MISERIA DEL SOVRANISMO. La “questione nazionale” nel XXI secolo

Quanto si parla, si discute e si grida oggi
a proposito di nazionalità e di patria!
(Lenin, 1914).

Scrive Massimo Cacciari: «Ognuno deve rendersi conto che le diverse nazionalità hanno un futuro solo se si collocano in termini federali nell’ambito dell’Unione Europea. Senza Europa gli staterelli europei sono destinati a essere succubi di tutte le tendenze culturali, economiche e scientifiche che si determineranno nell’ambito dei sovranismi. Se vogliamo vivere tutti da servi al seguito del carro del destino, padroni di esserlo e avanti popolo» (1). In direzione della riscossa o verso il precipizio? Per il Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Junker, «il patriottismo del XXI secolo ha due matrici: una nazionale e l’altra europea». Diego Fusaro la pensa diversamente: «La Nazione è l’ultimo fortilizio che ci rimane per resistere alla mondializzazione capitalistica» (2). I primi due si battono per un sovranismo di livello europeo, il solo in grado, a loro avviso, di salvaguardare anche le specificità culturali ed economiche delle singole nazioni europee, le quali da sole non potrebbero certo reggere l’urto sistemico con le grandi potenze mondiali (Stati Uniti, Cina, Russia); il secondo invece si batte per una «rinazionalizzazione» dell’economia e della politica, affinché il Popolo riprenda in mano il proprio destino. Anche Carlo Formenti parla di «rinazionalizzazione della politica», e se la prende con i suoi ex compagni del Manifesto, ormai precipitati, secondo lui, nell’inferno del «neoliberismo progressista»: «L’agitarsi scomposto del neoliberismo progressista ha l’unico effetto di rallentare il processo di costruzione di un’alternativa al populismo e al sovranismo di destra, perché i loro attacchi idioti e confusionari regalano continuamente voti all’avversario». Una polemica tutta interna alla galassia “comunista” e post “comunista” contro la quale mi sono sempre battuto. Certo è che osservare la gara che si svolge nella “sinistra sovranista” a chi la spara più grossa in termini di “populismo”, è davvero raccapricciante, anche se tutt’altro che spiazzante, per chi conosce i personaggi. Ogni freno inibitorio è saltato e c’è persino chi cavalca la bestia xenofoba pur di contendere lo spazio politico occupato dai populisti di “destra”, come se ci fosse qualche pur minima differenza tra uno xenofobo di “destra” e uno xenofobo di “sinistra”! Che miseria sociale!

Alcuni Nazionalsovranisti giustificano la loro avversione nei confronti delle politiche di immigrazione di stampo liberale tirando in ballo il dumping sociale, l’abbassamento dei salari, la distruzione del welfare e così via. Per i comunisti, da Marx in poi, c’è un solo modo di affrontare il problema dell’immigrazione e dello sviluppo ineguale dei salari su scala mondiale: battersi per l’unità di tutti i proletari, contro ogni forma di razzismo e di xenofobia: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» È questo il modo comunista di combattere ogni forma di competizione fra i proletari delle diverse nazioni. Entrare nel merito dei flussi migratori per suggerire alla classe dominante del proprio Paese come meglio regolarli (magari per favorire i proletari italiani: Prima i proletari italiani!), significa porsi al servizio della conservazione sociale. Certo, quella che propongo è una posizione politica che oggi, dopo decenni di devastazione politico-ideologica (sottoforma di stalinismo, riformismo, feticismo democratico e quant’altro) ai danni delle classi subalterne, non può riscuotere alcun successo presso il proletariato occidentale; si tratta di una posizione che non dà alcun riscontro di tipo elettoralistico: un problema, questo, che ovviamente sta in cima ai pensieri dei “populisti” d’ogni tendenza politica, i quali cavalcano, fomentano e amplificano il senso di insicurezza e di precarietà dei subalterni per carpirne il consenso politico-elettorale.

Per Vladimiro Giacché «La falsa opposizione tra angustia delle “piccole patrie” e la presunta apertura internazionalistica dell’UE è falsa per molti motivi, ma anche per questo: perché oggi nella bandiera europea sono avvolti gli interessi (delle classi dominanti) di alcune nazioni, con altre nazioni che sono state già ridotte a protettorati e altre che sono prossime a questo poco invidiabile status. Nell’UE le prime potenziano la propria sovranità, le altre la vedono ridursi. […] Dobbiamo ripartire dalla Costituzione. Essa deve tornare a essere il metro di valutazione dei trattati internazionali, ivi inclusi i Trattati europei» (3). Fare di una Costituzione capitalistica «il metro di valutazione dei trattati internazionali, ivi inclusi i Trattati europei», significa adottare il punto di vista delle classi dominanti. ««L’idea di fondo è che oggi il lavoro (gli interessi dei lavoratori) possa essere difeso soltanto attraverso un patriottismo costituzionale». L’economista Giacché evidentemente non ha capito che il lavoro di cui parla la Costituzione italiana è il marxiano lavoro salariato, ossia il lavoro-merce la cui esistenza presuppone i vigenti rapporti sociali di dominio e sfruttamento. Come diceva l’uomo con la barba, «Il lavoro-merce è una tremenda verità», e l’Articolo 1 della Costituzione ci dice senza infingimenti che l’Italia, come ogni altro Paese di questo capitalistico mondo, si fonda su quella «tremenda verità». Per questo porre in antitesi la Costituzione «più bella e più socialista del mondo» con i bassi salari, la precarietà e la disoccupazione è, marxianamente parlando, semplicemente ridicolo.  Sulla Costituzione Italiana rinvio al post Contro la Costituzione. Quella di ieri, di oggi e di domani.

Scriveva qualche tempo fa l’Alter-Europeista Toni Negri: «L’Europa ha la possibilità di essere una barriera contro il pensiero unico dell’unilate­ralismo economico: capitalista, conservatore e reazionario. Ma l’Eu­ropa può essere anche un contro-potere di fronte all’unilateralismo statunitense, il suo dominio imperiale, la sua crociata in Iraq per con­trollare il petrolio. Gli USA l’hanno capito così bene che, fin dagli anni ’50, lottano come matti contro il processo di unificazione europea. Gli USA vi vedono un blocco all’estensione del loro potere. […] Bisogna essere pragmatici» (4). Negri definisce “pragmatica” quella che in realtà è una politica di aperto sostegno al progetto teso a realizzare in Europa un polo imperialista (un “Impero”) in grado di competere con i maggiori imperialismi mondiali, a cominciare da quello statunitense. Nel frattempo vaste aree del pianeta sono finite sotto il cielo dell’imperialismo cinese.

Delle alternative qui sommariamente presentate qual è quella più realistica (oltre che desiderabile e auspicabile) dal punto di vista degli interessi nazionali e/o europei? È possibile (oltre che desiderabile e auspicabile) la piena sovranità di tutte le nazioni (vedi il concetto di Europa delle nazioni e dei popoli versus il concetto di Patria europea) posto il Capitalismo del XXI secolo? E come si presenta oggi  la Questione nazionale, generalmente intesa, dalla prospettiva di un autentico internazionalismo anticapitalista? Ecco, qui di seguito cercherò di rispondere a queste difficilissime domande.

  1. Miseria del sovranismo

Personalmente sono contro ogni forma di sovranismo (nazionale o europeo) e di patriottismo (della Nazione o della Costituzione) non per fedeltà a Marx o a Lenin, ma per un intimo convincimento che ha il suo fondamento teorico e politico nell’analisi della società capitalistica come ci si offre all’attenzione nel XXI secolo. Se, per assurdo, qualcuno dovesse dimostrarmi che quei due sciagurati personaggi in realtà erano dei sovranisti e dei nazionalisti “duri e puri” che amavano travestirsi, per conseguire inconfessabili obiettivi, da internazionalisti intransigenti, ebbene non muterei solo per questo di una sola virgola la mia posizione radicalmente antisovranista e antipatriottica. Anche per questo (per motivi “precauzionali”, diciamo) non mi definisco né “marxista” né “leninista” ma sostenitore di un punto di vista che vuole – diciamo pure che si sforza di – essere radicalmente anticapitalista, con ciò che ne segue anche a proposito della cosiddetta “Questione nazionale”. Il che ovviamente non mi impedisce di citare proprio Marx e Lenin argomentando le mie tesi, le quali sono principalmente indirizzate contro quei sedicenti “marxisti” e “leninisti” che sostengono un punto di vista sovranista e nazionalista, sebbene declinato “da sinistra” – sic! La citazione non è mai politicamente neutra; citare significa in qualche modo interpretare il pensiero altrui, perché ciò che conferisce significato alla citazione è il contesto concettuale che la ospita. Come ho scritto altre volte, la mia citazione ha sempre un carattere strumentale, è cioè funzionale a esprimere in primo luogo il mio punto di vista.

La «sinistra patriottica, costituzionale e sovranista» può invitare a cuor leggero i compagni a sfidare il populismo “di destra” «sul suo stesso terreno» (5) semplicemente perché essa condivide con quella posizione politica lo stesso terreno di classe, sebbene i socialpatrioti si impegnino molto a giustificare le loro ultrareazionarie posizioni richiamandosi alla storia del movimento operaio – soprattutto a Gramsci, per via della sua “ambigua” teoria nazional-popolare fondata su una lettura del tutto sbagliata del ritardo capitalistico dell’Italia.

Credo insomma che il sovranismo, il nazionalismo e il patriottismo comunque “declinati” rappresentino quanto di peggio il personale politico al servizio delle classi dominanti possa propinare alle classi dominate. Venduto dalla “destra” o dalla “sinistra”, il nazionalismo (o sovranismo, come si usa chiamarlo oggi per bypassare certe antipatiche accuse) rimane il peggior veleno ideologico offerto alle classi subalterne dai servitori dello status quo sociale. Le classi dominanti si compiacciano di dare in dono una patria ai dominati per legarli a doppio filo al carro degli interessi nazionali, i quali esprimono i loro specifici interessi economici e politici. Com’è noto, per difendere la Patria, per impedire al Nemico di calpestarne i sacri e inviolabili confini, lo Stato nazionale chiede ai suoi sudditi il dovuto tributo di sangue, e proprio a questo fatto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto chiaro riferimento nel suo discorso del 14 settembre al vertice di Riga: «Io sono avanti negli anni, sono nato durante i bombardamenti e, forse per questo, mi è rimasta un’innata diffidenza, e un’innata idiosincrasia verso qualunque pericolo di nazionalismo e di guerre. Occorre riflettere su questo perché corriamo il rischio che riproporre dentro l’Unione un clima che non è soltanto concorrenziale ma è di contrapposizione, che poi diventa contrasto, poi diventa ostilità, diventa non sappiamo cosa». L’Unione Europea, insomma, come area di pace, di democrazia e di libertà da preservare assolutamente, senza nulla concedere alle suggestioni “populiste” e “nazionaliste”.

In realtà all’interno dell’Unione Europea è da tempo in corso una guerra di potere tra le nazioni che ne fanno parte, perché il suo consolidamento non può che realizzarsi, almeno nell’immediato, a spese di alcuni Paesi (ad esempio dell’Italia) e a vantaggio di altri (ad esempio della Germania), e la stessa Brexit, o la questione Catalana sono lì a ricordarci che l’Unione Europea è tutt’altro che una creatura geopolitica e sociale pacifica e pacificata, e non può esserlo in grazia della sua natura capitalistica e imperialistica. Il fatto è che oggi vengono al pettine nodi che in realtà non sono mai stati sciolti perché toccarli avrebbe significato – e significa – innescare nei singoli Paesi dell’Unione tensioni sociali di difficile gestione. È ad esempio il caso del welfare dell’Italia, del suo sempre più obeso debito pubblico, con tutto quello che tali magagne significano sul piano politico e sociale (clientelismo, divario Nord-Sud, ecc.); oppure dell’obsoleta struttura economica della Francia messa sotto pressione dalla dinamica economia dell’area tedesca.

«Potrà l’Europa sopravvivere all’ondata razzista e nazionalista che l’ha investita? Quello che soprattutto spaventa è il fatto di trovarsi di fronte una destra estrema ed una sinistra residuale unite nella lotta contro la costruzione europea. […] Battersi contro nazionalismo e sovranismo, per la democrazia, significa oggi sviluppare lotta di classe» (6). Nient’affatto: significa, oggi come ieri e come sempre (finché l’umanità sarà costretta a vivere sotto il dominio del Capitale), «sviluppare lotta» a sostegno di un polo capitalistico-imperialistico (quello europeo, nella fattispecie) che si oppone ad altri e concorrenti poli capitalistici e imperialistici. Mi scuso con chi legge, ma non posso esimermi dall’affermare che solo degli imbecilli patentati possono concepire l’europeismo come una forma modificata («adatta ai nostri tempi»: sic!) di internazionalismo, o di “post internazionalismo”, per usare il gergo dei teorici del postismo: post tutto. Ma non si tratta di imbecillità, beninteso. Il fatto è che la quasi totalità degli intellettuali sinistrorsi di tutto il mondo attribuiscono a parole come rivoluzione, socialismo, lotta di classe e via di seguito un significato che certamente tipi come Marx, Engels e Lenin avrebbero bollato come insulsaggini piccolo-borghesi. Ovviamente essi presentano la loro disgustosa e tutt’altro che originale brodaglia concettuale come la traduzione del marxismo ai nostri tempi, ma se si va appena oltre la fraseologia, si scopre facilmente il fondamento reazionario delle loro “dottrine”. D’altra parte non saprei come meglio definire le posizioni di chi ieri (2012) ha sostenuto Hollande alle lezioni presidenziali francesi e che oggi sostiene il regime venezuelano del caudillo Maduro e l’Unione Europea, sebbene da “sinistra internazionalista”…

  1. Stato, Nazione, Patria, Popolo…

La rivendicazione del superamento dei confini nazionali in vista di una sola, umana e fraterna Comunità rappresenta il “minimo sindacale” per una posizione politica che intenda conquistare un punto di vista autenticamente critico-rivoluzionaria dal quale approcciare la società capitalistica del XXI secolo. Questo principio, tanto elementare quanto potentemente eversivo dell’ordine sociale vigente su scala planetaria, informa completamente la mia analisi dei rapporti tra gli Stati, il mio approccio a quella che un tempo si chiamava “Questione nazionale”, la quale si dà nel nostro tempo, al tempo del dominio totalitario e planetario dei rapporti sociali capitalistici, in modo affatto diverso che ai tempi di Marx e di Lenin.

«Il Centro è dappertutto» scrisse una volta Nietzsche; «Il Capitale è dappertutto», possiamo scrivere oggi, magari avendo cura di precisare, sulla scorta di Marx, che «il capitale non è una cosa ma un rapporto sociale». Il capitale è ovunque (dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Europa all’Africa, dall’Australia all’Americana Latina) al centro della prassi sociale e, in guisa di merce e di denaro, esso è al centro dell’esistenza di ogni singolo individuo. Il capitale è insomma diventato quella potenza sociale sovranazionale e sovraumana di cui Marx ed Engels parlavano già nella prima metà del XIX secolo. Sempre più il mondo appare come un solo, gigantesco Paese, e lo Stato nazionale tende a configurarsi come un potere locale (regionale) nell’ambito del Capitalismo globale. Ciò vale soprattutto per quei Paesi che non possono aspirare al rango di grande Potenza; per questi Paesi si offre però la possibilità di aggregarsi in un’Unione di Stati in grado di reggere in qualche modo la competizione sistemica (economica, scientifica, tecnologica, politica, ideologica) mondiale. È il caso dell’Unione Europea.

Come ho scritto altre volte, per i Paesi di piccola o media taglia capitalistica la cosiddetta sovranità si risolve nella scelta della Potenza imperialistica che al momento sembra garantire a quei Paesi migliori condizioni di “agibilità politica”. È il caso del Venezuela “bolivariano”, il Paese che tanto piace ai socialsovranisti italiani, il quale da anni cerca il sostegno economico della Cina, ossia della Potenza oggi di gran lunga più dinamica sul terreno della competizione interimperialistica: dall’Africa all’America Latina, dal Sud-Est Asiatico all’Europa non c’è area del pianeta che non veda in azione il capitale cinese, tanto nella sfera della cosiddetta economia reale, tanto in quella finanziaria – sempre che nel XXI secolo abbia un pur minimo senso operare questa distinzione quando si tratta di esportazione di capitale e di sfruttamento da parte dei capitalismi più forti ai danni di quelli più deboli.

Quando nei miei scritti “geopolitici” parlo di Imperialismo unitario (non unico!) intendo riferirmi al sistema mondiale dell’imperialismo, o, detto in altri e più “dinamici” termini, alla competizione capitalistico-imperialista per il potere (economico, scientifico, tecnologico, ideologico, militare, in una sola parola: sociale) che nel XXI secolo vede la partecipazione agonistica di alleanze politico-militari grandi e piccole, internazionali e regionali, di Paesi grandi e piccoli, di multinazionali grandi e piccole, di aree continentali in reciproca competizione sistemica, di gruppi politici ed economici anche “non convenzionali”, ossia non riconducibili immediatamente agli Stati nazionali e alle istituzioni economico-finanziarie “tradizionali” (7).

