IL PASSAGGIO ALL’ATTO SECONDO MANUEL DE PEDROLO

Si deve sapere che cosa si vuole e che lo si vuole.
(F. Nietzsche).

Esistono delle situazioni – tragiche situazioni –
nelle quali è impossibile agire senza attirare su
di sé una colpa (G. Lukács).

Non c’è legge, vi dico. La città ne vuole una nuova…
Tutti si sono chiusi in casa, persino la polizia.
(M. De Pedrolo).

Quella che segue non è una recensione, ma una “libera” riflessione sollecitata dalla lettura del bel romanzo di Manuel De Pedrolo Atto di violenza (Paginaotto, 2020), finito dallo scrittore catalano nel 1961 e pubblicato solo dopo la morte del dittatore Francisco Franco (1975), dopo anni di ostinata censura da parte del regime (1). Nonostante tutto, l’opera di Pedrolo vince il premio Prudenci Bertrana nel 1968 con un titolo differente ma molto significativo ed evocativo: Estat d’excepció. Ed è un vero e proprio stato di eccezione che si realizza nella città “immaginaria” governata con il pugno di ferro dal Giudice Domina; una lacerazione nel tessuto della normalità che si compie sotto l’egida di una parola d’ordine tanto semplice quanto socialmente “impattante”: «È molto semplice: restate tutti a casa». Qui forse trovano appiglio le parole di Slavoj Žižek tratte da un suo saggio del 2007: «Talvolta, non fare nulla è la cosa più violenta da fare. Meglio non fare nulla che impegnarsi in atti che in definitiva servono a far funzionare meglio il sistema».

L’intellettuale sloveno non alludeva all’astensione dal lavoro, come nel caso presentato da Atto di violenza, ma a quella dal voto: «L’astensione dal voto si pone come un autentico atto politico: ci obbliga a confrontarci con la vacuità delle odierne democrazie» (La violenza invisibile, Rizzoli, 2008). Personalmente sono da sempre un “astensionista strategico” e un critico radicale della democrazia capitalistica, e quindi non faccio fatica a comprendere la «vacuità delle odierne democrazie» di cui parla Žižek e la straordinaria portata politica dell’idea da egli fatta balenare – peraltro sulla scia di un romanzo di Josè Saramago, Saggio sulla lucidità (Einaudi, 2004), nel quale si narra appunto di una tornata elettorale che, tra astensionismo e schede nulle, evoca agli occhi dei politici (tanto di “destra” quanto di “sinistra”) lo spettro della delegittimazione del sistema democratico nel suo insieme.

Il romanzo di De Pedrolo e il saggio di Žižek mettono insomma al centro della riflessione la violenza oggettiva del Potere, sia quella visibile, legata immediatamente al potere politico e ai suoi “dispositivi” di controllo e di repressione, sia quella invisibile, della quale «è necessario tenere conto se si vuole trovare una spiegazione a quelle che altrimenti sembrano esplosioni “irrazionali” di violenza soggettiva» (La violenza invisibile). La realtà è che il corpo sociale trasuda violenza sistemica (politica, fisica, psicologica, “esistenziale”) da tutti i pori, in alto come in basso, al centro come alla sua periferia e, cosa molto difficile da accettare per il pensiero comune, con stringente necessità. È con questa verità davvero sconvolgente che ci confrontiamo tutti i giorni. Il fatto che nella routine quotidiana appariamo tutt’altro che sconvolti, è forse l’elemento più inquietante della nostra attuale tragica condizione umana – e di certo ciò che alimenta il sempre più rigoglioso commercio di psicofarmaci e il mercato delle razionalizzazioni “pur che sia”. Come diceva Friedrich Nietzsche, quando si ha a che fare con l’ignoto «è meglio una spiegazione qualsiasi che nessuna spiegazione»: «Ricondurre qualcosa di non conosciuto a qualcosa di noto solleva, calma, soddisfa, dà inoltre un senso di potenza. Ciò che è ignoto equivale a pericolo, inquietudine, pena – il primo istinto è quello di eliminare queste sgradevoli situazioni» (Il crepuscoli degli idoli). Forse ciò che più irrita e destabilizza lo scienziato che ama sparare a palle incatenate sulle ridicole certezze dei “negazionisti” (ad esempio sul Coronavirus, sui vaccini, eccetera) e dei “complottisti” è il fatto che la sua merce razionalizzante è considerata da tante persone alla stregua di qualsiasi altra merce avente lo stesso “valore d’uso”. Nella notte dell’irrazionalità capitalistica, tutte le razionalizzazioni appaiono accettabili, purché esse raggiungano lo scopo, come ci conferma il filosofo e fine psicologo già citato: quando si tratta «di liberarsi da rappresentazioni opprimenti, non si guarda troppo per il sottile circa i mezzi per liberarsene». Ma qui si divaga! Forse.

Il luogo (o location, visto il «taglio quasi cinematografico» del racconto) immaginato da Pedrolo per la sua storia ricorda molto da vicino la Spagna (soprattutto ricorda Barcellona) alle prese con il tardo franchismo, un regime desideroso, per così dire, di avviare una stagione di “riforme” sociali e politiche necessarie alla modernizzazione capitalistica del Paese e alla stessa sopravvivenza di una classe dirigente che sente di non aver più alcuna solida base sociale su cui contare né una sponda politica internazionale che le facesse da supporto e da scudo; un regime ormai declinante eppure ancora così violentemente repressivo nei confronti degli oppositori politici e sociali. “Riformismo”, certo, ma dall’alto e con giudizio. La “lunga transizione” alla democrazia in Spagna non fu certo un pranzo di gala, sebbene l’epoca franchista si concludesse in modo abbastanza ridicolo, cioè con il fallito golpe del 23 febbraio 1981. Mi fa ancora ridere il ricordo del tenente colonnello Antonio Tejero Molina che si aggira spaesato alla Camera dei deputati di Madrid mentre agita nervosamente la pistola d’ordinanza in direzione dei deputati che cercano riparo sotto i loro scranni. Il poverino, esponente fantasmatico di una Spagna che non esisteva più, non solo scambiò la Camera dei deputati per il vero centro del Potere, ma soprattutto non capì come l’Esercito spagnolo, del quale credeva di essere un’avanguardia, fosse diventato lo strumento e il supporto di una borghesia desiderosa di partecipare al grande gioco del business globale, e sicuramente di quello europeo – magari sotto le ali protettive della Germania (2).

«Caratterizzato fortemente dai temi della disobbedienza civile, dello sciopero e del conflitto, Acte de violència non solo si scontra con lo zelo censorio del regime ma non si trova in sintonia neppure con l’opposizione rappresentata dal PCE, ormai passato a sostenere la politica di riconciliazione nazionale» (Catalunyasenzarticolo). E dove c’è «riconciliazione nazionale», c’è reazione, controrivoluzione, conservazione sociale, e su questo terreno franchismo e stalinismo (con caratteristiche spagnole) si davano la mano. La stessa cosa vale per l’Italia e per il PCI, beninteso.

Nelle pagine di Atto di violenza viene insomma fuori con forza il violento tramonto di un’epoca. Scrive Paco Camara su Courmayeur noir in festival: «Franco muore il 20 Novembre 1975 (quel giorno ci fu il massimo consumo di champagne di tutta la storia della Spagna), ma non si può dimenticare che soltanto due mesi prima aveva firmato ancora cinque condanne a morte. Cinque antifranchisti morirono fucilati». L’ultimo ordine impartito dal Giudice Domina in fuga dalla città insubordinata descritta da De Pedrolo riguarda la fucilazione di un giornalista: «Un uomo come me non si può permettere debolezze! Né adesso né mai! Non voglio che la storia mi giudichi per un’azione da perdente. Fucilatelo». Non sappiamo se l’ordine è stato eseguito dagli ex collaboratori di un perdente che non vuole arrendersi alla realtà: «Non sto scappando! Ho pianificato tutto, ricomincerò come quindici anni fa, dalle montagne se necessario…». Ci penserà, suo malgrado, Batxera, l’autista incaricato di mettere in salvo l’ex uomo forte in fuga, a mettere fine alla vicenda del Giudice Domina con la sola pistolettata che De Pedrolo concede nel suo racconto a favore dei subordinati. «Ero pronto a portarla alla Casetta Verde, alla frontiera, dove avesse voluto. Non ho mai avuto l’intenzione di ucciderla. […]«Perché non ha scelto di andare via davvero? Perché? Perché questa ambizione distruttiva? La città non vuole sangue, vuole vivere…». Poi la pistola che impugna Batxera si abbassa verso il «maledetto vigliacco» che adesso implora clemenza mentre anche il cielo piange, non si sa per tristezza o per gioia; parte un colpo, poi «una seconda vampa esplode, precisa e totale, nell’oscurità della sua carne lontana, che non sentirà mai più la pioggia».

«È molto semplice: restate tutti a casa»: come suona male, malissimo, questa “parola d’ordine” in tempi di pandemia e di segregazione domiciliare imposta alla gente dal governo! Lo stesso effetto deve aver fatto ad Alberto Prunetti, il quale nella sua Postfazione al racconto di De Pedrolo scrive: «Chiudo questo prologo pensando alle strade vuote dei giorni del Covid. Non è l’idea di Atto di violenza ma sarà impossibile, sfogliandolo, che certi ricordi recenti del nostro confino domestico non vengano a galla. Leggiamo De Pedrolo e chiediamoci quanto le nostre democrazie siano diverse da quello spettacolo fatiscente di potere che Domina offriva ai suoi sottoposti. E se ci obbligano di nuovo a chiuderci a casa, bene, stiamo a casa, ma rifiutiamoci di lavorare. Niente telelavoro, niente dirette web, niente didattica a distanza, niente cura. Per vedere l’effetto che fa». Stando in casa oppure altrove (nelle strade, nei posti di lavoro, ovunque esercitiamo le nostre molteplici attività lavorative e ricreative) rifiutiamoci di collaborare con il Potere: «Per vedere l’effetto che fa»! In ogni caso, lo stare in casa del libro in questione si configura come un atto di insubordinazione e di liberazione, anche psicologica, non certo di confinamento obbligato (o lockdown, nella sua espressione “neutrale”, cioè ipocrita) come quello che ci tocca vivere in questi cupi giorni. «A pensarci bene, è ammirevole che, impauriti o no, tutti quanti abbiamo deciso di ribellarci al Giudice. Perché questa è ribellione»: come invidio i ribelli di De Pedrolo!

Come si può immaginare oggi una rivoluzione sociale? Credo che il libro di De Pedrolo abbia a che fare, di fatto, “oggettivamente”, attraverso i mille fili invisibili che legano le esperienze del passato a quelle del presente, con questa domanda di eccezionale portata storica, sociale e politica. Questo libro ha a che fare anche con la risposta a questa domanda così impegnativa? Questo non so dirlo, anche perché la trasformazione sociale che aveva in testa il suo autore è probabilmente molto diversa da quella che ho in testa io; nondimeno subisco il fascino dell’idea che sta al centro di questo romanzo “utopico”: l’azione di insubordinazione collettiva che disorienta il Potere e gli toglie qualsiasi fondamento sociale, qualsiasi legittimazione politica o di altro tipo. Certo, poi si tratta, appunto, di precisare la natura di questo potere, di chiarire come dovremmo “declinarlo” per averne un’adeguata comprensione; e si tratterebbe anche di chiarire in vista di che cosa intendiamo superare lo stato di cose esistente, o Potere che dir si voglia. Ma entrare nel merito di queste importanti “problematiche” ci condurrebbe, forse, troppo fuori tema, e di certo non mancherà occasione di ritornarci sopra – anche perché i miei modesti scritti non sono che una variazione su un unico tema: la vigenza del Dominio e la possibilità di metterlo definitivamente fuori dalla dimensione storica. Ho scritto Dominio, non Domina.

Leggendo il romanzo di Manuel De Pedrolo, mi è tornato subito alla mente quello che scrisse Marx in una sua lettera a L. Kugelmann datata 11 luglio 1868: «Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa». In fondo, di cosa parla essenzialmente il libro di De Pedrolo se non di una sospensione generale del lavoro orientata a rendere impraticabile la vita normale di una comunità, e per questa via privare il potere politico di ogni sua ragion d’essere, e così costringerlo ad abbandonare la scena? Disertare le fabbriche, disertare gli uffici, disertare le scuole, disertare i negozi e ogni altra attività che possa in qualche modo sostenere, appunto, la normalità del vivere e con essa il Potere che se ne nutre. Astenendosi dal lavoro, il “popolo” apre di fatto, “oggettivamente”, le porte all’evento eccezionale che improvvisamente svuota di contenuti sostanziali il regime, che ad un tratto scopre di essere un colosso dai piedi d’argilla. La tradizione cinese parla di «revoca del mandato popolare». Purtroppo i limiti di questa revoca stavano nel fatto che a un Imperatore “revocato” (spesso con la violenza) dal popolo seguiva un altro Imperatore, e così via lungo i secoli e sempre sotto l’attenta sorveglianza delle Potenze Celesti, perché da quando si dà storia delle civiltà tutto ciò che accade, accade sotto il Cielo – del Dominio. Chi prenderà il posto del Giudice Domina, caduto in disgrazia dopo quindici anni di incontrastato potere? Questo non lo sapremo mai!

Su quegli anni “controversi” conosciamo però il giudizio di Tara, un capitalista di “destra” alle prese con lo sciopero dei suoi operai: «Mai, sentimi bene, mai c’era stata una legislazione tanto progressista! Durante i quindici anni di cui parli abbiamo fatto un balzo in avanti che neppure i più ottimisti si azzardavano a sperare». Tara discute con il suo socio Bran, un capitalista di “sinistra”, il quale ascoltando l’adirato collega ride e scuote il capo: «No, Tara, no! Queste sono tutte chiacchiere. Per progresso sociale intendo non solamente il miglioramento delle condizioni materiali degli operai e di tutti quanti. […] L’uomo non vive di solo pane… Persino noi vogliamo qualcosa di più». Perle di saggezza progressista che però non schioderanno il collega reazionario dalle sue convinzioni, peraltro subito soddisfatte dall’arrivo della polizia nella fabbrica vuota di operai: «Tenente Orsia, delle forze di polizia. Abbiamo l’ordine di fare un rapporto su tutti i vostri operai che non si sono presentati al lavoro». Tara non si fa pregare: «”Sì. Entrate, entrate!”. Mentre l’altro poliziotto accosta la porta alle sue spalle, il tenente spiega: “L’ordine non riguarda soltanto la sua azienda, signor Flixa; sono stati presi provvedimenti per tutte le imprese con più di cinquanta Lavoratori”. Il sorriso di Tara si accentua.“Naturalmente. E, se me lo consente, le dirò che era ora”. Indica le poltrone. “Ma, prego, accomodatevi mentre cerchiamo l’elenco del personale”». Questo significa essere collaborativi!

Nella fabbrica di Tara e Bran si sono presentati «solo tre operai»: «Nel capannone non c’è anima viva. Solo decine e decine di macchine da scrivere, in diverse fasi di montaggio, giacciono allineate sui banchi degli operai, accanto a mucchi di pezzi e di arnesi invecchiati dall’uso». Tutto profitto andato a male. «Quale triste logorio morale del capitale!», avrebbe chiosato ironicamente l’ubriacone di Treviri dinanzi a una siffatta «distruzione di capitale»: «In quanto il processo di produzione si arresta e il processo lavorativo viene limitato o, in certi luoghi, completamente fermato, vi è distruzione di capitale reale. Il macchinario, che non viene usato, non è capitale. Il lavoro, che non viene sfruttato, equivale a una perdita di produzione. Le materie prime, che giacciono inutilizzate, non sono capitale. I valori d’uso (come pure le macchine di nuova costruzione), che restano o inutilizzati o incompiuti, le merci che imputridiscono nei magazzini, tutto ciò è una distruzione di capitale. [..]. Il loro valore d’uso e il loro valore di scambio se ne vanno al diavolo» (Il Capitale, II). Si può dunque rimproverare Tara per il suo zelo collaborativo? «È grazie al Giudice che c’è disciplina e possiamo lavorare senza la paura di disordini», osserva senza tanti fronzoli “progressisti” il nostro «funzionario personificato del capitale» (Marx). Ciò che invano cerca di fargli capire il collega “progressista” , Bran, è che l’ordine sociale, che per un capitalista è di gran lunga il genere di ordine che occorre preservare a tutti i costi, va tutelato in modo “intelligente”, “pragmatico”, adeguato alle contingenze, in altre parole tenendo conto dei cambiamenti che si verificano nella società, nella sua “struttura” come nella sua “sovrastruttura”. «Questo istinto di conservazione ci ha fatto guadagnare quindici anni», osserva Bran, ma adesso è venuto il momento di cambiare pelle, non certo natura. Non si tratta di una libera scelta, ma di un fatto che si impone alla volontà dei due capitalisti, a quello “buono” come a quello “cattivo”, con assoluta necessità, se vogliono continuare a smungere con una certa serenità la vacca del profitto. Questa assoluta necessità è vissuta da chi non vuole mutamenti sociali e politici significativi come un vero e proprio atto di violenza.

Anche lo sciopero della fame condotto fino alle estreme conseguenze, ad esempio dai detenuti per ottenere migliori condizioni di detenzione, estrema forma di lotta che esprime un’incolmabile squilibrio di forza tra lo Stato e chi ne subisce l’oppressione, è spesso condannato dai governanti come un atto di violenza: «Ma così ci ricattate, ci sparate contro il vostro stesso corpo, e venite a parlarci di pacifica disobbedienza civile!» Evidentemente il concetto di violenza si presta a diverse letture; come sempre, è una questione di punti di vista – e di interessi.

A proposito: chi ha dato l’ordine di sospendere in modo generalizzato e a oltranza il lavoro, così da paralizzare qualsiasi attività economica? A quanto pare nessuno. E com’è possibile? Qualcuno avrà pure scritto l’ordine di rimanere tutti a casa! Dove c’è un muro si legge la famosa, o famigerata, scritta. Anche i muri delle toilette non vengono risparmiati: «Mentre si sbottona la patta dei pantaloni legge la frase che qualcuno ha scritto sulle mattonelle bianche: “È molto semplice: restate a casa”, scuote il capo e, mentre orina, fruga nella tasca interna della giacca in cerca della matita che porta sempre con sé. Si riabbottona, con una mano sola. Poi, inclinato sulla tazza, aggiunge un “tutti” alla frase, cercando di imitare la grafia dello sconosciuto». Restate tutti a casa: suona meglio! Va bene, ma chi è stato il primo a pensare, a dire e a scrivere quell’idea diventata tanto popolare (virale!) in così poco tempo?

Insomma, chi c’è dietro la cosa cospirativa? O si tratta forse di un movimento spontaneo? Tara, a differenza di Bran, non lo crede possibile: «Spontaneo? Non farmi ridere! Credi davvero che qualche migliaio, qualche milione di persone possano mettersi d’accordo in questa maniera… Spontanea? Sicuramente c’è qualcuno dietro. Vedrai se non è così! Tutte le cose hanno un motivo e qui, come ovunque, ci sono interessi privati, inconfessabili, che si servono di quei disgraziati per i loro scopi». Per Tara i «disgraziati» che se ne stanno a casa ad annoiarsi e a non guadagnare sono essi stessi vittime di qualcuno che persegue «interessi privati, inconfessabili»: è la logica del potere che parla con la bocca del capitalista smaliziato. E poi, quando mai gente che si accontenta di portare a casa la pagnotta quotidiana, magari mentre esalta la propria squadra di calcio e sputa sulle altre, è stata in grado di simili azioni generalizzate, coordinate e organizzate? Anche Domina naturalmente è dello stesso parere: «I popoli sono incapaci di prendere iniziative se nessuno li dirige. La storia ce lo dimostra chiaramente». Eppure questa volta sembra che la spontaneità delle masse abbia avuto la meglio sul “momento organizzativo” e sulla stessa storia!

La natura astratta – inafferrabile, impalpabile, eppure tremendamente concreta – del dominio sociale capitalistico forse ha qualcosa a che fare con il carattere anonimo dell’insubordinazione raccontata da De Pedrolo. Forse. C’è da riflettere anche sul fatto che ai tempi in cui egli scriveva il suo libro non c’era niente che possa far ricordare i nostri mezzi di comunicazione, a cominciare dai cosiddetti “social”. Forse è proprio per questo che una singola “parola d’ordine” è potuta diventare, nella sua asciutta semplicità, così potente e dirompente? Non sono in grado di dire cose intelligenti su questo punto – perché, sul resto?

Il dottor Morns, dopo aver visitato una giovane donna ferita dalla polizia, «va verso il lavabo, apre il rubinetto. Ma [l’infermiera] interviene: “Attenzione, dottore. Quando i serbatoi si saranno svuotati non avremo neanche l’acqua”». Chissà come sono messi ad alcol, Amuchina e a dispositivi sanitari di vario genere: occhio ai virus! Ma che dico! Purtroppo l’attualità si infila da tutte le parti: mi scuso! La benzina è finita, quasi tutti i negozi sono chiusi perché non hanno più nulla da vendere («La maggior parte delle famiglie si è attrezzata per resistere a questo strano assedio e già da giorni ha fatto scorte, al punto che molti negozi di alimentari e affini sono ormai vuoti»); scarseggia il cibo, le scuole sono chiuse. «I miracoli non li so fare», confessa il cuoco Pots al vecchio cameriere Carbi, entrambi “crumiri” evidentemente; «Non c’è gas, non c’è energia, non abbiamo quasi più legna, manca il carbone. E il cibo? Cosa vuole che cucini se non c’è niente?». «Questo si chiama fare le cose per bene…».

D’altra parte, se tutti si astengono dal lavoro, “materiale” e “immateriale”, chi produce e commercializza i “beni e servizi” di cui una società ha quotidianamente bisogno? Nessuno, è ovvio! Chi c’è lungo le strade della città insubordinata? Nessuno. Chi c’è nelle fabbriche? Nessuno. E negli uffici? Nessuno! «Non si può nemmeno telefonare al paese accanto. Non c’è nessuno!» Si materializza insomma una condizione che potremmo chiamare, appunto, Niente e Nessuno; una contingenza straordinaria in grado di mettere il Potere (peraltro ancora tutto da decifrare quanto a natura) con le spalle al muro. Nessuno decide di non ubbidire più al Potere e con questa sola decisione ne minaccia la continuità. Ricordate la “suggestiva” vicenda di Polifemo e Odisseo? «Amici, Nessuno mi vuol uccidere per via d’inganni e non con la forza». Chi vinse dunque il possente ciclope con la sola forza dell’intelletto? «Nessuno fu». Parola di Omero. «La rivoluzione si rialzerà tremenda, ma anonima», disse una volta Amadeo Bordiga, il “vero fondatore” del PC d’Italia (Livorno 1921); e aggiunse: «Gli operai vinceranno se capiranno che nessuno deve venire». Accostare Bordiga a De Pedrolo può suonare ideologicamente “blasfemo” ed “esteticamente” dissonante, ed è esattamente per questo che al mio bizzarro orecchio la cosa suona benissimo! Nessuno deve arrivare: chissà se, alla fine, Nessuno arriverà…

Il treno non si muove, la stazione è praticamente deserta di viaggiatori indaffarati con i riti della partenza: biglietti da pagare, valigie da spostare, richieste di informazione da formulare, qualche panino da addentare frettolosamente. Niente di tutto questo. «Tutti. Macchinista, fuochista, bigliettaio… hanno abbandonato tutti il treno». E non c’è uno straccio di macchina che supplisca alla bisogna, né locande che possano ospitare anche solo per poche ore i pochi e stanchi viaggiatori presenti nella stazione. Uno di questi si lamenta: «Capisco che il personale delle ferrovie sia solidale con tutta la popolazione. Io stesso, e immagino anche voi, stavo tornando a casa prima di aver finito il mio giro per collaborare, per essere uno di più… Ma questi stronzi potevano almeno arrivare in città per non creare problemi a nessuno». Ma il disservizio è implicito nel concetto stesso di sciopero, direbbe a questo punto un sociologo. «Forse vivono qui», azzarda un «omone». Non si sa. Improvvisamente il silenzio è rotto da «violenti colpi, accompagnati da un brusio di voci concitate». Alcune persone cercano di forzare la porta del bar della stazione: «Le otto mani stringono forte la sbarra e il rappresentante comincia a contare: “Uno… due… e tre!”». Quantomeno si può bere e mangiare qualcosa alla faccia dell’ordine costituito. Non si vive di sola disobbedienza civile!

