in vasconi colmi di acqua ghiacciata oppure il ben più noto waterboarding, l’annegamento controllato (che prevede di riversare acqua nelle vie respiratorie del recluso). Questi moderni sistemi di tortura, perché di questo si tratta in definitiva e nient’altro, sono spesso eufemisticamente definiti «tecniche rafforzate d’interrogatorio» sarebbero, in qualche caso ed entro certi limiti, ufficialmente approvati dal Pentagono. Il problema potrebbe sembrare un mero cavillo legale, ma non è così. Fino a che punto enti come la Cia sono autorizzati a ricorrere ad autentiche torture? È sufficiente dire che “informazioni cruciali” non si potrebbero raccogliere altrimenti, per autorizzare di fatto la tortura di altri esseri umani?». A quanto pare sì. La risposta, ancorché cinica, è innanzitutto realistica, si fonda cioè sull’esperienza degli ultimi… secoli.

Chi intende approcciare la scottante questione qui presa a oggetto senza smottare nell’inutile piagnisteo politically correct o nell’insulsa ideologia pacifista (peraltro sempre incline a trasformarsi nel suo contrario al momento opportuno) deve prendere atto di questa realtà. Viceversa, si corre sempre di nuovo, a cadenza regolare, il rischio di scoprire che «ancora» nel XXI secolo ciò che decide del nostro destino è la forza, è un gioco di potere che si consuma interamente sopra le nostre teste, dietro le nostre spalle. Certo, “il sistema” ci concede la “libertà” di indignarci, e perfino di pretendere, attraverso manifestazioni, petizioni ed elezioni, «un mondo più giusto», ossia un inferno più a “misura d’uomo”. D’altra parte, pretendere ciò che questo mondo imperfetto non può offrire significa entrare nel cul de sac dell’utopia, che non a caso fa rima con follia. Ma se lacerare il sacco del Dominio è un’impresa folle, forse occorre che scriviamo un Elogio della follia 2.0, piuttosto che acconciarci al meno peggio, che poi prepara puntualmente il peggio possibile. Insomma, «abbiamo elogiato la Follia, ma non proprio da folli»; piuttosto da umanisti, se mi è concesso esprimermi secondo un gergo da tempo pensionato.

Enduring Freedom«Il vero problema forse è che oggi alcuni Paesi arrivano a considerare “eticamente accettabile” che una superpotenza utilizzi, e non da ora ma da decenni, ogni mezzo per sovvertire il sistema politico di un altro Paese o per raggiungere certi obiettivi di conquista economica. E anche quando ciò non viene visto come “politically correct” spesso si pensa che basti voltarsi dall’altra parte e far finta di non vedere, nascondendosi dietro una maschera di omertà e di garanti della “sovranità nazionale”». Il vero problema, a mio benaltristico avviso, è piuttosto l’esistenza del Capitalismo internazionale nella sua fase socialmente totalitaria, ossia nell’epoca della sussunzione TOTALE (o globale: sociale, spaziale, esistenziale) degli individui al Capitale. Cercare di mettere un freno alla violenza del Moloch attraverso leggi, convenzioni e dichiarazioni, non solo si rivela essere, decennio dopo decennio, uno sforzo inutile, tale da far impallidire un Sisifo, come peraltro denunciano le stesse Agenzie Umanitarie (laiche e religiose); ma a ben considerare questo atteggiamento è parte del problema, nella misura in cui inchioda la cosiddetta opinione pubblica mondiale al muro di chimeriche illusioni circa fantomatici diritti inalienabili dell’uomo puntualmente violati. Di più: violentati. Discorrere di «diritti umani» sorvolando sull’assenza della “materia prima”, cioè dell’umanità, di rapporti sociali umanamente orientati, significa fare dell’ideologia, e perfino dell’apologetica. Certo: un altro mondo è possibile. Ma questa possibilità nega in radice la vigente struttura classista del mondo, ossia il fondamento materiale che genera con stringente necessità la violenza sistemica (materiale, spirituale, psicologica, esistenziale) sugli individui e sulla natura. È su questo maligno fondamento sociale che si dà la competizione interimperialistica per il controllo del pianeta e la spartizione del bottino (capitali, mercati, materie prime, risorse energetiche, risorse “umane”, ecc.), ed è in questa coscienza che occorre individuare l’abisso concettuale che passa tra il punto di vista geopolitico* e quello critico-radicale – che io chiamo punto di vista umano.