Leggo da qualche parte: «Non è vero che lo Stato nel XXI secolo non conti più». Ecco perché dobbiamo combatterlo! Insomma, un conto è essere sovranazionalisti (tifosi della Patria europea, ad esempio), un conto affatto diverso è essere internazionalisti, ossia radicalmente ostili a ogni forma di statualità capitalistica – nazionale e sovranazionale. Sovranisti e sovranazionalisti si muovono insomma sullo stesso terreno di classe, si battono sotto una stessa escrementizia bandiera, e dal mio punto di vista non sarebbe serio nemmeno pensare di allearsi, anche solo “tatticamente” (si dice sempre così, nevvero?), con uno dei due campi politico-ideologici.

Le spinte sovraniste, nazionaliste, identitarie, razziste e xenofobe che provengono dal sottosuolo delle società occidentali sono il prodotto delle molteplici contraddizioni che sempre di nuovo crea ciò che usiamo chiamare globalizzazione capitalistica, e quindi esse stesse sono parte organica di questa globalizzazione, la quale non può darsi che in modalità altamente contraddittoria e conflittuale. Più il Capitale Globale centrifuga gli individui in guisa di alimenti gettati dentro un frullatore, e più essi cercano disperatamente – e spesso pateticamente – di aggrapparsi a qualche misero brandello di “identità”: nazionale, culturale, etnica, sessuale, religiosa, sportiva… Un’esasperata ricerca di identità è la prova più sicura di quanto potente sia il processo sociale che tende a creare l’individuo unidimensionale del XXI secolo.  La realtà capitalistica dei nostri giorni «costituisce uno stadio più avanzato di alienazione. Quest’ultima è diventata completamente oggettiva; il soggetto dell’alienazione viene inghiottito dalla sua esistenza alienata. V’è soltanto una dimensione, che si ritrova dappertutto e prende ogni forma» (8). In questo peculiare significato, radicalmente sociale (non meramente politologico né genericamente sociologico) parlo di dominio totalitario e globale del Capitale, che preferisco scrivere con la “c” maiuscola proprio per sottolinearne anche formalmente il contenuto storico e sociale.

Espressione verace, ancorché macchiettistica, della tendenza identitaria è senz’altro il filosofo fasciostalinista Diego Fusaro, il quale ultimamente oppone alla “naturale” espansione del dominio capitalistico in ogni sfera della prassi sociale, in ogni luogo e in ogni centimetro del corpo umano, «il vecchio modello familiare»: «Oggi sposarsi è diventato rivoluzionario, ristabilendo il vincolo etico di fronte al plusgodimento come una forma di speranza e di lotta contro il capitale». Un’altra perla “rivoluzionaria”: «Il liberista è colui che dichiara guerra allo Stato per il proprio profitto individuale, il libertino è quello che dichiara guerra alla famiglia in modo di ottenere il plusgodimento, la variante erotica del plusvalore» (9). Chissà cosa avrebbe detto Marx – o Lacan – a proposito dell’accostamento psicoeconomico tra «plusgodimento» e «plusvalore». Certo è che come materialista storico il libertino di Treviri avrebbe fatto presente al “marxista” Fusaro che non esiste uno Stato in generale, senza alcuna connotazione storica e di classe, e la stessa cosa vale naturalmente per la famiglia. Agli statalisti ideologici ovviamente ripugna chiunque ricordi loro che lo Stato non è che il cane da guardia dei rapporti sociali capitalistici, concetto marxiano che ridicolizza l’ideologia pattizia che sta al centro del concetto borghese di Stato e di Sovranità: «Lo Stato siamo noi, lo Stato è del Popolo, «La sovranità appartiene al popolo». Come no! Più si parla di Popolo (Potere al Popolo! Servire il Popolo! Il Popolo ha sempre ragione!), e più si nasconde la maledetta realtà della divisione classista degli individui, riformulata dai “populisti” d’ogni tendenza nei termini di una divisione tra alto e basso, élite e marginali, ricchi (i magnati della finanza speculativa come Soros) e poveri, vincenti e i perdenti (imprenditori “onesti” compresi) della globalizzazione, e così via. Ma ritorniamo al libertino «che dichiara guerra alla famiglia».

Leggo sul Manifesto del partito comunista del 1848: «Abolizione della famiglia! Persino i più avanzati fra i radicali [Fusaro, sia chiaro, non è certamente fra questi] si scandalizzano di così ignominiosa intenzione dei comunisti. Su che cosa si basa la famiglia odierna, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Nel suo pieno sviluppo la famiglia odierna esiste soltanto per la borghesia. […] Le declamazioni borghesi sulla famiglia e sull’educazione, sugli intimi rapporti fra i genitori e i figli diventano tanto più nauseanti, quanto più, in conseguenza della grande industria viene spezzato per i proletari ogni legame di famiglia» (10). Confrontati con la distruzione della famiglia borghese nel seno della stessa società borghese, come essa si dava centosettanta anni fa, Marx ed Engels non piagnucolavano sulla morte della famiglia borghese, non rivendicavano il ritorno al precedente modello di famiglia («si tratta di una mera chimera reazionaria» avrebbero detto i due amici), ma piuttosto denunciavano il processo sociale che “stressava” gli  «intimi rapporti fra i genitori e i figli» e che creava ogni sorta di relazioni disumane e disumanizzanti. Non si combatte la crescente disumanizzazione delle attività e delle relazioni proponendo alla società un armamentario politico-ideologico passatista che non è in grado nemmeno di frenare le tendenze sociali radicate, avrebbe detto Marx, nel concetto stesso di Capitale. Si vuole il Capitale (di Stato, nella fattispecie), ma non i suoi “lati negativi”: tipico appunto della mentalità piccolo-borghese.

«La stessa dinamica sociale che permise il costituirsi della famiglia borghese, dove gli individui trovarono un punto d’appoggio nel flusso della dinamica sociale e contro di esso, minaccia costantemente e progressivamente la famiglia medesima. Come accade per tutte le forme di mediazione tra singolarità biologica e totalità sociale la famiglia, nel suo contenuto sostanziale, viene riassunta a proprio conto dalla società. […] Sono le tendenze economiche che van distruggendo la famiglia. […] La famiglia soffre di ciò come ogni particolare che preme verso la propria liberazione: non vi sarà emancipazione della famiglia senza emancipazione della totalità sociale» (11). Ecco un modo storico e dialettico di approcciare i fenomeni sociali generati dall’implacabile marcia del Moloch capitalistico. Mi si può legittimamente obiettare: «Ma intanto che aspettiamo l’emancipazione della totalità sociale, dobbiamo pur far qualcosa!» E certamente! Ad esempio, lottare contro tutte le manifestazioni del dominio capitalistico senza fomentare in noi stessi e negli altri false speranze, soprattutto se sono “speranze” fondate su concezioni passatiste e/o riformiste: di passatismo e di riformismo l’umanità muore! Non sono io a dirlo: è la storia passata e recente che lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio.

La sovranità appartiene al popolo o allo spread? È il titolo di un saggio scritto recentemente da Antonio Maria Rinaldi, l’economista di riferimento dell’attuale governo pentaleghista (e ho detto tutto). Mi permetto di rispondere alla domanda di cui sopra citando il titolo di un mio post: Sovrano è il Capitale. Tutto il resto è illusione e menzogna. Lo spread, con tutto quello che questo nuovo spauracchio sociale presuppone sul versante economico come su quello politico-istituzionale, non ha alcun significato se non viene riferito direttamente alla prassi capitalistica considerata sul piano locale (nazionale) e internazionale. Solo un insulso economista può pretendere che chi finanzia il debito pubblico di un Paese per trarne un profitto (e cosa dovrebbe trarne, attestati di riconoscenza popolare?) non tenga in considerazione la salute economica di quel Paese, la sua produttività sistemica, la componente produttiva e improduttiva della sua economia e così via. Scrivendo questo non mi illudo certo di prosciugare il mare di luoghi comuni dal quale attingono i “populisti”: lo spread, i poteri forti, Soros, la Trilateral, le cavallette…

  1. Patria o morte? A morte la Patria!

«La patria sta davvero morendo e trascinando con sé lo stato-nazione che ne ha accolto e tutelato per secoli il patrimonio di identità culturale? I flussi migratori, i circuiti finanziari intercontinentali, la trans spazialità linguistica e religiosa, gli esperimenti di integrazione economica, ecc., sembrerebbero dire di sì. Eppure la patria, secondo l’autore, è l’unico luogo di aggregazione morale, civile e spirituale in grado di garantire la pluralità delle esperienze esistenziali di cui oggi possono godere gli uomini e le donne in questa tarda ora del secondo millennio, permettendo loro di affrontare i problemi della vita di relazione, senza l’angosciosa insicurezza del viandante e dell’esule» (12). Anche nei passi appena citati non si coglie alcuna determinazione storico-sociale dei concetti di Stato-Nazione e di Patria, concetti che suonano vuoti, privi di significato se non vengono riempiti di concreti contenuti storici e sociali, e, come si diceva sopra, ciò è del tutto confacente all’ideologia dominante, la quale ha tutto l’interesse a celare il carattere classista di quei concetti.

La Nazione è storicamente la dimensione (geografica, politica, istituzionale, culturale, “spirituale”) nel cui seno si esercita il dominio delle classi possidenti in una determinata area del mondo; lo Stato nazionale è posto al servizio di quelle classi, per preservarne il dominio nei confronti dei nemici interni ed esterni. «Nella società classista», scriveva Rosa Luxemburg, «la nazione non esiste in quanto insieme omogeneo sociale e politico; esistono invece, all’interno di ogni nazione, classi con interessi e “diritti” antagonistici. Non vi è letteralmente neppure una sola sfera sociale, dai più grossolani rapporti materiali ai più raffinati rapporti morali, nella quale la classe dei proprietari e il proletariato cosciente si presentino come un indifferenziato insieme nazionale. […] In una società così costituita non è possibile parlare di volontà collettiva e omogenea della nazione» (13). Ai tempi dell’ascesa rivoluzionaria della borghesia aveva un preciso significato progressivo parlare di Nazione, di Patria e di Popolo; al tempo del Capitalismo “ultramaturo”, del capitalismo giunto nella sua fase imperialista, tanto per scomodare Lenin, parlare di Nazione, di Patria e di Popolo può avere solo un significato ultrareazionario. Le stesse parole acquistano un contenuto concettuale affatto diverso quando vengono “calate” in differenti contesti storici.

«La patria sta davvero morendo e trascinando con sé lo stato-nazione che ne ha accolto e tutelato per secoli il patrimonio di identità culturale?» Ma di che patria stiamo parlando? La risposta non potrebbe essere più semplice: della patria capitalistica, della patria come si dà, e non potrebbe darsi altrimenti, oggi, nell’epoca del dominio mondiale e totalitario del rapporto sociale capitalistico. Il poeta può anche pensare la Patria come un luogo dello spirito: «La mia Patria è l’Umanità» (condivido!); ma chi si occupa di come “rottamare” la società capitalistica e di cosa sostituirle, deve anzitutto svelare il contenuto storico-sociale del concetto di Patria veicolato dall’ideologia dominante – in tutte le sue varianti: di “destra” e di “sinistra”, “liberista” e “statalista” (o “socialista” che dir si voglia), europeista o sovranista.

La Patria (la Nazione) è un presupposto storico-sociale che si impone a prescindere e contro la volontà delle classi subalterne; è un dato di fatto che esse si trovano a dover subire fin dalla nascita, esattamente come a nessun neonato è data la facoltà di scegliere in quale famiglia nascere, la condizione sociale dei suoi genitori, la nazionalità, e così via. I dominati devono dunque fare i conti con la Patria (con la Nazione), ma per remare contro i suoi interessi, in vista della sua distruzione. Come scriveva Lenin nel 1915 contro i «socialpatrioti» che assumevano il patriottismo come un valore positivo nell’ambito della lotta di classe, «Le patrie borghesi esisteranno finché la rivoluzione internazionale del proletariato non le distruggerà. Il terreno per questa rivoluzione esiste già» (14). La patria capitalistica non è certo un luogo della storia che i comunisti intendono conservare o difendere: tutto il contrario! Come si vede, chi scrive è tutt’altro che indifferente al problema della Patria, della Nazione e a tutte le questioni che in qualche modo vi si connettono.

Cito dal Manifesto di Marx ed Engels: «Si rimprovera inoltre ai comunisti di voler sopprimere la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno» (15). Per comprendere bene questo potentissimo passo occorre porlo in diretta connessione con la tesi marxiana secondo la quale la dimensione naturale del Capitale è quella che ha i confini dell’intero pianeta: «L’isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita ad essa corrispondenti» (16). In questo peculiare senso per Marx i rapporti sociali capitalistici vanno considerati storicamente rivoluzionari se confrontati con i precedenti rapporti sociali che confinavano gli esseri umani in ambiti comunitari molto angusti, sotto molteplici e fondamentali aspetti. «Questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda. […] Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in “una volta”  e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica» (17). Certamente Marx ed Engels non furono mai né sovranisti né teorici del comunismo in un solo Paese.

Il processo storico-sociale innescato dai nuovi rapporti sociali capitalistici non andava arrestato per far ritornare indietro la ruota della storia, così da ripristinare i vecchi confini tracciati con la spada, cosa d’altra parte impossibile; esso andava piuttosto portato avanti fino alle sue estreme conseguenze per approdare nella Comunità Umana che non conosce né capitale, né classi sociali, né Stato, né confini. Il superamento della società capitalistica può bensì essere pensato in due modi: uno reazionario e passatista e l’altro rivoluzionario e rivolto al futuro, ma solo il secondo ha la possibilità (non la certezza) di affermarsi, perché esso non contraddice la materialità del processo storico-sociale ma anzi esprime il movimento storico nel modo più coerente. La filantropia borghese esprimeva il processo storico-sociale secondo il punto di vista della borghesia; l’internazionalismo proletario esprimeva lo stesso processo ma dal punto di vista del proletariato, la nuova classe storicamente rivoluzionaria.

A differenza di quanto pensavano Marx ed Engels sulla base del mondo quale si presentava ai loro occhi nel 1848, «gli antagonismi nazionali dei popoli» non solo non sono scomparsi con lo svilupparsi e il diffondersi su scala planetaria del Capitalismo, ma essi si sono piuttosto moltiplicati in quantità e qualità, fino a culminare nelle micidiali guerre imperialistiche del XX Secolo. Lo stesso Marx tuttavia ebbe modo di cogliere la svolta storica rappresentata dalla guerra franco-prussiana del 1871: «Il fatto che dopo la guerra più terribile dei tempi moderni l’esercito vincitore e l’esercito vinto fraternizzino per massacrare in comune il proletariato, questo fatto senza precedenti indica […] che la guerra nazionale è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti» (18). Nei Paesi capitalisticamente più evoluti la Nazione aveva perduto ogni connotato storicamente progressivo, e quindi i proletari d’avanguardia delle diverse nazioni non si dovevano più porre il problema di quale borghesia nazionale appoggiare per far avanzare la società mondiale considerata nel suo complesso in direzione dell’emancipazione universale degli individui da ogni divisione classista e da ogni forma di sudditanza: economica, politica, ideologica, psicologica. In quei Paesi il patriottismo e il nazionalismo andavano dunque considerati come dei potenti veleni ideologici somministrati dalle classi dominanti alle classi subalterne.

Durante la Prima guerra mondiale gli autentici rivoluzionari europei, a cominciare da Lenin, tennero ferma la straordinaria lezione comunarda come si trova nelle parole di Marx (19), e promossero, rischiando la pelle, il disfattismo antinazionale anche in quei Paesi nei quali la questione nazionale aveva ancora qualcosa da dire e da dare (si veda l’atteggiamento internazionalista dei socialisti Serbi elogiato da Lenin); lo stesso non si può certo dire per i sedicenti marxisti attivi durante la Seconda guerra imperialista – i quali, è sempre bene ricordarlo, ingurgitarono senza fiatare anche il Patto Molotov-Ribbentrop, e anche qui ho detto tutto. Ciò non significa che i “marxisti” del tempo di Stalin hanno adottato una diversa linea politica sulla scorta degli sviluppi intervenuti nella storia del mondo con la nascita del – supposto – socialismo in Russia e con la presenza del Fascismo in Italia e del Nazismo in Germania; significa piuttosto che gli stalinisti non avevano nulla a che fare con il marxismo rivoluzionario che provò a contrastare in tutti i modi la Prima carneficina mondiale. È un fatto che la Russia di Stalin, che aveva spartito con la Germania di Hitler la Polonia e che non aveva mosso un dito per arrestare l’occupazione tedesca dell’Europa occidentale, si schierò contro il nazismo solo quando le armate tedesche dilagarono sul territorio russo. Poi uno può anche credere alla leggenda della Russia che si era alleata con la Germania solo per prendere tempo, armarsi adeguatamente e infine fare i conti con il nazifascismo da una posizione di forza; ma qui cerco di attenermi il più oggettivamente possibile ai dati offerti dalla storia.