Il professor Jurt Nadia invece non approva l’azione; secondo lui quell’«atto di vandalismo» ai danni del bar non si armonizza con lo spirito della pacifica e civile insubordinazione ai danni del Giudice Domina. «Una delle donne fa: “Se le Ferrovie ci hanno abbandonati in questo posto sperduto è naturale che cerchiamo di difenderci”. L’uomo maturo la appoggia: “Ha ragione. Qui ci deve essere da mangiare e da bere. Perché dovremmo digiunare?”». Già, perché? «Ma possibile che nessuno si renda conto che, comportandoci così, ci mettiamo allo stesso livello della mentalità che stiamo combattendo?». «”Si spieghi meglio!”, esclama un’altra delle donne». A questo punto subentra nella discussione Job, l’amico di Jurt (i due si sono incontrati nella sala d’attesa della stazione casualmente): «Sappiamo tutti che, in molti quartieri, la polizia e i soldati sono intervenuti per sfondare le porte dei negozi che avevano chiuso e fare irruzione nelle case… Anche se la finalità è diversa, i procedimenti sono gli stessi. È questo che voleva dire il mio amico». Ciò che per Job e Jurt conta è salvaguardare il carattere pacifico della «resistenza passiva», ed estendere questo carattere a tutte le azioni che in qualche modo hanno a che fare con quella forma di lotta.

«Dobbiamo evitare a ogni costo che questa resistenza passiva venga stravolta da momenti di impazienza, malumori o difficoltà momentanee. Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta. Sì, avete ragione. È un episodio minimo che coinvolge appena una decina di persone in un posto fuori dal mondo. E che, lo ammetto, non ha nessuna importanza. Ma non ci siamo soltanto noi. Qui, là, ovunque, ci sono gruppetti, alcuni addirittura più piccoli del nostro, che si trovano di fronte a tentazioni molto simili. Ora, se ciascuno di quei gruppi si convince che ciò che fa non conta, perché è un atto isolato, irrilevante nell’insieme delle cose, alla fine potremmo scoprire che la società intera si è allontanata da una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa…». L’”intellettuale” della situazione alla fine riesce a convincere gli affamati e arrabbiati viaggiatori: «”Tutti abbiamo capito. Non siamo così ignoranti”…. Quello con la sciarpa rossa, accigliato come se stesse facendo un grosso sforzo di concentrazione, interviene: “Adesso quello che manca è che in ciascun gruppo ci sia una persona come voi per mettere le cose in carreggiata…”». La funzione sociale dell’intellettuale dissidente trova qui una puntuale conferma, per la grande soddisfazione di Job: «Per fortuna qui quella persona l’abbiamo». Si decide di comune accordo di richiudere la porta del bar appena sfondata: «”Forse io vi posso aiutare. Sono fabbro”. Scoppiano tutti a ridere di cuore».

A proposito di cuore, non c’è dubbio che abbiamo appena toccato, almeno credo, il cuore politico ed etico che pulsa nelle pagine di Atto di violenza. Alludo alla scottante questione circa la relazione che stringe, o dovrebbe farlo, i mezzi ai fini. Anche il problema della responsabilità individuale nel contesto di un’azione collettiva è senza dubbio evocato, eccome.

«Se si vuole uno scopo, allora bisogna volere anche i mezzi», soleva dire giustamente Friedrich Nietzsche. E non c’è dubbio che tra lo scopo che si persegue e i mezzi idonei a praticarlo deve insistere una qualche “relazione dialettica”; si tratta di precisare, magari attraverso una serie di approssimazioni, i termini teorici e politici di questa relazione. Ad esempio, in che senso e fino a che punto i mezzi devono – e possono – essere adeguati allo scopo che si vuole conseguire? Di più, e più radicalmente: è possibile una tale corrispondenza? De Pedrolo immagina un’insubordinazione generale nei termini di «un’azione solidale e passiva a braccia incrociate»; argomenta il professor Jurt: «Adottare i procedimenti propri del nemico ci equipara moralmente al nemico stesso e, di conseguenza, indebolisce le nostre posizioni. Avere ragione, essere i migliori, non è una questione di forza bruta. […] Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta». La non-violenza è «una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa». È un punto di vista che ovviamente rispetto ma che mi sembra passibile di un approfondimento critico. La stessa conclusione della storia narrata da De Pedrolo credo che spinga in quel senso. Commenta  Prunetti nella sua Postfazione: «Il dispositivo di potere si sta svuotando: non ci credono più neanche i soldati a quel potere. Il gigante ha le gambe d’argilla. Eppure, per farlo crollare, servirà un atto di violenza. Un atto di violenza che squarcia ogni illusione di fare i conti in forma pacifica con la violenza del potere». Sembra insomma che la ribellione non possa fare a meno di misurarsi con il problema della violenza.

Scriveva György Lukács nel 1919: «Esistono delle situazioni – tragiche situazioni – nelle quali è impossibile agire senza attirare su di sé una colpa» (Tattica ed etica) Questo è, a mio giudizio, il modo politicamente serio di affrontare il problema della violenza rivoluzionaria, il quale si fa carico di assumere su di sé tutta la portata politica ed etica che quel problema necessariamente racchiude. La violenza, qualunque natura essa venga ad assumere in una data situazione storica, ruota sempre e ossessivamente nell’orbita del male. Marx scrisse una volta che «Il diritto non può essere mai superiore alla configurazione economica ed allo sviluppo, da esso condizionato, della società» (Critica al programma di Gotha). Mutatis mutandis, credo che questa considerazione valga anche per quello che possiamo chiamare “diritto rivoluzionario”: il diritto dei dominati alla rivoluzione, il diritto della rivoluzione e il diritto generato dalla rivoluzione trionfante – si spera… In altri termini, la rivoluzione sociale non può non portare le maligne stigmate del Dominio, e solo avendo piena coscienza di ciò si può tenere a bada, si può “gestire” al meglio, quanto di cattivo, anche moralmente ed eticamente parlando, cercherà di insinuarsi nel processo rivoluzionario. Ma su questa importantissima e assai divisiva “problematica” rinvio a due miei scritti: L’Angelo Nero sfida il Dominio e Mezzi e fini considerati dal punto di vista umano. Concludo questa riflessione, già fin troppo lunga, dicendo che bisogna porre – anche – la relazione mezzi-fini su un terreno non ideologico, perché l’ideologia fa delle convinzioni, perfino di quelle che consideriamo giuste, una prigione che non permette al pensiero critico-radicale di trovare le risposte adeguate ai problemi che esso si trova a dover affrontare nella realtà, e non nel cielo degli astratti principi.

 

(1) Durante la Guerra civile spagnola, Manuel de Pedrolo combatté per la Repubblica tra gli anarcosindacalisti e fu maestro rurale in una zona mineraria. «Marxista eterodosso e deciso sostenitore dell’indipendenza di Catalunya, per Manuel Pedrolo la liberazione di classe e quella nazionale sono due facce della stessa medaglia. In questa prospettiva Pedrolo si esprime chiaramente in un’intervista televisiva realizzata nel 1983: “Ciò che sembra intollerabile è che partiti che in principio sostengono la libertà, la libertà per tutti, nel senso di liberare i lavoratori dal loro giogo, liberare le donne dal loro giogo (che esiste), liberare le razze e liberare anche i popoli, quando si tratta di liberare una porzione di questo concetto geografico chiamato Spagna che non si accorda con la cultura spagnola perché ne ha un’altra, che ha un’altra lingua e che perciò non ha motivo di adottare quella spagnola, allora questi stessi partiti girano la schiena e dimenticano tutto ciò che significa libertà”. Un vero e proprio invito alla riflessione, rivolto a quella parte della sinistra che ancora si mostra scettica sulla repubblica catalana e sull’indipendenza dei Països Catalans, oggi più che mai all’ordine del giorno» (Catalunyasenzarticolo). Sulla questione catalana ho scritto diversi post, ai quali rimando chi fosse interessato alla mia opinione in materia.
(2) « Dopo la seconda guerra mondiale, la Spagna è sottoposta dalla comunità internazionale a misure di ritorsione politiche ed economiche a causa del suo regime autoritario. Il suo isolamento viene spezzato dagli Stati Uniti che, nel 1953, stipulano con il paese un accordo bilaterale per l’installazione di basi militari. Nella seconda metà degli anni cinquanta la Spagna viene ammessa nell’organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) e, nel 1962 avanza una richiesta di ingresso nella Comunità Economica Europea. Il timore di una contrazione delle esportazioni agricole della Spagna verso i Paesi della Comunità, a seguito della politica agricola protezionista dei sei, ha un peso importante nell’indurre il paese a questo passo. La Comunità, considerando l’adesione ai principi democratici come prerequisito indispensabile per l’ammissione di nuovi membri respinge la richiesta, ma stipula più tardi (1970) con il paese un accordo preferenziale di tipo economico. Dopo la costituzione della Junta democratica (1975), il dialogo con la Comunità viene ripreso. Nel 1986 la Spagna diventa, assieme al Portogallo, membro della Comunità Europea» (PuntoEuropa).

COMPLOTTISMI, SPILLOVER E “NUOVO PENSIERO COMUNISTA” (SIC!)

Chi c’è dietro la pandemia? In un editoriale di qualche giorno fa pubblicato dal Corriere della Sera, Paolo Mieli sferza da par suo (non si dice così?) gli italici esponenti delle teorie complottiste in materia di malattie virali, crisi sanitarie e loro inevitabili contraccolpi sul terreno politico-istituzionale – leggi alla voce controllo sociale a mezzo di panico e paura. Anche chi scrive, nel suo infinitamente piccolo, ha tenuto a confermare la propria ritrosia, diciamo così, nei confronti del complottismo, il quale non è che il “pensiero critico” dei poveri di spirito, per dirla con la critica adorniana dell’occultismo in quanto «metafisica degli stupidi».

Scrivevo su un post del 10 marzo: «No, nessun complotto, nessun progetto malvagio elaborato da qualche oscura Entità che ama agire, appunto, nell’ombra; il complottismo lasciamolo pure agli ingenui, diciamo così, a chi lo esibisce a se stesso e agli altri come la sola coscienza critica possibile oggi, e questo semplicemente perché il complottista non ha alcuna coscienza critica da mettere in azione per capire il complesso mondo del XXI secolo. Le cose di cui trattiamo in questi giorni e in queste ore sono maledettamente serie. Ciò che qui evoco è un processo sociale oggettivo la cui natura e le cui conseguenze probabilmente sfuggono alla comprensione dei suoi stessi protagonisti, a cominciare ovviamente dai decisori politici e dai loro consulenti “tecnici”: scienziati, tecnologi, economisti e quant’altro». Nulla da aggiungere. Certo mi piacerebbe sapere, per pura curiosità intellettuale (e non da intellettuale, cosa che non sono), come Mieli leggerebbe il «processo sociale oggettivo» di cui parlo: probabilmente mi metterebbe nel sacco dei complottisti, perché anch’io, in fin dei conti, cerco di puntare i riflettori dell’analisi critica non sul virus, sulle «forze della natura capaci di assassinarci con sublime indifferenza» (David Quammen), ma sulle condizioni sociali che hanno permesso la genesi e l’espansione della pandemia ancora in corso, nonché sulle devastazioni sistemiche che essa sta producendo nella società. Certo non è imputabile al virus se, ad esempio, nel corso degli anni il sistema sanitario italiano ha subito quella pesante “razionalizzazione” dei costi che sta mostrando i suoi frutti avvelenati. Né al virus possiamo attribuire la colpa di aver spostato la produzione dei più elementari presidi igienico-sanitari in quei Paesi dove i “fattori totali della produzione” hanno un costo minore: già Adam Smith parlava della divisione mondiale del lavoro secondo la teoria dei costi di produzione comparati. In base a questa teoria, confermata sempre di nuovo dalla prassi, personalmente per un mese non sono riuscito a procurarmi una sola mascherina! Quando poi sono riuscito a trovarla in farmacia, l’ho pagata al modico prezzo di 4 euro. Ma cosa sono 4 euro in confronto alla salute, se non anche alla vita? Anche qui, comparazione dei costi e dei benefici. Siamo immersi in un relativismo esistenziale che farebbe orrore perfino a George Orwell. E qui naturalmente evoco anche lo scambio che ci viene gentilmente proposto da chi ci amministra tra tutela della cosiddetta privacy e tutela della nostra salute: un ricatto che ci viene somministrato sotto forma di libera e democratica scelta.

In un altro post ho anche affermato che dal mio punto di vista non ha alcuna importanza stabilire il luogo d’origine, il “punto zero” della diffusione dell’epidemia da Coronavirus che poi si è molto velocemente trasformata in una pandemia che ha investito l’intero pianeta, secondo i tempi e le dimensioni geosociali del capitalismo “globalizzato” del XXI secolo. «L’analogia con la guerra mondiale non potrebbe essere più adeguata e stringente: non ha alcuna importanza, al fine della ricerca delle “vere e ultime” responsabilità del conflitto bellico, quale Paese ha fatto la prima mossa (ad esempio, la Germania o il Giappone), perché le ragioni di esso (ad esempio, la spartizione delle materie prime e dei mercati internazionali) chiamano in causa il Sistema Imperialista Mondiale nel suo complesso». Il virus non parla in cinese, o in inglese: esso parla tutte le lingue del mondo, ossia, in estrema e metaforica sintesi, la disumana lingua del Capitale. Ed ecco apparire sulla scena da me confusamente allestita il vero artefice della crisi sociale che sta rendendo molto più difficile soprattutto la vita di chi normalmente conduce una vita difficile, e che solo questa condizione di quarantena può indurre a leggere con una certa nostalgia: «Com’erano belli i tempi in cui potevamo passeggiare e respirare liberamente!» Magari eravamo poveri, ma liberi di scambiarci un bacio al chiaro di luna senza la paura di contagiarci a vicenda o di infrangere un comma qualsiasi dell’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri: come erano belli quei tempi lì. E come sarà, invece, la “nuova normalità”? Per non spargere altro pessimismo tengo per me la risposta. Che poi è un modo suggestivo di rispondere, me ne rendo conto. E mi scuso.

La relativizzazione della condizione umana secondo le circostanze ha sempre sorriso al Dominio, a chi ha interesse a difendere lo status quo sociale, e di questo ha molto parlato anche Primo Levi nel suo racconto della vita degli ebrei e degli altri reietti ai tempi dei campi di concentramento e di sterminio: «I migliori fra noi, i più umanamente sensibili, furono i primi a morire». «Dopo millenni di illuminismo, il panico torna a calare su una umanità il cui dominio sulla natura, in quanto dominio sugli uomini, supera di gran lunga, in fatto di orrore, tutto ciò che gli uomini ebbero mai a temere dalla natura» (T. W. Adorno, Minima Moralia). Perché ciò che minaccia la nostra vita e la nostra sempre più precaria e volatile serenità non è la natura, la quale si starebbe finalmente vendicando per tutto il male che le abbiamo arrecato soprattutto negli ultimi due secoli, secondo una concezione “naturista” e “animalista” più diffusa di quanto si pensi in certi ambienti culturali; a minacciarci ogni giorno è la totalità sociale che ci tiene in pugno sempre più strettamente, e che ci trascina e ci sballotta in ogni direzione come fossimo dei manichini privi di vita e incapaci di provare dolore. Ma qui per fortuna – faccio dell’ironia – ci “soccorre” la scienza medica, con i suoi meravigliosi ritrovati chimici e psicologici. Nella cura delle anime offese e doloranti i professionisti della religione hanno a che fare con una temibilissima concorrenza.

Scrive Paolo Mieli: «David Quammen, l’autore di Spillover (Adelphi), il libro che dieci anni fa previde quel che sta accadendo adesso, definisce questo genere di teorie cospirazioniste lo “zucchero del web”: più se ne legge, più se ne vorrebbe leggere; “una droga”. Una droga anche per i filosofi». E Agamben (ma anche Diego Fusaro, che ha parlato di una «guerra batteriologica da parte degli Stati Uniti») è sistemato!

«Dimentica le teorie cospirazioniste», ammonisce giustamente Quammen in un’intervista rilasciata qualche giorno fa al Fatto Quotidiano: «Noi dobbiamo resistere all’ossessione di sapere l’ultimo dato, l’ultima notizia. È giusto prestare attenzione al virus, ma abbiamo bisogno anche di altre storie»: è il contributo che, sempre nel mio infinitamente piccolo (le dimensioni di un virus!), cerco di dare anch’io. Come non mi stanco di ripetere, e so benissimo di essere ripetitivo (spero non fino alla noia!), qui chi organizza il complotto ai nostri danni non è né il governo, né la solita Potenza straniera (ognuno scelga quella che più gli aggrada: l’America di Trump, la Cina di Xi Jinping, la Russia di Putin), né i medici in combutta con le multinazionali dei farmaci (le quali ovviamente sfruttano al meglio la nostra sventura: è il capitalismo, bellezza! ): si tratta piuttosto dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – degli uomini e della natura. Il complottista non ha un volto ma ha certamente un nome: si tratta di azzeccare quello giusto.

«In che modo i cambiamenti che l’uomo impone all’ambiente rendono la vita facile ai virus? Diciamo che ogni volta che distruggiamo una foresta estirpandone gli abitanti, i germi del posto svolazzano in giro come polvere che si alza dalle macerie. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali, offrendoci a nostra volta come ospiti alternativi. Il virus così vince la lotteria! Ha una popolazione di quasi 8 miliardi di individui attraverso cui diffondersi» (D. Quammen ). Non c’è dubbio. Ma ha senso qui parlare genericamente e astrattamente di «uomo»? Non ha piuttosto senso chiarire in quale concreta dimensione storico-sociale si svolge l’attività umana? Chi distrugge «gli ecosistemi»?

Ancora l’autore di Spillover, la Bibbia del momento: «Non abbiamo investito risorse nella sanità pubblica: più posti letto, più terapie intensive negli ospedali, più formazione del personale. Perché non l’abbiamo fatto? Perché come cittadini siamo poco informati e tendenzialmente apatici, mentre i nostri leader sono cinici e avari, concentrati solo su loro stessi. Questa pandemia è il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo. Ne siamo responsabili tutti». Si può essere degli eccellenti scrittori, e Quammen lo è di certo, ma questo di sicuro non basta a spingere il pensiero verso una prospettiva in grado di cogliere la reale dinamica dei processi sociali, e sempre Quammen ne è la dimostrazione vivente. Quando non si è in grado di capire la natura classista di questa società, con tutto quello che questa disumana realtà presuppone e pone sempre di nuovo con assoluta necessità in ogni ambito della nostra vita sociale e individuale, il pensiero intelligente, ma non cosciente (in un’accezione politicamente e dottrinalmente peculiare del concetto), deve per forza di cose naufragare nel mare delle banalità che arridono al pensiero dominante – che, come diceva il virologo sociale che spesso cito, è il pensiero della classe dominante.

Al contrario di chi scrive, Slavoj Žižek è ottimista (beato lui!): «Un nuovo senso di comunità: ecco cosa vedo emergere da questa crisi. Una sorta di nuovo pensiero comunista, diverso però dal comunismo storico. Stiamo scoprendo che per battere il virus servono coordinamento e cooperazione globale. Ci accorgiamo di aver bisogno gli uni degli altri come non era mai accaduto prima. Persone e nazioni» (La Repubblica). Per capire il tipo di «nuovo pensiero comunista» che ha in testa il celebre intellettuale sloveno, è sufficiente leggere quanto segue: «La realtà è già cambiata. Vediamo governi conservatori mettere in atto misure che in altri tempi avremmo chiamato socialiste: Donald Trump ordina a industrie private cosa produrre. Boris Johnson nazionalizza temporaneamente le ferrovie. Stiamo vivendo in un modo che pochi mesi fa sarebbe stato impensabile. C’è chi teme che i governi approfitteranno del virus per controllarci tutti. Ma io non credo a nuovi totalitarismi. Ho paura, semmai, che aumenti la sfiducia verso le istituzioni: perfino in Cina abbiamo assistito a proteste. Dovremmo trovare un modo per ricostruire la fiducia».  Appena lo statalista (altro che “nuovo pensiero comunista”!) sente in giro odore di statalismo, si eccita come quando Dracula annusa nell’aria l’odore del sangue! «Perfino in Cina abbiamo assistito a proteste»: come si permettono i sudditi cinesi di sfiduciare il regime che li sta proteggendo dall’epidemia? Un’altra perla ascrivibile al «nuovo pensiero comunista» [sic!]: «Gli sforzi delle singole nazioni non bastano. Solidarietà globale e cooperazione sono l’unica via. Dovremo però affrontare il futuro dell’Unione europea: è stata ridicolmente passiva». Invece definire questa posizione ultrareazionaria come l’espressione di un «nuovo pensiero comunista» non sarebbe ridicolmente farsesco! In ogni caso, se questo è il «nuovo pensiero comunista» ai tempi del Coronavirus, io mi tengo felicemente quello mio, anche se vecchio e rigorosamente non comunista – certamente non nel senso di Žižek e compagni, i quali riescono a far convivere il “comunismo” con il sostegno al polo imperialista europeo chiamato Unione Europea: che inarrivabili capacità dialettiche!

È davvero commovente, diciamo così, osservare lo sforzo con cui molti di noi cercano di farsi piacere questa situazione escrementizia; sforzarsi di far buon viso a pessimo gioco: non è uno spettacolo gradevole alla vista, diciamo così. Si tratta, a mio modesto parere, di un ottimismo – più o meno “rivoluzionario” – degno di miglior causa.

Aggiunta del 10 aprile

CONTRADDIZIONI IN SENO AL POPOLO …

«Mentre il mondo si interroga sul ritorno dello Stato, della sanità pubblica e delle stesse idee socialiste; mentre il filosofo Slavoj Zizek, intervistato qualche giorno fa da Repubblica, si diceva convinto che in questa crisi stia emergendo “un nuovo senso di comunità, una sorta di nuovo pensiero comunista”, due campioni della sinistra mondiale escono di scena. In Gran Bretagna Jeremy Corbyn, ex leader del Partito laburista, sostituito dal più moderato Keir Starmer, e Bernie Sanders ha invece abbandonato l’altroieri la corsa per la nomination presidenziale lasciando il campo libero a Joe Biden, vice di Obama e ormai quasi sicuro front-runner di Donald Trump» (S. Cannavò, Il Fatto Quotidiano).

Cercasi campioni della sinistra mondiale, disperatamente! Tanto più che il socialismo è sempre più a portata di mano: non si parla forse in Italia dell’urgenza di una “Nuova IRI”? «Ma l’IRI fu una creazione del regime fascista!». Appunto!!

UN TRUMP CHIAMATO DESIDERIO…

Donald Trump, Melania Trump

A un certo punto della lunga maratona elettorale, il Presidente degli Stati Uniti, prostrato e pallido come mai prima, ha dovuto ammettere e se stesso, alla Nazione e al mondo intero che l’inconcepibile rischiava di diventare possibile, forse persino probabile. «A prescindere da quello che succede, il sole sorgerà al mattino e l’America rimarrà ancora la più grande nazione del mondo»: queste le rassicuranti parole pronunciate da Barack Obama per rincuorare i perdenti e per preparare il terreno alla successione, in uno scenario politico e sociale carico di tensioni e di contraddizioni, e alla vigilia di importanti avvenimenti sul fronte geopolitico. Obama esce dalla competizione presidenziale con le ossa rotte; il suo attivismo non è bastato a dare forza a una candidatura che non ha mai conquistato nemmeno “il cuore e la mente” di una consistente parte dello stesso Partito Democratico. Non possiamo lasciare l’arma fine di mondo nelle mani di un pagliaccio, aveva detto il Nostro per ridicolizzare l’avversario e impaurire l’elettorato ancora incerto. Eppure era la fredda e secchiona Hillary Clinton che presso una consistente parte dell’opinione pubblica americana rivestiva il ruolo della bellicosa, della guerriera pronta a sfidare il virile Putin anche solo per dimostrare la superiorità della donna, soprattutto della donna americana, anche in fatto di politica internazionale: «Vediamo chi ha più palle fra noi due!». Pare che a Mosca si sia brindato come non accadeva da tempo a risultato elettorale acquisito; anche i simpatizzanti italiani della Russia Socialista…, pardon, volevo dire Sovranista, hanno stappato qualche italianissimo spumante.

Il sole è sorto, come auspicava il Presidente in scadenza, e l’America rimane in effetti la prima Potenza capitalista/imperialista del pianeta. I durevoli effetti della crisi economica iniziata nel 2008; la ristrutturazione tecnologica delle imprese (“Industria 4.0”); la delocalizzazione di industrie e servizi; la precarizzazione del lavoro, la distruzione del ceto medio-basso e il declassamento di quello medio-alto; la montante angoscia per un futuro sempre più indecifrabile: questo e altro ancora spiega il successo di Donald Trump, la cui ascesa ricorda abbastanza il berlusconismo, come d’altra parte l’antitrumpismo dei mesi e dei giorni scorsi echeggia molto l’antiberlusconismo che per vent’anni ho avuto il piacere (a volte bisogna pur accontentarsi!) di sfottere e bastonare “criticamente”. Trump il miliardario! Trump il volgare! Trump il puzzone ignorante! Trump il fascista/populista/demagogo! Trump l’evasore fiscale! Trump il puttaniere! Trump e le donne! Trump e i suoi capelli! Trump e… basta! La provincia dell’Impero ha già dato, sotto questo risibile aspetto. Deposto il buffone di Arcore, ora è la volta del “fascista/neoliberista/ servo sciocco della Merkel e dei poteri forti” chiamato Renzi, al quale peraltro è bastato un secondo per abbandonare al suo tristissimo destino l’«amica Hillary». Ora è il momento dell’«amico Donald».