È sufficiente riflettere sulla questione delle armi chimiche siriane per capire quanto cinico sia ogni sforzo “umanitario” centrato sugli Stati. Oltre 20 civili morti e decine di feriti: questo è il bilancio dell’esplosione di alcune bombe sganciate dall’esercito siriano su Aleppo lo scorso 4 aprile. Il bilancio complessivo del mattatoio siriano, dopo diversi anni dall’inizio della «guerra civile», parla di 140mila morti, di cui 50mila civili, tra i quali circa 8mila bambini e 5mila donne: una carneficina condotta a quanto pare con armi rigorosamente “convenzionali”. Le sostanze chimiche no, i “rimedi” meccanici, termici e atomici : qui rilevo una discriminazione tecno-scientifica bella e buona!

guatnamo_1346231f«Così [il Presidente degli Stati Uniti] potrà continuare con il MUOS in Sicilia, continuare a combattere su e giù per il mondo (celando vere e proprie guerre come “missioni di pace” Obama, che pure aveva promesso di finire le guerre cominciate dai Bush, oggi continua a inviare truppe su più fronti di tutti i suoi predecessori), continuare a sottoscrivere leggi e accordi internazionali per la pace nel mondo e per il rispetto dei diritti umani che poi ci si guarderà bene da rispettare, continuare a imporre le proprie scelte a popoli diversi, continuare a dislocare eserciti in molti Paesi» (A. Mauceri). Insomma, Obama potrà continuare a servire al meglio delle sue capacità la prima potenza capitalista (e quindi imperialista) del pianeta. Non vedo nulla di disdicevole in tutto questo, nulla che possa stuzzicare la mia indignazione, la quale è interamente mobilitata contro il Moloch capitalistico mondiale a prescindere da chi in un determinato momento lo serve e lo legittima sul piano ideologico e politico: democratico o repubblicano che sia, “socialista” con caratteri cinesi o con caratteri venezuelani, e così via. Mi sa che il buon Mauceri a suo tempo coltivò qualche illusione circa la «rivoluzione copernicana» promessa dal Democratico Obama. E son delusioni, lo capisco!

* Almeno nell’accezione mainstream del termine. La geopolitica volgare/apologetica (o semplicemente borghese) si limita a prendere atto della bilancia del potere internazionale, e ne descrive la mutevole fenomenologia (l’ascesa e il declino delle nazioni e delle grandi potenze è un classico concetto geopolitico, forse quello di maggior successo). Naturalmente essa offre molto materiale empirico e analitico alla riflessione del pensiero critico-radicale.

Leggi anche: Droni e diritto internazionale.

 

 

DAL VENEZUELA ALL’UCRAINA, DALL’ARGENTINA ALLA SIRIA. Criterio geopolitico versus criterio di classe

1392890937873_small_140220_101424_to200214est_0256Scrivevo Ieri su Facebook:

