Il mio ultimo articolo sulla «Primavera Araba» (Teoria e Prassi della “Rivoluzione” ) ha suscitato in alcuni lettori l’idea di una mia indifferenza, e per alcuni di essi persino una mia franca ostilità (perché mai, poi?), nei confronti delle sommosse popolari che da un anno investono il Mondo Arabo. L’obiezione, ancorché del tutto infondata, suona al mio orecchio particolarmente bene, perché mi permette di chiarire il mio punto di vista su una questione cruciale. Lo faccio in modo stringato, e quindi necessariamente insufficiente, cosa che darà la stura ad altre obiezioni e a relativi «chiarimenti» e aggiustamenti di tiro: non chiedo altro!
Quanto poco indifferente sono rispetto al «processo sociale allargato» (il quale include la politica, l’ideologia, la psicologia, le angosce, le speranze e quant’altro ha a che fare con la prassi sociale: ossia tutto!) che sta scuotendo i Paesi Arabi, e il Mondo Islamico in generale (a partire dall’Iran, paese-chiave per molti rispetti), lo dimostrano i diversi articoli che ho dedicato alla questione. Nulla è più lontano da me dell’atteggiamento di indifferenza verso la prassi sociale in generale, e verso i movimenti sociali in particolare, per almeno due buoni motivi, uno “personale”, l’altro politicamente e teoricamente più fondato.
In primo luogo, caratterialmente inclino al caos sociale, al «casino», e nulla m‘intristisce di più del quieto vivere, sotto ogni rispetto. In secondo luogo, e più seriamente, perché so bene che dalle crisi sociali può venire qualcosa di buono nel senso da me auspicato, ossia la produzione di coscienza e di organizzazioni «di classe». Ma appunto, e questo è un elemento d’analisi molto importante, può.
Nel ’79 avevo 17 anni, e dinanzi alla «Rivoluzione Iraniana» mi entusiasmai enormemente, e ciò mi appare ancora oggi, e al netto dell’autoindulgenza, come una feconda risposta agli eventi che seguivo attraverso la televisione e i media cartacei. Con gli strumenti “teorici” e politici che allora informavano il mio giudizio, quell’atteggiamento mi pare tutto sommato giustificato e foriero di feconde riflessioni, anche critiche e autocritiche, che di fatti arrivarono già alla fine di quello stesso anno.
Approfondendo criticamente quella che passerà alla storia come «Rivoluzione Khomeinista», ebbi modo di andare al di là dell’apparenza scenografica (era tale per me che quella «rivoluzione» guardavo dagli schermi televisivi, sia chiaro) delle violentissime sommosse e delle marce oceaniche, per coglierne le salienti radici sociali, i reali interessi che si scontravano, il significato della lotta ideologica tra islamisti e laici. Insomma, ed è questo che voglio “significare”, mi sforzai di passare dall’entusiasmo acritico a un punto di vista informato da una «analisi di classe» di quel violento processo sociale, sempre nei limiti di un’intelligenza politica e “dottrinaria” che non è mai stata granché: pazienza!
Mi resi conto, per farla breve, che in quel processo, interessante per molti aspetti, le «masse diseredate» stavano recitando il ruolo di massa d’urto delle varie fazioni politiche e sociali che si contendevano il potere: chi per raffreddare le «riforme economiche» varate dal Pavone di Teheran (anche sotto la pressione degli Stati Uniti e del Fondo Monetario Internazionale), le quali avevano generato un drastico peggioramento nelle condizioni di vita e di lavoro del proletariato; chi per sabotarle del tutto, puntando esclusivamente sulla rendita petrolifera, e chi, infine, per portare il Paese rapidamente e definitivamente su un sentiero di sviluppo sociale «all’occidentale». Sappiamo tutti com’è andata a finire. Naturalmente in quel processo sociale ebbero modo di svilupparsi anche tendenze promettenti dal mio punto di vista, ad esempio l’organizzazione di sindacati e organizzazioni proletarie di vario genere e più o meno indipendenti dall’Islamismo e dallo Stalinismo (molto presente nell’Iran dall’ora); ma in generale mi apparve chiaro come le «masse diseredate» iraniane, peraltro ben disposte alla lotta più cruenta, non fossero scese in campo con un proprio autonomo programma sociale e politico, cosa che aveva impedito loro di diventare una classe sociale cosciente della propria forza e della propria «funzione storica», per dirla con il barbuto di Treviri.