In un articolo del 1915 Lenin prendeva di mira il «socialsciovinista» A. Potresov, il quale aveva sostenuto l’opportunità per i marxisti di appoggiare “tatticamente” una delle nazioni che si contendevano con le armi il potere sul mondo, e dicendo questo egli credeva di muoversi sulle orme di Marx e di Engels: «Con tutta la passione che era loro propria essi si mettevano con fervore alla ricerca di una soluzione del problema, per quanto esso fosse complesso; facevano la diagnosi del conflitto, cercavano di determinare il successo di quale campo avrebbe aperto più spazio alle possibilità che consideravano desiderabili, e in tal modo stabilivano la base sulla quale costruire la loro tattica» (20). Vediamo cosa rispose Lenin: «Questo ragionamento sarebbe ridicolo, se non fosse così… vergognoso. […] Allora il contenuto oggettivo del processo storico nell’Europa continentale non era l’imperialismo, ma erano i movimenti borghesi di liberazione nazionale. La molla principale era il movimento della borghesia contro le forze feudali e assolutistiche»  (21). Per Lenin non aveva alcun senso storico-materialista “calare” nell’epoca dell’imperialismo l’atteggiamento marxiano-engelsiano che si giustificava solo alla luce della precedente epoca storica, quando Paesi come la Germania, l’Italia, la Polonia, l’Irlanda ecc. erano ancora impegnati in guerre rivoluzionarie di stampo nazionale-borghese. Quale nazione appoggiare? «Potresov non ha notato che Marx si poneva la domanda in un momento in cui esistevano – e non solo esistevano, ma si ponevano in primo piano nel processo storico dei più importanti Stati d’Europa – movimenti borghesi incontestabilmente progressivi. Ai giorni nostri sarebbe ridicolo perfino pensare a una borghesia progressiva». E ai nostri giorni?  Siamo seri e concludiamo la citazione! «A. Potresov, come tutti i social sciovinisti, si trova indietro rispetto alla sua epoca di democrazia moderna, riprendendo il punto di vista da lungo tempo superato, morto e perciò intrinsecamente falso, della vecchia democrazia (borghese)» (22).

Al tempo della democrazia (capitalistica) del XXI secolo «sarebbe ridicolo perfino pensare a una borghesia progressiva», con ciò che ne segue in termini di iniziativa anticapitalistica sia in tempo di guerra guerreggiata, per così dire, sia in tempo di guerra sistemica, la guerra di questa epoca storica. D’altra parte il primo tipo di guerra, quella che ha nello strumento militare il suo mezzo più efficace (e convincente), nasce sul terreno sociale preparato dal secondo tipo di guerra, ne è la naturale continuazione, e non certo la negazione o la degenerazione come pensano certi geopolitici. Cito il Lenin della Prima guerra mondiale proprio per sottolineare il carattere bellico dei nostri tempi, i quali esigono da parte degli internazionalisti un’azione politica all’altezza della situazione. Ecco perché condivido quanto scrive Carlo Galli, storico di dottrine politiche e seguace del «metodo di analisi della realtà che viene da Gramsci», a proposito della cosiddetta sovranità europea: «Le sovranità degli stati si sono formate nel sangue della guerra civile o nel furore delle rivoluzioni. Mai una sovranità è nata perché qualcuno intorno a un tavolo ha trasferito pacificamente a un soggetto terzo il diritto di tassare, di formare un esercito, detenere il monopolio della violenza, individuare gli interessi strategici di una comunità» (23). Il processo di unificazione europea, che ha come suo motore il possente capitalismo tedesco (che per decenni Parigi e Londra hanno cercato di controllare e frenare in qualche modo), e i cui esiti sono ancora tutti aperti, ha appunto i caratteri di una vera e propria guerra, sebbene agli occhi dell’analista superficiale essa appaia come un’iniziativa pacifica resa complicata dalla cattiva volontà di politici incapaci di sognare in grande («il sogno europeo»).

Non dobbiamo dimenticare che l’unificazione della Germania è stata ottenuta soprattutto con mezzi “pacifici”, ossia attraverso processi di natura essenzialmente economica e sociale. Personalmente condivido la tesi di chi sostiene che «il vero vincitore del ciclo storico delle guerre mondiali [è] stata la Germania. Quest’affermazione può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto della economia internazionale in modo addirittura più efficace del ricorso alla forza militare» (24). Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere, secondo Carlo Jean, il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta nella Riunificazione Tedesca e nella dissoluzione dell’Unione Sovietica. In realtà l’Unione Europea è stata concepita dalla Francia e dall’Inghilterra soprattutto per controllare e marcare da vicino la potenza sistemica della Germania, e magari usarla all’occorrenza in funzione antirussa e antiamericana. Come spesso accade la volontà politica si deve arrendere al cospetto della forza dell’economia.

«I conflitti internazionali sono rimasti per la loro forma uguali ai conflitti [delle epoche precedenti], ma il loro contenuto sociale e di classe è cambiato radicalmente. La situazione storica obiettiva è oggi completamente diversa» (25). Per Lenin ciò che conta, ciò che è dirimente nell’analisi di un conflitto e nella decisione politica basata su quell’analisi, è la natura 1. degli interessi sociali in gioco e 2. della dimensione sociale nel cui seno questo conflitto nasce e si sviluppa. «Le guerre effettivamente nazionali, che si svolsero specialmente tra il 1789 ed il 1871, avevano come base una lunga successione di movimenti nazionali di massa, di lotte contro l’assolutismo, per l’abbattimento del giogo nazionale e la creazione di Stati su base nazionale, i quali erano la premessa dello sviluppo capitalistico. l’ideologia nazionale, sorta in quel periodo, lasciò tracce profonde nelle masse della piccola borghesia e in parte del proletariato. Di questo fatto si valgono oggi, in un’epoca assolutamente diversa, vale a dire nell’epoca dell’imperialismo, i sofisti della borghesia e i traditori del socialismo che si mettono al loro rimorchio. […] Le parole del Manifesto comunista: “Gli operai non hanno patria”, sono più vere che mai. Soltanto la lotta internazionale del proletariato contro la borghesia può difendere le conquiste proletarie ed aprire alle masse oppresse la via di un migliore avvenire» (26). La nostra epoca è «assolutamente diversa» da quella di cui parlava Lenin, ma nel senso che nel XXI secolo i caratteri reazionari denunciati dal rivoluzionario russo si sono enormemente rafforzati ed espansi: c’è più capitalismo, più imperialismo, più violenza sistemica, più oppressione politico-sociale – anche nelle democrazie occidentali, i cui stanchi riti elettorali sempre più dimostrano di essere ciò che in realtà sono sempre stati: una dichiarazione di impotenza da parte delle classi subalterne, chiamate a scegliere da quale bastone intendono essere governate per un certo periodo. Nella misura in cui non padroneggiamo con le mani e con la testa le fonti essenziali della nostra esistenza (a partire dalla creazione e distribuzione dei prodotti che ci tengono in vita), siamo degni della metafora nietzschiana del gregge. «La folla è un gregge docile incapace di vivere senza un padrone. È talmente desiderosa di obbedire che si sottomette istintivamente a colui che le si pone a capo. […] Il gregge esiste anche se manca un pastore» (27). Trovo quest’ultimo passo di una profondità davvero notevole, tale da far venire i brividi a chi lo colga in tutta la sua potente estensione concettuale. Posto il gregge, cioè a dire i rapporti sociali che lo rendono possibile sempre di nuovo, il Pastore è sempre dietro l’angolo, pronto a decifrare ogni variazione nella tonalità dei belati. È per questo che anziché concentrarci sulla fenomenologia, più o meno farsesca, del “populismo”, dovremmo piuttosto denunciare la prassi sociale che massifica (e instupidisce) gli individui e li rendi disponibile ai farneticanti discorsi di populisti e demagoghi d’ogni genere e colore politico.

  1. La “questione nazionale” nel XXI secolo

Oggi ha piena validità, mutatis mutandis, ciò che Rosa Luxemburg scrisse nel 1908, e che allora forse scontava quei limiti di astrattezza e di unilateralità che Lenin non mancò di segnalare: «L’idea di assicu­rare a tutte le nazioni la possibilità di autodeterminarsi corrisponde per lo meno alla prospettiva di un regresso dello sviluppo dal livello di grande capitalismo a quello dei piccoli stati medievali o anche a quello di molto precedente il XV e XVI secolo» (28). È appena il caso di ricordare che Lenin sostenne, anche contro la rivoluzionaria polacca, la politica di autodeterminazione dei popoli oppressi (come quello polacco) non perché credesse nella borghesissima idea circa la pacifica e armonica convivenza delle nazioni, ma in vista di due fondamentali obiettivi: 1. favorire e accelerare il processo di formazione di una coscienza autenticamente di classe nel proletariato delle nazioni oppresse, processo rallentato e indebolito dallo spirito nazionalista che facilmente conquistava “i cuori e le menti” di gran parte dei proletari di quelle nazioni; 2. indebolire materialmente, politicamente e ideologicamente le Potenze colonizzatrici, così da favorire la lotta di classe nelle metropoli del Capitalismo mondiale.

In quanto socialdemocratico «grande-russo», come amava definirsi, Lenin era ovviamente interessato in primo luogo a colpire gli interessi della Russia, della sua Patria; da parte sua, in quanto socialdemocratica polacca Rosa Luxemburg aveva motivo di temere che il nazionalismo polacco avrebbe indebolito la coscienza di classe del proletariato della Polonia, nazione oppressa dalla Russia zarista: due ragioni che all’epoca non riuscirono a sposarsi. Scriveva Lenin: «Marx chiedeva la separazione dell’Irlanda dall’Inghilterra, non dal punto di vista dell’utopia piccolo-borghese del capitalismo pacifico, non per motivi di “giustizia verso l’Irlanda”, ma dal punto di vista degli interessi della lotta rivoluzionaria del proletariato della nazione dominante, cioè inglese, contro il capitalismo. […] L’internazionalismo del proletariato inglese sarebbe stato una frase ipocrita se il proletariato inglese non avesse chiesto la separazione dell’Irlanda» (29). Dal loro canto i comunisti irlandesi, supposta la loro esistenza, avrebbero dovuto battersi contro la penetrazione del veleno nazionalista nelle file del proletariato irlandese e per l’autonomia di classe di esso anche nel conteso di una rivoluzione nazionale che aveva i caratteri di un evento «storicamente progressivo», come si diceva allora. Mantenere l’autonomia politica e organizzativa del proletariato della nazione oppressa e al contempo sostenere la rivoluzione nazionale per conseguire l’obiettivo dell’indipendenza politica di quella nazione: si comprende bene come di fronte a questa complessità politica, a questa oggettiva problematicità, il comunista attivo nella nazione oppressa facilmente si aprisse alla tentazione di ripiegare su una posizione di intransigenza internazionalista che negava ogni valore positivo alla guerra nazionale.

Ancora Lenin: «Il proletariato [della nazione oppressa] non può andare oltre nell’appoggiare il nazionalismo, perché più oltre in­comincia l’attività “positiva” della borghesia, che tende a rafforzare il nazionalismo». Bisogna ammettere che era estremamente difficile trovare e mantenere fermo il limite di cui parlava Lenin. Per questo non ha alcun senso, almeno all’avviso di chi scrive, attribuire torti e ragioni quando analizziamo il dibattito che sull’annosa Questione nazionale vide come protagonisti di primissimo piano Lenin e Rosa Luxemburg; importa invece cogliere la complessità e la dinamica dei problemi che essi si trovarono ad affrontare avendo in mente, entrambi, un solo assillo: come «liberare il proletariato dal suo assoggettamento alla borghesia sciovinista» (Lenin).

Come osservavo sopra, nel XXI secolo l’oppressione nazionale e lo sfruttamento economico realizzato da alcuni Paesi e aree continentali a danno di altri Paesi e arre continentali si dispiegano su una base sociale completamente diversa rispetto a quella con cui ebbero a confrontarsi Marx e Lenin. Del resto la situazione storico-sociale ai tempi di Lenin differiva non poco da quella dei tempi di Marx, e solo Engel, nella parte conclusiva della sua vita, ebbe modo di vedere in modo sufficientemente chiaro le premesse economiche (il superamento della fase liberale/concorrenziale del Capitalismo con la formazione di monopoli, trust ecc., il crescente ruolo del capitale finanziario, ecc.) del fenomeno sociale che passerà alla storia come Imperialismo.

Marx, Engels e Lenin si trovarono a dover fare i conti con la Questione nazionale in un tempo in cui la formazione degli Stati nazionali (Germania, Italia, Polonia, Irlanda ecc.) e la liberazione nazionale degli Stati colonizzati (Cina, India, ecc.) erano problemi che occupavano il centro della scena nella “politica estera” del movimento operaio internazionale. Nel XXI secolo questi problemi o non esistono più, o sono del tutto marginali; oggi il movimento operaio internazionale (che peraltro non esiste, che latita ormai da troppo tempo) ha a che fare solo con la competizione capitalistica universale, in cui lo sfruttamento economico e l’egemonia politica perseguita dalle grandi Potenze ai danni di quelle più piccole, nonché delle nazioni capitalisticamente più deboli, rispondono alla “normale” prassi del Capitalismo nella sua fase imperialistica. Lo sfruttamento economico e il dominio politico che osserviamo in campo internazionale, sul terreno dei rapporti tra gli Stati, non è che la continuazione dei rapporti sociali capitalistici esistenti in ogni singolo Paese. È dunque illusorio aspettarsi il superamento di questa situazione senza sradicare i vigenti rapporti sociali: è come prospettare l’emancipazione dei lavoratori senza spazzare via la causa che li rende succubi del Capitale, ossia il capitale stesso. L’armonia e l’uguaglianza fra i soggetti sociali (nazioni, classi) sono delle reazionarie chimere tanto sul terreno interno come su quello internazionale (posta la crescente labilità di questa distinzione), e chi predica il contrario, raggiunge a mio avviso un solo obiettivo: ingannare le classi subalterne e tenerle saldamente legate al carro del Dominio. «Le chimere della repubblica europea della pace eterna sotto l’organizzazione politica sono diventate ridicole proprio come le frasi sulla unione dei popoli sotto l’egida della libertà generale del commercio. […] L’unione e la fratellanza delle nazioni sono una vuota frase che oggi è sulla bocca di tutti i partiti, in particolare dei liberoscambisti borghesi. Indubbiamente esiste una certa fratellanza tra le classi borghesi di tutte le nazioni: è la fratellanza degli oppressori contro gli oppressi, degli sfruttatori contro gli sfruttati» (30).

«L’integrazione del popolo intero nella comunità nazionale di cultura, la conquista della totale autodeterminazione da parte della nazione, una differenziazione spirituale crescente delle nazioni: questo è il so­cialismo. […] La borghesia, nel suo desiderio di sfruttare i nuovi mezzi per aumentare i suoi profitti, ha tradito il suo antico ideale dello Sta­to nazionale e aspira allo Stato imperialista plurinazionale. […] Nell’epoca del capitalismo matu­ro, nell’epoca dei cartelli, dei trust e delle grandi banche, il principio di nazionalità, tradito dalla borghesia, diventa patrimonio ideale della classe operaia» (31). Detto che il «socialismo» prospettato a suo tempo da Otto Bauer somigliava moltissimo al “socialismo” di marca stalinista (32), osservo che è semplicemente ridicolo opporre lo Stato nazionale allo Stato imperialista, il Capitalismo della fase liberoscambista e concorrenziale a quello della sua fase imperialista, come se quest’ultimo non fosse stato preparato dallo sviluppo del primo. Questo modo adialettico e astorico di ragionare fu tipico dei socialdemocratici rimasti fedeli alla concezione kautskiana della società capitalistica nella sua fase imperialista.

Scriveva l’evocato Karl Kautsky: «L’antagonismo tra borghesia e proletariato continua a crescere, ma nello stesso tempo il proletariato è sempre più il nerbo della nazio­ne, per numero, intelligenza, energia, e gli interessi del proletariato e quelli della nazione convergono sempre di più. Una politica ostile alla nazione sarebbe dunque per il proletariato un vero suicidio» (33). La nazione è concepita qui come una realtà politicamente e socialmente neutra: quanto di più lontano ci possa essere da una concezione storico-materialistica, la quale evidentemente non riuscì a mettere profonde radici nel pensiero di Kautsky, nonostante egli si considerasse il degno e miglior erede di Marx ed Engels, in ciò peraltro confortato dall’opinione che di lui aveva la gran parte dei socialdemocratici europei, compreso Lenin, che lo considererà un «rinnegato» solo dopo il 1914. In realtà la posizione “ambigua” che sulla guerra mondiale difese l’ex Papa del Socialismo non si spiega, a mio avviso, con la categoria del tradimento, ma appunto con la concezione che sulla società, sulla lotta di classe, sulla democrazia, sui compiti dei socialdemocratici e sulla rivoluzione egli aveva elaborato nel corso di molti anni.