Rifondazione Comunista con caratteristiche venezuelane

Continua in Venezuela la dura repressione poliziesca contro gli studenti – e non solo. Nella repressione, di chiaro stampo rivoluzionario-bolivariano, sono stati mobilitati anche reparti di paracadutisti. Sono già 11 (forse 14) le vittime accertate degli scontri fra i manifestanti (sicuramente al soldo degli americani, e quindi: fatti loro!) e le eroiche forze dell’ordine al servizio del socialismo con caratteristiche venezuelane. (E se non è proprio socialismo, di sicuro non è capitalismo, checché ne dicano i soliti dottrinari in malafede!). Intanto fioccano le denuncie di studenti arrestati e torturati. Trattasi evidentemente di menzogne propalate dai massmedia foraggiati dalle forze della reazione e dal noto imperialismo a stelle e strisce, lo stesso che, ad esempio, impedisce ai venezuelani una dignitosa igiene personale basata sulla carta igienica, colà diventata, com’è noto, un genere di lusso.

piazzadigitale-foto-500x329Poteva mancare il Giù le mani dal Venezuela! dei rifondatori dello statalismo, pardon del “comunismo”? No, è chiaro. Violentando la mia vescica causa scompisciamento (con rispetto parlando), cito: «La Direzione Nazionale di Rifondazione Comunista esprime la propria solidarietà e vicinanza al legittimo governo della Repubblica Bolivariana del Venezuela, vittima di un nuovo tentativo di golpe strisciante … Da quando la Rivoluzione bolivariana [ah, ha, ha: è dura, ma continuo!] ha avuto inizio, nonostante le sue ripetute affermazioni democratiche e via elezioni, è stata vittima di una incessante attività eversiva da parte di forze reazionarie e legate all’imperialismo, che il popolo venezuelano ha sempre sconfitto, mobilitandosi a sostegno della rivoluzione [datemi un pannolone, presto che è tardi!], come sta avvenendo anche questa volta».

Un utente di Facebook ha così commentato lo spassoso comunicato rifondarolo: «Vecchie abitudini dure a morire. Manco la penicillina li salva…». Si può dargli torto? Io non me la sento, con tutta la buona volontà bolivariana di questo mondo!

Ancora un altro passo: «Rifondazione Comunista denuncia inoltre il ruolo inaccettabile dell’informazione, che in Italia produce una sistematica disinformazione sulla situazione venezuelana, a partire dall’etichettatura di regime o dittatura per un governo e un Presidente della Repubblica legittimamente e democraticamente eletti». Questa accusa naturalmente non mi sfiora nemmeno, anche perché per me la democrazia è regime esattamente allo stesso titolo di altre forme politico-istituzionali di controllo sociale e di repressione. Lascio molto volentieri ai “comunisti” più o meno rifondati coltivare certe superstizioni e certi feticci che hanno la sola funzione di ipnotizzare le classi dominate.

«Rifondazione Comunista impegna i propri iscritti e circoli in una campagna di mobilitazione e controinformazione a difesa della rivoluzione bolivariana». E poi dice che uno si butta a… Fate un po’ voi!

kiev-307120Aggiungo oggi

Criterio geopolitico versus criterio di classe

Insomma, gli stessi personaggi che negli anni scorsi hanno straparlato di “Primavere” e di “Rivoluzioni” a ogni sussulto (e a volte perfino a ogni starnuto/scorreggia) del processo sociale, oggi non si fanno scrupoli a blaterare di «reazione fascista» a proposito del Venezuela, dell’Ucraina, dell’Argentina e della Siria. Il loro è un criterio geopolitico, e dunque ultrareazionario nella Società-Mondo del XXI secolo (ma già Marx, se non sbaglio, disse che il proletariato non ha patria), di valutazione e di orientamento, il quale sostiene una vecchia tesi cara allo stalinismo internazionale (maoismo e guevarismo compresi): il nemico dell’Occidente in generale e degli Stati Uniti in particolare è mio amico. Io seguo un altro, anzi opposto criterio: tutti gli imperialismi (a cominciare da quello di casa mia) e tutte le classi dominanti (a cominciare dai padroni che sfruttano onestamente i lavoratori nella santissima “economia reale”) sono nemici dell’umanità in generale e del proletariato in particolare.