Certo è che la vittoria di Donald Trump, sorprendente solo per chi in questi mesi ha avuto cura di informarsi esclusivamente sull’ultimo scandalo made in USA che lo riguardava, per un verso conferma l’esistenza di una perdurante crisi sociale negli Stati Uniti, nonostante la propaganda obamiana sul ritrovato “sogno americano”, e per altro verso rivela forse in modo inaspettato l’acutezza, la profondità e l’estensione di questa crisi. Il sistema politico-istituzionale americano non può non registrare le scosse telluriche che scuotono la società, e già nel corso delle Primarie abbiamo visto come i due tradizionali campi politici fatichino a gestire la nuova situazione che si è venuta a creare nel Paese. Ma per un’analisi del voto più accurata c’è tempo.

Scriveva Slavoj Žižek alla vigilia del voto: «La vittoria di Trump contiene in sé un grave rischio, non c’è dubbio, ma la sinistra sarà mobilitata solo dalla minaccia di una catastrofe. Né Clinton né Trump stanno “dalla parte degli oppressi” [e questo l’avevo capito perfino io], per cui la vera scelta è astenersi dal voto o scegliere tra i due quello che, pur non valendo nulla, apre le maggiori possibilità che si inneschi una nuova dinamica politica che possa condurre alla massiccia radicalizzazione della sinistra». Naturalmente quando l’intellettuale sloveno parla di «sinistra» è a tipi come Bernie Sanders che pensa. Roba da far tremare di paura il Capitalismo Mondiale fin dalle fondamenta! «Trump vuole rifare grande l’America e Obama gli ha risposto che l’America è già grande – ma è vero? Un paese in cui uno come Trump ha l’opportunità di diventare presidente può davvero essere considerato grande?». Non c’è dubbio, al sinistro-radicale Žižek sta molto a cuore il destino degli Stati Uniti d’America, la cui grandezza già da tempo appare in – relativo – declino; le sue “provocazioni” politiche rivelano l’intima natura (ultrareazionaria) di quella che in Occidente viene definita “sinistra radicale” – più o meno vetero o post “marxista”. «Su Repubblica un testo delirante del delirante filosofo sloveno diceva ieri che ci si può astenere, ma se si vota la scelta è Trump, così la sinistra rivoluzionaria saprà che cosa fare per quattro anni almeno»: a Giuliano Ferrara questo sembra poco. Il solito incontentabile!

Qualche settimana fa un quotidiano francese stigmatizzava il fatto, peraltro noto da tempo dalla politologia più attenta, che in Europa (ma, come abbiamo visto, anche negli Stati Uniti) “estrema destra” ed “estrema sinistra” convergono su molti e significativi punti dell’agenda politica nazionale (sovranismo, populismo), internazionale (appoggio alla Russia di Putin e a tutti gli Stati che hanno un contenzioso aperto con gli Stati Uniti) ed economica (antiliberismo, protezionismo, statalismo). È vero, gli estremi politici, come quelli geometrici, si toccano, ma a una sola imprescindibile condizione: che tali estremi insistano sullo stesso piano – o “terreno di classe”. Non c’è dunque nulla di paradossale nella convergenza programmatica, e non di rado anche ideologica, di parte della cosiddetta estrema sinistra con una parte della cosiddetta estrema destra: è la loro natura di classe (borghese: mi scuso per l’economia concettuale!) che rende possibile una tale apparente contraddizione, che può essere letta come tale solo a un livello estremamente superficiale dell’analisi politica.

Va da sé che il trionfo presidenziale di Trump, un altro terremoto nel cuore dell’Occidente dopo la Brexit, non può che galvanizzare i sovranisti d’ogni razza e colore. Continua. Forse.

SE NON CAMBIA STAGIONE. Riflessioni sul “caso” Tiziana Cantone.

Le tout nouveau testamentBoris mi ha fornito poco fa un compendio di come
la vede. È un profeta del tempo. Farà brutto ancora,
dice. Ci saranno ancora calamità, ancora morte,
disperazione. Non c’è il minimo indizio di cambiamento.
Il cancro del tempo ci divora. […] Non c’è scampo.
Non cambierà stagione (H. Miller, Tropico del cancro).

Io ho solo sedici anni, e il mondo non lo conosco
ancora bene, ma una cosa sola posso affermare con
sicurezza: se io sono pessimista, un adulto che non lo sia,
in questo mondo, è proprio un cretino
(H. Murakami, L’uccello che girava le viti del mondo).

Quando ho saputo della squallida e tragica vicenda di Tiziana Cantone un solo concetto si è fatto fulmineamente strada nella mia testa, quello di violenza. Sì, la violenza sistemica (economica, politica, militare, psicologica) di cui ho tanto scritto in tutti questi anni. Certo, anche il concetto di Sistema mondiale del terrore, magari in una sua declinazione più particolare e puntuale (“microfisica”, per dirla con Foucault), è tutt’altro che fuori luogo rispetto alla fattispecie qui considerata. Almeno per come io “vivo” e approccio questo cattivo mondo. Siamo parti di un meccanismo sociale sempre più disumano e violento che potenzialmente potrebbe schiacciarci in ogni momento, ovunque noi siamo e qualsiasi cosa noi facciamo. Il disastro è sempre in agguato, sempre dietro l’angolo, e rimanere rinchiusi in casa per scongiurare la sciagura (mentre quella degli altri ci piace assai!) è solo un anticipo di morte. Morire da vivi è la cosa peggiore che possa capitarci.

Di più, e ancor più tragicamente: noi stessi siamo questo meccanismo, che lo vogliamo o no, che lo desideriamo o no, che ci piaccia o no. Viviamo in una trappola costruita da noi stessi, nostro malgrado: notate il maligno risvolto dialettico della cosa? Il nostro essere, di volta in volta, vittime e carnefici non ha tuttavia nulla a che fare con la libertà, con il libero arbitrio, con l’etica della responsabilità e con le altre sciocchezze ideologiche che ci raccontiamo per sentirci adulti e padroni del nostro destino, e che ovviamente il Sistema ha tutto l’interesse a propinarci fin dalla nascita. Ma non raccontiamoci frottole! Siamo artefici e vittime di un Sistema (sociale) che non controlliamo affatto per ciò che riguarda gli aspetti fondamentali della nostra esistenza, e che noi impariamo ad accettare come qualcosa di naturale semplicemente perché non vediamo alternative (o perché quelle che riusciamo a immaginare ci appaiono ancora più brutte della realtà presente), perché ci adeguiamo assai facilmente a quel che passa il convento, giustificando la nostra condizione e posizione nella società con mille e più “argomenti”: sono bravo, non sono bravo, sono fortunato, sono sfortunato (pardon: sfigato), sono amato, non sono amato, sono intelligente, brillante, socievole, bello; sono scemo, scialbo, insignificante, asociale, brutto…  Come se davvero ciò che ci capita dipendesse innanzitutto da noi! Come se non stessimo partecipando a uno spettacolo la cui trama è scritta da rapporti sociali e da prassi socialmente predeterminate che condizionano la nostra esistenza dalla culla alla bara.  I casi eccezionali non fanno che illuminare a giorno la normalità, ma noi abbassiamo lo sguardo, chiudiamo gli occhi, come quando una luce troppo forte li colpisce. Qualcuno sostiene addirittura che per adattarci all’oscurità dell’ambiente siamo diventati ciechi, come alcuni animali che hanno imparato a vivere immersi nell’oscurità del sottosuolo. D’altra parte, un signore che di evoluzione se ne intendeva, capì a suo tempo che non sopravvivono gli organismi più forti, ma quelli che si adattavano meglio alle sempre mutevoli sfide dell’ambiente esterno. E difatti, chi non è socialmente abile (il mal riuscito, il disadattato) rischia l’estinzione: è una verità elementare, questa, che sperimentiamo continuamente e che appunto razionalizziamo in modi diversi, secondo la nostra sensibilità, la nostra estrazione sociale, la nostra cultura, ecc. Quanto tempo e quanta energia psichica sprechiamo per razionalizzare l’irrazionale! Per fortuna la scienza non ci fa mancare qualche “aiutino”, un qualche supporto medico-farmacologico. Il Moloch non solo ci calpesta, ma ci vende anche tutto ciò che può essere utile a metterci in sesto, a farci tirare il fiato, e continuare la corsa. Un circolo davvero virtuoso: si tratta di capire virtuoso per chi, per che cosa.

«Ai nostri giorni – scriveva Horkheimer nei remotissimi anni Quaranta del secolo scorso –, il frenetico desiderio degli uomini di adattarsi a qualcosa che ha la forza di essere, ha condotto a una situazione di razionalità irrazionale. […] Il processo di adattamento oggi è diventato intenzionale e quindi totale. […] La sopravvivenza dell’individuo presuppone il suo adattamento alle esigenze del sistema che vuol perpetuare se stesso. L’uomo non ha più modo di sfuggire al sistema» (Eclisse della ragione). Diciamo pure che egli non si pone più nemmeno il problema. E aggiungiamo anche che il Male, che spesso ci si mostra in guisa banale, è sempre e necessariamente radicale.

Il meccanismo sociale ci ha messi in condizioni tali, che un errore di valutazione, apparentemente sciocco, una svista, uno scherzo, una debolezza, una distrazione, la follia di un secondo può costarci assai caro. Chi non ha sperimentato – ancora – la cosa, farebbe bene a dismettere l’aria da furbo, da intelligente, da sgamato, e a indossare un abito più sobrio, più consono alla situazione, la quale appare dominata dalla casualità: oggi è toccata a lui (o a lei), ma domani può toccare a te (o a me!), dopodomani chissà a chi. Sotto a chi tocca! Consideriamoci piuttosto dei fortunati, mentre la ruota della sventura continua a girare. La ruota gira anche per noi!

È verissimo: come singoli individui non controlliamo il Web, ma ne siamo piuttosto controllati dalla testa ai piedi; ma questo ci accade in generale, ossia se prendiamo in considerazione la società nel suo complesso. Sotto questo aspetto, gli “eccessi” della rete confermano l’essenza della nostra condizione sociale, una condizione che attesta appunto la nostra radicale impotenza sociale. Ma di questo ho parlato diffusamente in un recente post: La violenza (di classe) come essenza dello Stato.

Insomma, chi pensa che Tiziana Cantone, tutto sommato, “se la sia cercata” («È colpa sua, solamente sua», ha detto ad esempio Oliviero Toscani), a mio avviso non sa di che parla, letteralmente. «Non voglio insultarla», ha dichiarato il celebre fotografo, «ma è un po’ fessa, una fessacchiotta. Fai una roba così importante tanto che poi ti sei uccisa, e lo fai in modo così superficiale? Fai un video e lo mandi in giro. Lo fai per farlo vedere. L’ha mandato agli amici, ma quando va in giro va in giro. Diventa pubblico. Certo, aveva degli amici del cazzo. I cretini sono in ordine alfabetico su Facebook, ma quella ragazza sapeva quello che faceva. Viviamo di comunicazione. Non puoi fare qualcosa del genere e poi stupirti, e ammazzarti. Le parodie le devi saper accettare. Devi sapere che può accadere, non puoi deprimerti. Altrimenti sei un fesso. Se fai un video e lo dai a un amico fai una cosa pubblica. Ha fatto sesso e poi l’ha mandato in giro. Le andava bene che qualcuno vedesse. Se hai fatto un video è già una cosa pubblica, non rimane solo in tuo possesso» (La Zanzara, Radio 24). Dovevi pensarci prima! «Capisco, ma può un errore commesso in un momento di debolezza affettiva e psicologica costarmi quella gogna mediatica che mi ha procurato un infinito dolore, per fuggire dal quale sono stata costretta a rifugiarmi nell’oblio che non conosce ritorno?» Niente da fare: conoscevi le regole del gioco, non eri una sprovveduta, e le hai ampiamente usate, quelle regole, finchè non ne sei rimasta vittima tu stessa. Chi è causa del suo male… «Tutto questo mi devasta, la gente mi riconosce, non ho più futuro. Questa gogna mediatica alla quale, ora per ora, sono sottoposta, mi sta avvicinando al suicidio». Ma come, non sapevi che viviamo di comunicazione?! «Le parodie le devi saper accettare. Devi sapere che può accadere, non puoi deprimerti. Altrimenti sei un fesso». Come gran parte dell’opinione pubblica, l’esperto in comunicazione non coglie il lato mostruoso (disumano, irrazionale) della vicenda, ma si concentra sull’ingenuità, sulla leggerezza e sulla sprovvedutezza della vittima. Il riflettore della critica non è puntato su una società che produce a dosi industriali pulsioni violente, volgarità, «cretini», «amici del cazzo» e disumanità varia (*); no, la critica bastona chi alla fine non si è dimostrato forte abbastanza da reggere il gioco: «è un po’ fessa, una fessacchiotta». Posta la natura disumana della società, si tratta di adattarsi ad essa, non di metterla radicalmente in discussione: che infantile utopia! Roba da fessi, da fessacchiotti.

D’altra parte, chi ha fatto della comunicazione il proprio mestiere, come Toscani, sa bene come il marketing solletichi a dismisura il nostro narcisismo, promettendoci un mondo che ci promuove tutti al rango di “artisti”, o quantomeno di potenziali “vip”: non è forse vero che tutti ci sentiamo, di volta in volta, scrittori, attori, fotografi, pittori, cantanti, musicisti e solo Dio sa che altro ancora? A mio avviso sbaglia, e di molto, chi enfatizza l’aspetto tecnologico del problema, semplicemente perché la macchina “intelligente” è al servizio di precisi interessi sociali, economici (ricerca del profitto, come sempre) e biopolitici (controllo sempre più spinto degli individui). Foucault una volta parlava del carcere, del manicomio, dell’ospedale, della scuola, della fabbrica e della caserma nei termini di istituzioni totali, universi chiusi e riconoscibili preposti alla fabbricazione dei corpi e delle menti, ma anche al loro controllo e alla loro riparazione. Oggi quelle funzioni sono adempiute soprattutto da strutture diffuse, astratte, difficilmente localizzabili, e perciò stesso più potenti, più pervasive e più subdole di quanto non lo fossero mai state le istituzioni totali di una volta. Scrive Chiara Giaccardi: «Viviamo di fatto come in un palazzo di vetro, dove tutti vedono tutti» (Avvenire.it); e dove tutti sono visti e sorvegliati dal Potere – qui declinato in termini astrattamente, e proprio per questo assai realisticamente, sociali. Il Grande Fratello orwelliano impallidisce dinanzi al controllo sociale realizzato spontaneamente dal mondo che ci ospita. Chi sorveglia? Chi punisce? «La società si comporta nello stesso modo esclusivo dello Stato, solo in forma più gentile, per cui non ti mette alla porta, ma ti rende la vita nella sua società così scomoda, che tu stesso spontaneamente cerchi la porta» (K. Marx, La sacra famiglia). «Solo in forma più gentile»: le parole del Moro di Treviri oggi fanno quasi tenerezza, a dimostrazione che il Male non smette di peggiorare.

In questo contesto, il cosiddetto mercato gioca un ruolo centrale, come un po’ tutti del resto sono disposti a riconoscere, salvo non tirarne le coerenti conclusioni. «Trovo solo aberrante che in questa storia ci siano macchine per far soldi, come motori di ricerca e siti potenti, che possono essere irresponsabili per le loro condotte»: è quello che ha dichiarato Fabio Foglia Manzillo, l’avvocato titolare dello studio che seguì la causa civile intentata da Tiziana. Non c’è dubbio, il rapporto sociale capitalistico è aberrante, e certamente il quadro generale non muterà di molto qualora venissero adottate misure restrittive nei confronti di chi gestisce le piattaforme digitali chiamate “social”. Il Capitale – perché di questo stiamo parlando! – ha trasformato la nostra intera esistenza in una immensa risorsa economica, in una gigantesca occasione per far soldi, e le preoccupazioni di chi vuol mettere sotto controllo la bestia, di chi vuole frenarne solo gli istinti e gli appetiti “più insani”, mi ricordano quella battuta che narra la vicenda del Tizio che vuole la moglie incinta, ma solo un poco.

Ricordate la gogna mediatica che trent’anni fa stritolò Enzo Tortora, l’infido «venditore di morte», fino a ucciderlo? Ebbene, quanto veleno e quanta cacca mediatica in più avrebbe dovuto ingurgitare il “bravo presentatore” (a me stava un po’ antipatico, per la verità) se allora fosse stata operativa la Big Net? Voglio dire allora, contraddicendomi, che il problema sta nella tecnologia che usiamo? No. Voglio ribadire un concetto: la tecnologia non fa che potenziare una carica distruttiva, in senso materiale, spirituale e psicologico, che pulsa al centro di questa società. Mi scuso e mi cito: «Metti nelle mani del Pregiudizio più antico la tecnoscienza più moderna (non mi riferisco solo agli strumenti di morte, ma anche ai moderni strumenti di informazione elettronici:  vedi gogna mediatica e messaggi virali), e avrai creato l’inferno sulla Terra. Dante dovrebbe riscrivere interamente l’Inferno!» (Due popoli, due disgrazie, 28/07/2014). Com’è facile capire, alludevo all’antisemitismo. Il problema non è dunque la tecnologia in sé, anche se non esistono tecnologie socialmente neutre anche al netto dell’uso che di esse facciamo; il problema è una società che alimenta sempre di nuovo pregiudizi, frustrazioni, invidie, illusioni, rabbia, odio, desiderio di vendetta e quant’altro (**).

Sostiene Slavoj Žižek, interrogato sul caso qui in esame dal Corriere della Sera: «Il web riproduce e diffonde più del passaparola. E può mostrare orrori da scenario di guerra, o morbosità atroci. Non può essere lasciato a se stesso. Se dai solo libertà poi si arriva a una esplosione di violenza, brutalità, razzismo. È lo Stato che deve trovare il modo di controllare il web, almeno per gli aspetti penalmente rilevanti, socialmente pericolosi. Non credo come Assange che la libertà totale del web ci salverà: certo, non mi fido neanche delle agenzie di sicurezza attuali; servono apparati trasparenti che senza indirizzo politico salvaguardino quella che è una deriva generale». Già il concetto di «deriva generale» suona alle mie orecchie quanto mai sospetto, perché esso suggerisce al pensiero che, posta questa società, le cose potrebbero andare diversamente, cioè un po’ meglio (siamo realisti!), se solo si riuscisse a tenere sotto controllo la cosa aliena responsabile, appunto, della «deriva generale», della «brutta china». Invece le cose vanno esattamente come devono andare, ossia in modo conforme alla natura di questa società: la Cosa è di questo mondo. Mai come oggi la “realistica” ideologia del male minore ha mostrato di essere irrealistica, per un verso, e alleata del Dominio, per altro verso. Questa ideologia si dà nei fatti come apologia dell’impotenza sociale che grava su tutti gli individui, a partire naturalmente da quelli che affollano le ultime posizioni della scala gerarchica.  Sulla cosiddetta «libertà» di cui parla Žižek, qui sono sufficienti le poche considerazioni “esistenzialistiche” fatte sopra; in più ripeto il mio solito mantra: non esiste autentica libertà, né umana razionalità, nella società che conosce la divisione classista degli individui. Per approfondimenti sul tema, rinvio ai miei precedenti post “politico-filosofici”.

Antonio Borrelli (Il Giornale), che certo non milita nello stesso versante politico-ideologico dell’intellettuale sloveno, la pensa tuttavia come lui circa la necessità di controllare il Web: «Forse non sapremo mai i reali motivi che hanno spinto la giovane napoletana al suicidio. Una cosa è certa: come già dichiarato dal garante della privacy Antonello Soro, risulta ormai necessario riflettere e agire concretamente per contrastare il potere degradante del mare magnum del web». Ammettiamolo: chiunque sia fornito di un briciole di buon senso non può che pensarla così. Ebbene, confesso sul punto una totale mancanza di buon senso. L’illusione proibizionista si fa strada come un vero e proprio riflesso condizionato nella testa di moltissime persone, anche perché la soluzione coercitiva delegata al Sovrano di problemi molto complessi e in grado di urtare la sensibilità etica dei più, sembra rispondere perfettamente alla nostra condizione di sudditanza, e certamente essa ci appare come la soluzione più economica, o semplicemente come la sola realisticamente praticabile. Ed è appunto questa inerzia di pensiero che bisogna combattere, su tutti i fronti della guerra quotidiana per l’esistenza, ovunque la prassi del Dominio ha modo di manifestarsi.

Nella misura in cui penso che lo Stato sia il cane da guardia posto a difesa del vigente e disumano meccanismo sociale, non posso certo condividere la ricetta di Žižek e Borrelli. Nel mio infinitamente (inconcludente?) piccolo, agisco politicamente per demistificare e delegittimare il Discorso del Leviatano, non per confermarlo e accreditarlo agli occhi dell’opinione pubblica, la quale peraltro è appunto avvezza a prestare orecchio ai paterni consigli dell’Autorità, e ciò vale soprattutto in tempi di crisi, quando tutto sembra andare in malore. Domanda del Corriere della Sera: «Lo Stato dovrebbe controllare la nostra privacy?». Risposta: «No. Il problema non è difendere la nostra privacy, ma difendere gli spazi pubblici dalla nostra invadenza, dalla tendenza a privatizzarli che li rende indecenti e indecorosi». In una parola, lo Stato, bontà sua, dovrebbe difenderci dalle nostre stesse cattive inclinazioni. Frenare la «deriva generale» per mezzo dello Stato non è certo un compito che può allettare, nemmeno un poco, chi ha in odio i vigenti rapporti sociali e le istituzioni chiamate a puntellarli sempre di nuovo, con tutti i mezzi necessari, usando il guanto di velluto o quello di ferro (oppure “pugno di ferro in guanto di velluto”), secondo le circostanze. Quanto poi agli «apparati trasparenti senza indirizzo politico» di cui parla Žižek, ognuno è ovviamente libero di coltivare la propria utopia, quella che gli è più congeniale. E poi io chi sono per giudicare l’utopia degli altri? Mi limito a costatare che la radicalità di pensiero che spesso ammiro nei suoi libri non sempre, anzi: raramente, ha modo di tradursi in indicazioni politiche altrettanto radicali, tutt’altro.

Per fortuna chi non la pensa come Assange sulle presunte capacità liberatorie e salvifiche del Web non deve necessariamente invocare l’intervento del Leviatano, come invece appare più opportuno e più realistico fare al soggetto che non vede alternative possibili a questa cattiva situazione, esattamente come capita a quelle persone che “scelgono” di imboccare la strada senza ritorno dell’oblio assoluto. Scrive la già citata Giaccardi: «La tecnologia non libera affatto, se non ne capiamo il senso, ma anzi può essere piegata a forme subdole e sempre più perverse di umiliazione e violenza. Pensiamo a quel che stiamo facendo, a dove stiamo andando, a dove sta il senso». Prendiamo coscienza del fatto che la tecnologia che usiamo, ovunque la usiamo (al lavoro, a casa), è essenzialmente espressione degli odierni rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, i quali proiettano la loro cattiva luce su tutto ciò che facciamo, agli altri e a noi stessi.

(*) «Il male non fa più paura, la violenza e la morte possono essere regine di like. Così un gruppo di ragazzi in vacanza a Sorrento posta un selfie di vittoria dopo lo stupro di un’americana nei bagni di un locale, mentre un giornalista uccide in diretta una giovane reporter e il suo cameraman in Virginia. Subito dopo si toglie la vita, ma non prima di aver caricato il video sui social, divenuto virale in pochi attimi. Tutti scandalizzati? Per niente: il 44% dei ragazzi è a favore della socializzazione della violenza. O almeno è quanto hanno risposto a un’indagine di Skuola.net.» (Linkiesta, 29 agosto 2015).