Questo per dire che, in generale, l’entusiasmo che sempre sostiene il desiderio del cambiamento non deve mai far premio sull’analisi critica della situazione, pena il rovesciamento della teoria critica in ideologia pseudo rivoluzionaria, disposta a vedere «Rivoluzioni», «nuovi soggetti sociali rivoluzionari» e «cambiamenti di fase» almeno ogni cinque anni.
In secondo luogo, e cosa assai più importante, io m’interesso della «Primavera Araba» e simili, non per parlare alle «masse diseredate» di quella parte di mondo (il mio narcisismo e il mio velleitarismo, ancorché obesi, non mi sollevano a simili vette di ingenua imbecillità), ma per comunicare a quei pochi interlocutori che hanno la bontà di “leggermi” questo fondamentale concetto: cerchiamo di non investire troppo sul coraggio e sulla disperazione degli altri. Per dirla con una battuta comica, «è facile fare la “Rivoluzione”, con la pelle degli altri!» Dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Occidente sterile di Eventi Catastrofici, ha cercato ovunque nel mondo quelle «rivoluzioni» che non ha saputo partorire dal proprio ventre obeso di merci e di illusioni d’ogni genere (a partire dalla madre di tutte le feticistiche illusioni: quella secondo la quale in regime democratico «il Popolo è Sovrano»).
Quando nelle piazze italiane e sui Social Network si urla che Berlusconi deve fare la fine di Mubarak, e quando persino una persona intelligente come Žižek propone l’insostenibile e risibile analogia tra il Cavaliere Nero di Arcore e Ahmadinejad, e sostiene che «Evo Morales si sta avvicinando ad una forma contemporanea di “dittatura del proletariato”» (e un occhio di riguardo egli non lo nega nemmeno a Hugo Chávez), ecco che personalmente avverto forte il bisogno di mettere in guardia il pensiero che aspira a un punto di vista critico-radicale a non lasciarsi ingannare da suggestioni e da sirene di vario tipo. E ciò oggi mi appare tanto più importante, non appena rifletto sulla guerra mondiale in corso, la cui natura essenzialmente economica, peraltro, svela il reale contenuto sociale dell’Imperialismo e dei due precedenti conflitti bellici di respiro mondiale.
La scorsa settimana i Rifondatori dello Statalismo (Ferreo e company) hanno protestato sotto l’ambasciata tedesca a Roma per rivendicare la Sovranità dell’Italica Nazione contro l’ingerenza germanica e dei soliti «Poteri Forti della Finanza Mondiale» (un tempo le BR parlavano di Stato Imperialista delle Multinazionali, ruminando gli stessi rancidi concetti degli odierni «comunisti»). Oggi Sallusti scrive sul Giornale che contro l’arroganza antidemocratica della Merkel, forse non basta più un’elezione che ripristini la Sovranità politica del nostro Paese, ma occorrerebbe «una rivoluzione». Nientemeno! Le classi dominanti hanno sempre saputo civettare bene con la «Rivoluzione», non dimentichiamolo; di qui, a mio avviso, l’esigenza di assumere un punto di vista critico nei confronti di ciò che appare scontato sulla scorta dell’opinione corrente nazionale e internazionale, del tipo: Berlusconi è il Male Assoluto, in Egitto sta andando in onda il secondo tempo della «Rivoluzione», bisogna allearsi anche con il Demonio per farla pagare agli ebrei, pardon: agli speculatori finanziari, e via di seguito. Tutte le volte che le classi dominanti hanno bisogno del «Popolo Sovrano», per smungerne lacrime e sangue, c’è sempre una «Rivoluzione», un «Nuovo Risorgimento» o una «Guerra di liberazione» da fare.
Se la cifra dei tempi è questa, e senz’altro lo è, il pensiero critico-radicale, come prima misura d’emergenza, per così dire, deve cercare di spingere la riflessione politica della gente umanamente più sensibile oltre le lusinghe dell’apparenza, oltre i luoghi comuni proposti dai politicanti di «Destra» e di «Sinistra» (nonché dall’industria massmediatica che vende come il pane catastrofi, apocalissi prossime venture e, naturalmente «Rivoluzioni»), oltre le facili scappatoie politiche e psicologiche. Mi sembra il minimo sindacale per quel tipo di pensiero, e comunque il presupposto d’ogni altro possibile avanzamento teorico e pratico. Un altro discorso è se chi scrive è capace di farlo!