Sto forse sostenendo “a prescindere” la piattaforma politica degli studenti venezuelani e quella di chi oggi nella patria di San Chávez manifesta in qualche modo contro la grave crisi economica che da anni azzanna le classi subalterne e impoverisce i ceti medi? Ma nemmeno per idea! Non sono un amante di immaginarie “Primavere” né, tanto meno, di risibili “Rivoluzioni”; mi limito piuttosto a sostenere un punto di vista minimamente anticapitalistico, ossia una posizione che non fa sconti a nessun tipo di regime (democratico, fascista, populista, bolivariano, “socialista”), a nessuna fazione delle classi dominanti nazionali e sovranazionali e a nessun Paese di questo capitalistico pianeta. Lascio al suo triste destino la mosca cocchiera che si illude di fare la “lotta di classe” con le armi (politiche e non solo: vedi il noto “aforisma” di Clausewitz ) del Leviatano.

IL KATÉCHON “COMUNISTA” DI DIEGO FUSARO

175000943-a0e90004-d90e-43e6-b35d-9fdab47df949Spassosissima intervista di Andrea Pollastri di Eidoteca al «coraggioso filosofo» Diego Fusaro, già preso di mira dal sottoscritto per le sue miserrime posizioni filosiriane. Nell’intervista Fusaro reitera le consuete argomentazioni a favore del regime sanguinario di Damasco sulla scorta di un antiamericanismo che nulla ha a che vedere con un autentico antimperialismo, il quale non discrimina tra imperialismi buoni (ossia “usabili tatticamente” nella lotta antimperialista) e imperialismi cattivi.

Di particolare pregio teorico e politico (ovviamente sto pizzicando la mia corda macchiettistica) ho trovato la riflessione che segue: «Dissoltosi quello che, con il lessico della teologia politica, potremmo definire il “potere frenante” (katechon) comunista, la scena mondiale si è contraddistinta per la riesplosione virulenta dei conflitti imperialistici: sconfitta l’Unione Sovietica, gli USA aspirano alla conquista del mondo intero». Questi passi confermano, tra l’altro, la mia interpretazione del katéchon secondo la declinazione sinistrorsa – ma anche destrorsa – di matrice antiglobal e antiamericana del noto concetto teologico-politico. Rimando perciò con una certa soddisfazione a Dominio e katéchon.

Per il «coraggioso filosofo», come d’altra parte per tutti i “marxisti” vetero e/o post stalinisti, il conflitto imperialistico si esaurisce, di fatto, nell’aspirazione americana di conquistare il «mondo intero». Il fatto che la Russia, la Cina e altre medie e piccole potenze sono parte integrante del sistema imperialistico mondiale, che va rigettato in blocco, è una sottigliezza geopolitica che sfugge alla considerazione del Nostro eminente dialettico, come dimostra la seguente perla schiettamente “antimperialistica”: «Pur con tutti i suoi limiti interni (che non mi sogno certo di negare o anche solo di ridimensionare), la Siria è uno Stato che resiste all’impero americano: quest’ultimo, non a caso, l’ha da tempo inserita nelle sue “liste di proscrizione” globali, bollandola come rogue State (ossia negandole, di fatto, il diritto stesso di esistere come Stato sovrano). Né va dimenticato che la Siria è la più stretta alleata dell’Iran, il vero nemico degli USA in quell’area del mondo». Com’è noto, la Siria è da tempo alleata dell’imperialismo russo (prima in guisa “sovietica”), è cioè inserita a pieno titolo nel sistema imperialistico internazionale cui accennavo prima, e difatti Damasco ha sempre giocato astutamente (e non poche volte sulla pelle dei palestinesi) un’autonoma partita geopolitica nel suo cortile di casa, avvantaggiandosi anche del sostegno politico-militare di Mosca. Analogo discorso deve farsi per l’Iran.