(**) Nei primi anni Novanta Radio Radicale aprì i microfoni ai radioascoltatori senza filtri né commenti. Ne venne fuori un caso sociologico definito Radio parolaccia o Radio bestemmia. «L’iniziativa delle telefonate libere fu chiamata “Radio parolaccia” e venne replicata nel 1991 e nel 1993, quando sempre per salvarsi da una possibile chiusura fu riattivata la segreteria telefonica. In tre settimane Radio Radicale divenne una delle radio più ascoltate d’Italia» (Il Post, 18 settembre 2014). «Durano da 15 giorni le telefonate di Radio Radicale con bestemmie, oscenità, razzismo. Nell’intervista di Pierluigi Battista, Marco Pannella fornisce dati e giudizi assai interessanti, curiosi e degni di attenzione sul fenomeno di “Radio parolaccia”, la trasmissione radiofonica che sta mettendo in luce “la violenza del mondo”. Alla domanda se non tema di passare alla storia come colui che ha “innescato il più osceno e sconvolgente turpiloquio radiofonico”, Pannella risponde denunciando piuttosto la “pigrizia mentale” di chi non vuole cogliere l’aspetto di grande interesse fornito dalla trasmissione: non c’è “un sociologo che si prenda la briga di studiarle, quelle voci”, e nemmeno un “linguista…”. Richiesto di un suo giudizio, Pannella parla di un “gorgo da incubo”, “l’anonimia di chi non riesce ad articolare più di quaranta, massimo cinquanta parole” tra le quali spicca l’ossessivo “desiderio di ‘spaccare il culo’, segno di una nevrosi sociale..”, “elemento patologico di impotenza e insoddisfazione sociale…”, un bisogno “di esaltare il male che si oppone al Bene…”. La trasmissione insomma fa venire fuori tutti “gli angoli torbidi e bui della nostra esistenza…” Onorevole Pannella, non ci verrà a raccontare di aver acceso Radio Parolaccia con lo spirito di chi apre un laboratorio di studi? I maligni dicono anzi che si tratta di un’ottima trovata pubblicitaria. “E i maligni, come al solito, si condannano a non capire niente. In questi giorni la radio ha quadruplicato i suoi ascolti, milioni di persone che prima non ci conoscevano ma adesso giorno dopo giorno, cercano con affanno di sintonizzarsi sulle frequenze di Radio Radicale”. Curiosità morbosa? “Non saprei. Meglio questo di chi invece di scendere ‘nel gorgo muto’, si mette a sbraitare nello stesso modo in cui gli altri sbraitano attraverso il telefono . Un gorgo, un gorgo da incubo. Ma come, c’è da domandarsi, vi si dà la possibilità non solo di parlare ma di presentare per così dire il vostro biglietto da visita e cosa scegliete di lasciare di voi stessi? L’anonimia. Non l’anonimato, che è un’altra cosa, ma la torbida, paurosa anonimia di chi non riesce ad articolare più di quaranta, massimo cinquanta parole. Un numero infinito di fotocopie in cui variano soltanto gli accenti ma come in una parodia terrorizzante di unità nazionale, si adoperano le stesse, consunte parole a Trapani e a Milano”. E quali sarebbero queste parole? “Prima di tutto l’ossessivo, maniacalmente ripetitivo desiderio di ‘spaccare il culo’. Segno di una nevrosi sociale diffusa che dovrebbe far riflettere psicologi e psichiatri. Simbolo linguistico di una società in cui affiora un elemento patologico di impotenza e insoddisfazione sessuale in cui il sesso, come fosse un totem, diventa un simbolo di catartica violenza in grado di appagare istinti ben piantati nel nostro immaginario. E poi c’è la bestemmia reiterata, gridata, annunciata come in un cupo rullio di tamburi”» (La Stampa, 19 novembre 1993).

ŽIŽEK, BADIOU E LA RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE

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Ho scritto la Lettera ad Alain Badiou su Mao e sulla Rivoluzione Culturale mesi fa; per una serie di circostanze non ho trovato il tempo, il modo e la voglia di pubblicarla. Me ne ero quasi dimenticato quando ieri mi sono imbattuto nella Risposta ad Alain Badiou scritta da Slavoj Žižek. Così oggi mi decido a postare la mia Lettera al filosofo francese, senza mutarne una virgola. Il lettore non si lasci ingannare dal titolo: si tratta di un format retorico strumentale all’esigenza di esporre nel modo più diretto e sintetico possibile la mia posizione su alcuni importanti eventi storici, la cui spinta propulsiva ideale come si vede è lungi dall’essersi esaurita. Insomma, da parte di chi scrive non si culla alcuna pretesa di poter interloquire da “pari a pari” con un intellettuale di fama e di prestigio internazionali. Premetto alla Lettera alcune considerazioni sulla Risposta di Žižek che in larga parte riprendono i temi esposti nella prima. Mi scuso quindi con il lettore per le ripetizioni.

1. Sulla Risposta di Žižek alla Lettera di Badiou. Scrive Žižek a Badiou alludendo agli esiti disastrosi dello stalinismo e del maoismo: «La nostra tesi dev’essere che solo la sinistra radicale è in grado di tracciare tutti i contorni di queste catastrofi». Chi scrive ha mosso politicamente i suoi primi passi sul terreno arato e fertilizzato dai vinti, ossia da quei comunisti che già negli anni Venti del secolo scorso incominciarono a denunciare la battuta d’arresto, ancora vivo Lenin, e poi l’involuzione fino alla piena e totale sconfitta del Grande Azzardo chiamato Rivoluzione d’Ottobre. Parlo di Bordiga, di Gorter, di Pannekoek, di Korsch, di Trotsky e di pochissimi altri ancora. Le loro lezioni della controrivoluzione, non sempre concordi tra loro su tutti gli aspetti della questione e naturalmente in una mia personale ricezione, hanno costituito il mio punto di partenza, la prospettiva dalla quale non solo ho iniziato a interpretare la storia del movimento operaio internazionale del passato e del presente, ma ho anche approcciato gli scritti marxiani. Un conto è leggere Marx dalla prospettiva stalinista (e maoista), un conto abissalmente diverso è leggerlo dal punto di vista antistalinista – ad esempio avendo appreso la differenza che passa tra Capitalismo di Stato (una volta Lenin parlò, a proposito dei Paesi capitalisticamente arretrati, di «Stato borghese senza borghesia») e Socialismo. Questo semplicemente per dire due cose: 1) anch’io ho, come si dice, un passato politico-ideologico che pesa sulle mie spalle come un macigno; 2) personalmente non ho mai avuto nulla a che fare, se non sul terreno della polemica e della critica, con la «sinistra radicale» di cui parla Žižek. Precisato questo, andiamo al merito.

«Sul piano della realtà sociale», scrive Žižek, «di certo c’è una parte di verità nel dire che la Rivoluzione Culturale fu scatenata da Mao con lo scopo di ristabilire il proprio pieno potere (seriamente intaccato all’inizio degli anni sessanta, quando, dopo il fallimento spettacolare del Grande Balzo in avanti, la maggioranza della nomenklatura in seno al Partito organizzò un putsch silenzioso contro di lui). È vero che la Rivoluzione Culturale generò sofferenze incommensurabili, che scavò profonde piaghe nel tessuto sociale e che la sua storia è anche quella di una folla che scandisce grandi slogan, in preda al fanatismo. Ma non si riduce a questo». La mia tesi è, invece, che essenzialmente la Rivoluzione Culturale «si riduce» a una lotta per il potere tra fazioni interne al Partito-Regime riconducibili a interessi diversi ma tutti interni alla prospettiva dello sviluppo capitalistico in Cina (ruolo dello Stato nella sfera economica, peso della grande industria e della campagna nel “decollo” del capitalismo cinese, politica salariale, politica assistenziale, apertura o chiusura nei confronti del mercato mondiale, ecc.) e alla sua proiezione nello scacchiere internazionale come moderna Potenza globale – la prima bomba atomica cinese data 1962.

Come in ogni periodo di grande scompiglio politico-sociale creato dalle lotte interne alla classe dominante, anche nel corso della cosiddetta Rivoluzione Culturale cinese almeno una parte delle classi subalterne approfittò del marasma politico per conquistare alcune posizioni in termini di rivendicazioni economiche e politiche, ma questo si realizzò contro le intenzioni di Mao e contro la massa fanatizzata dei giovani maoisti, i quali raccomandavano agli operai e ai contadini di non cadere nella “trappola borghese” del «rivendicazionismo economicista». «A Shangai il ruolo primario delle guardie rosse è stato quello di lottare per far ritornare al lavoro gli operai. La lotta degli operai mirava più a conservare le condizioni di lavoro già esistenti che non a ottenerne di migliori; miravano solo a contrastare gli intenti dei maoisti che volevano ridurre i salari e aumentare le ore lavorative» (1). La Rivoluzione Culturale ebbe un carattere fortemente antioperaio (mistificato appunto come contrasto al «Vento nefasto dell’economicismo controrivoluzionario»): su questo aspetto di quella cosiddetta Rivoluzione non si insisterà mai abbastanza. Scriveva Evelyn Anderson nel 1968: «Contrariamente alla volontà degli organizzatori della Rivoluzione Culturale, la rivolta dei lavoratori non ha per obiettivo il “revisionismo contro-rivoluzionario” né altre eresie antimaoiste, bensì quello di cambiare le dure condizioni di esistenza e di lavoro. Secondo le circostanze e gli obiettivi del giorno, le manifestazioni operaie hanno molteplici aspetti, ma dappertutto e in ogni momento possiedono un denominatore comune: avere per obiettivo immediato – e nella maggior parte esclusivo – il  soddisfacimento di rivendicazioni di ordine sociale ed economico. […] Certo, le loro rivendicazioni risentono inevitabilmente della fraseologia maoista [quella che tanto affascinava i devoti occidentali], ma si tratta di esigenze materiali avanzate in tono sempre più imperioso, ed al limite anche minaccioso: riduzione immediata degli orari, aumento della paga base, dei premi e delle prestazioni sociali, costruzione di alloggi; infine abolizione delle condizioni di impiego “penose” riservate a diverse categorie, in particolare alla moltitudine di lavoratori saltuari e a contratto limitato. […] La “Rivoluzione di Gennaio” [1967] di cui Shangai è teatro, segna il primo tentativo delle forze filo-maoiste di metter fine ai movimenti sindacalisti “borghesi” e alla  “mentalità corporativa” che li ispira. Questo è senza alcun dubbio, agli occhi dello stesso Mao, il significato più importante degli avvenimenti di Shangai, che vedono la sua Rivoluzione Culturale seriamente minacciata dal naufragio sugli scogli imprevisti dell’”economicismo”» (2).  La proclamazione, il 5 febbraio 1967, della Comune popolare di Shangai rappresentò il tentativo dei partigiani maoisti di riprendere il controllo della situazione sfuggita dalle mani di tutte le fazioni in lotta, scavalcate da agitazioni “economiciste” non previste, ovviamente non desiderate e strumentalizzabili fino a un certo punto. Lo scontro in seno al Partito-Regime, il disastro economico e il caos politico-istituzionale a Shangai e in altre città cinesi per i maoisti occidentali presero davvero  l’avvincente aspetto di una Grande Rivoluzione Culturale: «Fare come in Cina!» divenne il loro slogan preferito. Peccato che in Cina il compagno Mao si schierasse sempre e puntualmente contro gli «operai conservatori» in lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro e per l’ottenimento di un sindacato autonomo dal regime; peccato che egli lanciasse contro le fabbriche in sciopero studenti fanatizzati armati di libretti rossi e militari armati di fucili rigorosamente “popolari”. Se qualcosa del caos cinese le avanguardie basate a Occidente avrebbero fatto bene a valorizzare agli occhi del proletariato occidentale, ebbene questo qualcosa va individuato nel movimento rivendicativo “economicista” degli operai e dei contadini che si sviluppò contro tutte le fazioni interne al Partito-Regime, a cominciare da quella che faceva capo al Grande Timoniere.

La rottura che si consumò fra Mosca e Pechino negli anni Sessanta si spiega benissimo con i forti contrasti economici e politici che esplosero già alla fine degli anni Cinquanta fra Russia e Cina, ma i maoisti nostrani vi vollero vedere una decisa sterzata a sinistra della Cina, impegnata, a loro dire, a costruire «il socialismo» su basi originali rispetto a quelle su cui si era eretto l’edificio stalinista (3). Il “movimentismo populista” di Mao, che si dispiegava interamente sul terreno della conservazione sociale, si sposava a meraviglia con il radicalismo piccolo- borghese di molte “avanguardie” occidentali deluse dallo stalinismo internazionale. Eppure sarebbe bastato un piccolissimo sforzo concettuale per mettere nella giusta prospettiva e nella corretta relazione le teorie elaborate da Mao e dai suoi collaboratori più stretti («fronte unito» anti USA-URSS, «blocco delle quattro classi», «rivoluzione per tappe», «Triplice alleanza», ecc.) con gli interessi – maturati sul terreno interno come su quello internazionale – del Capitalismo di Stato cinese. E ciò avrebbe anche consentito alle “avanguardie” occidentali di mettere nella giusta luce le importanti lotte sociali che si sviluppavano nel Paese di Mezzo sotto l’incalzare di condizioni materiali sempre più dure (l’accumulazione capitalistica non è un pranzo di gala!), di campagne ideologiche strumentali alla lotta di potere che dilaniava il Partito-Regime e di un imminente pericolo di guerra che veniva soprattutto dalla Russia. Sarebbe bastato insomma un minimo salariale di “materialismo storico”. Ma allora in molti giovani militanti prevalse il bisogno imperioso di credere, più che di capire. Un antico proverbio cinese recita: «Uno che sa è meglio di mille che non sanno». Si tratta di capire in che senso «è meglio», ossia per che cosa, in vista di quale obiettivo, per soddisfare quale bisogno.

Scriveva Simon Leys nel lontanissimo 1971: «La “Rivoluzione culturale”, che di rivoluzionario non ebbe che il nome e di culturale che il pretesto tattico iniziale, fu una lotta per il potere, condotta al vertice da un gruppetto d’individui e dietro la cortina fumogena d’un fittizio movimento di massa. […] In Occidente, alcuni commentatori insistono a rifarsi alla versione ufficiale dei fatti, e pertanto prendono, come punto di partenza delle loro analisi, il concetto di “rivoluzione della cultura” o anche di “rivoluzione della civiltà”. Di fronte a un tema così esaltante, ogni tentativo di ridurre il fenomeno alla dimensione bassa e triviale d’una “lotta per il potere”, suona in modo offensivo e persino diffamatorio, alle orecchie dei maoisti europei. I maoisti di Cina sono meno suscettibili: la definizione di “Rivoluzione culturale” come lotta per impadronirsi del potere (quanli douzheng) non è stata coniata dagli avversari del regime, ma è la definizione ufficiale proposta da Pechino e costantemente ripresa negli editoriali del Renmin ribao, Jiefang jun bao e Hong qi, fin dai primi del 1967, da quando cioè il movimento si era sufficientemente rinforzato per poter abbandonare  definitivamente il paravento culturale, dietro al quale aveva mosso i suoi primi passi. Che Mao Tse-tung avesse effettivamente perduto il potere, sembrò cosa difficile da ammettere, da parte degli osservatori europei. Ma fu proprio per recuperarlo, ch’egli scatenò questa lotta. È incredibile che si renda ancora necessario (a distanza di quattro anni dalla “Rivoluzione culturale”!) dover ricordare cose tanto evidenti» (4).

Naturalmente Žižek non è così stupido da negare l’evidenza: «Mao stesso [mise] a tacere l’agitazione (una volta raggiunto il suo scopo, cioè la ripresa del potere e l’eliminazione dei membri avversari dall’alta nomenklatura)»; ma vuole a tutti i costi vedere in quella furibonda lotta di potere interborghese (che, detto en passant, causò la morte di centinaia di migliaia di persone) un eccesso rivoluzionario, un resto di utopia, per così dire. «Ci fu la “Comune di Shangai”: un milione di operai che, semplicemente prendendo sul serio gli slogan, esigettero l’abolizione dello Stato e del Partito stesso, nonché l’organizzazione diretta della società per mano della Comune. È significativo notare che in quel preciso momento Mao ordina all’esercito di intervenire per ristabilire l’ordine. Il paradosso risiede nel fatto che un leader, cercando di esercitare un potere personale totale, scatena un sollevamento popolare incontrollato: è la sovrapposizione di una dittatura estrema a un’estrema emancipazione delle masse». Se uno vuole vedere per forza «un’estrema emancipazione delle masse» (che peraltro si sarebbe concretizzata contro Mao!) dove purtroppo non si verificò alcun tipo di «emancipazione delle masse» (confuse, in parte sobillate strumentalmente dalle molte fazioni in lotta, disilluse dopo anni di false promesse, insofferenti nei confronti dell’indottrinamento “comunista” e di uno sfruttamento crescente) non sarò certo io a poterlo convincere del contrario. Non ne avrei nemmeno le capacità né le “competenze specifiche”. Posso però fare un’altra citazione: «Verso la fine del 1965, quando Mao decreta la Rivoluzione Culturale, è perché conta di isolare – e poi abbattere – con questo strumento i suoi nemici all’interno del Partito, dell’esercito e della gerarchia ufficiale. Egli incita la popolazione, ed in particolare la gioventù, a prendere l’iniziativa nel contesto di un grande movimento destinato, in ultima analisi, a detronizzare gli anti-maoisti. Così facendo, Mao non ignora affatto che una purga camuffata da “lotta di classe” comporta maggiori pericoli che una purga effettuata da una polizia segreta, strettamente vincolata ai suoi comandi; così per lui, la Rivoluzione Culturale si presenta – almeno all’inizio – come un rischio accuratamente calcolato. Tuttavia sembra poco probabile che Mao abbia potuto immaginare ciò che l’esperienza di Shangai ha dimostrato con l’incontestabile evidenza dei fatti: cioè che in una situazione come quella della Cina, la prolungata esortazione alla ribellione generalizzata non può non scatenare, prima o poi, forme inopportune di rivolte spontanee, orientate verso quegli obiettivi “economicisti” che Mao vuole cancellare dalla mente degli uomini. È altrettanto poco probabile che Mao abbia calcolato l’intera pericolosità degli odii  che tali lotte di massa lasciano vivi (una volta cessate), e che dividono e contrappongono in campi ferocemente opposti, non solo i quadri del Partito, ma l’insieme della popolazione, trascinando il paese sull’orlo della guerra civile» (5). Questa mi sembra una ricostruzione e una lettura più corrispondenti alla realtà dei fatti; fatti che, a mio avviso, non autorizzano in alcun modo una chiave di lettura “emancipativa”, sempre al netto della fraseologia e delle illusioni che le masse cinesi allora poterono usare e cullare attingendo dalle ideologie che, per così dire, passava il convento, ma anche pescando nel passato, nel ricco repertorio della secolare lotta di classe in Cina. Il fatto che Mao accettasse di correre il rischio di provocare indesiderati “effetti collaterali” la dice lunga sulla magnitudo della posta in gioco, sul grado di divisione del Partito-Regime e sulla crisi sistemica che attanagliava da anni la Cina.

La Risposta dell’intellettuale sloveno al filosofo francese mi conferma nella convinzione che si possono dire tante cose intelligenti e “dialettiche” (ad esempio sul rapporto Sade-Kant, piuttosto che sulla corretta interpretazione lacaniana di quel rapporto, oppure sul funzionamento della democrazia nei Paesi capitalisticamente avanzati del pianeta, o sul rapporto tra spontaneità delle masse e organizzazione politica rivoluzionaria) per sostenere un’interpretazione storica (nella fattispecie: dello stalinismo, del maoismo, della Rivoluzione Culturale) che personalmente trovo in assoluto contrasto con un pensiero che aspira a un’autentica radicalità concettuale e politica. Sotto questo aspetto è significativo il modo in cui Žižek cerca di “destrutturare” il film La vita degli altri (2006), di Florian Henckel von Donnesmarck, «celebrato e premiato con l’Oscar per aver fornito una riflessione sulla maniera in cui il terrorismo della Stasi penetrava in ogni singolo poro delle vite private nell’ex-DDR. È davvero così?». Alla fine per lui il tutto si riduce al fatto che gli «orrori del comunismo» (sic!) possono essere compresi nel loro giusto significato, nella loro abissale verità, solo dai “comunisti”, mentre gli “anticomunisti” (al cui albo appartengo orgogliosamente da sempre) sono capaci solo di grattarne la superficie. Dinanzi a cotanta profondità “comunista” io mi tengo cara la mia indigenza filosofica e politica.

Quanto è importante afferrare alla radice la natura storico-sociale di un grande Evento, per usare indegnamente il suggestivo linguaggio di Žižek, nello sforzo di comprendere ciò che accade nel presente? È la domanda che volentieri giro al lettore.

(1) C. Reeve, La tigre di carta. Saggio sullo sviluppo capitalistico in Cina dal 1949 al 1972, p. 127, Ed. La Fiaccola, 1974.
(2) Citazione tratta da Le Contrat Social, numero di aprile-settembre 1968.
(3) Occorre anche dire che contro Kruscev, accusato di essere diventato il più grande «revisionista» che la storia del movimento operaio mondiale avesse mai conosciuto,  Mao riabilitò Stalin.
(4) S. Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, pp. 18-19, Ed. Antistato, 1977.
(5) E. Anderson, Le Contrat Social.

cina-comunista2. Lettera ad Alain Badiou sulla natura nazionale-borghese dell’opera di Mao Tse-tung. Caro Badiou,

chi le scrive è un lettore di non pochi dei suoi numerosi saggi filosofici e politici, che a volte si è trovato a polemizzare sul modesto Blog (Il Nostromo) che gestisce tanto con la sua concezione “comunista” (noti le polemiche virgolette) quanto con quella elaborata dal suo amico e vecchio compagno di lotta politica e culturale Slavoj Žižek. Non desidero farle perdere tempo e perciò arrivo subito alle «procedure di verità», per citarla indegnamente.

Solo oggi, e quindi con imperdonabile ritardo, ho avuto il piacere di leggere la sua Lettera a Slavoj Žižek sull’opera di Mao Tse-Tung: uno scritto davvero interessante e a volte perfino spassoso, ad esempio là dove lei sembra rinfacciare a Žižek una sua certa predilezione per lo stalinismo che lo porterebbe, forse lui malgrado, a sottovalutare gravemente la portata del lascito maoista, ciò che della straordinaria lezione maoista rimane, a suo dire, ancora vitale e degno di essere testimoniato e, quando possibile, praticato. Ma forse si tratta di una mia personale interpretazione; forse traviso del tutto i termini della sua critica all’intellettuale sloveno. Poco importa, anche perché il punto che desidero discutere brevemente con lei è un altro.

Nella Lettera lei ricorda una celebre frase di Mao: «La gente si chiede dov’è da noi la borghesia. Io rispondo: è nel Partito comunista». Ebbene, anche a mio avviso il Grande Timoniere diceva il vero, ma, come vedrà, in un senso che certamente lei non può condividere, e che provo a sintetizzare come segue: il Partito Comunista Cinese con caratteristiche maoiste fu lo strumento 1) della rivoluzione nazionale-borghese in Cina e 2) del processo di accumulazione capitalistica in quel gigantesco Paese socialmente arretrato. Naturalmente queste due fondamentali funzioni storiche vanno considerate alla luce della collocazione geopolitica della Cina prima e dopo la proclamazione della Repubblica  Popolare (1949), e in relazione al rapporto del “comunismo” (rispuntano le virgolette!) cinese con l’Unione Sovietica di Stalin – e poi dei suoi eredi più o meno “revisionisti”. Per chiarirle il mio punto di vista sul “comunismo” di Mao è forse utile precisare la mia posizione sullo stalinismo, il quale, com’è noto, influenzò in modo decisivo, anche se non esclusivo, il maoismo (1).

Come cerco di argomentare in un mio studio sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare), lo stalinismo va considerato, al contempo e “dialetticamente”, per un verso come espressione/strumento della controrivoluzione, se visto dalla prospettiva della rivoluzione proletaria (internazionale, non solo russa); e, per altro verso, come espressione/strumento della rivoluzione se considerato dalla prospettiva dello sviluppo capitalistico nel grande spazio geosociale e geopolitico dell’”eterna” Grande Madre Russia – ribattezzata dai socialnazionalisti Patria Socialista. Per questo quando Žižek attribuisce, ad esempio ne Il soggetto scabroso (2) proprio allo stalinismo una forte radicalità rivoluzionaria non sbaglia affatto, salvo che per un “trascurabile” punto: quella radicalità venne messa interamente al servizio 1) dell’accumulazione capitalistica a tappe forzate della Russia di nuovo conio nominalistico (Repubblica Socialista), e 2) dell’ascesa della Russia come moderna potenza mondiale: due momenti di uno stesso processo storico-sociale. Per usare la categoria di Terrore tematizzato nel citato libro di Žižek, lo stalinismo fu l’espressione, al contempo e senza soluzione di continuità, di un Terrore controrivoluzionario (antiproletario, anticomunista) e di un Terrore rivoluzionario (in chiave di sviluppo capitalistico, di industrialismo, di modernizzazione).