La posizione nazionalista e patriottarda dei «socialsciovinisti» naturalmente cercava in Marx ed Engels un solido sostegno dottrinario, che essi credettero di individuare nei passi che seguono: «Gli operai non hanno patria. […] Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia» (34). La lotta di classe si svolge nell’ambito nazionale (in questo senso essa è nazionale) ma non ha obiettivi nazionali, tutt’altro! La forma è nazionale, ma la sostanza politica è, e non può che essere, internazionalista, ossia radicalmente antinazionale. La lotta del proletariato deve avere quantomeno un respiro nazionale, non locale, non localistico, ma appunto internazionale e internazionalista. La nazione è concepita da Marx e da Engels come spazio sociale e geopolitico imposto ai dominati dai vigenti rapporti sociali, nonché  come sezione dell’auspicato Partito comunista – mondiale. Ma sono gli stessi autori del Manifesto a chiarire, qualche pagina prima, il senso della loro affermazione: «Sebbene non sia tale per contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però, all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima di tutto con la sua propria borghesia» (35). Più chiaro di così!

In conclusione (si fa per dire)! Il contenuto oggettivo del processo sociale in questo preciso momento storico mi porta a concludere che ogni forma di sovranismo/nazionalismo/patriottismo va respinto e combattuto con tutte le forze, e che non c’è alcuna possibilità di accordo con chi sostiene che i “rivoluzionari” devono appoggiare un campo imperialista (ad esempio quello ostile agli Stati Uniti) piuttosto che l’altro per favorire… non si sa poi cosa di preciso. Chi pensa che non si possa rimanere “equidistanti” e “indifferenti” rispetto alla contesa imperialistica si pone, per dirla con Lenin, «sotto la bandiera altrui», ossia sotto la bandiera degli interessi delle classi dominanti (nazionali o sovranazionali che siano), degli Stati (capitalistici), delle nazioni (capitalistiche). Non si tratta poi di essere “equidistanti” e “indifferenti”, come pensa chi non riesce ad andare oltre l’orizzonte ideologico borghese, ma semplicemente di essere contro tutti i Paesi del pianeta, a cominciare beninteso dal proprio Paese, dall’Italia nella fattispecie, tanto per essere chiari fino in fondo e non lasciare nulla all’immaginazione. «Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima di tutto con la sua propria borghesia»: ecco, appunto!

Ai compagni che s’indignano per aver voluto chiamare Patria e Costituzione la sua nuova associazione politica, l’Onorevole Stefano Fassina ricorda opportunamente l’Art. 52 della Costituzione di questo Paese: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Un motivo in più per disprezzare questa Costituzione!

 

 

 

 

(1) Intervista rilasciata all’Huffington Post, 7/9/2018.
(2) Il filosofo più telegenico del momento ha ripetuto i suoi italianissimi concetti dinanzi alla platea dei camerati di CasaPound, riscuotendo calorosissimi applausi. Simone Di Stefano, uno dei leader del movimento neofascista (o diversamente fascista), lo ha ringraziato commosso: «Ci riconosciamo nella stessa Patria: al di là delle nostre diverse posizioni politiche siamo tutti italiani che intendono difendere gli interessi nazionali». Che belle parole! Per l’occasione Fusaro ha citato (per l’ennesima volta!) Giovanni Gentile: «Volgiamoci dunque al nostro passato, per fare di questa nostra italianità, quale si venne realizzando lungo la nostra storia particolare, il nostro problema presente ed urgente, il segreto della nostra vita spirituale». Pure il patriota che alberga in me, sebbene vergognosamente nascosto, si è assai commosso! Era dai mondiali di calcio del 2006 che non mi sentivo così italiano.
(3) Lavoro, patria e costituzione, Sinistrainrete.
(4) Toni Negri, intervista su Libération, 13/5/2005.
(5)«Accettare la sfida del populismo significa comprendere che non è possibile opporsi al capitale globale senza lottare per la riconquista della sovranità popolare la quale, a sua volta, comporta la riconquista della sovranità nazionale» (C. Formenti, La variante populista, p. 9, Derive Approdi, 2016).
(6) M. Assennato, T. Negri, Internazionalismo contro sovranismo, Euronomade.
(7) sotto quest’ultimo aspetto, assai significativi mi appaiono i passi che seguono tratti dal saggio La funzione rivoluzionaria del diritto e lo stato scritto dal bolscevico Pëtr Ivanovic Stučka nel 1921: «Circa la sfera che il diritto abbraccia si ritiene che l’obiezione più pericolosa [al punto di vista classista-rivoluzionario] sia quella relativa al diritto internazionale. Vedremo però che il diritto internazionale – in quanto è in generale diritto – è pienamente conforme alla nostra definizione; e su ciò l’imperialismo contemporaneo, e particolarmente la guerra mondiale e le sue conseguenze, ha fatto aprire gli occhi a tutti. Noi parliamo infatti di un’autorità organizzata da una classe, senza denominarla Stato, proprio per abbracciare una sfera giuridica più larga» (in Teorie sovietiche del diritto, pp. 16-17, Giuffrè, 1964).
(8) H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, p. 31, Einaudi, 1991.
(9) Il nuovo ordine erotico, Intervista rilasciata ad Affaritaliani.it., 15/9/2018.
(10) Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Opere, VI, p. 502, Editori Riuniti, 1973.
(11) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Famiglia, in Lezioni di sociologia, pp. 155-163, Einaudi, 2001.
(12) Dalla Presentazione del saggio Patria. Circumnavigazione di un’idea controversa (Marsilio, 1996) scritto dallo storico Silvio Lanaro.
(13) R. Luxemburg, Scritti scelti, pp. 284-285, Einaudi, 1976.
(14) Lenin, I südekum russi, in Opere, XXI, p. 108, Editori Riuniti, 1966.
(15) Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, p. 503.
(16) Ivi.
(17) Marx-Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, pp. 33-34, Editori Riuniti, 1972.
(18) K. Marx, La guerra civile in Francia, p. 141, Newton, 1973.
(19) «La trasformazione dell’attuale guerra imperialista in guerra civile è la sola giusta parola d’ordine proletaria additata dall’esperienza della Comune» (Lenin, La guerra e la socialdemocrazia russa, Opere, XXI, p. 25).
(20) Cit. tratta da Lenin, Sotto la bandiera altrui, Opere, XXI,  p. 123.
(21) Ibidem, pp. 127-128.
(22) Ibidem, pp. 124-126.
(23) Intervista rilasciata a Huffington Post. «Il capitalismo, lasciato a se stesso, tende a distruggere la società. Compito della politica è costringerlo ad adattarsi alle esigenze della democrazia, regolandolo, mettendo dei limiti, tutelando gli interessi dei suoi cittadini, lasciando che il conflitto sociale si manifesti». Questo è «il compito della politica» asservita agli interessi delle classi dominanti. Compito degli anticapitalisti è invece quello di demistificare la natura di classe della democrazia (capitalistica) e di trasformare il conflitto sociale in lotta di classe: per il lavoro, per il salario, per migliori condizioni di vita, in vista della rivoluzione sociale. Anche nel XXI secolo l’alternativa è, mutatis mutandis, sempre la stessa: Riforma sociale o rivoluzione?
(24) C. Jean, Manuale di geopolitica Manuale di geopolitica, p. 153, Laterza, 2003.
(25) Lenin, Sotto la bandiera altrui, Opere, XXI, p. 132.
(26) Lenin, La conferenza delle sezioni estere del POSR, 1915, Opere, XXI, pp.142-143.
(27) S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’Io, p. 111, Newton, 1991.
(28) R. Luxemburg, Scritti scelti, p. 282, Einaudi, 1976.
(29) Lenin, Il proletariato e il diritto di autodeterminazione, p. 375, Opere, XXI.
(30) ­Marx-Engels, Discorsi sulla Polonia, 1847, Opere, VI, p. 410.
(31) O. Bauer, Socialdemocrazia e questione nazionale, Editori Riuniti, 1999.
(32) Del resto Bauer guardò sempre con molta simpatia la Russia stalinista: «Nell’Unione Sovietica abbiamo una società socialista in divenire. Per quanto grandi siano le difficoltà contro le quali l’Unione Sovietica deve ancora lottare, […] essa dimostrerà nei fatti a tutti i popoli del mondo la superiorità economica, sociale e culturale di un ordine sociale socialista» (O. Bauer, La crisi della democrazia, 1936, in Tra due guerre mondiali?, p. 196, Einaudi, 1979). Peccato che allora in Unione Sovietica non ci fosse alcun «ordine sociale socialista» di cui andar fieri. Scriveva Herbert Marcuse nel 1969: «Sotto certi importanti aspetti il “comunismo mondiale” è stato il Nemico che si sarebbe dovuto inventare se non fosse esistito. […] L’opposizione nei paesi a capitalismo avanzato è stata gravemente indebolita dall’involuzione stalinista del socialismo, che ha fatto del socialismo un’alternativa non esattamente piacevole al capitalismo» (H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, p. 100, Einaudi, 1973). Ciò che Marcuse definiva, sbagliando, «involuzione stalinista del socialismo» va a mio avviso considerato come una diretta e piena negazione del socialismo, avendo avuto il regime sociale chiamato “sovietico” una natura pienamente capitalista e imperialista. Una tesi, questa, che molti Socialnazionalisti dei nostri tempi vedono come il fumo negli occhi, perché il lupo stalinista perde il pelo ma non il vizio.  Sul significato storico-sociale dello stalinismo rimando a Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (1917-1924).
(33) K. Kautsky, La nazione moderna e il ruolo “nazionale” del proletariato, in R. Mon­teleone, Marxismo, internazionalismo e questione nazionale, p. 137, Loescher, 1982.
(34) Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Opere, VI, p. 503.
(35) Ibidem, p. 497.

SOVRANO È IL CAPITALE. TUTTO IL RESTO È ILLUSIONE E MENZOGNA

La crisi valutaria che si è abbattuta sulla Turchia, dopo una lunga e malcelata gestazione che ha le sue cause immediate in fattori di varia natura (economica, geopolitica, politica), ha inaspettatamente riacceso il dibattito sulla politica – e soprattutto sulla retorica – sovranista che fino a qualche giorno prima sembrava aver esaurito la sua “spinta propulsiva” dopo aver imperversato per molti mesi sulle pagine dei quotidiani e sui “social”. Scriveva ieri Giuseppe Turani: «Il crollo della lira turca, meno 30 per cento da inizio anno, 7 per cento solo negli ultimi giorni, è la peggiore e più dura lezione che potesse cadere in testa ai sovranisti nostrani. In un certo senso è una specie di visione anticipata di un possibile film italiano (se non avessimo l’Europa e la Bce di Mario Draghi)» (La Nazione). «”La crisi turca è una lezione per chi ha ancora dubbi se l’Euro sia o no positivo: lo è”: così il ministro degli Esteri Enzo Moavero spiega al Foglio perché la crisi finanziaria della Turchia è una grande lezione per gli anti euro». Chissà con quali sentimenti la coppia sovranista più bella del mondo che regge le sorti del governo italiano ha incassato le chiare parole di Moavero.

La rovinosa caduta della lira turca ha dunque ringalluzzito il partito antisovranista uscito alquanto ammaccato dalle ultime elezioni politiche; non solo, ma sembra aver conquistato alla sua causa personaggi che in precedenza avevano dato un certo credito al governo “sovranista e populista” di Salvini e Di Maio. Quando c’è di mezzo la lira, sebbene turca, gli animi di coloro che sono molto sensibili ai destini della propria pecunia (e chi non lo è, avendola?) si accendono, costringendoli sovente a riflessioni più realistiche intorno al pessimo mondo in cui ci tocca vivere. È il caso di Alessandro Sallusti, protagonista ieri di un duro attacco a quello che non ha esitato a definire «inganno sovranista».

A mio parere vale la pena di riportare qualche passo del suo articolo: «Si dice che stiamo andando verso un sistema sovranista, anzi che già abbiamo un governo sovranista. “Padroni in casa nostra”, “Prima gli italiani”, “Dell’Europa me ne frego”: sono alcuni degli slogan che hanno fatto la fortuna della Lega e dei Cinquestelle. E dire che abbiamo fatto tanto, anche delle guerre, per cacciare i sovrani e sostituire le monarchie con le repubbliche unite tra di loro attraverso istituzioni politiche ed economiche sovrannazionali. Ora qualcuno vuole tornare indietro, ne ha facoltà e per certi versi la cosa affascina anche noi. Del resto chi non vorrebbe essere “padrone a casa propria”. Ma la domanda, mi rendo conto un po’ noiosa in questo torrido agosto, che dovremmo porci è la seguente: padroni di che cosa? “Di tutto”, sarebbe la risposta più ovvia e diretta. Ma è questa una risposta ottocentesca, buona per gli allocchi in campagna elettorale. Pensateci. Ieri è successa una certa cosa in Turchia e nel giro di pochi secondi la nostra economia e le nostre finanze sono crollate. Cosa c’entriamo noi con la Turchia – che non fa neppure parte dell’Europa – piuttosto che con i dazi che Trump mette alla Cina? Apparentemente nulla, ma in realtà molto e l’essere “padroni in casa nostra” non ci ha messo al riparo da danni enormi, né mai potrà farlo. Le banche italiane sono sovrannazionali, non per l’azionariato ma perché hanno nei loro bilanci beni (azioni e titoli) sovrannazionali. Le nostre aziende più eccellenti, grandi e piccole, sono sovrannazionali perché l’ottanta per cento del loro fatturato lo fanno all’estero e uno starnuto a Mosca o a Pechino può fare loro più male, o bene, di una nuova tassa, in più o in meno, decisa a Roma. Possiamo essere noi “sovrani” di questi diabolici e ineluttabili meccanismi? Proprio no, non è possibile, neppure se Matteo Salvini e Luigi Di Maio si sgolassero a urlarlo da qui all’eternità. E ancora. Possiamo essere “sovrani” sulla rete Internet che veicola oggi in tempo reale l’80% dell’informazione, vera o falsa che sia? Possiamo esserlo sull’imporre alle donne italiane le regole della maternità quando appena fuori dai nostri confini è ammesso qualsiasi tipo di fecondazione? Possono i “sovranisti” fermare la tecnologia che tutto permette a tutti? La risposta è sempre la stessa: no. Usciamo quindi dall’inganno sovranista. La questione non è essere favorevoli o contrari, semplicemente parliamo di una cosa irrealizzabile, fuori dal tempo. Io mi accontenterei di essere sovrano a casa mia, nel senso della mia famiglia. Ma anche lì ho non pochi problemi (e Salvini penso altrettanto)» (Il Giornale).

Non c’è il minimo dubbio. Per rimanere sul solo terreno “macroeconomico”, la cosiddetta filiera internazionale del valore è così lunga e complessa da rendere oltremodo difficile, se non praticamente impossibile, stabilire la nazionalità delle merci che compriamo, e ciò vale soprattutto per le merci più complesse la cui produzione è semplicemente inconcepibile fuori della divisione internazionale del lavoro – “manuale” e “intellettuale”.

Parlare poi di “sovranità” politica ed economica a proposito di un Paese di media/piccola potenza capitalistica come l’Italia è semplicemente ridicolo, e a saperlo benissimo sono in primo luogo quei “sovranisti-populisti” che cavalcano con destrezza il disagio sociale delle classi subalterne per conquistarne il consenso politico-elettorale e sfiancarle lasciandole libere di sfogarsi sul terreno dei capri espiatori (gli immigrati, Soros, i poteri forti, Bruxelles, Berlino, ecc.) e della guerra fra miserabili.

In questo momento è soprattutto il partito di Grillo & Casaleggio a essere molto interessato a spingere il pedale del “populismo socialmente orientato” perché intende crearsi un’ampia e durevole base di consenso clientelare-elettorale a cui attingere. Più che il modello “Prima Repubblica”, la cosa evoca ai miei occhi il modello chávista, naturalmente cambiando quel che c’è da cambiare: a cominciare dal fatto che il clientelismo “bolivariano” può contare sulla rendita petrolifera, mentre quello italiano può contare sulla fiscalità generale, come sa bene lo zoccolo duro dell’elettorato leghista: «Roma ladrona, la Lega non perdona!».

Oggi sovrano assoluto delle nostre vite è solo il Capitale, e il successo delle ideologie sovraniste e identitarie si spiega proprio con il dominio planetario e sempre più capillare degli interessi economici, i quali hanno il potere di piegare alla disumana logica del profitto tutto ciò che esiste tra terra e cielo. Le stesse guerre commerciali basate su politiche protezioniste confermano la natura planetaria e totalitaria dei vigenti rapporti sociali, i quali costringono i Paesi che più degli altri subiscono i contraccolpi negativi della globalizzazione (disoccupazione, precarizzazione del lavoro, distruzione della classe media) a tentare di praticare politiche economiche “sovraniste” e “populiste”, nel tentativo di ribaltare la situazione che oggi li vede perdenti sul terreno della competizione capitalistica totale – o globale. Il cosiddetto sovranismo è l’espressione di una forte debolezza sistemica, e lo conferma anche il fatto che l’uomo forte di Ankara oggi si scaglia contro gli Stati Uniti minacciando di abbandonarli per vendersi ai potenti di turno, ai cinesi in primis. Ma anche gli odiati russi vanno bene allo scopo: «Mosca è felice di poterci vendere i sofisticatissimi sistemi d’arma russi!» Auguri!