Ragionare in termini di difesa della sovranità nazionale, una sovranità che peraltro, in Siria come negli Stati Uniti e altrove, difende i vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, significa non capire nulla del maligno – a proposito di katéchon – mondo in cui viviamo, e significa soprattutto appoggiare, magari sventolando le rosse bandiere della Rivoluzione (sic!), imperialismi grandi e piccoli, mondiali (Russia e Cina, nella fattispecie) e regionali (Siria e Iran). Significa insomma rimanere sul terreno dello scontro interimperialistico credendo di saperla più lunga della dialettica del Demonio, pardon: del Dominio. Come ho detto altre volte, per le mosche cocchiere assai ferrate in diamat si tratta di una concretezza tutta spesa al servizio dello status quo sociale planetario. Ho detto sociale, non geopolitico: i rapporti di forza fra le Potenze cambiano, i rapporti sociali capitalistici no. Salvo rivoluzioni sociali ancora di là da venire.

assad3«Occorre tornare a rioccupare il futuro con progetti di cambiamento, che mettano in discussione i dogmi della teologia neoliberale, primo tra tutti il suo comandamento fondamentale: “non avrai altra società all’infuori di questa!”». Posso dire che della teologia della (pseudo) liberazione di un filosofo che sostiene gli interessi della Siria, dell’Iran, della Russia e della Cina non mi fido neanche un poco?  «Ci vuole molto coraggio per coltivare la filosofia nel tempo in cui tutti calcolano e nessuno più pensa». Appunto: nessuno, a cominciare dai filosofi “antimperialisti”. Infatti, definire «comunista» la funzione “katechontica“ svolta dall’Unione Sovietica durante la cosiddetta guerra fredda significa non avere un solo pensiero autenticamente critico-radicale in testa.

SIRIA: CHE FARE? Realpolitik e pensiero critico-radicale a confronto.

dembamb«Bisogna fare qualcosa per porre fine al bagno di sangue in Siria!»: è con questa posizione che devo confrontarmi quando parlo della crisi siriana con le persone “semplici” (non politicizzate), le quali, avendo guardato nel corso degli ultimi due anni il macello siriano alla televisione, hanno forse raggiunto il punto mediatico di saturazione. L’Appuntamento fisso all’ora di colazione, a pranzo e a cena con la guerra civile evidentemente ha stancato. Cappuccino e massacro, spaghetti e bombardamenti, formaggio e gas nervino. «Basta, bisogna fare qualcosa!»

Certo, ma che cosa di preciso? Le risposte della “gente semplice” si affollano intorno a queste due grandi opzioni: 1. devono pensarci gli americani; 2. deve pensarci l’ONU. Come si vede, le risposte cadono puntualmente – e necessariamente, poste le odierne condizioni circa i rapporti di forza tra dominati e dominanti – nella dimensione statuale e interimperialistica. Le persone si aspettano dunque dagli Stati Uniti, ossia da quella che rimane, non si sa ancora per quanto tempo, la prima potenza sistemica mondiale, e/o dalle Nazioni Unite («un cesso» secondo la sobria e intelligente definizione di Giuliano Ferrara, «un covo di briganti» secondo una definizione a me più affine mutuata da Lenin), l’implementazione di una funzione poliziesca: punire il reo, arrestare i colpevoli, dividere i contendenti, ripristinare la – cosiddetta – pace.

D’altra parte, prestigiosi politici e intellettuali europei (da Cohn Bendit a Jürgen Habermas, da Bernard-Henri Lévy a André Glucksmann) mostrano di pensarla sul punto alla stessa stregua. Per non parlare di certi “antimperialisti” d’accatto, per i quali fare qualcosa di concreto significa innanzitutto appoggiare «senza se e senza ma» lo Stato siriano e l’Imperialismo russo che lo arma – peraltro in combutta con l’Inghilterra e la Germania, almeno fino a qualche mese fa.