A mio avviso l’incomprensione del processo sociale appena abbozzato (un processo rivoluzionario borghese che si dà, alle spalle dei suoi stessi protagonisti, come controrivoluzione proletaria; una negazione della prospettiva proletaria in Russia e nel mondo che si dà come affermazione di compiti borghesi mistificati in guisa di compiti “socialisti” e financo “comunisti”) costituisce probabilmente per le classi subalterne di tutto il mondo la tragedia più grande del Novecento; tale incomprensione ha reso possibile l’Evento che ha letteralmente devastato il movimento operaio internazionale a partire dalla fine degli anni Venti del secolo scorso, e le cui conseguenze si fanno ancora sentire. Naturalmente la datazione qui adottata ha un significato relativo, più che altro orientativo, perché come lei converrà il processo sociale non conosce puntuali soluzioni di continuità, cesure chirurgiche fra un “prima” e un “dopo”, e ciò vale tanto più quando approcciamo fenomeni complessi quale indubbiamente fu quello che rubrichiamo, più che altro per ragioni di sintesi, sotto il nome di un singolo individuo: Stalin, appunto.

Ecco, mutatis mutandis, che poi non è poco (a iniziare dal fatto che il maoismo si affermò in Cina come espressione politico-ideologica di una rivoluzione che non andò mai oltre i limiti di una rivoluzione borghese a base sociale contadina), l’esperienza che porta il nome di Mao va inquadrata nello schema concettuale appena considerato.  Più che «profetica», come scrive lei in riferimento alle “famigerate” riforme di Deng Xiaoping (3), la frase maoista sulla borghesia interna al PCC mi appare dunque non solo realistica ma soprattutto programmatica, appena la si consideri depurata del consueto involucro ideologico pseudo marxista e prescindendo da quale fosse l’intenzione cosciente del suo autore, il quale in ottima fede credeva di lavorare per il “comunismo”. Ma, occorre ancora precisarlo, per quella concezione di “comunismo” che prevalse nella Terza Internazionale con lo stalinismo, il quale, ad esempio, propugnava un “socialismo” che non si discostava di un solo millimetro dal Capitalismo di Stato («più la dittatura del proletariato», cioè del Partito-Regime), nonostante i teorici più in vista del bolscevismo post leniniano (a partire da Bucharin) ce la mettessero tutta per dimostrare, in primo luogo a se stessi, il contrario: di qui, ad esempio, le bizzarre tesi circa una fantomatica «accumulazione originaria del socialismo». Il «socialismo reale» impiantato da Mao in Cina a mio avviso si spiega inoltre, com’è ovvio e come ho già accennato sopra, con le condizioni sociali del Paese di Mezzo, con il suo lunghissimo retaggio storico (e qui lo studio delle antiche comunità contadine può dare un notevole contributo alla comprensione del fenomeno “maoismo”, almeno nella sua fase di lenta genesi), con i suoi rapporti con il Giappone e la Russia, in particolare, e con l’insieme della costellazione imperialistica mondiale, in generale.

Sul carattere nazionale-borghese della rivoluzione cinese e sull’autentico significato della cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (altro che «forma finalmente trovata della dittatura del proletariato»! altro che «circolazione di idee, di parole d’ordine, di forme di organizzazione, di schemi teorici di cui noi, oggi, non abbiamo ancora esaurito la forza»!)  la rinvio ai miei appunti di studio Tutto sotto il cielo – del Capitalismo. Certo, sulla scorta di quanto ho già scritto lei potrebbe sempre obiettarmi che, alla maniera dei trotzkisti (sempre secondo la vulgata stalinista), sottovaluto l’importanza della classe contadina «in nome del feticismo operaista», una critica che farebbe sorridere i pochi che conoscono la mia posizione sul «feticismo operaista».

Qualche mese fa un lettere di un mio post sulla Cuba castrista mi scriveva: «Nazionalizzazione e riforma agraria non sono misure socialiste?». La mia risposta a quel lettore può forse chiarirle ulteriormente il mio punto di vista sullo stalinismo e sul maoismo, due aspetti della storia del “comunismo novecentesco” che, a quanto pare, intrigano molto entrambi, quantunque da prospettive politiche del tutto diverse (forse addirittura opposte). Mi scuso in anticipo per la non breve autocitazione.

In linea generale l’abolizione della rendita fondiaria e il superamento di tutti i rapporti agrari precapitalistici che impediscono, o solamente rallentano, l’accumulazione capitalistica rientrano classicamente nello schema della rivoluzione borghese. La riforma agraria può benissimo prendere la forma della la nazionalizzazione della terra senza esorbitare di un solo millimetro dalla dimensione capitalistica. Tutt’altro! Alla radicalità della riforma agraria corrisponde un’ascesa capitalistica più rapida e impetuosa, ed è esattamente quello che non è avvenuto ad esempio in Italia, in grazia alla nota alleanza fra capitale industriale del Nord e proprietà terriera del Sud, con le implicazioni sociali e politiche che conosciamo e il cui retaggio ancora in qualche modo avvertiamo.

Com’è noto Lenin manifestò un grande interesse e una grande simpatia per il populismo cinese e per l’insieme del movimento democratico cinese in generale, il quale ebbe come suo leader riconosciuto Sun Yat-sen. Questo però non gli impedì di criticarne l’ideologia impregnata di socialismo piccolo-borghese, di fare luce sui «sogni socialisti», sulla «speranza di risparmiare alla Cina la via del capitalismo, di prevenire il capitalismo». L’analogia con il populismo russo è evidente. Commentando il Programma rivoluzionario-borghese di Sun Yat-sen Lenin tenne particolarmente a precisare, e non certo per un prurito dottrinario, che la riforma agraria sostenuta in quel Programma era certamente storicamente rivoluzionaria, ma non perché debordasse dai compiti borghesi quanto, al contrario, perché essa rispondeva nel modo più radicale alla necessità storicamente data in Cina di distruggere i rapporti sociali feudali. «Questa è la sostanza del “populismo” di Sun Yat-sen, del suo programma progressivo, combattivo, rivoluzionario, che propugna riforme agrarie democratiche borghesi, e della sua teoria cosiddetta socialista. Questa teoria, dal punto di vista della dottrina, è la teoria di un “socialista”-reazionario piccolo-borghese. […] E Sun Yat-sen, con una semplicità inimitabile, vorrei dire verginale, distrugge egli stesso completamente la propria teoria populista reazionaria, riconoscendo ciò che la vita costringe a riconoscere, e precisamente: “La Cina è alla vigilia di un gigantesco sviluppo industriale” (cioè capitalistico); in Cina “il commercio” (cioè il capitalismo) “raggiungerà proporzioni enormi”, “fra cinquant’anni vi saranno da noi molte Sciangai” e cioè molti centri con milioni di abitanti, di ricchezza capitalistica e di indigenza e miseria proletaria» (Lenin, Democrazia e populismo in Cina, 1912, Opere, XVIII, pp. 155-156). Quando il rivoluzionario radicale borghese si mette in testa di poter percorrere una via originale al socialismo (o, più correttamente, a ciò che egli pensa sia il “socialismo”), ecco che egli appare, agli occhi Lenin, un reazionario piccolo-borghese da combattere sul piano politico-dottrinario perché le sue idee possono far breccia anche nel proletariato e sicuramente fra i contadini poveri. «E questo è il bello: la dialettica dei rapporti sociali della Cina consiste appunto nel fatto che i democratici cinesi, simpatizzando sinceramente col socialismo in Europa, lo hanno trasformato in una teoria reazionaria, e sulla base di questa teoria reazionaria che vuole “prevenire” il capitalismo, attuano un programma agrario puramente capitalistico, capitalistico al massimo grado». Adesso viene la parte che tocca il problema della nazionalizzazione: «In sostanza, a che cosa conduce la “rivoluzione economica” di cui parla Sun Yat-sen? Al passaggio della rendita fondiaria allo Stato, cioè alla nazionalizzazione della terra. […] Fare in modo che l’”aumento del valore” della terra sia “proprietà del popolo” significa trasmettere la rendita, cioè la proprietà della terra, allo Stato, o in altre parole: nazionalizzare la terra». È possibile una simile riforma nel quadro del capitalismo? Non soltanto è possibile, ma rappresenta di per sé il capitalismo più puro, conseguente al massimo grado, idealmente perfetto. Marx lo rilevò nella Miseria della filosofia, lo dimostrò particolareggiatamente nel III volume del Capitale e sviluppò questa tesi in modo particolarmente chiaro nella polemica con Rodbertus nelle Teorie del plusvalore». E poi Lenin continua illustrando la natura altamente capitalistica della nazionalizzazione della terra.

Ebbene, mutatis mutandis, credo che la posizione di Lenin sul socialismo reazionario possa aiutarci a fare luce sullo stalinismo, sul maoismo, sul castrismo e su tutti i movimenti borghesi che si sono autoproclamati socialisti o, addirittura, comunisti, senza peraltro tralasciare di esaltare la propria caratteristica nazionale: ancora oggi si parla del «socialismo con caratteristiche cinesi»!

Fine della citazione. Anche per quanto riguarda il rapporto tra l’Unione Sovietica e la Cina maoista mi permetto di esporle il mio punto di vista. Dal febbraio 1950 in poi la Cina fu costretta a rivolgersi al “Paese fratello” per ottenere il capitale fisso e le conoscenze tecniche e scientifiche di cui difettava e che le erano assolutamente necessarie per avviare il processo capitalistico di trasformazione della campagna e delle città – «accumulazione capitalistica originaria», per usare la terminologia marxiana, «accumulazione socialista originaria» secondo la già ricordata ideologia stalinista poi ripresa dai “comunisti” cinesi. Ciò appariva tanto più necessario alla luce del lungo ciclo della guerra civile/nazionale che aveva sconvolto il già debole e arretrato tessuto sociale cinese. Al PCC apparve meno rischioso, dal punto di vista della strategia politico-economica di lungo respiro, rivolgersi all’Unione Sovietica piuttosto che agli Stati Uniti, ossia all’Imperialismo egemone nell’area del Sud-Est asiatico dopo la capitolazione del Giappone. Un numero davvero considerevole di industrie vennero impiantate direttamente dai russi, che insieme al capitale fisso portarono una forza-lavoro qualificata. Nei dieci anni seguenti al 1950 oltre 10 mila tecnici russi avranno di fatto la direzione dell’industria pesante cinese.

Col tempo la natura imperialistica dell’«aiuto fraterno» russo si andrà precisando, fino a provocare la rottura fra i due Paesi nel luglio 1960. Ma già da subito nel PCC presero corpo le due linee di politica economica che avranno modo di scontrarsi duramente nel corso degli anni, generando enormi disastri economico-sociali (puntualmente reclamizzati dal regime sotto suggestive insegne, del tipo: Cento Fiori, Grande Balzo in Avanti, Grande Rivoluzione Culturale Proletaria), con relativo cospicuo versamento di sangue operaio e contadino. Com’è noto, l’«accumulazione capitalistica originaria» non è un pranzo di gala! Mao incarnò la fazione autarchica del capitalismo di Stato cinese, quella più ostile all’integrazione del Paese nel Capitalismo internazionale, e quindi ostile pure a un’alleanza strategica con il Capitalismo Russo.

Questa «linea rossa» postulava misure particolarmente pesanti di sfruttamento dei contadini e degli operai, questi ultimi sempre tenuti in pessima considerazione da Mao a causa del loro «scarso senso di responsabilità» nei confronti della «Patria Socialista», ossia dell’ancora arretrata economia capitalistica, la quale esigeva bassissimi salari, un tenore di vita di mera sussistenza e una produttività almeno consona alle ambizioni di potenza della Nuova Cina. Agli operai era chiesto di abbandonare il vecchio «spirito piccolo-borghese e corporativo», e di «servire il popolo», ossia la Nazione impegnata in un colossale sforzo di transizione sociale in direzione del moderno Capitalismo. «Per l’operaio, la coscienza “socialista” è così ridotta all’accettazione del proprio sfruttamento, che è evidentemente una necessità per il successo dell’accumulazione di capitale; ma è una mistificazione politica identificare quest’ultima come il socialismo o il comunismo» (Charles Reeve, La tigre di carta, 1974). Non c’è dubbio. Naturalmente parlo per me, non per lei.

L’opzione a favore dell’industria pesante, secondo il modello staliniano, generò una serie di ripercussioni fortemente negative a livello della produzione dei beni di consumo e dello sviluppo agricolo, e ciò nel momento in cui la demografia, un fattore decisivo nella storia cinese, attestava un’inaspettata accelerazione verso l’alto, rendendo in prospettiva esplosiva la situazione del mercato del lavoro. Secondo Jean Deleyne (L’economia cinese, 1971), alla fine degli anni Cinquanta entravano sul mercato del lavoro dieci milioni di cinesi, mentre la capacità industriale del Paese consentiva l’assorbimento di soli 500 mila. I contadini, che peraltro erano stati la base sociale fondamentale della rivoluzione nazionale-borghese che portò il PCC al potere, reagirono al supersfruttamento (il surplus agricolo avrebbe dovuto sostenere l’accumulazione nell’industria pesante) e al decadimento delle loro già difficili condizioni di esistenza con sommosse e diminuendo la produttività del loro lavoro. Questa reazione compresse anche l’approvvigionamento alle città di beni alimentari, creando nel proletariato industriale nuove ragioni di malumore e di rivendicazioni salariali. Come sempre, Mao denunciò le «tendenze borghesi» in seno alla classe operaia. Tutto questo marasma, che ho cercato di descriverle a grandi linee, ebbe come risultato di prima grandezza anche la rottura della Cina con l’Unione Sovietica, che aveva cercato di inserirla organicamente nella propria sfera di influenza, e il rafforzamento della linea maoista  (che propugnava un più graduale, “armonico” e “originale” sviluppo economico) in seno al Partito-Stato.

L’incontro Mao-Nixon che ebbe luogo nel febbraio del 1972, peraltro in una fase particolarmente sanguinosa della guerra in Vietnam, la dice lunga sulla spregiudicatezza politica del leader cinese e sui difficili, per usare un eufemismo, rapporti tra i due Paesi “comunisti”. Naturalmente se si rimane alla superficie della schiuma ideologica; se si rimane invischiati nella guerra ideologica fra maoismo e “revisionismo sovietico” non è possibile afferrare la reale posta in gioco della contesa.

Come può capire, mi risulta alquanto difficile, diciamo così, concordare con il suo giudizio su Mao come «ultimo grande rivoluzionario marxista della storia mondiale». Né ultimo, né grande, né medio, né piccolo: la radicalità rivoluzionaria di Mao (il Terrore maoista di cui parla in termini più che elogiativi, forse financo apologetici, lo stesso Žižek nel saggio Sulla pratica e sulla contraddizione) (4) fu, infatti, interamente messa al servizio della Cina come moderna, grande (anche a spese di altre nazionalità ed etnie) e indipendente Nazione – e qui occorre ancora una volta ricordare l’aspra lotta che il regime maoista ingaggiò contro le due Super Potenze del tempo. Sotto questo aspetto si può senz’altro parlare del maoismo nei termini di uno stalinismo con caratteristiche cinesi. Né posso applaudire quando lei mette nello stesso sacco “rivoluzionario” «figure come Robespierre, Saint-Just, Babeuf, Blanqui, Bakunin, Marx, Engels, Lenin, Trotzkij, Rosa Luxemburg, Stalin, Mao Tse-tung, Zhou Enlai, Tito, Enver Hoxha, Guevara, Castro e qualche altro (penso in particolare a Aristide)». Mi auguro che ciononostante lei non mi associ «al contesto di criminalizzazione e di aneddoti spettacolari in cui, da sempre, la reazione tenta di chiudere e annullare queste figure». Anche perché attribuisco un peso abbastanza relativo alla «funzione della personalità nella storia»: sono più interessato a capire i processi sociali (psicologia di massa compresa, eccome!) che stanno alla base degli eventi storici che usiamo rubricare con i nomi di Tizio o di Caio: stalinismo, maoismo, castrismo, e via di seguito. Poi naturalmente faccia come crede: me ne farò una ragione. Certo è, che «l’emancipazione egalitaria» di cui lei parla si amalgama assai poco con l’idea di emancipazione universale che ha in testa chi le scrive sulla scorta della critica marxiana dei rapporti sociali capitalistici (certo, nella sua personale ricezione) e del giudizio che ha maturato sullo stalinismo e sul maoismo.

Caro Badiou, bisogna por fine in qualche modo a questa interminabile lettera, mi rendo conto. E allora concludo osservando che più che di un «comunismo sepolcrale», come dice ironicamente lei riferendosi alla vostra (sua e di Žižek) «ipotesi» o «idea comunista», io parlerei piuttosto di una concezione certamente sepolcrale ma che definire “comunista” mi riesce francamente impossibile. Dicendo questo so di non sconvolgerla neanche un po’, né il mio intento era quello di graffiare con le mie deboli e spuntate unghie la sua granitica posizione. D’altra parte, da Stalin in poi quell’aggettivo è stato così abusato, violentato, tradito e svuotato di contenuti autenticamente rivoluzionari che personalmente preferisco farne a meno, se non altro per non finire anch’io dentro imbarazzanti sacchi e sepolcri. Né posso e voglio attribuire o ritirare patenti ideologiche di sorta a chicchessia. E allora mi scuso per le provocatorie virgolette apposte al suo e all’altrui Comunismo e la saluto cordialmente.

Print(1) Tanto per fare un solo esempio, non fu certo un caso se l’astro maoista iniziasse a salire nella costellazione del “movimento operaio internazionale” con caratteristiche staliniste solo dopo la bruciante sconfitta subita nel biennio 1926-1927 dal giovane e ancor debole proletariato cinese a Shangai e negli altri pochi centri industriali della Cina del tempo. Siccome non esistono capi politici buoni per tutte le stagioni, solo dopo il disastro del 1927, auspice anche la politica collaborazionista del Comintern nei confronti del Kuomintang, in Cina si aprì la stagione propizia per Mao.

Per un’approfondita conoscenza della genesi del pensiero politico e filosofico di Mao segnalo l’interessante studio di Paolo Selmi (Il substrato confuciano e tradizionale del “marxismo” di Mao Zedong, Università degli Studi di Napoli L’Orientale, 2011), dal quale cito i passi che seguono:

«Il Pensiero di Mao Zedong è il marxismo-leninismo, che lui conobbe nella variante staliniana, fuso con la filosofia politica confuciana tradizionale, in particolare col pensiero di Mencio focalizzato sulla bontà della natura umana e sulla necessità di lavorare continuamente sulle persone perché seguissero la loro naturale inclinazione. […] Si tenga conto inoltre del fatto che Mao, dopo tale infarinatura di seconda mano ricevuta dai testi anarchici letti in gioventù, lesse testi che citavano i classici del marxismo nell’unica forma all’epoca reperibile in cinese: la versione sovietica (staliniana) del materialismo dialettico. Mao aveva una logica ben precisa, e nel seguito di questo studio saranno sviluppati gli elementi di questo pensiero tradizionale che in Mao tornava a nuova vita. […] Un’arte della guerra antica applicata al fucile mitragliatore, figlia di una concezione dove taoisticamente l’elemento liquido prevale sul solido e diviene metafora della vittoria dell’apparentemente debole sull’apparentemente forte; la necessità di una piena rieducazione dell’esercito prima, e delle masse poi, che di neoconfuciano non ha soltanto il sapore, ma la logica e il metodo, rappresentano soltanto alcuni esempi. In questo modo di ragionare analogico e non strettamente causale, ricombinando elementi vecchi e nuovi in funzione di obbiettivi vitali e concreti, sta la grandezza del pensiero di Mao e dei mentori a cui si ispirò. Quanto affermato ci porta a un’ulteriore conclusione che, per quanto possa risultare scomoda, costituisce però il naturale sviluppo del ragionamento finora svolto: il marxismo-leninismo-pensiero di Mao Zedong non è il marxismo arricchito di un nuovo sviluppo. Tale pensiero è una struttura ideologica che, pur impiegando un lessico tratto dal bagaglio terminologico del pensiero di Marx, Engels e Lenin, di fatto lo riformula sin da subito negli anni Venti e Trenta in maniera del tutto diversa, collocando i vari tasselli su architravi che non sono disposte alla stessa maniera delle originali, ma che bensì rispettano distanze e composizioni antiche.  […] Nel pensiero di Mao, tali concetti divenivano veicoli di un “marxismo” potenzialmente libero di muoversi lungo qualsiasi direzione, recuperando e assumendo in sé schemi tradizionali e modelli di pensiero consolidati, al fine di condurre la trasformazione sociale lungo la strada desiderata. Visto in prospettiva, questo meccanismo costituì uno dei “contributi” maggiori del maoismo al “socialismo con caratteristiche cinesi”: la sua estrema duttilità nel maneggiare concetti e manipolarne strumentalmente ordine e significato in un ordine diverso dall’originale, sarebbe stata ripresa dopo la sua morte da ogni gruppo dirigente il partito, fino alla generazione attuale: come già sottolineato, ciascuno di loro  “avrebbe arricchito” il marxismo di nuovi elementi, riducendo il pensiero originario a un mero discorso formale».

In effetti, per capire il Mao-pensiero non occorre studiare le opere di Marx (né quelle di Hegel, almeno sulla scorta della critica marxiana), mentre è indispensabile studiare la millenaria e densissima storia della società cinese, per un verso, e il “materialismo dialettico” (Dialektičeskij Materializm, ovvero Diamat) canonizzato dalla scuola sovietica, per altro verso.

(2) «Anche per quanto riguarda l’effettiva trasformazione sociale, o “taglio nella sostanza del corpo sociale”, la vera rivoluzione non fu quella di ottobre, ma la collettivizzazione degli ultimi anni Venti. La rivoluzione di ottobre lasciò la sostanza del corpo sociale intatta; da questo punto di vista, essa fu simile alla rivoluzione fascista, la quale impose soltanto una nuova forma di potere esecutivo sulla rete preesistente di relazioni sociali, proprio per mantenere questa rete di relazioni sociali … Fu soltanto la collettivizzazione forzata degli ultimi anni Venti a sovvertire e smembrare completamente la “sostanza sociale” (la rete di relazioni che era stata ereditata dal passato), perturbando e intaccando profondamente i tessuti sociali elementari» (S. Žižek, Il soggetto scabroso, p. 243, Raffaello Cortina ed., 2003).

(3) Nel ‘78 una Cina sull’orlo del disastro sistemico (politico, economico, sociale, nazionale) avviò una rapida transizione verso un Capitalismo sempre più aperto alla concorrenza internazionale e alla gestione delle azienda da parte dei capitalisti privati, cinesi e di altri Paesi. La transizione si dipanò tutta nel segno della continuità capitalistica e, cosa da valutare con grande attenzione, della continuità nazionale, ossia nel segno della Cina come moderna Potenza di rango mondiale, prima in fieri e poi in forma dispiegata. L’unità nazionale cinese non è mai stata garantita una volta per sempre. Sotto questo aspetto, Mao Tse-tung ha lavorato bene in circostanze, interne e internazionali, davvero eccezionali. Una medaglia appesa al petto della Nazione (leggi: del Capitale) cinese, non certo a quello del proletariato – cinese e internazionale. Oggi il Paese di Mezzo si confronta con un’altra difficile sfida: passare dallo sviluppo capitalistico quantitativo, diciamo così, a quello più qualitativo; da un’epoca di eccezionalità capitalistica, segnata da stratosferici tassi di crescita (e da un super sfruttamento degli uomini e della natura: vedi catastrofi ecologiche), a una «nuova normalità».

(4) Mi riesce davvero difficile capire come un intellettuale così sofisticato e intelligente come Žižek possa credere che sia minimamente credibile il tentativo di mobilitare la migliore filosofia occidentale per accreditare di un qualche valore filosofico-politico la concezione del mondo che informa gli scritti di Mao sulla pratica e sulla contraddizione. Eppure, sembra che l’operazione dell’intellettuale sloveno riesca perfettamente in certi ambienti dell’ultrasinistra europea e nei mitici “salotti radical-chic” dell’intellighentia occidentale: buon per lui!

UN CONTRIBUTO ALLA CRITICA DI SLAVOJ ŽIŽEK COME POLITICO “RADICALE”

cappella-sistina-giudizio-universale-dettaglio-angeli-tubiciniPiccola premessa: come sempre polemizzo con una posizione (politica, filosofica e quant’altro) soprattutto per cercare di elaborare e “socializzare” meglio la mia posizione, e non certo per dare addosso a qualcuno che, il più delle volte (come nel caso di specie), vive per così dire su un altro pianeta rispetto a chi scrive. Veniamo al merito!