Scriveva sempre ieri Bruno Vespa: «Saremmo ovviamente tutti felici di avere al più presto date di pensionamento più eque, reddito di cittadinanza e tasse più basse. Ma la globalizzazione toglie sovranità». Impostato così il problema, la globalizzazione appare forse come un fenomeno che ci colpisce dall’esterno, mentre il nostro Paese ne fa parte a pieno titolo, e necessariamente, e chi ne fa le spesse sono come sempre i nullatenenti, i quali sono chiamati a inchinarsi al cattivo Moloch chiamato Globalizzazione. «Noi vorremmo, ma non possiamo!». Se non si comprende che è la sovranità del Capitale, che regge le sorti di tutti i Paesi e di tutti gli individui, a rendere non solo possibile ma senz’altro inevitabile la globalizzazione sistemica (economica, scientifica, tecnologica, culturale, “antropologica”), facilmente ci si espone alla falsa alternativa venduta sul mercato delle ideologie tra globalismo e sovranismo, europeismo e nazionalismo. Due facce della stessa escrementizia medaglia.

CUCINARE LENIN IN SALSA SOVRANISTA. SIGNORI, LA CIOFECA È SERVITA!

lenin-cat1Contrapporre Lenin, anche solo in guisa di mostruosa mummia crudelmente esposta nel noto mausoleo moscovita, alle «sinistre» in generale e alla Presidente della Camera Laura Boldrini in particolare è una bizzarra idea che poteva maturare solo nella dialettica testa di un autentico “marxista”, ancorché sedicente “ultimo”. Alludo forse al filosofo più telegenico d’Italia, nonché appunto «ultimo marxiano», come da rubrica, Diego Fusaro? Ovviamente! Leggiamo dunque una perla storico-dialettica di rara bellezza uscita dal suo fecondo cervello: «Nel tempo del sovrano disinteresse per la condizione del lavoro e per i diritti sociali, la sinistra pare essersi reinventata come sinistra arcobaleno dei diritti civili [rispetto a questa cianfrusaglia piccolo-borghese il Virile Vladimir Putin è cosa assai più seria!] e dell’Europa senza se e senza ma. Ma siamo davvero sicuri che l’idea degli Stati Uniti d’Europa sia emancipativa, progressiva e di sinistra? Proviamo a chiederlo a un autore che certo di destra non era e che sarebbe pure difficile liquidare come nazionalista o in odore di fascismo [excusatio non petita, accusatio manifesta?]. Alludo a Lenin, l’eroe della Rivoluzione bolscevica e del comunismo storico novecentesco» (1). Segue citazione leniniana tratta da un celebre (presso i cultori della materia, si capisce) scritto dell’agosto 1915: Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa (2). Ora, accostare l’uomo di Simbirsk alle «sinistre» (da Varoufakis a Laura Boldrini, da Lafontaine a Fassina, da Corbyn a… Fusaro), anche solo in forma strumentale, ossia per criticarne gli esponenti più illustri, ha un solo atomo di senso? A mio avviso ciò può avere un solo senso: quello di metterci nelle condizioni di comprendere l’idea di “sinistra” che hanno in testa Fusaro e gli intellettuali “marxisti” di analogo (pessimo!) conio politico-ideologico. Ma nel momento in cui perfino un Alfredo Reichlin può impunemente scrivere sul giornale fondato da Matteo Renzi (L’Unità) i passi che seguono: «Ebbene sì, Enrico Berlinguer era comunista. Ma c’è di peggio. C’è gente come me che non solo era comunista, lo è ancora»; se le cose stanno così, nessuno, nemmeno Vladimir Il’ic in persona, può impedire al personaggio non di rado preso di mira su questo modesto blog le corbellerie storico-politiche che ama propinare sul mercato delle ideologie.  Ma sì, arruoliamo pure l’internazionalista Lenin nella campagna antieuropeista a difesa dello Stato nazionale (borghese)!

Ma cosa scriveva nel pieno della Grande Guerra il capo bolscevico a proposito dell’ultrareazionaria parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa? Leggiamo qualche passo tratto dall’articolo citato sopra: «Gli Stati uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari. Il capitale è divenuto internazionale e monopolistico. […] In regime capitalistico non è possibile un ritmo uniforme dello sviluppo economico né delle singole aziende, né dei singoli Stati. In regime capitalistico non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in tanto l’equilibrio spezzato, all’infuori della crisi economica nell’industria, e della guerra nella politica. Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati uniti d’Europa, come accordo fra i capitalisti europei… Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme, le colonie usurpate, contro il Giappone e l’America che sono molto lesi dall’attuale spartizione delle colonie e che nell’ultimo cinquantennio si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell’Europa arretrata, monarchica, la quale incomincia a putrefarsi per senilità. In confronto agli Stati Uniti d’America, l’Europa, nel suo insieme, rappresenta la stasi economica. […] Gli Stati uniti del mondo (e non d’Europa) rappresentano la forma statale di unione e di libertà delle nazioni, che per noi è legata al socialismo, fino a che la completa vittoria del comunismo non porterà alla spartizione definitiva di qualsiasi Stato, compresi quelli democratici» (313-314). Per Lenin, dunque, il progetto “europeista” si collocava interamente nella dimensione degli interessi del Capitalismo europeo giunto nella sua fase imperialista: conservare le colonie, difendere lo status quo politico-istituzionale del Vecchio Continente, schiacciare il proletariato rivoluzionario, rafforzarsi nei confronti degli imperialismi concorrenti: Stati Uniti d’America e Giappone, in primis.

Osservo en passant che in una nota scritta alla fine dell’agosto 1915 Lenin puntualizza nuovamente come «la parola d’ordine reazionaria» degli Stati Uniti d’Europa significasse «un’alleanza temporanea delle grandi potenze d’Europa per una più efficace oppressione delle colonie e per la rapina del Giappone e dell’America, che si sviluppano più rapidamente» (3). Ora, volendo ragionare al modo di tante mosche cocchiere “antimperialiste” che ancora oggi si basano sul famigerato principio maoista del Nemico Principale, dovremmo concludere che allora Lenin sostenesse politicamente, in chiave tattica, l’imperialismo nippo-americano («Nemico secondario») contro l’Europa («Nemico principale»). Cosa che naturalmente farebbe scompisciare dal ridere anche la mummia di Lenin.

Ovviamente il rivoluzionario russo non era così teoricamente sciocco e politicamente così sprovveduto da pensare che la rivoluzione sociale proletaria potesse avere immediatamente una dimensione mondiale; proprio a causa dell’ineguale sviluppo capitalistico, «una legge assoluta del capitalismo» che detta i tempi – e impone il ritmo – al processo sociale considerato nella sua dimensione planetaria rende impossibile «il trionfo del socialismo» in tutti i Paesi, o quantomeno nei più importanti Paesi del mondo, “in simultanea”, e nemmeno nel corso di un breve arco di tempo. Certo, se poi la cosa dovesse realizzarsi nessun comunista griderebbe allo scandalo, questo è sicuro! Ma è sempre meglio attrezzarsi per il peggio, come testimonia peraltro la stessa esperienza rivoluzionaria europea di inizio Novecento culminata nell’Ottobre Rosso – poi, con lo stalinismo, diventato Russo, anzi: Grande-Russo.

Qualche mese fa un lettere di un mio post sulla Cuba castrista mi domandava (fra l’altro): «Dunque per te la rivoluzione o è mondiale o non è?». Ecco la mia risposta:

Anche per me la rivoluzione sociale anticapitalistica non può prescindere dall’ambito nazionale, necessariamente, perché la dimensione nazionale è un dato di fatto. La simultaneità della presa del potere su scala planetaria è un’ipotesi affascinante e bellissima, ma credo abbastanza utopistica. Penso anche che se la dimensione nazionale di una rivoluzione riuscita non viene superata quanto prima (e solo la prassi può stabilire la misura di questo tempo) la «costruzione del socialismo in un solo Paese» sia non un’utopia, ma un’idea ultrareazionaria buona solo a mistificare la realtà della sconfitta. Ogni riferimento alla controrivoluzione stalinista è del tutto voluto. La natura proletaria e socialista del Grande Azzardo leniniano non consistette, a mio avviso, nelle misure economico-sociali prese dai bolscevichi dopo l’Ottobre, quasi tutte rubricabili come provvedimenti da economia di guerra (questo fu in pratica il “Comunismo di guerra” sul terreno economico-organizzativo, come confesserà lo stesso Lenin nel 1921, in sede di bilancio critico) (4), ma nella dimensione internazionale di quella rivoluzione, nel porsi essa come avanguardia di un processo sociale rivoluzionario di respiro mondiale, o quantomeno europeo. La Russia come anello debole della catena imperialistica; la Rivoluzione Russa come scintilla che incendia il mondo: su queste basi Lenin architettò nel corso di molti anni e implementò con geniale tempestività il Grande Azzardo. Com’è noto, il mondo non prese fuoco. Ma ciò, sempre a mio avviso, non depone contro la Grande Scommessa; dimostra piuttosto che la rivoluzione sociale è un’equazione con moltissime incognite (5).

Lo scritto di Lenin sugli stati Uniti d’Europa è stato spesse volte chiamato in causa dagli stalinisti, e dallo stesso Stalin nel dicembre del 1924, se ricordo bene, per dimostrare – contro Trotskij (6) – come la tesi del Socialismo in un solo Paese fosse stata elaborata, o quantomeno evocata, per la prima volta da Lenin, il quale scriveva: «È possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si porrebbe contro il resto del mondo capitalistico, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, infiammandole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati» (7). Ora, qualsiasi cosa avesse in testa Lenin nel 1915 a proposito dell’organizzazione della produzione socialista in un solo Paese (e certamente allora egli non stava pensando alla capitalisticamente arretrata Russia, ma semmai alla Germania e all’Inghilterra), rimane il fatto che alla fine della Guerra Civile il comunista russo sosterrà la vitale necessità di una dolorosa «ritirata strategica», da sostanziarsi soprattutto in una Nuova Politica Economica che mettesse il proletariato russo nelle condizioni materiali, oserei dire fisiologiche, di resistere al potere in alleanza con i contadini poveri, in attesa di un nuovo ciclo rivoluzionario in Europa e nel mondo. La Rivoluzione d’Ottobre può essere valutata correttamente solo da un punto di vista internazionale.  La scommessa, al limite dell’impossibile, non andò a buon fine, e al posto della rivoluzione mondiale chiamata a soccorrere l’affamata, isolata e accerchiata Russia dei Soviet sarebbe arrivata la marea controrivoluzionaria che porta il nome di Stalin. Ma questa è un’altra storia – il cui maligno retaggio però continua a intossicare non poche teste.

Se, per mera (assurda?) ipotesi, qualche marxista, o perfino lo stesso Marx (che però non era, com’è noto, un marxista, esattamente come chi scrive!), prima del 1917 avesse coltivato l’idea del «Socialismo in un solo Paese», la prassi, la prova regina del materialismo storico, ha definitivamente tolto ogni pur debole fondamento a quell’idea sbagliata sul terreno della teoria critico-rivoluzionaria. La prassi controrivoluzionaria ha confermato in pieno la teoria rivoluzionaria.

Il materialista storico-dialettico Fusaro mette nella testa di Vladimir (si parla di Il’ic Ul’janov, non di Putin!) il concetto di nazione che lui ha nella sua testolina di intellettuale borghese, e così fa del comunista russo un sostenitore, uno sponsor di «un impiego emancipativo del concetto di nazione, non regressivo e reazionario». In primo luogo, se Lenin non avesse concepito (già un secolo fa!) la nazione, almeno la nazione come si configurava storicamente e socialmente nei Paesi capitalisticamente avanzati del suo tempo (ma anche nella Russia zarista, per la sua funzione storica di avamposto controrivoluzionario), nei termini di un concetto regressivo e reazionario, un concetto contrario alla lotta di emancipazione delle classi subalterne e dell’intera umanità, egli non avrebbe certo definito come imperialista, da ogni lato del fronte, la natura della Grande Guerra. Lenin oppose alla reazionaria parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa l’internazionalismo proletario, non un «concetto di nazione non regressivo e reazionario». Scriveva sempre Lenin: «L’Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l’Italia della rivoluzione borghese che si liberava dal giogo austriaco, l’Italia del tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente davanti ai nostri occhi nell’Italia che opprime altri popoli, che depreda la Turchia e l’Austria, nell’Italia di una borghesia brutale, sudicia, reazionaria» (8).  Ecco come ragiona un autentico materialista storico: sul piano del progresso storico l’Imperialismo, in Italia e negli altri Paesi capitalisticamente sviluppati d’Europa e del mondo, attesta definitivamente, una volta per tutte, l’esaurimento della spinta propulsiva dell’epoca borghese, e ciò implica necessariamente che niente di storicamente progressivo (non diciamo di rivoluzionario) può più dare la borghesia nazionale nell’epoca del dominio totalitario (o globale) del Capitale sugli uomini e sulla natura. Altro che Nazione proletaria! Altro che Secondo Risorgimento! Altro che Nazionalismo di classe! Altro che Socialismo nazionale! Altro che… Benito Mussolini! Analogo discorso si può fare per la Seconda guerra mondiale.

In risposta al libro di T. Barboni Internazionalismo o nazionalismo di classe? (1915), Lenin scrisse che i veri socialisti «devono servirsi di ogni lotta allo scopo di smascherare e abbattere ogni governo, e in prima linea il proprio governo per mezzo dell’azione rivoluzionaria del proletariato internazionalmente solidale. Non c’è via di mezzo; in altre parole: il tentativo di prendere una posizione intermedia significa in realtà un passaggio camuffato dalla parte della borghesia imperialista» (9). Com’è noto, la mosca cocchiera (o «transfuga del partito operaio» secondo il Lenin del 1915) che si affermerà in guisa di Duce degli italiani all’inizio degli anni venti, alla fine del 1914 bollò la posizione internazionalista qui sintetizzata da Lenin (e sostenuta dall’estrema sinistra del PSI) come il frutto di un socialismo parolaio che non sapeva fare i conti con la storia, e che quindi era condannato al più impotente dei settarismi. Contro la «barbarie teutonica» l’ex massimalista di Predappio difendeva «un impiego emancipativo del concetto di nazione, non regressivo e reazionario».

In secondo luogo, la dimensione nazionale a cui alludeva Lenin nello scritto sull’Europa era quella segnata dalla rivoluzione proletaria vittoriosa, non la dimensione caratterizzata dal dominio capitalistico. Quando parla di nazione e di Stato nazionale Fusaro rimane sempre nel vago, usa formule ambigue (10) prese a prestito quasi sempre da Gramsci: non si capisce se sta parlando dello Stato nazione borghese, o dello Stato di nuovo conio che sorge in quanto «dittatura rivoluzionaria del proletariato», secondo la nota formulazione marxiana. Scrive Fusaro: «Come dirà Gramsci, nei Quaderni del carcere, la prospettiva deve certo essere internazionalista (l’emancipazione dell’umanità), ma il punto di partenza dev’essere nazionale». Su questo punto io cito l’internazionalista di Treviri: «Lassalle aveva considerato il movimento operaio dal più angusto punto di vista nazionale, in contrasto con il Manifesto comunista e con tutto il socialismo precedente. Lo si segue in questo e proprio dopo l’attività dell’Internazionale! Si comprende da sé che per poter, in genere, combattere, la classe operaia deve necessariamente organizzarsi nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il teatro immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma per la sua “forma”. Ma l’ambito dell’odierno Stato nazionale, per esempio del Reich tedesco, si trova a sua volta, economicamente, nell’ambito del mercato mondiale, e politicamente “nell’ambito del sistema degli Stati”. […] L’intero programma , malgrado tutte le chiacchiere democratiche, è appestato completamente dalla fede del suddito, proprio della setta di Lassalle, verso lo Stato o, cosa non certo migliore, dalla fede democratica nei miracoli, oppure è piuttosto un compromesso tra queste due specie di fede nei miracoli, ugualmente lontane dal socialismo» (11). Avete capito adesso chi è il vero teorico dei socialsovranisti, da Stalin in poi? State forse pensando allo statalista Lassalle? Allora pensate bene! Il fatto che la stragrande maggioranza delle persone, di “destra” come di “sinistra”, associa il “socialismo” con il Capitalismo di Stato ci dà la misura del successo politico di Lassalle, camuffato con la barba del mangia crauti tedesco (12).

«Io non sto con i buoni. Io sto con i cattivi. Io non sto con gli Stati Uniti di Obama ma con la Russia di Putin, e anche l’Europa dovrebbe stare con il “cattivo” Putin. Il mondo ha bisogno di una Russia geopoliticamente forte e militarmente autonoma. L’Europa dovrebbe guardare alla Russia per contenere l’imperialismo americano, per appoggiare i Paesi che vi si oppongono, per frenare il dilagare dell’economia capitalistica di stampo americano. Ma l’Europa oggi non esiste nemmeno geograficamente; esiste solo l’euro» (13). Geopoliticamente parlando l’Europa non esiste: che peccato! Ma un momento: questo significa che degli Stati Uniti d’Europa cattivi, geopoliticamente forti e militarmente autonomi, ossia di stampo rigorosamente antiamericano, andrebbero bene a Fusaro? Giuro, non l’ho ancora capito! Per una mia congenita indigenza dialettica, probabilmente.