L’iniziativa autonoma delle classi subalterne, contro  tutti gli Stati e tutti gli imperialismi, appare a questi “antimperialisti” un’opzione fin troppo astratta, mentre dal punto di vista di chi vuole reagire all’attuale condizione di impotenza di quelle classi essa è la sola via da praticare, per quanto difficile. La sola. La concretezza delle mosche cocchiere dell’Imperialismo spesa a favore di uno dei macellai in competizione va rispedita al mittente come robaccia escrementizia.

È chiaro che agli occhi di chi pone il problema della guerra e della pace sul terreno degli equilibri tra gli Stati, ossia nel contesto della nota bilancia del potere sistemico tra le nazioni, e che fa (magari senza teorizzarlo) delle potenze imperialistiche di rango mondiale le sole depositarie dei destini del mondo; è chiaro, dicevo, che da questa prospettiva “realistica” la mia posizione classista deve apparire assurda fino alla follia. Ebbene, io difendo questa “follia” contro la maligna razionalità del Dominio.

Ci sarebbe poi, sempre per la “gente semplice” (ma anche per qualche “antimperialista” particolarmente furbo), l’opzione papista: «Vorrei farmi interprete del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace!» Così Papa Francesco nell’ultimo Angelus. L’opzione papista fa capolino puntualmente a ogni vigilia bellica, un po’ come l’avvoltoio che inizia a girare intorno all’animale moribondo, in attesa che il suo tempo si compia. Per la Chiesa la crisi siriana può diventare un’eccellente occasione di iniziativa politico-ideologica.

«Al pari di Wojtyla, Bergoglio confida soprattutto nella potenza dei gesti, capaci di permeare l’immaginario collettivo e incidere sulle strutture di pensiero: “Strutture e procedure di pace, giuridiche, politiche ed economiche non sono che il frutto della saggezza e dell’esperienza accumulata lungo la storia mediante innumerevoli gesti di pace”, scriveva Giovanni Paolo II. “L’umanità ha bisogno di vedere gesti di pace”, riprende e ripete oggi Francesco, indicendo “per tutta la Chiesa, il 7 settembre, una giornata di digiuno e di preghiera”» (Piero Schiavazzi, Huffington Post, 2 settembre 2013). Inutile dire che quei «gesti di pace» non solo non hanno mai impedito le guerre, ma soprattutto hanno contribuito a celare agli occhi dell’«umanità» le cause sociali dei continui massacri locali e mondiali. D’altra parte l’ideologia pacifista, religiosa o laica che sia, ha precisamente il significato reazionario appena ricordato, e ciò naturalmente alle spalle degli stessi pacifisti.

L’iniziativa pacifista della Chiesa, la quale nonostante gli acciacchi e le note magagne rimane una potente agenzia politico-ideologica al servizio del Dominio, è certamente scontata ma non per questo meno significativa e meno meritevole di attenta analisi da parte di chi contro quel Dominio si batte. «Francesco, pensaci tu!»: è il grido di dolore che inizia a salire dalla “gente semplice”, stufa delle beghe interimperialistiche che bloccano qualsiasi iniziativa “umanitaria”.

hitlerChe la “gente semplice” non riesca a immaginare altra iniziativa concreta che non veda come assolute protagoniste le diverse Agenzie del Dominio (gli Stati, l’ONU, la Chiesa), magari sollecitate “dal basso” ad agire «per il bene della pace e dell’umanità», ebbene questa è una realtà non meno tragica del macello siriano in corso con cui devono fare i conti i nemici della società disumana, i quali agli occhi della “gente semplice” e dei “realisti” d’ogni sorta (“antimperialisti” compresi) devono necessariamente apparire degli inguaribili sognatori, nonostante siano i soli ad avere piena coscienza dell’incubo capitalistico dal quale non riusciamo a svegliarci come comunità di uomini liberi.

È possibile costruire delle iniziative politiche sulla base di questa posizione critico-radicale, magari senza cullare l’illusione che le «moltitudini rivoluzionarie» possano scendere in strada già domani o, al massimo, dopodomani ?