«Il filosofo italiano Giorgio Agamben ha detto in un’intervista che “il pensiero è il coraggio della disperazione” – un’intuizione pertinente in modo particolare al nostro momento storico, quando di solito anche la diagnosi più pessimista tende a finire con un cenno ottimista a qualche versione della proverbiale luce alla fine del tunnel. Il vero coraggio non sta nell’immaginare un’alternativa, ma nell’accettare le conseguenze del fatto che un’alternativa chiaramente discernibile non c’è: il sogno di un’alternativa indica codardia teorica, funziona come un feticcio, che ci evita di pensare fino in fondo l’impasse delle nostre situazioni di difficoltà. In breve, il vero coraggio consiste nell’ammettere che la luce alla fine del tunnel è molto probabilmente il faro di un altro treno che ci si avvicina dalla direzione opposta. Del bisogno di un tale coraggio non c’è migliore esempio della Grecia, oggi». Così scrive Slavoj Žižek commentando le vicende greche post referendarie. Potrei sottoscrivere ogni parola dei passi citati, se essi non rimandassero a una concezione politica e sociale del conflitto interamente prigioniera del dominio sociale capitalistico. Questo, come sempre quando ci si occupa della cosiddetta sinistra radicale, al netto di una fraseologia che può ingannare chi non fosse avvezzo a ragionare in termini autenticamente anticapitalistici, cosa che, all’avviso di chi scrive, implica l’estraneità più assoluta nei confronti della tradizione “marxista-leninista” (leggi: stalinista, maoista, guevagista, ecc.) che informa la sinistra radicale cui Žižek fa riferimento.

Questa sinistra oggi si trova divisa in due correnti principali: la corrente alter-europeista («Un’altra Europa è possibile») e quella sovranista: il recupero della dimensione nazionale come leva tattica [sic!] per scardinare la globalizzazione neoliberista, e per questa via lavorare per soluzioni politico-sociali «più avanzate»: «esiste una tradizione marxista, in effetti antica, che ha indicato che le lotte per la trasformazione della società possono essere combattute solo nel quadro di uno Stato sovrano» (Jacques Sapir).

Secondo Sapir, che sostiene la rottura con l’europeismo d’ogni colore politico, «per la sinistra radicale l’ora della scelta è arrivata; deve porsi in rottura, o condannarsi a perire». Un aut-aut che non mi riguarda. Forse perché sono politicamente già morto? Può darsi. In ogni caso il mio cadavere non condividerebbe lo scenario politico-ideologico calcato dall’intellettuale francese. E a me, vivo o morto che sia, questa idea mi piace e mi rincuora.

Le due opzioni appena considerate insistono, non saprei dire con quanto realismo, sul terreno dello status quo sociale. L’intellettuale sloveno che oggi rivendica «il coraggio della disperazione» milita nella scuola di pensiero alter-europeista, come si evince dai passi che seguono: «A un livello più profondo, però, non si può evitare il sospetto che il vero obiettivo [dell’UE e della Troika] non sia quello di dare una possibilità alla Grecia, ma di trasformarla in un semi-stato economicamente colonizzato, mantenuto in condizioni permanenti di povertà e dipendenza come avvertimento per gli altri. Ma a un livello ancora più profondo, troviamo di nuovo un fallimento — non della Grecia, ma dell’Europa stessa, dell’anima emancipatrice dell’eredità europea». Come ho scritto altre volte, evocare l’«anima emancipatrice dell’eredità europea» a partire dalla Società-Mondo del XXI secolo, nell’epoca del dominio capitalistico totalitario del pianeta mi sembra quantomeno anacronistico, diciamo. Certo è che, a differenza del celebre intellettuale, chi scrive non si sognerebbe mai di piagnucolare sulla democrazia (borghese!) tradita (al tavolo delle trattative tra il governo greco e i “poteri forti” del neoliberismo europeo e mondiale e nelle urne referendarie) e di perorare la causa di «un aumento della trasparenza democratica dei nostri meccanismi di potere». L’inganno democratico veicolato dal feticcio della «vera democrazia» (“dal basso”? “partecipata”? “trasparente”? “referendaria”?) lo lascio volentieri ai sostenitori del Capitalismo dal volto umano – o quantomeno umanamente più sostenibile: chi troppo vuole…

L’analisi offerta da Žižek della questione greca, che, forse non è ozioso ripeterlo, è parte organica della questione europea (con al centro l’”eterna” Questione Tedesca), è naturalmente informata da quel tipo di lettura ideologica (falsa, capovolta, concentrata più sul cattivo sogno degli «eurocrati» che sugli interessi capitalistici in gioco su scala nazionale, continentale e globale) della guerra sistemica oggi in corso nel Vecchio Continente nel contesto della più generale guerra sistemica che coinvolge l’intero pianeta e la cui posta in gioco è sempre la stessa: il potere globale (economico, militare, scientifico, ideologico) sul mondo. Bisogna certamente denunciare l’esercizio del potere politico nazionale e sovranazionale come si dà oggi («I nostri apparati di stato democraticamente eletti sono sempre più duplicati – di fatto sostituiti – da una spessa rete di “accordi” e di organismi “esperti” non eletti che detengono il reale potere economico – e militare»); ma non certo per gonfiare a nostra volta balle speculative intorno alla possibilità di «una vera democrazia», e così partecipare “dal basso” – o “da sinistra” – all’opera di mistificazione ideologica del potere sociale capitalistico. Ovviamente Žižek non può comprendere i termini di questo discorso, e non per mancanza di intelligenza, che ovviamente in lui abbonda fino a straripare, ma piuttosto per mancanza di autentica radicalità di pensiero critico, per il suo essere organicamente collocato in una dimensione (in una prospettiva) politico-concettuale borghese; è a partire da questa collocazione che egli costruisce i suoi concetti di “rivoluzione”, “reazione”, “lotta di classe” e così via. Ad esempio, per lui Syriza è quanto di più rivoluzionario oggi possa offrire il mercato politico europeo («L’eroismo di Syriza è stato che, dopo aver vinto la battaglia politica democratica, ha rischiato un passo ulteriore nell’andare a perturbare il fluido corso del Capitale»: nientemeno!), così come il No del referendum greco del 5 luglio è stato l’atto più sovversivo concepibile ai nostri cattivi tempi, un «grande atto etico-politico, un autentico gesto di libertà e di autonomia». Io ho rubricato quel referendum come classica scelta dell’albero a cui impiccarsi, almeno dal punto di vista delle classi subalterne, mentre dal punto di vista del «popolo greco» (ossia dalla prospettiva della continuità del dominio sociale in quel Paese capitalisticamente disastrato) sono possibili diverse interpretazioni, come quelle offerte ad esempio da Tsipras, da Varoufakis e dallo stesso Žižek.

A riprova della natura ultrareazionaria della concezione politica dello sloveno cito quanto segue: «Syriza dovrebbe flirtare senza vergogna con la Russia e con la Cina, giocando con l’idea di concedere un’isola alla Russia come base militare nel Mediterraneo, solo per provocare la strizza (scare the shit out) degli strateghi NATO. Per parafrasare Dostoevskij, ora che Dio-UE ha fallito, ogni cosa è permessa». Ogni cosa è permessa, scrive Žižek; salvo, a quanto pare, conquistare un punto di vista autenticamente rivoluzionario, anticapitalista e antimperialista “a 360 gradi”. «C’è poi riprovazione per il fatto che la Grecia cerchi l’aiuto di Russia e Cina – come se non fosse la stessa Europa a spingere la Grecia in quella direzione con la sua pressione umiliante». Egli si muove insomma dentro la logica della lotta politica interna agli interessi capitalistici, sul piano nazionale («L’auto-organizzazione di base non può rimpiazzare lo Stato, e la questione è come riorganizzare l’apparato dello Stato per farlo funzionare diversamente») come su quello internazionale.

Peraltro la posizione di Žižek sulla sponda “tattica” russo-cinese mi sembra un po’ in contraddizione con quanto da egli stesso affermato qualche mese fa in una intervista rilasciata alla rivista tedesca Der Spiegel: «Io sono convinto che abbiamo bisogno più che mai di Europa. Immaginate un mondo senza Europa: rimarrebbero due poli. Da un lato, gli Stati Uniti con il loro neoliberismo selvaggio; dall’altro, il cosiddetto capitalismo asiatico con le sue strutture politiche autoritarie. Al centro, la Russia di Putin che vuole costruire un impero. Senza l’Europa, perderemmo la parte più preziosa del nostro patrimonio, all’interno del quale la democrazia è un compromesso con la libertà d’azione collettiva, in caso contrario l’uguaglianza e la giustizia non sarebbero garantite». Il «coraggio della disperazione» fa brutti scherzi? Quantomeno fa sembrare meno brutte, sporche e cattive la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping.

«C’è poi», scrive ancora Žižek (che, almeno per adesso, non vuole dismettere i panni dell’avvocato d’ufficio di Tsipras), «chi sostiene che fenomeni come Syriza dimostrano come la tradizionale dicotomia destra/sinistra sia superata. Syriza in Grecia è considerata estrema sinistra e Marine le Pen in Francia estrema destra, ma questi due partiti hanno effettivamente molto in comune: entrambi lottano per la sovranità, contro le multinazionali». Ma ciò che accomuna entrambi i soggetti politici è in primo luogo la loro natura politico-sociale (borghese), e difatti sono entrambi soggetti al servizio degli interessi capitalistici – nazionali o sovranazionali poco importa dal punto di vista dei salariati, i quali prima si liberano del veleno nazionalistico comunque declinato (in modo destrorso o sinistrorso), e prima possono sperare di costruire una reale resistenza al Moloch capitalistico. «È perciò del tutto logico», continua il Nostro, «che nella stessa Grecia, Syriza si trovi in coalizione con un piccolo partito di destra pro-sovranità. Il 22 aprile 2015, François Hollande ha detto in TV che Marine le Pen oggi ricorda George Marchais (un leader comunista francese) negli anni ’70 – la stessa patriottica difesa della gente comune francese sfruttata dal capitale internazionale – non c’è meraviglia che Marine le Pen sostenga Syriza… una bizzarra posizione, questa, che non dice molto più del vecchio adagio liberale che anche il fascismo è un tipo di socialismo». Altro che bizzarria, come piace pensare al progressista “radicale” che forse avverte un qualche imbarazzo! Diciamo pure che il fascismo è un tipo di «socialismo di Stato» (quello sbeffeggiato a suo tempo dall’internazionalista di Treviri), nonché di stalinismo, il quale, sempre a giudizio modesto di chi scrive, rappresentò la negazione più assoluta di ogni speranza e di ogni prassi emancipatrici. E qui giungiamo al mio precedente post su Žižek.

Forse la disperazione andrebbe sostenuta da una più coraggiosa (cioè e dire davvero radicale) visione del mondo. Questa visione è forse già nella mia tasca? Magari! Diciamo che mi sforzo di conquistarla sulla base di quel poco che ho già “portato a casa” in termini di comprensione della vigenza del dominio sociale capitalistico e della possibilità, oggi sempre più negata, della liberazione universale. Mi piace chiamarlo punto di vista umano.

L’ECONOMIA E IL MONDO SECONDO YANIS VAROUFAKIS

shooty_greeceQualche giorno fa il Premier greco Alexis Tsipras ha detto che «potrebbe ricorrere ad un referendum popolare sulla permanenza della Grecia nell’area euro se i paesi creditori continueranno a fare richieste che il governo ritiene inaccettabili» (Reuters). Già lo scorso marzo, in una dichiarazione al Corriere della Sera poi da lui stesso smentita, il Ministro delle Finanze Yanis Varoufakis aveva adombrato questa possibilità. «Se la soluzione va oltre il nostro mandato, non avrò il diritto di violarlo, quindi la soluzione dovrà essere approvata dai greci”», ha detto Tsipras a Star tv. Della serie: Decidi tu, oh popolo sovrano, l’albero a cui desideri impiccarti. I funerali democratici del “popolo sovrano” saranno celebrati tra qualche mese? Difficile dirlo. Intanto il Premier greco conferma la sua «piena fiducia» al suo Ministro delle Finanze, il quale com’è noto gode di pessima reputazione tra i suoi colleghi europei. «Yanis Varoufakis è un grande asset per il governo greco», ha dichiarato l’altro ieri Tsipras nello stesso momento in cui provvedeva a “commissariarlo” mettendolo in regime di “amministrazione controllata”. Ma molti esperti di cose greche sostengono che si tratti dell’ennesima manfrina informata dalla “filosofia” del rinvio che sembra ispirare la leadership di Syriza: «Dobbiamo evitare il panico. Chi si spaventa in questo gioco perde» (Tsipras). E qui sembra affacciarsi la Teoria dei giochi che tanto affascina il reietto  – o spauracchio, o eroe: punti di vista – Ministro delle Finanze della malmessa Grecia.

Nel suo ultimo libro (dal titolo assai “materialista”: È l’economia che cambia il mondo, Rizzoli), il già evocato «marxista irregolare» cerca di spiegare alla figlia adolescente della compagna (la quale tanta invidia sociale sta suscitando fra i declassati ellenici) la genesi dell’attuale “bizzarra” distribuzione della ricchezza nel mondo e le cause strutturali della crisi che attanaglia soprattutto l’Occidente. Dalla invenzione dell’agricoltura nella Mezzaluna Fertile («poco meno di 12.000 anni fa») ai nostri giorni, passando per la Rivoluzione Industriale («che non fa che aumentare la concentrazione di potere e denaro in poche mani») e la Seconda Guerra mondiale («Quanto più rare erano le sigarette in relazione agli altri beni, tanto maggiore era il loro valore di scambio e quindi gli acquisti che consentivano di fare. Dopo ogni bombardamento il loro valore di scambio arrivava alle stelle»); dal primo accumulo di surplus alimentare agli albori della storia umana, all’attuale condizione che ci vede ballare «sull’orlo della catastrofe ecologica». Diciamo che l’affascinante marxista ha voluto approcciare la scottante questione sociale da una prospettiva storica di ampio respiro (forse seguendo anche le orme di Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond), e ciò non può che meritare da parte di chi scrive un plauso – per quel nulla che vale, si capisce.

Anche se, a onor del vero, l’inizio del breve saggio ricorda quell’approccio naturalistico-robinsoniano che a suo tempo Marx rimproverò all’economia politica borghese giunta nella sua fase volgare (“post-classica”). Un solo esempio: «Il mercato esisteva anche quando vivevamo sugli alberi, prima che comparisse l’agricoltura. Quando uno dei nostri progenitori offriva una banana chiedendo in cambio una mela, si realizzava una forma di scambio; uno scambio rudimentale, certo, in un cui il prezzo di una mela equivaleva a quello di una banana e viceversa». Per Varoufakis, quindi, qualsiasi forma di scambio di beni fra umani realizza ipso facto un mercato, ancorché primitivo, all’interno del quale si confrontano non solo beni diversi, ma anche prezzi diversi, e quindi merci diverse – perché il prezzo presuppone, oltre al valore d’uso, il valore di scambio, e questo a sua volta presuppone una certa “tipologia” di lavoro umano («quello che si manifesta in valori di scambio e non in meri valori d’uso», per dirla con l’autore del Capitale*), e via di seguito; presuppone, insomma, un lungo processo storico-sociale che per venir condensato in poche righe ha bisogno di una grande padronanza della materia da parte di chi si cimenta nella benemerita quanto ardua impresa.

«Ho sempre pensato che, se non riesci a spiegare le grandi questioni economiche in un linguaggio comprensibile anche agli adolescenti, vuol dire semplicemente che non le hai capite». Ma la comprensibilità del linguaggio non deve darsi a spese della verità.  Ed è proprio questo il punto da chiarire: qual è la verità del Capitalismo secondo Varoufakis? Il lettore che la sa più lunga di chi scrive quanto a materialismo storico potrebbe a questo punto potrebbe rispondere che la prassi governativa del Greco, tutta spesa sull’altare degli interessi nazionali del suo Paese, ci fornisce la risposta più veritiera; e avrebbe ragione. Ciò però non ci impedisce di svolgere qualche altra riflessione.

Il pensiero economico borghese non può non considerare le venerabili categorie economiche sub specie aeternitatis. L’autore dice di voler usare «un linguaggio comprensibile anche agli adolescenti», e questo gli fa certamente onore; ma qui non si opina sulla forma, ma sulla sostanza dei concetti che si intendono comunicare. Il limite della semplificazione, superato il quale si scade nella piatta volgarizzazione, è la verità storica e sociale dei concetti che usiamo per comunicare idee di una certa complessità.  Portare il mercato e il prezzo sugli alberi dei nostri ancora troppo pelosi progenitori mi sembra un tantino eccessivo. «Non so se l’hai notato, ma nella società in cui viviamo c’è la tendenza a identificare i beni con le merci», osserva giustamente Varoufakis; salvo poi collaborare egli stesso alla maligna tendenza! Caro Yanis (mi sia consentita questa confidenza), portare il prezzo sugli alberi non ci aiuta a svelare «il rapporto sociale nascosto sotto il velo delle cose» (Marx).

Forse il marxista greco intende comunicare agli adolescenti e agli adulti che il problema non sta tanto nel mercato, nella forma-prezzo, nel denaro e via di seguito, ma nell’uso che l’uomo del XXI secolo fa di questi strumenti, i quali dovrebbero servirlo, anziché asservirlo, come non smette di ricordarci il Santissimo Padre, ultima parola del progressismo mondiale. E l’errore teorico di fondo, come ho altre volte scritto scopiazzando malamente il Vangelo marxiano, sta proprio qui, ossia nel credere, feticisticamente, che con il mercato, con il prezzo, con il denaro ecc. abbiamo a che fare con delle mere tecnologie economiche socialmente neutre, le quali possono essere usate in vista del bene come in vista del male: toccherebbe a noi decidere verso quale direzione piegarne l’uso. Invece le categorie economiche qui brevemente considerate esprimono in primo luogo una peculiare formazione storico-sociale: quella capitalistica, appunto.

Alcune perle di saggezza tratte sempre dal libro qui preso di mira: «Noi umani ci siamo ridotti a essere servi, anzi schiavi, di mercati impersonali e disumani» (e via con le consuete citazioni letterarie e cinematografiche: dal Frankenstein di Mary Shelley, «allegoria della tendenza delle società di mercato a utilizzare la tecnologia per renderci schiavi», all’Iliade, dall’amatissimo Matrix, «l’evoluzione estrema di ciò che pensava il più conosciuto rivoluzionario del XIX secolo, Karl Marx», a Tempi moderni, da Blade Runner a Terminator); «L’Europa ha smarrito la sua anima. Abbiamo prestato più attenzione alla finanza che alla democrazia» (come se «l’anima» dell’Europa fosse stata, nell’ultimo secolo e mezzo, la democrazia – borghese – e non invece il Capitale!**); «È incredibile la facilità con cui tendiamo a considerare “logica”, ”naturale” e “giusta” la distribuzione della ricchezza, specialmente se ci favorisce. Non cedere mai alla tentazione di accettare una spiegazione logica per le disuguaglianze che finora, da ragazza che sei, hai ritenuto inaccettabili». Insomma, rifiutiamo la pillola azzurra che ci offrono i “poteri forti” e ingoiamo la pillola rossa del «pensiero critico» che ci aiuta a «non accettare mai nulla solo perché ti hanno detto di farlo». Come si fa a non essere d’accordo con quest’ultimo consiglio: bravo Yanis! A me la pillola rossa, presto! Altro che «incompetente, dilettante, perditempo e venditore di fumo», come dicono di te i tuoi colleghi ministri dell’Unione Europea a trazione tedesca! È tutta invidia, eroico Yanis, non mollare! Wolfgang Schaeuble chi molla!

Un solo appunto: da marxista – ancorché cool ed erratico – quale indubbiamente sei non dovresti concentrarti soprattutto sulla ricchezza sociale in quanto tale, ossia nella sua vigente forma capitalistica, anziché martellare ossessivamente sulla sua distribuzione (la quale, come sai meglio di me, è necessariamente e indissolubilmente connessa al rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che rende possibile la creazione di quella ricchezza storicamente determinata)?  Non dovresti tentare di spiegare, sempre nella tua qualità di marxista e con il linguaggio semplice che padroneggi a meraviglia, quanto avviene nella sfera della circolazione a partire dalle contraddizioni che minano sempre di nuovo la salute dell’accumulazione capitalistica (vedi alla voce Le alterne vicende del saggio del profitto), e che, ad esempio, sollecitano la moltiplicazione delle attività speculative e l’espansione parossistica del credito così da forzare sempre di nuovo i limiti della «domanda in grado di pagare» (si spera!)? Non dovresti insomma, far capire, servendoti della fenomenologia del dominio capitalistico (diseguaglianze, inquinamento, razzismo ecc.), che il problema risiede nell’essenza capitalistica della cosa che cerchiamo di padroneggiare con la testa, e non tanto – non solo – sulle contraddizioni immanenti alla cosa stessa?

Mi scuso per il “tu” e per le antipatiche domande, le quali probabilmente sorvolano sull’eccellente intenzione dell’autore di rendere accessibile la «merda economica» anche agli adolescenti. Fatta la doverosa autocritica, ripristino la distanza.

Come usciamo dalla disumanità dei “mercati”? È presto detto: occorre rifiutare «la menzogna e l’inganno in cui vivono tutti coloro che credono a quel che dicono i manuali degli economisti, gli analisti “seri”, la Commissione europea, i pubblicitari di successo». Nel mio infinitamente piccolo, io aggiungerei alla lista delle menzogne e degli inganni i luoghi comuni venduti a prezzi stracciati (siamo anche in deflazione ideologica!) alle classi subalterne da chi intende salvare il Capitalismo da se stesso (voglio «consentire al lettore di vedere la crisi con occhi diversi e di capire le vere ragioni per cui i governi si rifiutano caparbiamente di prendere le decisioni che porterebbero alla liberazione delle nostre società, in Europa, in Grecia e in tutto il mondo»: ma liberazione da cosa?), attraverso robuste (e dolorose?) iniezioni di “economia reale”, di statalismo e di egualitarismo («le banche sono parassitarie per antonomasia mentre lo Stato ha il ruolo indispensabile di stabilizzatore»), e magari invita il “popolo sovrano” a «scegliere democraticamente» fra la padella e la brace, fra la moneta unica europea e la divisa nazionale, fra la Germania e la Russia, fra europeismo e nazionalismo, fra i sacrifici declinati “da destra” e i sacrifici declinati “da sinistra”, e via di seguito con le odiose alternative del Dominio che siamo costretti a sorbirci dalla mattina alla sera.

Quando la disuguaglianza mette a rischio il nostro futuro: così recita il sottotitolo del libro di Varoufakis. Se non capiamo che è la stessa radice della disuguaglianza che va recisa una volta per tutte ho l’impressione che per l’uomo in quanto uomo, che per quella vita autenticamente umana che anche l’autore dice di volere non ci sia alcun futuro.

«Tutto il giorno ci affanniamo per ottenere cose che in realtà neanche vogliamo e di cui non abbiamo bisogno, solo perché la Matrix del marketing e della pubblicità è riuscita a proiettarle nelle nostre teste». Non so perché, ma considerata in alcuni contesti concettuali la parola testa evoca in me l’esperienza giacobina. Certo, mutatis mutandis. E difatti, finisco questo post abbozzando la seguente ( e abbastanza stiracchiata, lo ammetto) “utopia negativa”: non avendo trovato, dopo aver lungamente cercato, «la Matrix del marketing e della pubblicità», alcuni Sapienti pensarono che fosse venuto il momento di prendere in seria considerazione l’idea di mondare in qualche modo le teste più compromesse con il Male – leggi: con il Finanzcapitalismo globalizzato. Naturalmente questa confessata forzatura non intende in alcun modo riferirsi al nostro amico greco, sulla cui bontà d’animo sono pronto a giurare; essa vuole piuttosto suggerire al lettore l’idea che una radicalità mal concepita non raramente indirizza la teoria e la prassi su sentieri molto scivolosi. Diciamo così. Per adesso metto un punto, ripromettendomi di ritornare in modo più puntuale e argomentato sul libro di Varoufakis, di cui ho letto solo alcune pagine accessibili sul Web.

Finisco con un’ultima suggestione, a proposito di teste da redimere (magari usando un’accetta bene affilata) e di fondamentalismo mercatista. Da qualche parte ho letto: «L’Islam non permette l’uscita del fedele dalla comunità dei credenti». Il Capitalismo pure.

* «Il prezzo è l’espressione monetaria del valore relativo di un prodotto», ma d’altra parte «La moneta non è una cosa, è un rapporto sociale» (K. Marx, Miseria della filosofia, pp. 119-149, Opere, VI, Editori Riuniti, 1973).