In effetti, l’intellettuale che dalla gabbia televisiva recita il ruolo del “rivoluzionario” duro e puro per una platea assetata di sangue “castale” e neoliberista sembra avere occhi solo per un imperialismo (quello statunitense/Occidentale), solo per un’economia sfruttatrice (quella di stampo anglosassone), solo per una cultura omologata e omologante (quella statunitense/Occidentale). Evidentemente egli ritiene più “umani” e “progressivi” l’imperialismo, il capitalismo e la cultura dei Paesi concorrenti degli Stati Uniti. Insomma, qui ci troviamo dinanzi al solito antiamericanismo camuffato da antimperialismo che sa fare politica e geopolitica, che è in grado di fare i conti con la realtà qual è, e non come taluni dottrinari vorrebbero che fosse. Peccato che sia una capacità politica messa interamente al servizio dell’imperialismo che contende agli Stati Uniti il dominio, o quantomeno l’egemonia sull’intero pianeta. L’operazione politica di non pochi putinisti di “sinistra” (perché ci sono anche quelli di “destra”) è oltremodo chiara: mettere l’internazionalista Lenin al servizio dell’imperialismo russo, assetato di rivincita dopo i disastri dell’Unione Sovietica. Cucinare Lenin in salsa putiniana: la ciofeca è servita!

«La vera prospettiva internazionale è quella che non annulla le specificità universali sotto il segno del capitale e della sua uniformazione planetaria: è, invece, quella che unifica mantenendo le specificità nazionali e culturali, facendo sì che i popoli siano fratelli e democratici, liberi e solidali. Per queste ragioni, oggi più che mai, con Lenin bisogna ripetere senza tema di smentita che “la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa è sbagliata”» (14). Almeno fino a quando essa non sarà lanciata contro gli Stati Uniti d’America: sbaglio? Che significa, poi, mantenere le «specificità nazionali e culturali»: di quali nazioni e di quale cultura si sta parlando? «Che i popoli siano fratelli e democratici, liberi e solidali»: qui poi siamo in piena retorica veterostalinista! Quando un Tizio dice di voler stare con la Russia di Putin (o con l’America di Obama, con la Germania della Merkel, con la Cina di Xi Jinping, con il Venezuela chavista, e così via), e magari difende le ragioni del noto macellaio di Damasco, e poi, come se niente fosse, mi parla di “socialismo”, di “libertà” e di “umanità”, beh io non posso fare a meno di tirare fuori la metaforica pistola: come diceva il compagno Totò, anche il mio limite ha una pazienza!

«Lenin», ci spiega ancora Fusaro, «sta dicendo che la lotta contro l’internazionalismo deve essere lotta all’interno dello Stato nazionale: non per santificare lo Stato nazionale, bensì per fare sì che da singoli Stati nazionali liberati dal capitale si passi gradualmente a un’universalizzazione del socialismo, mediante la lotta di questi Stati contro il regime del classismo planetario». Ecco, questo lo dice appunto Lenin, sempre al netto delle ambiguità fusariane intorno allo Stato nazionale. Ecco cosa invece dice Fusaro in quanto Fusaro: «È il culmine del dominio usurocratico del capitale, che con il debito impone la schiavitù e nuove radicali forme di classismo, delle quali la Grecia è un laboratorio a cielo aperto. È il sistema che distrugge il pur residuale [sic!] primato del politico sull’economico, primato garantito dalla forma Stato [borghese, aggiungo io per mera pignoleria]. Seguitando con Lenin [ci risiamo!], gli Stati Uniti d’Europa si sono realizzati, appunto, da Maastricht a Lisbona, “come accordo fra i capitalisti europei” con il tacito accordo di schiacciare non solo “il socialismo in Europa”, ma anche le residue forme di democrazia esistenti nel quadro del vecchio e certo perfettibile [all’infinito!] Stato sovrano nazionale» (borghese). Non è che citando Marx e Lenin nel contesto di una riflessione centrata sulla difesa dello Stato nazionale (borghese, lo Stato nazionale del XXI secolo, epoca del tardo imperialismo), questa riflessione diventa, chissà per quale strana magia, meno ultrareazionaria. Questo modo di fare può forse impressionare qualche intellettuale sinistrorso ossessionato dal «pensiero unico neoliberista» ma non certo chi si sforza – almeno ci tenta!  – di elaborare un’autentica posizione anticapitalistica, di praticare l’autonomia di classe come sa, tutte le volte che può, nei modi che la contingenza rende possibile.

A proposito, con «il socialismo in Europa» che sarebbe stato schiacciato dagli Stati Uniti d’Europa «da Maastricht a Lisbona» si allude forse al cosiddetto «Socialismo reale» di marca russa? Lo so, la domanda suona fortemente retorica, visto che Fusaro è fra i non pochi (compresi molti geopolitici occidentali) che rimpiangono il precedente assetto imperialistico del mondo chiamato Guerra Fredda (15).

«Quello che mi piace di Tsipras, diversamente da una certa sinistra nostrana, è la capacità d’intrecciare la lotta classica contro il capitale transnazionale finanziario per l’emancipazione a una lotta per la sovranità nazionale democratica» (16). Così parlava il nostro filosofo il 26 agosto scorso, cioè prima che il leader greco portasse a compimento il suo “tradimento” accettando (per pavidità? per opportunismo? per realpolitik?) gli ignobili diktat dei famigerati “poteri forti” transnazionali. In buona sostanza, per Fusaro Lenin e il Tsipras dell’ Oxi stanno, mutatis mutandis, sullo stesso terreno politico: quello della “vera sinistra”; i due personaggi condividerebbero, sempre mutatis mutandis,  la stessa prospettiva strategica: la rivoluzione sociale anticapitalistica in vista della comunità senza classi. Naturalmente nell’ambiente mediatico, culturale e politico che abitualmente frequenta il Nostro a nessuno verrà mai in mente di chiedergli: «Scusi, ma lei sostiene queste cose per scherzare, per farci ridere, per prenderci in giro oppure crede davvero in quel che dice?». Ci crede, ci crede, eccome se ci crede! Un’altra perla fusariana: «Sempre citando Lenin, in forma variata, oggigiorno solo lo Stato può essere rivoluzione, perché è il solo capace, potenzialmente, di imporre politiche di sviluppo e distributive senza dover chiedere il permesso alla Finanza internazionale». Più che «in forma variata», Fusaro cita Lenin in forma avariata. Infatti, lo Stato di cui egli parla è lo Stato attuale, lo Stato come Leviatano posto a difesa dei vigenti rapporti sociali; ciò che per lui rappresenta, almeno «oggigiorno», la «rivoluzione» è il Capitalismo di Stato (o «socialismo nazionale», socialnazionalismo, come si chiamava una volta). Mi stupisco? Mi indigno? Trasecolo? Mi arrabbio? Ma nemmeno un poco! È una vita che faccio i conti con stalinisti e statalisti d’ogni risma e colore.

Quando gli intellettuali “marxisti” cianciano di “rivoluzione”, di “lotta di classe”, di “comunità umana”, di “anticapitalismo” e quant’altro, per capire l’autentico significato del loro discorso bisogna fare la dovuta tara alle parole che usano, le quali normalmente celano una sostanza che chiamare escrementizia è ancora poco. Un ultimo esempio: «Credo nel primato della politica e dello Stato [borghese!] sull’economia. Un ritorno a una valuta nazionale sia in Grecia come in Italia sarebbe un modo per riaffermare il potere sovrano dello Stato» [borghese]. Solo dei raffinati dialettici possono afferrare la sostanza “internazionalista” e “umanista” in un discorso che prima facie appare grettamente e odiosamente nazionalista.

«Il sacro dogma degli Stati Uniti d’Europa», lamenta Fusaro, «da qualche tempo è diventato la nuova bandiera delle sinistre, un cliché indiscutibile, sottratto a ogni agire comunicativo habermasiano e a ogni dialogo socratico: di più, chi osi anche solo metterlo in discussione sarà puntualmente silenziato e diffamato con le categorie di reazionario e nazionalista» (17). Personalmente credo che si possa dare tranquillamente, e con un certo fondamento “scientifico”, del reazionario nazionalista al filosofo ingabbiato anche senza conoscere né l’«agire comunicativo habermasiano», qualunque significato si voglia attribuire a questa sofisticata  locuzione, né il dialogo socratico. Lo dico sapendo peraltro che con me il simpatico “ultimo marxiano” non corre il rischio né di essere silenziato né di essere diffamato: purtroppo non sono un assiduo frequentatore di talk show televisivi. Mannaggia!

(1) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.
(2) Lenin, Opere, XXI, p. 311, Editori Riuniti, 1966.
(3) Lenin, Opere, XXI, p. 315.
(4) Nell’ottobre del ’21, presentando al Partito La Nuova Politica Economica, Lenin ammise con la consueta franchezza la grande illusione nella quale i bolscevichi vissero durante tutto il periodo precedente: «In parte sotto l’influenza dei problemi militari e della situazione apparentemente disperata nella quale si trovava la repubblica noi commettemmo l’errore di voler passare direttamente alla produzione e alla distribuzione su basi comuniste. […] Non posso affermare che noi allora ci raffigurassimo questo piano con così grande precisione ed evidenza; comunque, agimmo press’a poco in questo senso. Disgraziatamente è così» (Lenin, La Nuova Politica Economica e i compiti dei centri di educazione politica, Opere, XXXIII, p. 48, opere, 1967). Scriveva  sempre Lenin in un opuscolo del 1918 (Sull’economia russa contemporanea ): «Nessun comunista, credo, ha più contestato che l’espressione “Repubblica socialista sovietica” significa che il potere dei Soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici» (i passi saranno ripresi dallo stesso autore nell’importante discorso Sull’imposta in natura, 1921,  p. 310, Opere, XXXII, 1967).
Come ricorderà Lukács nel 1967, nella Postilla all’edizione italiana del suo saggio su Lenin del 1924, «Già prima dell’ottobre 1917 Lenin previde giustamente che nella Russia economicamente arretrata era indispensabile una forma di transizione del tipo della futura NEP. Tuttavia la guerra civile e gli interventi imposero ai soviet di ricorrere al cosiddetto “comunismo di guerra”. Lenin si piegò alla necessità dei fatti, senza però rinunciare alla sua convinzione teorica. Egli attuò al meglio tutto il “comunismo di guerra” che la situazione imponeva, ma, a differenza della maggior parte dei suoi contemporanei, senza riconoscere neppure per un istante nel comunismo di guerra la vera forma di transizione al socialismo; era fermamente deciso a tornare alla linea teoricamente giusta della NEP, appena la guerra civile e gli interventi [militari] fossero finiti. In entrambi i casi non si comportò né da empirista né da dogmatico, ma da teorico della prassi, da realizzatore della teoria» (G. Lukács, Lenin, Unità e coerenza del suo pensiero, p. 124, Einaudi, 1967).
(5) Nel caso di specie, la più grande incognita fu rappresentata dai contadini. «Non per niente i radicali russi chiamavano il contadino la sfinge della storia russa» (L. Trotskij, La rivoluzione permanente, 1929, p. 77, Einaudi, 1975 ). Sul ruolo ambivalente (contraddittorio) giocato nella Rivoluzione d’Ottobre dai contadini rinvio al mio studio Lo scoglio e il mare.
(6) «È utile ricordare qui la distinzione trotskiana tra Stato operaio e società socialista. Lo Stato operaio sorge non appena il potere politico è stato strappato alle vecchie classi dominanti, emerge dalla stessa vittoria della rivoluzione. la società socialista è lo stadio conclusivo di un processo, ed è appunto questo stadio che non può essere raggiunto se non infrangendo il quadro angusto degli Stati nazionali. E dalla proposizione teorica derivano implicazioni politiche concrete. Dall’affermazione della possibilità della costruzione del socialismo in un paese solo e, più tardi, dalla presunzione che l’obiettivo fosse stato raggiunto, discendeva che compito essenziale di tutto il movimento operaio e dell’Internazionale era la difesa dello Stato sovietico. Dalla tesi trotskiana discendeva, invece, che compito primario era lo sviluppo della rivoluzione su scala mondiale e che a questo fine la difesa degli interessi dello Stato sovietico doveva essere subordinata. A Trotskij l’utopia risibile di una rivoluzione contemporanea su scala mondiale o continentale non gli può essere in alcun modo attribuita» (L. Maitan, Introduzione a La rivoluzione permanente di Trotskij, pp. XIX-XX). In compenso, si può accusarlo di intelligenza con il Capitalismo mondiale, con l’imperialismo, con il fascismo, con il nazismo (salvo Patto Ribbentrop-Molotov, si capisce), e magari poi spettinargli i capelli con un bel colpo di piccozza, giusto per estirpare definitivamente dalla sua testa traditrice la mala pianta del… trotskismo.
(7) Lenin, Sulla parola d’ordine…, p. 314.
(8) Lenin, Imperialismo e socialismo in Italia, 1915, Opere, XXI, p. 327.
(9) Ibidem, p. 331.
(10) Del genere: «Il concetto di comunità umana deve esprimersi non attraverso l’internazionalismo [e questo è chiarissimo!], ma attraverso comunità locali specifiche» (e questo è meno chiaro, diciamo). Più che marxismo, più o meno (a)variato, qui parlerei di supercazzolismo comunitarista.
(11) K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875, pp. 45-56, Savelli, 1975.
(12) Scriveva E. Franceschini qualche giorno fa su Repubblica: «Nelle librerie d’Inghilterra c’è una nicchia che all’improvviso vende benissimo: quella specializzate in opere di Marx, saggi sull’anarchia, testi sulla storia del movimento operaio. Il Times lo descrive come un’esplosione di interesse per i libri di sinistra, collegando il fenomeno alla “Corbynmania”: il fervore per un progressismo più radicale e per i suoi valori tradizionali, alimentato dalla recente elezione di Jeremy Corbyn, per trent’anni inascoltata primula rossa del suo partito, a nuovo leader del Labour, a cui ha imposto una sterzata rispetto al riformismo di Tony Blair e anche alla linea dei suoi successori Gordon Brown e Ed Miliband. […] Nuovi clienti, in particolare giovani, richiedono autori che erano stati a lungo messi da parte; e le presentazioni di libri su questi argomenti registrano di colpo il tutto esaurito. […] Un simile revival potrebbe rendere orgoglioso Karl Marx [come no!], che a Londra morì e vi è sepolto. Ma proprio attorno alla sua tomba è scoppiata in questi giorni una polemica, riportava ieri l’edizione europea del Wall Street Journal. Il piccolo cimitero di Highgate dove giace il padre del comunismo è privato, non pubblico; e i gestori fanno pagare 4 sterline (circa 5 euro e mezzo) d’ingresso ai visitatori che vanno a scattare foto o deporre fiori sulla lapide con la scritta “proletari di tutto il mondo unitevi”. I responsabili sostengono che quei soldi servono a coprire le spese per tenere in ordine il cimitero, ma qualche associazione di sinistra contesta la procedura come un modo indebito di fare soldi sul marxismo [presto, datemi un martello!]. Sarebbe piaciuto al nemico del capitalismo, ironizza il quotidiano di Wall Street, un simile commercio sul suo sepolcro?». Ma la domanda che, anche qui, deve porsi chiunque abbia un minimo di sale in zucca è un’altra, questa: che cavolo ci azzecca l’ultrareazionario (e ultra scialbo) Corbyn con il comunista di Treviri? Che senso ha leggere Marx, o un altro rivoluzionario (anche borghese: un Robespierre, ad esempio), alla luce della “teoria” e della prassi di un Corbyn? Può avere un solo significato, quello di addomesticare lo Spettro, di ridurlo in guisa di vecchio leone da zoo: spelacchiato, sdentato, fiaccato dalla noia, incapace di ruggire mentre in compenso sbadiglia per tutto il giorno. Meglio, molto meglio, l’oblio!  Associare in qualche modo Marx al nuovo leader laburista inglese la dice lunga sul cattivo mondo in cui viviamo; un mondo totalmente incapace non solo di “fare” la rivoluzione sociale ma anche semplicemente di pensarla. E così all’ubriacone tedesco possiamo fargli recitare come se nulla fosse la parte del nonno degli ultrareazionari chiamati progressisti (o “socialisti”, o financo “marxisti”). Si, datemi un martello! «Che cosa ne vuoi fare?». Beh, per iniziare potrei distruggere il Santo Sepolcro di Londra, e poi magari fare una capatina a Mosca… Iconoclasta, sono!
(13) D. Fusaro, da La Gabbia, 16 settembre 2015.
(14) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.
(15) «La Russia in Siria ci riporta alla Guerra Fredda, per fortuna. Dalla dissoluzione dell’Urss, l’Onu e la cosiddetta comunità internazionale hanno sostenuto interventi “umanitari” contro i governi legittimi, con risultati disastrosi. La mossa di Putin può anticipare un sano ritorno al multilateralismo e alla tutela dello Stato sovrano» (C. Moffa, Limes, 26 ottobre 2015). Sì, compagni e amici, visto che oggi non possiamo fare la rivoluzione sociale mondiale simultanea, non ci rimane che lottare affinché il mondo abbia non un solo poliziotto, ma molti poliziotti; non un solo padrone, ma molti padroni. È la politica del “male minore” in vista di “equilibri sociali più avanzati”.
(16) Intervista di A. De Alberi a D. Fusaro, Lettera 43, 26 agosto 2015.
(17) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.