** A questa scuola di pensiero “diversamente europeista” appartiene anche Slavoj Žižek (e Toni Negri?), il quale in una interessante intervista rilasciata a Der Spiegel il 14 marzo si è definito un «Esponente dell’estrema sinistra eurocentrica». Cerchiamo di capire meglio il senso di questa “scandalosa” autorappresentazione: «Io sono convinto che abbiamo bisogno più che mai di Europa. Immaginate un mondo senza Europa: rimarrebbero due poli. Da un lato, gli Stati Uniti con il loro neoliberismo selvaggio; dall’altro, il cosiddetto capitalismo asiatico con le sue strutture politiche autoritarie. Al centro, la Russia di Putin che vuole costruire un impero. Senza l’Europa, perderemmo la parte più preziosa del nostro patrimonio». Sarebbe a dire? «L’eredità dell’illuminismo»: «La Cina, Singapore, India e – più vicino a casa nostra – la Turchia non fanno ben sperare per il futuro. Io credo che il capitalismo moderno si è evoluto in una direzione in cui funziona meglio senza istruiti democratici. L’aumento negli ultimi dieci anni del cosiddetto capitalismo con i valori asiatici solleva in ogni caso dubbi e domande: che cosa succede se è il capitalismo autoritario sul modello cinese, e non la democrazia liberale, come la intendiamo noi, a guidare lo sviluppo economico? […] Molti mi considerano come un pazzo marxista, in attesa della fina dei tempi. Posso essere molto eccentrico, ma non sono un pazzo. Sono un comunista in mancanza di meglio, disperato per lo stato dell’Europa. Un anno e mezzo fa ero in Corea del Sud e ho tenuto conferenze sulla crisi del capitalismo globale, il solito blah, blah, blah, insomma. Il pubblico si mise a ridere e alcuni mi interruppero: “Di cosa stai parlando? Guarda noi (Cina, Corea del Sud, Singapore, Vietnam): proponiamo una economia che va abbastanza bene. Allora, chi è in crisi? Distingui! La tua Europa occidentale è in crisi, più precisamente, alcune regioni di essa”. C’è una parte di verità in questa reazione. Perché noi europei viviamo la nostra situazione come una crisi in piena regola? Credo perché riteniamo che in crisi non è solo il capitalismo, ma il futuro della nostra democrazia occidentale. All’orizzonte, qualcosa di oscuro si forma, le prime tempeste di vento ci hanno già raggiunto. Mentre non sono uno dei migliori amici di Jürgen Habermas, su questo punto sono pienamente d’accordo con lui. Dovremmo essere più sensibili che mai sulla necessità di difendere il progetto dell’Illuminismo europeo. Solo con esso è possibile immaginare i contorni del cambiamento, rendere fattibile questo cambiamento».

Ora, ha ancora un significato, anche solo di carattere residuale, difendere «l’eredità dell’Illuminismo» nell’epoca del dominio totalitario del Capitale su tutti e su tutto? E se sì, in quali termini e in vista di che cosa? E soprattutto: chi deve difendere il «progetto dell’Illuminismo»: le “avanguardie rivoluzionarie”? il proletariato? la “moltitudine”? gli intellettuali? le Università occidentali? gli Stati europei (in competizione sistemica col resto del mondo)? le istituzioni sovranazionali europee? Chi? Secondo Žižek «La responsabilità di numerosi insuccessi dell’Europa ricade sull’inerzia del continente». Si tratta di capire di quale Europa si parla e in che termini dovremmo reagire alla «nostra inerzia». Spero di poter tornare presto anche su questo importante e complesso tema, le cui scottanti implicazioni politiche certo non sfuggono al lettore di questo blog.

Aggiunta del 5 maggio

Ho letto il libro di Yanis Varoufakis qui criticato, e debbo dire in tutta onestà (intellettuale!) che il giudizio formulato nel post sulla scorta di poche pagine di quel saggio ne esce confermato e rafforzato. L’idea che mi sono fatta è questa: l’autore, che si sforza di spiegare con un linguaggio semplice e accattivante la genesi del moderno Capitalismo (ribadisco: intenzione assai pregevole), vuole il mercato ma non il mercato capitalistico “selvaggio”, vuole il capitale ma non i capitalisti spregiudicati e “irresponsabili”, vuole il sistema bancario ma non i banchieri, vuole il denaro ma non le “magagne” economiche, sociali ed esistenziali che esso necessariamente genera sempre di nuovo. Lo so, state pensando alla dottrina dei lati (buoni/cattivi) criticata a suo tempo da Marx: «Il movimento dialettico proprio di Proudhon è la distinzione dogmatica del bene e del male. […] Siamo ormai al punto che il lato buono di un rapporto economico è sempre quello che afferma l’eguaglianza; il lato cattivo è quello che la nega e che afferma l’ineguaglianza. […] I filantropi vogliono insomma conservare le categorie che esprimono i rapporti borghesi, senza l’antagonismo che li costituisce e che ne è inseparabile. Essi credono di combattere sul serio la prassi borghese e sono più borghesi degli altri» (Miseria della filosofia, pp. 175-181-185).

Anche per quanto riguarda l’impianto “filosofico” che ispira È l’economia che cambia il mondo credo che le mie intuizioni escano confermate: si tratta di un illuminismo di stampo “giacobino” che forse merita il noto detto: la prima volta come tragedia, la seconda

Ecco alcuni passi tratti dal libro:

«Il sistema bancario, ossia la radice del male». […] Di norma, lo Stato dovrebbe salvare le banche (in effetti, è molto importante che non chiudano, perché non si perdano i depositi dei cittadini e non crolli il sistema dei pagamenti, che costituisce il nerbo del sistema circolatorio dell’economia), ma non i banchieri. La cosa giusta da fare sarebbe mandarli a casa, risanare le banche e, dopo, se lo Stato non desidera tenerle, rivenderle a nuovi proprietari, i quali però devono sapere che, nel caso in cui provocassero una nuova bancarotta, le perderebbero. Purtroppo, la maggior parte delle volte i politici che salvano le banche salvano anche i banchieri… con denaro che viene sottratto ai cittadini più poveri. In cambio di questo trattamento amichevole, i banchieri ne finanziano le campagne elettorali. Il risultato è una relazione un po’ troppo “intima” tra politici e banchieri. […] La ragione per cui il denaro non può che essere politico, e la sua quantità non può che essere manovrata da qualche autorità statale, è che solo in questo modo può esistere una flebile speranza (nessuna certezza, certo) di trovare una rotta che eviti da un lato la Scilla delle bolle del debito e dello sviluppo non sostenibile e, dall’altro, la Cariddi della deflazione e della crisi. E dal momento che gli inevitabili interventi sul denaro pubblico sono per definizione politici (visto che influenzano diversi settori e classi sociali), la nostra unica speranza per una gestione «sopportabile» del denaro è il suo controllo democratico da parte di coloro che lo gestiscono per conto della società».

Prima Varoufakis aveva scritto: «In parole povere: senza la violenza dello Stato l’esistenza stessa del guadagno privato e dell’economia di mercato sarebbe stata impossibile». Non c’è dubbio, e nel capitolo 24 del libro primo del Capitale (La cosiddetta sacculazione originaria) Marx ha ben illustrato il ruolo che la violenza dello Stato ebbe nella genesi del moderno Capitalismo. Ma la cosa è nel frattempo radicalmente mutata? Qual è la funzione dello Stato nel Capitalismo del XXI secolo?

«La verità è che noi umani siamo diventati schiavi delle macchine che abbiamo inventato perché fossero a nostra disposizione. La verità è che, invece di essere i mercati a servirci, ci siamo ridotti a essere servi, anzi schiavi di mercati impersonali e disumani». Di qui, l’urgenza di lottare per mercati con caratteristiche umane. Scherzo!

C’è da dire che Varoufakis non parla mai di capitalisti (nel senso marxiano di detentori di capitali), ma piuttosto di «imprenditori», di «potenti» di «ricchi» (forse per non spaventare gli adolescenti…): «La ricchezza veniva prodotta collettivamente (dai lavoratori, dagli inventori, dai funzionari pubblici e dagli imprenditori)  ma si concentrava solo nelle loro mani», nelle mani appunto dei «potenti, e in particolare dei banchieri». Egli non smette mai di sottolineare il «forte cinismo da parte dei padroni del denaro privato, i banchieri», i quali sono «gli astuti avvoltoi del sistema finanziario». Insomma, la punta della sua critica è sempre puntata contro i detentori privati del capitale finanziario, e non contro il Capitale (considerato nelle sue diverse fenomenologie: merce, denaro, tecnologia, salario) come rapporto sociale – di dominio e di sfruttamento. E questo in piena armonia con la filosofia ultrareazionaria dei ceti produttivi cara anche ai “comunisti” italiani da Togliatti in poi. Miseria di quella filosofia!

RIFLESSIONI SUI NOTI FATTI PARIGINI

federrico2Il mondo islamico non ha conosciuto la rivoluzione borghese di tipo occidentale (dalla rivoluzione olandese a quella inglese, da quella americana a quella francese, dal Risorgimento tedesco a quello italiano), ed è precisamente questo il suo più radicale e cattivo vizio d’origine che tocca ogni aspetto della vita sociale dei Paesi che ne fanno parte. L’Islam, al contrario del cristianesimo, non è stato attraversato dalla Ragione, e questo punto Benedetto XVI, il Papa teologo tanto bistrattato e incompreso dal progressismo mondiale, lo aveva colto bene, ad esempio nella famigerata Lezione Magistrale tenuta all’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006. Quel mondo non baciato dai Lumi sta ancora facendo i conti con questo cattivo retaggio storico e culturale, e anche l’Occidente ne paga le conseguenze, perché non solo esso non ha saputo o voluto favorire lo sviluppo della modernità nelle terre di Allah e di Maometto, ma ha fatto di tutto per renderle facili prede del fondamentalismo più retrivo e violento.

È, questa, una tesi che nei salotti buoni della cultura europea ha riscosso molto successo in questi tormentati e luttuosi giorni di dibattito intorno ai cosiddetti “valori repubblicani” e alla Civiltà Occidentale.  Se posta nei termini corretti, vale a dire storico-dialettici, la tesi sopra esposta può anche offrire interessanti spunti di riflessione. Rimane da capire fino a che punto ha senso, al di là della strumentalità politico-ideologica certamente non posta al servizio della verità, continuare a parlare in modo astratto e astorico di Occidente, di Civiltà Occidentale.

Qui però non intendo entrare nel merito di queste importanti e scottanti ”problematiche”, e la citazione che segue vale solo a fissare una traccia magari da riprendere e seguire in un altro post: «La dottrina economica dell’Islam espressa nel Corano e nella Sonna, mostra come essa non condannasse in linea di principio e non ostacolasse in pratica lo sviluppo di quello che in queste pagine è stato chiamato settore capitalistico dell’economia […] Weber ritiene che l’Europa abbia generato il capitalismo moderno in quanto provvista, più di ogni altra area di civiltà, di spirito razionalistico. Ma gli esempi che fornisce di tale razionalismo europeo sono per lo più posteriori all’età del decisivo impegno dell’Europa sulla via del capitalismo moderno […] Il Corano è un libro sacro in cui la razionalità occupa un posto notevole, importante» (M. Rodinson, Islam e capitalismo,  pp. 98-100, Einaudi, 1968 ). Questo anche per ribadire il concetto secondo cui la religione, da sola, presa in sé, per così dire, non spiega praticamente nulla del mondo che a essa dice – e pensa, il più delle volte in ottima fede – di ispirarsi.

Lucia Annunziata, ospite qualche giorno fa in un salotto televisivo, su questo punto non avrebbe potuto essere più chiara: «Siamo di fronte a un conflitto che coinvolge soprattutto Arabia Saudita e i suoi alleati, da una parte, e l’Iran e i suoi alleati dall’altra. Questi Paesi si contendono la supremazia in Medio Oriente. La religione non c’entra niente. Io sono laica e non intendo mischiarmi in questioni che riguardano la religione». La religione non spiega il conflitto ma è messa al servizio del conflitto, ossia al servizio di interessi economici, politici e geopolitici ben precisi. Dire, ad esempio, che l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita si combattono a causa della loro differente interpretazione del Corano e della Sonna significa non capire nulla di storia, di politica e di geopolitica. La stessa cosa vale se volgiamo lo sguardo alla Libia, alla Nigeria, al Mali, all’Algeria e via di seguito: ovunque Allah e il suo Profeta preferito vengono messi al servizio di interessi di vario genere. Interessi tutti rigorosamente ostili a ogni cosa che odori di umano. Se Maometto potesse parlare, probabilmente direbbe: «Io non sono maomettano». Cosa che deluderebbe alquanto Giuliano Ferrara e gli altri teorici dello scontro tra le civiltà.  «Nel 2011 ho dichiarato che l’Islam è la religione più stupida del mondo. Ho riletto con attenzione il Corano, e una sua lettura onesta non ne conclude affatto che bisogna andare ad ammazzare i bambini ebrei. Proprio per niente»: è quanto dichiara oggi Michel Houellebecq, celebrato autore di Sottomissione – arrendersi a Dio, darsi interamente a Lui: da questa idea ha origine la parola islām. Insomma, c’è sempre tempo per studiare con onestà intellettuale, se non proprio con spirito critico, la millenaria prassi sociale umana attraverso i documenti e le testimonianze di vario genere sedimentatisi nel corso del tempo.

A proposito di interessi capitalistici e di strategia geopolitica con “caratteristiche islamiche”, non sottovalutiamo l’attivismo della Turchia di Erdogan, la quale sta recitando molte parti in commedia, suscitando crescenti perplessità e timori negli Stati Uniti, in Europa e in Israele. Ma ritorniamo alla tesi illuminista.

Ora, a me pare che di una religione attraversata dalla Ragione gli arrabbiati (non importa adesso stabilire se essi sono pochi o molti) che vivono nelle periferie del mondo e che intendono reagire a un assetto sociale che avvertono come ostile, non sanno che farsene. Essi cercano un’idea che entri in sintonia con il loro disagio esistenziale e che li confermi nel loro odio. Sballottati (come tutti, a partire da chi scrive, beninteso) nel grande e micidiale frullatore del processo sociale, essi sono alla ricerca di qualcosa o di qualcuno che dia una certa risposta alle domande radicate nel loro malessere. Come reagire alla nausea esistenziale, come trasformare la disperazione in qualcosa di comprensibile e gestibile? C’è chi grida: «Fermate il frullatore, mi vien da vomitare!». Ma dal frullatore non si può scendere, almeno da vivi. Questa è la semplice e dura verità, la quale si accanisce soprattutto contro chi la nega. Tutti noi ogni giorno facciamo i conti con questa disumana condizione, il più delle volte senza averne la minima contezza, tanta è la nostra abitudine al disagio. E la soglia del dolore generato da questo disagio non smette di alzarsi, né la sua fenomenologia di moltiplicarsi. Ecco perché personalmente non mi sorprendo mai dinanzi agli episodi di «inaudita violenza» che hanno come protagonisti mariti, fidanzati, mogli, figli, ex integerrimi cittadini, disumanità varia pronta ad arruolarsi in qualsiasi causa che le offra l’opportunità di “fare qualcosa di concreto” contro il meccanismo che tutto e tutti stritola. Come disse una volta Max Horkheimer, «Sotto il dominio totalitario del male gli uomini possono mantenere solo per caso non solo la loro vita, ma anche il loro io». Su questo aspetto del problema rimando al post Sbadigliare, vomitare o mozzare teste?

Se, per ipotesi, i Misericordiosi di Allah di seconda o terza generazione pronti, qui e ora, alla Jihad in Occidente scoprissero improvvisamente, per una sorta di miracolo illuminista, che il Corano afferma esattamente il contrario di quanto essi pensano, predicano e vogliono, molti di essi sicuramente se ne sbarazzerebbero subito, e andrebbero alla ricerca di uno strumento ideologico adeguato alla bisogna. Questo per dire, in modo abbastanza sbrigativo, ne sono cosciente, che il problema del cosiddetto radicalismo islamico non sta in una lettura errata del Corano, quanto piuttosto nelle cause sociali (leggi pure esistenziali) che mettono in moto certi meccanismi reattivi.

Gli intellettuali progressisti si stupiscono nell’osservare che anche dopo la strage del 7 gennaio molti giovani delle banlieue non intendono affatto solidarizzare con i tanto decantati  «valori repubblicani» né prendere chiaramente le distanze da una «falsa [sic!] religione»: «Perché tanta ottusità?». Gli “illuministi” attivi nel XXI secolo non riescono a capire perché questi giovani vanno alla ricerca di una pistola, di un bastone, di un qualsiasi corpo contundente (anche ideale), e non della “verità”. E poi, signori, di quale “verità” stiamo parlando? È presto detto: della verità borghese fatta passare, oggi come ieri e come sempre, in guisa di valore universale. Dopo la tragedia (o dialettica) dell’Illuminismo nell’epoca rivoluzionaria della borghesia, eccoci apparecchiata dagli amici di Voltaire, nonché sostenitori dei sacri valori del 1789, la farsa di un universalismo chiamato a celare la realtà del dominio di classe, per sovramercato a partire da eventi che si sono prodotti in una delle storiche metropoli del capitalismo, del colonialismo e dell’imperialismo. Cianciare di liberté, égalité, fraternité e di diritti inalienabili dell’uomo nell’epoca del dominio totalitario e mondiale del Capitale sulla natura e sugli uomini si configura ai miei occhi come una tragica farsa, la quale illumina a giorno una vecchia tesi marxiana, il cui radicale significato continua a essere sottovalutato anche da molti cosiddetti epigoni (soprattutto da quelli che da mattina a sera cianciano di “pensiero unico neoliberale” dal pulpito a loro gentilmente offerto dai massmedia mainstream): l’ideologia dominante in una data epoca storica è quella delle classi dominanti. Ecco perché, a differenza di Toni Negri, il cui ottimismo della rivoluzione è davvero inesauribile, non sono così sicuro che l’oceanica manifestazione parigina dell’11 gennaio rappresenti un passo avanti in termini di maturazione di un pensiero, non dico anticapitalista, ma appena appena critico dello status quo sociale vigente.

Né mi conquista la tesi di Slavoj Žižek (La Repubblica, 9 gennaio 2015) secondo cui il liberalismo, che genera sempre di nuovo il fondamentalismo (come «reazione falsa e mistificatrice, naturalmente»), «necessita dell’aiuto fraterno della sinistra radicale», se vuole continuare a sopravvivere come una «tradizione fondamentale». Infatti, la «sinistra radicale» di cui parla l’intellettuale sloveno è parte organica del vigente ordine sociale, il quale si configurerebbe come capitalistico (con annesse contraddizioni sociali che assumono, nei momenti di più acuta crisi sociale, la forma del razzismo, dell’antisemitismo, del nazionalismo, ecc.) anche nel caso in cui quella costellazione politica andasse al governo: vedi Syriza in Grecia e Podemos in Spagna, movimenti politici non a caso sponsorizzati (“tatticamente”, si capisce) anche da Toni Negri. Nel XXI secolo il liberalismo andrebbe sottoposto a una spietata critica teorica e pratica da parte delle classi dominate (altro che «aiuto fraterno!»), le quali purtroppo continuano a simpatizzare per le ideologie poste al servizio della conservazione sociale: non importa se a partire da una prospettiva di “destra” o di “sinistra”, laica o religiosa, populista  o “responsabile”. Ce n’è per tutti i gusti e per tutte le situazioni.

Ma ritorniamo, per concludere, agli arrabbiati delle periferie del mondo – qui detto anche come metafora. Quale ideologia in grado di soddisfare il loro impellente bisogno di fare i conti con una società che li ha profondamente delusi (non tutti possono diventare ricchi e famosi come i campioni del football e le celebrità del mondo dello spettacolo, rapper e fotomodelli su tutti), e che li tiene confinati ai livelli più bassi della gerarchia sociale trovano essi sulla loro strada? Purtroppo la «coscienza di classe», nell’accezione marxiana del concetto, non è cosa che sorga spontaneamente dalle condizioni di vita dei dominati e degli offesi, e questo è un fatto, confermato molte volte dal processo storico (vedi alla voce fascismo, nazismo, populismo rooseveltiano, ecc.), che interroga in modo pressante l’autentico militante anticapitalista. E ciò è tanto più vero, da quando lo stalinismo internazionale ha squalificato agli occhi dei nullatenenti l’idea stessa di una reale alternativa alla società capitalistica: «Se questo è il famoso socialismo, meglio allora tenersi il capitalismo». Battersi per far comprendere a quante più persone possibile che il «famoso socialismo» non aveva nulla a che fare con il socialismo, finora non ha prodotto effetti visibili, né a onor del vero l’impresa è mai apparsa di facile momento a chi ha voluto tentarla ormai diversi lustri fa.

Qualche giorno fa dalla televisione Carlo Freccero se la prendeva con il maledetto (non per chi scrive!) 1989: «Prima della caduta del Muro quei giovani potevano rivolgersi ai partiti di sinistra: dopo hanno trovato il vuoto, il nulla». E siccome la politica e l’ideologia hanno orrore del vuoto, ecco che l’Islam radicale è diventato per molti giovani immigrati di seconda generazione la sola risposta possibile al loro disagio sociale, alla loro domanda di senso e di speranza. Giusto! E difatti nel post pubblicato l’8 gennaio a proposito della strage che si è consumata nella redazione parigina del giornale satirico Charlie Hebdo scrivevo appunto, come ricordavo sopra, che «la religione non spiega un bel nulla». L’alternativa sembra dunque porsi nei termini che seguono: o il giovane ribelle di seconda e terza generazione (vale sempre la metafora di cui sopra) mangia la minestra del liberalismo, magari attraversato dai valori difesi dalla «sinistra radicale» (e qui già sento il Profeta di Treviri gridare come un ossesso: «Io non sono marxista!»), oppure abbraccia il Corano e, già che c’è, il fucile a pompa di ultima generazione. Cercasi “terza via”, disperatamente! Appendice

federico 1VERSETTI MARXIANI

A proposito di religione, valori repubblicani e Civiltà Occidentale

La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi.

Cristiana è la democrazia politica, in quanto in essa l’uomo – non un uomo ma ogni uomo – vale come un essere sovrano, altissimo; ma l’uomo nella sua esistenza incivile, anti-sociale, è l’uomo nella sua esistenza accidentale, l’uomo qual è, l’uomo com’è guastato, come si è perduto, sformato attraverso tutta l’organizzazione della nostra società; come si è ridotto sotto l’impero di rapporti ed elementi non umani: in una parola, l’uomo che non è ancora un essere umano.

La forma repubblicana del dominio borghese aveva rivelato che in paesi di vecchia civiltà e con una avanzata struttura di classe, con condizioni di produzione moderne e una coscienza spirituale in cui tutte le idee tradizionali sono state dissolte da un lavoro secolare, la repubblica borghese significa dispotismo assoluto di una classe su altre classi.

La repubblica costituzionale è la forma più solida e più completa del dominio di classe borghese.

La loro repubblica aveva un solo merito, quello di essere la serra della rivoluzione per l’abolizione delle differenze di classe in generale, di tutti i rapporti di produzione su cui esse riposano, per l’abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste relazioni sociali.

La civiltà e la giustizia dell’ordine borghese si mostrano nella loro luce sinistra ogni volta che gli schiavi e gli sfruttati di quest’ordine insorgono contro i loro padroni. Allora questa civiltà e questa giustizia si svelano come nuda barbarie e vendetta ex lege.

LE CAUSE PERSE DI SLAVOJ ŽIŽEK

1201-203834-chetempochefa-620x350Solo ieri ho avuto modo di vedere su YouTube la brillante performance di Slavoj Žižek a Che tempo che fa di domenica. Non avevo mai visto all’opera l’intellettuale sloveno e la curiosità andava perciò soddisfatta. Tanto più dopo che avevo letto un post stile rosico, ergo sum di Diego Fusaro pescato per caso sul web, grazie al quale peraltro sono venuto a conoscenza del fatto mediatico in questione.

Dico subito che le mie aspettative su Žižek come intrattenitore del pubblico colto non sono state deluse: trattasi di un comunicatore televisivo davvero bravo (certo, si tratta poi di vedere che cosa comunica), un ottimo e simpaticissimo showman, non c’è che dire. Un simpaticone, oltretutto. Almeno per chi scrive, si capisce. Il suo gesticolare ha qualcosa di ipnotico, e il suo fissare la camera a favore del pubblico televisivo, infischiandosene platealmente dell’interlocutore che ha dinnanzi, la dice lunga sulla sua padronanza del mezzo mediatico e sulla sua intenzione: «Cerco di far svegliare la gente» .

Per il resto, a cominciare dalle sue insulsaggini sul “comunismo”, ho avuto più che altro delle conferme.

«Cominciamo dal titolo», esordisce l’insipido Fabio Fazio (che forse legge un testo già confezionato): «Quali sono per lei le cause perse?». Žižek risponde immediatamente e senza alcuna esitazione: «Il comunismo». Risposta secca, quasi lapidaria. «Cosa intende per comunismo?», chiede il “bravo conduttore”, che ovviamente conosceva in anticipo la risposta. «Bella domanda, bellissima davvero», riprende il “marxista più pop del pianeta”, almeno secondo le definizioni che di lui danno i massmedia: «Naturalmente non ho nessun tipo di nostalgia per il comunismo del XX secolo. Sono il primo ad ammettere che l’intera esperienza sovietico-stalinista è terminata con un pazzesco fiasco economico e politico. Ma dico che è sbagliato mettere sullo stesso piano il fascismo e il comunismo. Non nel senso che il comunismo sia stato meglio, anzi ci sono stati più morti nei paesi comunisti che in quelli fascisti. Il comunismo è un grande progetto emancipativo che però è andato davvero malissimo. Allora perché dirsi ancora comunisti? Perché la società liberale occidentale non può risolvere i problemi che ci riguardano tutti: da quelli ecologici a quelli legati alla biotecnologia, alla proprietà intellettuale, ecc. La storia non è finita, come sosteneva Francis Fukuyama».