LE ECCITANTI AMBIZIONI DELLA SINISTRA SOVRANISTA

eni-aperturaDefinire il Sovranismo come la malattia senile del Nazionalismo mi sembra ancora troppo poco.

Che cosa vuole l’italica Sinistra Sovranista? È presto detto: ripristinare il funzionamento del motore del Capitalismo italiano, «da tempo inceppato», e scongiurare alla Patria quel destino di servaggio economico e politico cui esso sembra inesorabilmente avviato dopo il suo inserimento organico nello spazio politico-economico europeo egemonizzato dalla Germania.

Si dirà che la Destra Sovranista coltiva gli stessi obiettivi. E difatti è proprio così, e basta leggere, ad esempio, i documenti prodotti da Casapound sulla necessità di difendere i «campioni nazionali» dell’industria tricolore dalla selvaggia ingordigia del «capitale straniero» (germanico e cinese, in primis) per averne piena contezza. Questo, fra l’altro, a ulteriore dimostrazione di quanto assimilabili a uno stesso ceppo ideologico (quello che ha nel Capitalismo di Stato e nella Nazione il suo riferimento materiale) siano lo stalinismo, di vecchio (quello che pregava con la faccia rivolta verso la Mecca del «socialismo reale») e di nuovo conio (quello che ha in Chávez il suo nuovo santino), e il fascismo, anche qui di vecchio (quello che sospirava nostalgicamente pensando alla Repubblica Sociale di Salò) e di nuovo conio (quello che guarda con simpatia alla Grecia di Alba Dorata).

Provoco? Nient’affatto! Mi limito a osservare la situazione del Bel Paese e del mondo da un punto di vista completamente estraneo e ostile tanto alla Sinistra Sovranista quanto alla sua degna e speculare controparte destrorsa. Si tratta del punto di vista che vede nello Stato nazionale, e in ogni forma di Stato (compreso l’ipotetico Stato sovranazionale europeo che tanto inquieta i Sovranisti d’ogni razza e colore), il Leviatano posto a guardia dei rapporti sociali capitalistici, non importa se orientati in direzione del Capitalismo di Stato, come sognano gli ultrareazionari di cui sopra, oppure in direzione del cosiddetto Capitalismo liberista-selvaggio, spauracchio di destri e sinistri.

imagesQ5JI5K1UCome Marcello De Cecco, i Social-Sovranisti (acronimo SS) vedono nel nazionalismo, nel protezionismo e nella regolamentazione dei mercati, soprattutto di quelli finanziari, la via maestra per uscire dalla perdurante crisi, le sole reali soluzioni ai drammatici problemi posti da essa: «Averle screditate e messe da parte per più di un cinquantennio come se si trattasse di pulsioni peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione internazionale è stato colpevole e persino stupido, perché in forma blanda esse dovevano rimanere in voga, persino il nazionalismo» (M. De Cecco). Qui ogni gesto scaramantico, inteso a esorcizzare la stessa idea di un’infausta precipitazione bellica (si celebra pure il centenario della Grande Guerra!) è più che legittimo, secondo il detto non ci credo ma

Per Sergio Cesaratto, sinistro critico dell’internazionalista Marx e ammiratore del nazionalista Friedrich List, «lo Stato nazionale costituisce il playing field in cui si articola la battaglia per la giustizia ed in questo senso l’autonomia nazionale è un obiettivo per la classe lavoratrice» (Fra Marx e List). È, con rispetto parlando, la stessa escrementizia tesi che sostenne alla fine degli anni Novanta Fausto Bertinotti contro il secessionismo leghista: la Nazione come indispensabile spazio di agibilità politica delle lotte operaie. Difendere l’unità della nazione, sostenne allora il teorico del kashmir in fatto di abbigliamento, significa difendere lo spazio all’interno del quale si dà ogni articolazione democratica della società civile. Con ciò veniva sdoganato persino lo sventolio – “da sinistra”: vedi la coppia Rame-Fo – del tricolore anche al di fuori delle competizioni sportive. Questo solo per dire che dal punto di vista “dottrinario” nulla di nuovo si muove sotto il cielo di questo sinistro Paese.

Secondo Cesaratto «La necessità del consenso della classe lavoratrice alla costruzione dello Stato nazionale ha storicamente portato le borghesie nazionali a prendere l’iniziativa nella creazione delle istituzioni dello stato sociale. Il caso di scuola è quello della Germania di Bismarck». Detto che «il caso di scuola» citato rappresenta un caso di successo per la classe dominante tedesca (e non solo), e non certo per la classe lavoratrice tedesca (e non solo), e che evocare oggi, nell’epoca della sussunzione totalitaria e planetaria degli individui agli interessi del Capitale, la «Germania di Bismarck» è quantomeno anacronistico (notare l’eufemismo), solo degli sprovveduti possono parlare ancora in termini lusinghieri del cosiddetto «stato sociale», la cui crisi non è imputabile alla «controrivoluzione liberista» (Carlo Formenti), bensì ai meccanismi interni che regolano l’accumulazione capitalistica, la creazione e la distribuzione della ricchezza sociale nella sua vigente forma storico-sociale. A proposito: la «controrivoluzione liberista» postula per il passato una «rivoluzione» che mi è passata sotto il naso senza che ne avessi alcuna contezza?  Misteri del sinistrismo, nostalgico del mondo perduto caratterizzato dalla Guerra Fredda e dallo statalismo nelle sue diverse gradazioni e coloriture ideologiche: stalinista, cattocomunista, socialdemocratico, keynesiano.

Scrive Antonio Pagliarone: «L’ideologia keynesiana dominante nel passato aveva generato l’illusione di un capitalismo in crescita permanente all’interno del quale i lavoratori avrebbero beneficiato del sostegno statale in eterno. In realtà i lavoratori lo stato sociale se lo sono pagato, eccome. Anzi attraverso la tassazione dei salari è stato possibile addirittura finanziare le avventure belliche del secondo dopoguerra. Anwar Shaikh arriva alla conclusione per gli Stati Uniti secondo la quale: “Nel complesso è la tassazione sulla popolazione lavorativa che essenzialmente finanzia le spese statali relative alla salute, all’istruzione, alla previdenza, alla disoccupazione, ai sussidi statali, alle abitazioni e a tutta una serie di programmi sociali”» (Introduzione a La crisi. Raccolta di saggi di Anwar Shaikh, Connessioni Ed., 2012).

Ma ritorniamo, per concludere rapidamente, ai militanti della Sinistra Sovranista di MPL, galvanizzati dal successo («oltre le nostre aspettative») di una loro recente iniziativa pubblica, il convegno di Chianciano Oltre l’Euro. La sinistra. La crisi. L’alternativa.

«Alle altre forze che vogliono ripristinare la sovranità popolare rivolgiamo un appello all’unità d’azione. Invitiamo tutte le forze democratiche e costituzionali a mettere da parte le diversità in questo momento di emergenza. Formiamo un Comitato di liberazione nazionale. La Costituzione italiana sia la cornice dell’unità, la sovranità politica e monetaria i suoi obbiettivi». Naturalmente chi scrive non si sente chiamato in causa da questo commovente appello. Di più: non posso che confermare l’abissale distanza che mi separa dalla concezione ideologica e politica che lo informa, essendo io un noto disfattista antinazionale “a 360 gradi” (nel campo degli interessi economici come in quello degli interessi politici del Paese, il quale effettivamente attraversa tempi molto tribolati; ma non abbastanza, par i miei rivoluzionari gusti…), nonché un nemico della democrazia costituzionale, la quale si è rivelata essere il migliore strumento di controllo politico-ideologico dei lavoratori ridotti a massa informe al servizio del Capitale, nazionale e internazionale, pubblico e privato, produttivo e speculativo – distinzioni, queste, che hanno un significato dirimente solo per chi non padroneggia la reale dinamica del processo sociale.

L’auspicato – da MPL, beninteso – Comitato di liberazione nazionale offre l’occasione per un’altra toccatina scaramantica, che in ogni caso male non fa, anzi!

«Una volta riconquistata la leva della sovranità e messo in sicurezza il Paese, il Cln avrà compiuto il suo compito, e quindi i cittadini potranno liberamente scegliere il loro futuro, quale tipo di società essi riterranno più giusta». Siamo ancora allo schema resistenziale: ma questi personaggi ci fanno o ci sono? Che cosa? Fate un po’ voi: usate la definizione che riterrete più giusta. Do il mio piccolo contributo alla causa rimandando il lettore al post della scorsa settimana, che a ben considerare ha molto a che vedere con quanto appena scritto.

86033-rublochavezDefinire il Sovranismo come la malattia senile del Nazionalismo mi sembra ancora troppo poco. Anche perché esso, soprattutto nella sua variante sinistrorsa, ha ancora molto da dare al Dominio sociale, tanto più quando la crisi economica rischia di spingere i dannati della terra (coloro che vivono di salario) oltre i confini dello status quo.

SOCIAL SOVRANISTI SU MARTE

Come salvare il Paese dalla crisi economica e riconquistare la sovranità sistemica (economica, politica, istituzionale) perduta. È l’assillo che angoscia i sinistri d’Italia, divisi in almeno tre scuole di pensiero. Ci sono gli europeisti convinti («senza se e senza ma»), gli europeisti timidi e “articolati” (Europa sì, ma “laicamente”; Euro no, ma forse un altro Euro è possibile: «Un’altra economia per una nuova Europa», scrive oggi Guido Viale sul Manifesto) e, dulcis in fundo, gli antieuropeisti sostenitori dell’uscita del Bel Paese praticamente da tutto: dall’Europa, dall’Euro, dal libero mercato, dalla globalizzazione, dal Capitale finanziario.

E dal Capitale tout court? Sto parlando dei sinistri, comunque “declinati”, vi siete distratti? Non sto mica parlando di quei dottrinari, nonché settari, che favoleggiano l’uscita rivoluzionaria del mondo dal Capitalismo («campa cavallo!»), e che, sulla scorta di questa prospettiva che giustamente fa sorridere tutte le correnti della «sinistra» nazionale e internazionale, si muovono nel presente per sostenere la resistenza dei salariati e dei disoccupati contro ogni tipo di politica dei sacrifici, non importa se “declinata” a «destra» o a «sinistra». A differenza di chi scrive, i sinistri sono persone serie, con i piedi ancorati saldamente a terra, e soprattutto hanno a cuore le sorti del Paese. Come altre volte ho scritto, il massimo di “rivoluzionario” che questi personaggi riescono a immaginare è il Venezuela di Chávez o la Bolivia di Morales. Ma anche l’Argentina delle nazionalizzazioni non è da disprezzare, ha, come si dice, “il suo perché”.

Nazionalismo economico e protezionismo: è il mantra dei sovranisti, di «destra» come di «sinistra» – questi ultimi, infatti, rinfacciano ai sinistri che non vogliono rompere con l’europeismo di essere «più a destra» di molti «destri» dichiarati. È un vero peccato, a questo proposito, che il direttore del Giornale Sallusti, teorico di una guerra (politica, tanto per iniziare) contro «le manie egemoniche della Germania votata al Quarto Reich», sia un uomo di «destra», persino fisiognomicamente parlando. Tuttavia, quando il «Bene Comune» (altrimenti detto Stato Nazionale, o Paese, o Patria) chiama, le distinzioni politiche tendono a evaporare, sotto la pressione delle scelte irrevocabili. Il Fascismo ha molto da insegnarci, il Nazismo ancor di più.

A proposito di Guido Viale! Ecco cosa scrive oggi quello che sembra essere diventato lo stratega del «giornale comunista» sul terreno della guerra economica in corso: «Una classe dirigente inetta, incolta, arrogante, asservita sta portando alla rovina l’Europa e con essa le principali conquiste che il movimento operaio e la cultura democratica avevano realizzato nel corso di un secolo» (Il Manifesto, 25 07 2012). Insomma, un gigantesco scontro di interessi, nazionali e sovranazionali, di varia natura (economici e politici, in primis), che peraltro attraversa le stesse classi dominanti dei singoli paesi (anche la Germania è divisa in filoeuropei e antieuropei, e non certo per motivi ideologici); una guerra sistemica di vasta portata, dicevo, è interpretata banalmente come il fallimento di una «classe dirigente» incapace di sostenere le sfide che la globalizzazione capitalistica ha lanciato al mondo intero.

La verità è che come molti sinistri, Viale è nostalgico del mondo prima della caduta del muro di Berlino, e questo la dice lunga sulla natura delle sue ricette politico-economiche improntate a «più Stato, meno mercato». La sua apologia della vecchia Europa (capitalistica), celata maldestramente dietro un mito sempre più logoro (le cosiddette «conquiste» del movimento operaio), trasuda pensiero reazionario da tutti i pori, e concorre ad alimentare l’ultradecennale impotenza delle classi dominate.

La corrente ultrasinistra perora la causa della bancarotta pilotata dello Stato, per sciogliere «da sinistra» la scottante questione del debito sovrano, e sostiene la necessità di una rigorosa politica keynesiana, a partire dall’introduzione di misure protezionistiche, cosa che ovviamente postula il rafforzamento del Leviatano, il solo che può coordinare e implementare quel tipo di politica. I militanti di questo partito (acronimo: SS) hanno un’idea fissa: l’«uscita a sinistra dalla crisi», ossia la salvezza e il rafforzamento del Capitalismo nazionale.

Colgo, in questo obiettivo che fa tremare le vene ai polsi (sia detto senza retorica…), una contraddizione con la loro dichiarazione di fede sinistrorsa? Assolutamente no. I sinistrorsi che a vario titolo si riconoscono nella «gloriosa storia del PCI» hanno sempre avuto un debole per il Paese, ossia per la Nazione, insomma per lo spazio sociale dominato dall’italianissimo Capitale (soprattutto per quello statale e parastatale), e in ciò, ai tempi della «Prima Repubblica», essi si dimostravano molto più zelanti dei democristiani. Ricordo che ai tempi della mitica notte di Sigonella (ottobre 1985, il premier Craxi dice no nientemeno che al Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan) quelli di Democrazia Proletaria si presero una tremenda cotta per il cinghialone Bettino.

A chi gli ricorda che il protezionismo e tutta la politica economica e sociale che lo rende possibile evoca un cupo scenario da anni Trenta, con epilogo sanguinoso incorporato, i Social Sovranisti rispondono, a ragione, di non voler evocare nessuna guerra. Infatti, essi si limitano a stare sul terreno della guerra. Perché la guerra (sistemica) è in corso, come ormai tutti gli economisti mainstream e tutti i politici del mondo riconoscono. Essendo sinistrorsi, i Social Sovranisti fabbricano armi e proiettili keynesiani, statalisti, benecomunisti, decrescisti. Insomma, sparano sinistramente «da sinistra». Combattono «da sinistra» la guerra patriottica capitalistica, contro la Germania e i traditori che la puntellano e contro tutti i poteri finanziari che vogliono saccheggiare il Meridione d’Europa, per affermare il dominio incondizionato dei mercati.

A conti fatti, si sussurra in alcuni ambienti sovranisti, forse conveniva difendere il governo del puttaniere di Arcore contro i «poteri forti» sovranazionali. D’altra parte, i fatti parlano chiaro: «Quanto a occupazione, redditi popolari e del lavoro, servizi sociali stiamo sicuramente peggio [rispetto al governo Berlusconi]; il paese non si è allontanato di un centimetro dal baratro», ha scritto ad esempio il già citato Guido Viale sul Manifesto di qualche settima fa. Per non parlare dello «sfregio» che ha subito non solo la nostra sovranità nazionale ma anche lo stesso processo democratico, che si è dovuto piegare ai «diktat dei mercati».

Ai proiettili della speculazione finanziaria e dello spread i Social Sovranisti vorrebbero rispondere con i proiettili tratti dalla vecchia santabarbara keynesiana, certo, cambiando quel che c’è da cambiare, giusto per non confermare la nota tesi: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Una farsa che peraltro avrebbe tutti i caratteri della tragedia, a cominciare dalla ricordata impotenza politica e sociale delle classi dominate, afferrate dalle tenaglie del Dominio a un passo dalla possibile liberazione. Ma questa è tutta un’altra storia. Una storia buona per i dottrinari, per gli utopisti e financo per i “messianici”, non certo per i sinistrorsi con l’elmetto – oggi virtuale, domani chissà – in testa.

SOVRANISMO E AUTONOMIA DI CLASSE

Rendo noto un mio commento postato su Sollevazione, non tanto per spirito polemico, quanto per chiarire alcuni concetti che da tempo vado sviluppando in questo Blog.