Nonostante tutta la sua profondità filosofica e la sua maestria dialettica, Žižek continua dunque a non capire l’essenza capitalistica dello stalinismo, nonché del maoismo, del titoismo, del togliattismo e via continuando con le tantissime varianti nazionali dello stalinismo che il mondo ha avuto la sventura di conoscere nel secolo cosiddetto breve. Questo fa di lui un venditore di successo della merce chiamata “comunismo”: di qui l’invidia di un altro filosofo “hegelo-marxista”, Diego Fusaro, appunto, che naturalmente non rimprovera allo Sloveno il suo completo travisamento della storia del «socialismo reale», con relativo sputtanamento dell’autentico comunismo. Non può, visto che anche l’Italiano mastica la stessa putrida mercanzia politico-ideologica di matrice stalinista.

images«Oggi», scrive Fusaro contro gli intellettuali alla moda che, come Žižek, «rappresentano la glorificazione ideale del sistema dominante: una glorificazione ancora più efficace – perché dissimulata»; «oggi le sole idee veramente “pericolose”, cioè incompatibili con lo Zeitgeist postborghese e ultracapitalista, coincidono con il recupero integrale della sovranità nazionale (economica, politica, culturale, militare) come passaggio necessario per la creazione dell’universalismo dell’emancipazione (contro il criminale incubo eurocratico), con la deglobalizzazione pratica e con il riorientamento geopolitico contro la monarchia universale. Di tutto questo, naturalmente, nell’opera di Žižek non v’è traccia. Muovendosi entro i confini del politically correct fissati dal sistema, Žižek critica il presente con toni che, quanto più sembrano radicali, tanto più rinsaldano il potere nel suo autocelebrarsi come intrascendibile e democratico. Per quanto tempo ancora dovrà durare tutto questo?» (Slavoj Žižek pensatore pericoloso?). Una lite in famiglia? Sulle ultrareazionarie idee sovraniste e antiamericane del giovane filosofo italiano di successo rimando a diversi miei post *.

Ma ritorniamo alla nostra spassosissima intervista televisiva. Fazio: «Cosa pensa del riformismo?»

1201-203212-chetempochefa-620x350Žižek: «Non sono un riformista. O cambiamo o andiamo incontro al disastro. Se le cose vanno avanti così, fra venti o trent’anni ci aspetta un futuro tremendo. Ma non si tratta di cominciare con una grande rivoluzione, possiamo anche fare delle piccole ma continue lotte, combattendo con regolarità, così da scatenare ulteriori cambiamenti. Per questo penso che Obama ha fatto una buona cosa con la sua riforma sanitaria, che è stata un trauma tremendo per la destra repubblicana. Io dico a Obama: vai avanti così, devi andare avanti». Ma non aveva detto il nostro amico di non essere un riformista? E Obama non è forse il Presidente della prima potenza imperialista del pianeta? Misteri della dialettica! Ma probabilmente è chi scrive a non capire nulla di dialettica, in filosofia come in politica.

Fusaro, che sostiene le cause nient’affatto perse degli imperialismi concorrenti (quello cinese e quello russo, mi pare), non può certo condividere il “riformismo” di Žižek, che appare fin troppo tenero con l’odiato Satana a stelle e strisce.

A proposito di dialettica! «Parlare di cause perse non implica il riconoscimento di un fallimento?» chiede un sempre più estasiato Fazio, che mostra tutta la sua professionalità citando il libro reclamizzato: «Si tratta di continuare a fallire fallendo meglio». Un invito a nozze per il dialettico pop: «Mio Dio, siamo in Italia! Non ci sarebbe la cristianità senza la morte di Dio. Ogni causa ha il suo incipit attraverso un fallimento. Solamente attraverso un fallimento si scopre la causa delle cose. È un movimento dialettico necessario. La stessa cosa vale per il comunismo». Ma cosa sia il “comunismo” per Žižek è presto detto: «Nella Jugoslavia comunista [sic!] chi credeva sinceramente nel comunismo [leggi stalinismo in salsa balcanica] veniva licenziato, perché per essere parte del sistema bisogna essere cinici. Io sostengo di essere il più pericoloso dei dissidenti perché faccio lo stalinista ingenuo». Magari stalinista ingenuo ci può stare. È sulla pericolosità del suo pensiero per lo status quo mondiale che nutro qualche dubbio. In effetti, più di un dubbio. A conti fatti, mi sembra che solo quelle che sostengo io sono delle vere cause perse. E forse anche disperate. Forse.

Su Žižek: Slavoj Žižek e la sindrome della mosca cocchiera.

* Essere senza coscienza – di classe
Il katéchon “comunista” di Diego Fusaro
La resa incondizionata degli amici del macellaio di Damasco

SLAVOJ ŽIŽEK E LA SINDROME DELLA MOSCA COCCHIERA

L’incipit dell’intervento di Slavoj Žižekalla convention di Syriza pubblicato dal Manifesto è, come spesso capita alle produzioni del filosofo sloveno, brillante e accattivante: «Al termine della sua vita Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fece la famosa domanda “che cosa vuole una donna?”, ammettendo la perplessità di fronte all’enigma della sessualità femminile. Una simile perplessità sorge oggi: “Che cosa vuole l’Europa?” Questa è la domanda che voi, il popolo greco, state rivolgendo all’Europa. Ma l’Europa non sa quello che vuole» (Alla fine la Grecia ci salverà, Il Manifesto, 8 giugno 2012). Tuttavia, usare la citazione freudiana come metafora in grado di illuminare la problematica “sessualità” della Vecchia Europa, se può suonare in qualche modo suggestivo, rischia di mettere subito su una falsa pista il pensiero non pago delle riflessioni mainstream – di “destra” o di “sinistra” che siano – intorno alla scottante questione europea. Ma forse è proprio il pensiero del filosofo sloveno a essere  completamente sconnesso dal reale processo storico-sociale.

Innanzitutto l’Europa posta nei termini in cui li ha messi Žižek semplicemente non esiste, mentre esiste uno spazio geosociale chiamato Europa nel cui seno si “dialettizzano” capitali e sistemi-paese da sempre concorrenti fra loro. Ripeto: da sempre. La crisi economica ha semplicemente reso evidente ciò che tutti i più seri analisti politici ed economici (chissà perché quasi tutti “conservatori”) del mondo hanno detto e scritto nel corso dell’ultimo mezzo secolo, in barba alle elitarie e pasticciate chimere vendute al mercato delle ideologie dai federalisti europei «senza se e senza ma».

Ancora fino al 2008 il politico europeo (in Italia quasi sempre leghista o berlusconiano) che osava denunciare tutte le contraddizioni insite nella costruzione dell’Unione Europea e, soprattutto, dell’Eurozona, veniva subito zittito con una valanga di insulti politicamente corretti (cioè rigorosamente europeisti). «Lei è un euroscettico, s’informi!»: ecco la sanguinosa accusa. Il dogma tecnocratico di Jacques Delors (la moneta unica europea come base dell’edificio politico-istituzionale europeo) era il paradigma del buon politico europeo. Ma già nel corso della crisi finanziaria del 1992 si rese evidente come la Germania rimanesse «l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea» (Robert Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, p. 206, Università Bocconi Editori, 2000). L’integrazione economica dei diversi paesi dell’Unione non poteva non porre la questione della Sovranità Nazionale, la quale nei dibattiti fra le persone colte del Vecchio Continente veniva trattata alla stregua di un cane morto. Salvo poi scoprire che il Leviatano nazionale non ne vuole sapere di tirare le cuoia, per lasciare il posto al Moloch Sovranazionale in grado di competere ad armi pari con le altre creature mostruose che devastano l’umanità: Stati Uniti, Cina, India e via di seguito.

Come ho scritto altre volte, nel «sogno europeista» storicamente convergono (si “scaricano”) diverse e contrastanti esigenze. In primis quella di controllare da vicino la Germania: «Naturalmente, le “ambizioni egemoniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (Robert Kagan, Paradiso e potere, p. 62, Mondadori, 2003). La stessa Germania, immersa peraltro in un senso di colpa alimentato ad arte dalle potenze vittoriose, ha accettato di buon grado la camicia di forza “europeista”, e le ragioni, di assai facile comprensione, si compendiano in due date: 1918 e 1945. Due catastrofi epocali nell’arco di un tempo così breve avrebbero spezzato la volontà competitiva (un tempo chiamata «volontà di potenza») di qualsiasi nazione. Ma la Germania, se può essere contingentemente spezzata e ridotta al rango di Paese reietto, non può venir privata della sua storia e del suo corpo sociale, ossia di quella che chiamo Potenza sistemica. Tanto alla fine della Prima quanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per sostenere un’economia tedesca ridotta ai minimi tempi, e non l’hanno certo fatto per ragioni umanitarie, le quali nel contesto della competizione globale fra le Potenze mondiali si danno come mero strumento ideologico al servizio di obiettivi radicalmente disumani. Già Keynes, nel 1919 (Le conseguenze economiche della pace), sostenne che fiaccare la Germania significava mettere nelle condizioni l’Europa di produrre nuovi e più gravi disastri sociali.

La questione europea è la questione tedesca, e chi, come Žižek, si muove all’interno della dimensione europeista, sebbene da una prospettiva “di sinistra radicale”, non può fare a meno di confrontarsi con questa realtà. È la dimensione del conflitto sistemico fra i paesi europei che va recuperata in tutta la sua radicalità sociale e storica, e mi mette un po’ in imbarazzo doverlo “ricordare” all’autore de «La violenza invisibile».

Syriza non rappresenta affatto «una nuova eresia», come crede il filosofo sloveno, quanto piuttosto una strada percorribile dalla classe dominante greca, o da alcune sue fazioni, nelle odierne critiche circostanze: è una delle diverse opzione in campo, tutte egualmente pregne di lacrime e sangue per le classi dominate, schiacciate nella falsa alternativa tra europeismo e sovranismo. «La nostra libertà di scelta in effetti funge da mero atto formale di consenso alla nostra oppressione e al nostro sfruttamento» (Slavoj Žižek, La violenza invisibile, p. 150, Rizzoli, 2008). Anche con Syriza, il KKE e tutti gli altri raggruppamenti ellenici di sinistra e di estrema sinistra ci troviamo al centro della dimensione totalitaria illuminata dallo sloveno; essi, infatti, basano la loro azione politica a partire dai «veri interessi del Paese», o del «Popolo», ossia, tradotto in concetti non ideologici e al netto di ogni rognosa fraseologia pseudomarxista (il KKE propone «il potere popolare, il disimpegno dall’Unione europea e la socializzazione dei mezzi di produzione»: il socialismo in un solo Paese?), sulla base degli «autentici interessi nazionali». E dove c’è Nazione c’è Capitale, più o meno «di Stato» o «liberista-selvaggio».

Nei 40 punti del Programma elettorale di Syriza spiccano quelli dedicati alle nazionalizzazioni: «delle banche, delle imprese ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie, aeroporti, poste, acqua), degli ospedali privati (Eliminare ogni partecipazione privata nel sistema pubblico sanitario)». Certo, chi associa la nazionalizzazione delle attività economiche al socialismo, o a qualcosa che gli somigli (secondo lo schema della «fase di transizione dal capitalismo al socialismo»), può pure gongolare dinanzi a una simile prospettiva – peraltro coltivata da non pochi partiti di estrema destra del Vecchio Continente: dal “socialismo” al nazionalsocialismo il passo può essere davvero breve… Come dimostra la storia del “secolo breve” (dallo stalinismo al fascismo, dal nazismo al keynesismo) nazionalizzare significa espande il potere di controllo sociale del Leviatano, magari in cambio di qualche briciola in più fatta cadere sulle masse proletarie: prima soddisfare i bisogni del corpo! È il triste «materialismo triviale» formato Diamat.

Può anche darsi che il nostro amico sloveno pensi di poter usare “tatticamente” Syriza per conseguire «più avanzati obiettivi», secondo quella che mi piace definire sindrome della mosca cocchiera. Purtroppo la mia indigenza in fatto di dialettica mi impedisce di cogliere il significato dell’ipotizzato “entrismo”, il quale a mio modesto avviso si risolve, puntualmente e necessariamente, in una politica al servizio di questo o quell’altro interesse capitalistico e/o nazionale: Grecia o Unione Europea, Euro o Dracma, Stato o Privato, Europa o America, Occidente o Oriente, e via di seguito. Quando si coltivano troppe illusioni, facilmente si corre il rischio di rimanere vittime dell’astuzia del Dominio.

Sic!

D’altra parte, cosa abbia in testa Žižek quando parla di rivoluzione lo si evince da quanto segue: «Permettetemi ora di finire con una nota personale. Odio la sinistra tradizionale, intellettuale, che ama la rivoluzione, ma la rivoluzione che avviene in qualche luogo lontano. Era così quando ero giovane: più lontano è, meglio è, Vietnam, Cuba, ancora oggi, Venezuela». Lasciamo stare, qui, il Vietnam e Cuba, anche per rispettare la speranzosa gioventù del filosofo; ma farsi ancora delle illusioni persino sul Venezuela di Chávez!

È proprio vero: per trasformare il mondo occorre prima capirlo. Ma anche: First as Tragedy, Then As Farce.

IL SEPOLCRO – DEMOCRATICO – IMBIANCATO

Ultimamente la democrazia non sembra godere ottima salute. E voglio essere eufemistico, per non farmi dare subito del fascista dai nostalgici della «democrazia nata dalla Resistenza», ai quali non sono affatto simpatico. E a ragione, direi. Ma siccome sono un inguaribile provocatore, non posso trattenermi dalla seguente digressione storica, a proposito di Sacre Carte. Si tratta del discorso di Mussolini del gennaio 1927 agli accoliti di Palazzo Madama: «Ma, onorevoli signori, questo Statuto [Albertino] è stato forse fatto da un’accolita di profeti? Niente affatto! … È quindi fatica superflua, e tuttavia commovente, fare la guardia al Sacro Sepolcro. Il Santo Sepolcro è vuoto. Lo Statuto non c’è più, non perché sia stato rinnegato, ma perché l’Italia d’oggi è profondamente diversa dall’Italia del 1848». Cambiate 1848 con 1948, e il gioco è fatto. Si capisce, mutatis mutandis, ma senza dimenticare o sottovalutare la forte continuità sistemica (economica, politica, ideologica, psicologica, “antropologica”) che insiste tra la Repubblica Democratica e il Fascismo.

Una volta Cossiga, che di Ordine Democratico s’intendeva, disse che «Con la Costituzione si può fare tutto». Voleva dire che all’interno della Sacra Carta c’è tutto l’armamentario ideologico-politico in grado di garantire lo status quo sociale. E quando il Diritto scritto registra qualche défaillance, il Diritto vivente sovviene alla bisogna. Come negli anni Settanta e Ottanta, quando si trattò di lavorare i corpi dei brigatisti imprigionati per favorire, diciamo così, il loro ricordo.

Prima la violenta accelerazione nel processo di globalizzazione (dalla seconda metà degli anni Ottanta fino a qualche anno fa), e poi la crisi economica internazionale deflagrata nel 2008, con i suoi violenti e necessari “ricaschi” politici, sul versante dei singoli paesi come su quello dei loro rapporti internazionali, hanno svelato ciò che l’ideologia dominante si è presa cura di nascondere in tutti questi anni: la politica, anche quella democratica, è un’infrastruttura dell’economia capitalistica. La crisi economica, che necessariamente investe ogni ambito della prassi sociale: dalla produzione della ricchezza materiale alla produzione delle idee e del «senso della vita», non inventa niente di nuovo, ma rende accessibile al pensiero che vuole essere critico il reale significato dei processi sociali che si dipanano nei lunghi decenni della “normalità”, quando la finzione democratica è efficace come il Truman Show. Quella che la politica oggi, ai tempi del governo «eurotecnocratico» di Mario Monti, registra come «crisi della democrazia», non è che la democrazia come appare quando la struttura della finzione va in crisi. A quel punto una rivista come Limes è legittimata a chiedersi, senza suscitare scandalo alcuno,  A che serve la democrazia? Già, a che serve? Persino i partiti, presi nella morsa della legittimazione politica e morale, avvertono il bisogno di chiarire, attraverso una serie di audizioni parlamentari di insigni scienziati del diritto e della politica, «che cosa è un partito politico», in modo da «completare» l’Art. 49 della Costituzione. Una volta Togliatti disse che «Il partito è la società che si fa Stato», dando ragione alla tesi esposta sopra circa la continuità tra Fascismo e Democrazia.

«Lei affermerebbe che la nostra attuale forma di democrazia non è in grado di combattere il capitalismo?», viene chiesto a Slavoj Žižek. Risposta: «No, no, no, direi quasi il contrario! Certo, la libertà di cui disponiamo è solo formale – ma questo è comunque l’unico ambito in cui la libertà può esistere. Nel momento in cui si abolisce la democrazia formale, non si ottiene la vera democrazia. Piuttosto, si perde la democrazia in quanto tale» (L’intervista è in Philosophie Magazine). Ma cos’è, allora, «la democrazia in quanto tale»? Žižek sostiene che «si deve cominciare a pensare la politica al di là delle ristrette definizioni proprie dello Stato multipartitico», per dare spazio alle forme di partecipazione politica «dal basso» (sul tipo di Occupy Wall Street, Indignati, ecc.). Ma qui prende corpo un grande problema: «come fare a includere questi ambiti nel processo politico?» Non so rispondere. Anche perché dal mio punto di vista non si tratta affatto di includere la politica che si esprime nei movimenti sociali «nel processo politico» generale, quanto piuttosto di accrescere l’antagonismo tra questi due ambiti, soprattutto attraverso una battaglia critica che renda chiaro il significato radicale di quell’antagonismo. Chiamare i movimenti sociali a rivitalizzare «dal basso» una prassi democratica nazionale e sovranazionale sempre più avvizzita, mi appare una politica ostile al progetto di emancipazione degli individui. In una precedente intervista Žižek sosteneva che «il punto, si badi bene, non è criticare la democrazia in sé; bisogna comprendere come la democrazia si stia autodistruggendo, ed è importante sottolinearne l’aspetto strutturale: non si tratta delle decisioni di singoli pessimi leader, della loro brama di potere o simili: è il sistema stesso che non può più riprodursi in modo autenticamente democratico» (L’effetto Berlusconi, Alfabeta 2, 23 novembre 2010). Sulla natura oggettiva e strutturale della «crisi della democrazia», non imputabile a scelte assunte deliberatamente da questo o quel politico, concordo. D’altra parte, questa «crisi» non è certo un fenomeno nuovo, visto che se ne parla addirittura dalla fine del XIX secolo, almeno nei paesi capitalisticamente avanzati che per primi hanno conosciuto l’imperialismo, il capitalismo monopolistico e il dominio del Capitale Finanziario. Ma, ancora una volta, che significato dobbiamo dare a concetti quali «democrazia in sé» e «autenticamente democratico»? Cerco di offrire un contributo alla risposta, e rimando al mio Angelo Nero per un approfondimento della questione.

Scriveva Marcuse alla fine degli anni Sessanta, nel Saggio sulla liberazione: «Naturalmente, se l’alternativa fosse tra democrazia e dittatura (per quanto “benevola” potesse essere), la risposta sarebbe ovvia: la preferenza andrebbe alla democrazia». Rivendico la mia avversione all’ovvio anche su questo punto, soprattutto su questo punto. In effetti, su questo scottante scoglio politico-teorico facilmente si rimane impigliati in una sorta di alternativa del Demonio – o del Dominio – tra democrazia e dittatura, due forme politico-istituzionali certamente diverse, ma tutt’altro che reciprocamente antagoniste (anzi, piuttosto complementari e «sinergiche»), e comunque espressioni dello stesso dominio sociale.

IL DENARO CI AFFERRA!

Lo stesso Marcuse scriveva subito dopo che «Peraltro questa democrazia non esiste, e in pratica il governo è esercitato da un complesso di gruppi di pressione e di organizzazioni, ovvero di interessi costituiti rappresentati dalle istituzioni democratiche e operanti per mezzo di queste». Ora, proprio questa è la prassi – non l’ideologia venduta sul libero mercato delle idee – della democrazia nell’epoca del capitalismo altamente sviluppato. La democrazia oggi esiste nella sola forma che la realtà rende possibile, e aspettarsi altro, come fanno almeno da un secolo i nostalgici di un mitico «parlamentarismo funzionante e veramente espressione della volontà del Popolo», è francamente anacronistico e ridicolo. Senza contare che ci si dimentica della natura storicamente classista della democrazia, da Clistene e Pericle in poi. Per questo non ha alcun senso, se non quello di celare la verità, contrapporre la «democrazia reale» a quella «ideale», secondo l’infondato schema adottato a proposito del socialismo – il quale peraltro non è mai esistito in forma reale da nessuna parte, e sopravvive in guisa ideale solo in pochissime teste.«La democrazia capitalistica di massa è in grado di autoperpetuarsi in misura forse maggiore di qualsiasi altra forma di governo o di società; e ciò è tanto più vero quanto più essa si fondi non sul terrore e la scarsità, ma sull’efficienza e sulla ricchezza, e sulla volontà della maggioranza della popolazione soggetta e governata» (Marcuse). Non c’è dubbio. Già Nietzsche, sulla scia dei precedenti critici della civiltà borghese, intuì l’intimo rapporto che lega la democrazia alla moderna società di massa: «Mentre la democratizzazione d’Europa tende alla generalizzazione di un tipo predisposto alla schiavitù nel senso più sottile», essa è «al tempo stesso un’involontaria organizzazione per l’allevamento di tiranni – intendo questa parola in ogni senso, anche in quello più spirituale» (Al di là del bene e del male). Soprattutto in tempi di crisi come quelli che viviamo, in cui demagoghi e populisti espandono giorno dopo giorno il loro mercato politico-ideologico, è assai utile leggere o rileggere ciò che scrisse Freud a proposito della pulsione gregaria delle masse (vedi soprattutto Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921). Già che ci sono, cito un passo del saggio molto illuminante nell’epoca del grillismo e similari: «La massa è impulsiva, mutevole e irritabile … La massa è straordinariamente influenzabile e credula, è acritica, per essa non esiste l’inverosimile. La massa corre subito agli estremi, il sospetto sfiorato si trasforma subito in evidenza inoppugnabile, un’antipatia incipiente in odio feroce … Chi desidera influenzarla non ha bisogno di rendere logiche le proprie argomentazioni, deve dipingere a fosche tinte, esagerare e ripetere sempre le stesse cose». Chi pensa che ai tempi della cosiddetta «democrazia diffusa e capillare» resa possibile dai Social Network non siano più possibili esiti catastrofici paragonabili a quelli degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, evidentemente non comprende fino a che punto potrebbe essere mostruoso l’inferno che rischia di precipitarci addosso da tutte le parti. Ma dove non arriva la coscienza, supplisce il corpo, nella sua “olistica” accezione. Certo, è materia anche per psicoanalisti, psichiatri, industrie farmaceutiche, guru religiosi, esorcisti2.0, preti e carrozzieri dell’anima della più svariata e bizzarra tipologia.

Solo chi ignora il reale contenuto storico e sociale della democrazia, non a caso sorta storicamente sul terreno di una società già abbastanza complessa e stratificata, può associare il regime democratico alla migliore forma di potere politico per gli uomini. Per Ignazio Maria Marino, ad esempio, nell’ambito del moderno Stato di Diritto «Democrazia e diritto si legano in un rapporto umano» (Prime considerazioni su Diritto e Democrazia, 2010).

La mia tesi è che nel contesto storico e sociale vigente Democrazia e Diritto si legano necessariamente in un rapporto disumano, perché disumani sono i rapporti sociali che informano la vita degli individui. Come ricorda Marino, una volta (nei Principi metafisici della dottrina del diritto, 1797) Kant scrisse che «Se la giustizia scompare, non ha più alcun valore che vivano uomini sulla terra». Il fatto tragico è che sulla terra non vivono ancora uomini, bensì non-ancora-uomini assoggettati a una Giustizia calata dall’alto dai dominatori del mondo. Fin tanto che l’uomo non calcherà il suolo terrestre, la parola Giustizia avrà sempre un suono ambiguo, e ammiccherà solo a chi «amministra giustizia» nel nome del «Popolo Sovrano». Per questo quando proclama che non può non «condividersi l’idea secondo cui lo scopo ultimo della democrazia, al pari del diritto, sia la giustizia», ancora una volta Marino afferma, suo malgrado, una verità che testimonia contro la presenza dell’uomo sulla terra.