Su sollecitazione di un militante del vostro Movimento ho letto il documento programmatico del 5 luglio (La nostra proposta, a cura della «Segreteria nazionale pro tempore del Movimento Popolare di Liberazione»). La precisazione vale a giustificare il mio breve intervento critico, il quale mi pare non possa venir iscritto nella rubrica delle provocazioni proprio perché in qualche modo richiesto. Si desidera conoscere la mia opinione? Ebbene, a mio modestissimo giudizio il Programma in questione è reazionario all’ennesima potenza (a cominciare dalla nazionalizzazione del sistema bancario), ed è tale, nella forma come nella sostanza, da poter trovare la piena condivisione da parte di uno stalinista, o di un fascista, ovvero di un keynesiano old style, indifferentemente.

La cosa non suona particolarmente paradossale alle mie orecchie, visto che il vostro punto di vista è quello del Paese (più o meno «popolare» e «dei lavoratori»: meri artifici retorici che da sempre abbondano sulla lingua dei populisti di “destra” e di “sinistra”), della Nazione, della Sovranità economica e politica. Per me il punto di vista del Paese, comunque declinato, è il punto di vista delle classi dominanti, peraltro divise al loro interno circa gli interessi materiali da difendere in maniera prioritaria, gli obiettivi tattici e strategici da perseguire, la configurazione politico-istituzionale del Paese, e così via. Il vostro Programma si situa proprio all’interno di questa dialettica intercapitalistica, sul piano interno come su quello internazionale – mi pare che il vostro Movimento sostiene tutti i regimi sovranisti del Pianeta: dal Venezuela alla Bolivia, passando per la Siria del noto macellaio di Damasco.

SIC!

Il mio Programma Umano prevede la più assoluta autonomia di classe su ogni fronte dello sfruttamento e del dominio capitalistico. Questa autonomia non si radica in ridicole esigenze “puriste”, ma  piuttosto in un bilancio storico ultrasecolare (che naturalmente prescinde dalla mia modesta persona: non sono così vecchio!) che testimonia in modo schiacciante contro le illusioni delle mosche cocchiere attive in ogni epoca. Certo, non si beccano voti, né facili consensi luogocomunisti e benecomunisti, con un simile Programma, ma ciò non ne testimonia ipso facto l’infondatezza, anzi, è vero piuttosto il contrario, a giudicare dall’impotenza delle classi dominate in tutto il pianeta.
Il socialsovranismo, o socialnazionalismo, è uno dei miei più importanti obiettivi polemici degli ultimi mesi. Ai miei occhi la vostra bandiera tricolore con la stella rossa in mezzo è tutto un Programma, ultrareazionario.

La moneta, prim’ancora che «uno strumento indispensabile» nella competizione capitalistica mondiale, è soprattutto l’espressione dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento: ecco perché schierarsi per l’Euro o per la Lira significa innanzitutto schierarsi per il mantenimento dello status quo sociale nazionale e mondiale. Cosa ci possa essere di minimamente “rivoluzionario”, o semplicemente di “progressista” nell’opzione Euro-Lira sfugge alla mia indigenza dialettica.

Personalmente non sono per l’uscita dell’Italia dall’Euro, ma per la fuoriuscita dell’umanità dal Capitalismo. Corre una certa differenza fra i due concetti, nevvero? Vasto programma, si dirà. Vasto e certamente irrealistico nella contingenza. Non c’è dubbio. D’altra parte lascio volentieri il realismo agli apologeti della Repubblica democratica fondata sul lavoro (salariato). Lo «spirito originario della Costituzione italiana» è un mito che ne cela la natura ultrareazionaria (borghese, semplicemente), espressione dell’ultrareazionaria società italiana postbellica, la cui sostanziale continuità con il fascismo non sfugge al pensiero autenticamente critico-radicale, da sempre nemico della mitologia resistenzialista.

Quando sento parlare di Fronte Popolare mi tocco le parti intime. Chissà poi perché!

Sono da sempre schierato contro gli intessi generali del Paese, comunque declinati, e invito a guardare l’antagonismo fra le classi da questa peculiare prospettiva: non è affatto vero che è impossibile radicare le lotte immediate dei lavoratori contro gli effetti della crisi fuori dal terreno della realpolitik. Sostenere davanti ai lavoratori che «l’entrata in vigore dell’euro è stato un inganno» significa potenziarne l’attuale debolezza politico-sociale, e così rendere più agevole la prassi del Dominio, il quale ama usare gli sfruttati contro i capri espiatori di turno: gli speculatori, i tedeschi, la casta… L’inganno da mettere in luce è se mai l’interesse generale del Paese, comunque declinato, anche in chiave (pseudo) rivoluzionaria, soprattutto in questa guisa.

«Per salvare il paese dalla catastrofe occorre una rivoluzione radicale e democratica»: scusate, ma non posso seguirvi. Il mio Programma, infatti, prevede la catastrofe del Paese in vista di rapporti sociali semplicemente umani. Con le necessarie «fasi transitorie», beninteso, di cui adesso non è il caso di parlare. In ogni caso, nella “mia” transizione non è nemmeno contemplata la «salvezza del Paese», un maligno concetto, da sempre foriero di molte lacrime e di molto sangue, che bisogna combattere con tutti i mezzi necessari.

IL PUNTO SULLA GUERRA IN EUROPA (3)

Quando la Germania va bene, di solito sei mesi dopo i suoi soldati marciano per gli Champs Elysèes (Gerard Baker, Financial Times, 17 ottobre 2002).

L’assedio alla Germania si fa di giorno in giorno più stringente, e il cannoneggiamento politico-diplomatico del Paese si inasprisce anche sul fronte extraeuropeo. Bordate prima mai viste arrivano dagli Stati Uniti e dalla Cina, i cui governi devono vendere alle rispettive opinioni pubbliche il capro espiatorio che spieghi il rallentamento delle loro economie. «La crisi in Europa frena la nostra economia, e la responsabilità maggiore di questa crisi va addebitata alla Germania». Un discorso semplice semplice, alla portata di tutti, che ha trovato sul fronte europeo un consenso generale. Peccato che sia falso, almeno nella parte che attribuisce le responsabilità di “ultima istanza”.

Giusto per non perdere visibilità e dimostrare l’esistenza in vita della Francia, Hollande ha ricordato all’amico Obama che «la crisi economica è partita dagli Stati Uniti: non ci risulta che la Lehman Brothers fosse un Istituto finanziario europeo». Un minimo sindacale di grandeur celato sotto un sottilissimo strato di “spirito europeista”. Assai significativamente la Casa Bianca, spalleggiata dal Fondo Monetario Internazionale, ha “suggerito” agli europei di abbandonare il dogma rigorista del pareggio di bilancio e di «spendere a debito», illuminando così involontariamente la causa principale della bolla speculativa scoppiata in America nel 2008. Cosa che, tra l’altro, dimostra quanto sia infondata la distinzione tra «economia reale» e «economia finanziaria», due sfere necessariamente e inestricabilmente interconnesse. Che su questa intima relazione si dà la possibilità della più sfrenata e “immorale” speculazione, ebbene questo è un fatto che può turbare solo la coscienza dei buoni di cuore.

Scriveva ieri Antonio Polito: «Si fatica a tener dietro al valzer di vertici e incontri, piani segreti e intese pubbliche, fughe in avanti e fughe di notizie, che ogni giorno si balla in Europa. Le ultime spiagge si succedono l’una all’altra. Fino a ieri era prioritario salvare gli Stati (la Grecia). Ora bisogna salvare le banche (spagnole). Lo schema di gioco è sempre lo stesso: tutti vogliono che si tamponi la falla con i soldi tedeschi, tranne i tedeschi»(Il Corriere della Sera, 5/06/2012). Già, tutti sono europeisti e solidali, con i soldi degli altri!

Giustamente Polito sostiene che nemmeno la Germania assiste a cuor leggero allo sfaldamento dell’eurozona, e che sarebbe pure disposta a fare qualche sacrificio per salvare paesi «irresponsabili e spendaccioni» come Grecia e Spagna; ma non a tutti i costi, non senza porre delle precise condizioni. Legittimamente. «Nemmeno alla Germania si può imporre una deroga al principio cardine della democrazia: no taxation without representation . È impossibile chiedere ai contribuenti tedeschi di essere pronti a rimborsare gli eurobond senza che essi abbiano la possibilità di scegliere chi spende quei soldi». È, questo, il punto nevralgico dell’attuale guerra europea. È, per dirla con Polito, «il rompicapo della Sovranità», il quale chiama in causa la germanizzazione dell’eurozona, ossia il convergere di tutti i partner provvisti della stessa moneta verso il modello sociale tedesco.

Mentre il popolo greco muore di fame Lei si diverte! Che cattivona!!

Senza la centralizzazione della politica monetaria e fiscale non ci sarà mai quella “comunitarizzazione del debito” richiesta a gran voce dai buoni di spirito della “solidarietà europea”, e la prima presuppone un travaso di potenza che farebbe pendere il Vecchio Continente dal lato della potenza egemone sul piano dell’economia e della demografia. Parlo della Germania, ovvio. E qui il nazionalismo delle «patrie europee» trova un eccezionale alimento. «Il punto è: tutti coloro che accusano la Germania di egoismo e miopia, compresa la nostra spendacciona classe politica, sono pronti a cedere cruciali poteri sovrani sul bilancio, sul welfare, sulle tasse? Prima o poi, a questa domanda bisognerà dare risposta. E in quel momento scopriremo che non è affatto una risposta scontata, soprattutto in Francia, da sempre vero cronografo e limite del processo di integrazione. Non c’è bisogno di ricordare che fu il “sovranista” popolo francese ad affondare in un referendum la Costituzione europea. Un tempo si diceva che l’Europa è nata per nascondere la potenza tedesca e la debolezza francese. Per continuare a vivere, deve oggi riconoscerle entrambe». È dai tempi del Trattato di Roma che la Francia «fiacca la costruzione dell’Europa e ne limita le ambizioni» ( J-J Servan-Schreiber, La sfida americana, 1969). Oggi tutti i quotidiani francesi unanimemente concordano su questo punto: è il sovranismo francese il vero ostacolo alla realizzazione di un’Europa federale. Il motivo è semplice, e ruota intorno al travaso di potenza cui accennavo sopra.

Detto di passata, e in sfregio alla ridicola grandeur dei cugini d’oltralpe, il «regime del disonore» di Vichy (1940-1944) trovò l’appoggio di chi allora in Francia riconobbe il dato di fatto richiamato da Polito: potenza tedesca e debolezza francese. «L’abuso delle buone cose – annotava Paul Valéry nei suoi diari nel giugno 1940 – ha portato la Francia alla sventura … Noi siamo vittime di ciò che siamo».

All’Europa unita e felice!

La lettura dei fatti data da Polito mette in ridicolo chi oggi contrappone il «vecchio sogno europeista dei padri fondatori» (Churchill, Jean Monnet, Adenauer, de Gaulle, De Gasperi), all’incubo del sempre più imminente crollo dell’edificio europeista generato dall’egoismo e dalla miopia degli attuali leader europei, a partire – naturalmente – da quelli tedeschi. Quale Europa emergerà dalla crisi, si chiede ad esempio Adriana Cerretelli: «Quella equilibrata e solidale delle origini, cui sarebbe facile delegare nuovi poteri, o quella del più forte che impera oggi?» (Il Sole 24 Ore, 5/06/2012). Ma il mito della vecchia e cara Europa dei «padri fondatori», diffuso soprattutto nell’opinione progressista del Vecchio Continente – con qualche diramazione statunitense: vedi Jeremy Rifkin e lo stesso Obama –, mostra tutta la sua inconsistenza ad un’analisi storica appena più seria, e soprattutto non viziata da pregiudizi ideologici. Cerco di dimostralo in tutti i post dedicati alla «Questione tedesca come Questione europea», ad esempio in Se deraglia la locomotiva tedesca.

Scrive la Cerretelli: « La grande Germania, dice Schmidt, sta perdendo il senso della storia, del suo riscatto europeo e della solidarietà con i partner. Ormai guarda con beata indifferenza a sacrifici e risentimento dei greci, all’orgoglio ferito degli spagnoli in difficoltà, al sofferto sì degli irlandesi non per convinzione ma per paura di perdere i fondi Ue. Segue con fastidio, osservandole dall’alto in basso, le manovre della nuova Francia e dell’Italia per rimettere in moto la crescita europea. Nell’attesa, lucra allegramente sui guai altrui finanziandosi gratis sui mercati e facendo shopping europeo a prezzi di saldo. Se non cambia, questa Europa a una dimensione, tutta e solo tedesca, è destinata al collasso. Politico, economico, democratico. Alle rivolte popolari. C’è meno di un mese per convincere la Merkel ad ascoltare anche le ragioni altrui, a ritrovare un po’ di spirito europeo, una visione strategica del futuro. In breve, a evitare di far del male a sé e agli altri». Signori, la guerra è servita!

Detto en passant, George Soros è più ottimista: dà all’Europa altri tre, quattro mesi di vita. A meno che «la Germania non rinsavisca». La pressione politica e psicologica sui «maledetti crucchi» rischia di farsi parossistica, e certamente è dal ’45 che sulla Germania non si riversava un simile carico di ostilità e di imprecazioni. L’ex (?) stalinista greco Manolis Glezos, ieri eroe della resistenza antinazista e oggi eroe della resistenza antimerkel basata a piazza Syntagma, non smette di ricordare a «Frau Merkel» che la Germania «ci deve un sacco di soldi. Siamo l’unico Paese europeo a non essere stato risarcito dalla Germania per i danni di guerra: parliamo di centinaia di miliardi di euro» (intervista a Vittorio Zincone pubblicata su Sette del Corriere della Sera, 18/05/2012). Il vecchio Glezos conclude così la sua invettiva antinazista, pardon, antitedesca: «Prendano i loro soldi e vadano al diavolo». Un invito a nozze per Frau Merkel…

A proposito del concetto a me caro di «Germania come Potenza fatale»: «Qualche giorno fa non sono stato in grado di dare una risposta univoca a una domanda molto semplice: “Quando la Germania diventerà finalmente un Paese normale?” Ho risposto che in un futuro prossimo la Germania non diventerà un Paese “normale” a causa del nostro enorme e peculiare fardello storico e della posizione centrale e soverchiante che il nostro Paese occupa a livello demografico ed economico in un continente molto piccolo, ma articolato in una compagine variegata di Stati nazionali (Helmut Schmidt, Il Sole 24 Ore, 5/06/2006). Non è che «il passato non vuole passare», secondo il noto e abusato stilema. È che la storia continua. Semplicemente. La storia, non l’idea che i buoni di spirito si fanno di essa.

SOCIALNAZIONALISMO

In Venezuela si nazionalizza, in Argentina pure, in Bolivia anche. E i “sovranisti” di mezzo mondo vanno in brodo di giuggiole. Letteralmente. Dimenticavo: alla lista dei paesi che si stanno mettendo sulla buona e “rivoluzionaria” strada del nazionalismo economico c’è anche – e soprattutto – la Bielorussia di Lukashenko. «Nel 2007 il presidente del Venezuela Hugo Chávez ha descritto la Repubblica di Bielorussia come uno “stato modello”» (Bielorussia e Venezuela: La costruzione del mondo multipolare, Aurora, 27 aprile 2012). Beh, se l’ha detto il caudillo venezuelano c’è da fidarsi.

Il problema, per dir così, è che io sono contro ogni modello di Stato capitalistico, soprattutto quando affetta pose “rivoluzionarie”, come quello fascista, o nazista ovvero stalinista. Il Sovrano che sventola la bandiera rossa è in assoluto quello che più disprezzo. Sono anarchico? No, sono antistalinista. E quindi antisovranista: l’equazione è bell’e fatta! Lo Stato come decisore di ultima istanza, nonché come «violenza concentrata e organizzata della società» (Marx), è il mio Nemico, qualunque forma esso assuma – democratica, “socialista”, “partecipata”, “sovranista”.

«Le cinque priorità principali del governo bielorusso sono le seguenti: 1 Mantenere l’uguaglianza e l’innalzamento del tenore di vita dei lavoratori. 2 Mantenere una piena occupazione dell’economia. 3 Investimenti nell’istruzione e nella ricerca scientifica. 4 La protezione e lo sviluppo di una forte base produttiva locale. 5 Sovranità nazionale inviolabile» (Aurora, cit.). Un programma che uno stalinista dei vecchi tempi – o un nazionalsocialista degli anni Trenta – avrebbe potuto sottoscrivere tranquillamente. Dove il primo punto va letto nel senso di una sopravvivenza da schiavi salariati assicurata a tutti e per tutta la vita dal Leviatano. Un progresso umano davvero “rivoluzionario”.

«La visione del presidente Lukashenko di un mondo multipolare minaccia i sostenitori del Nuovo Ordine Mondiale». Ai sovranisti di Aurora, forse nostalgici della «guerra fredda», piace dunque una competizione imperialistica “pluralistica”, e sotto questo aspetto essi si fanno portavoce degli interessi delle Potenze che oggi rivendicano un posto al sole nell’agone della guerra globale (economica, scientifica, politica, militare, ideologica). Quale interesse abbiano le classi dominate del pianeta a schierarsi con uno degli “attori” (magari quello a più alto tasso di statalismo) della competizione interimperialistica rimane un mistero. O forse è la mia indigenza concettuale che non mi permette di apprezzare la fine dialettica del sovranista. Non posso escluderlo, almeno in linea di principio.

Detto en passant, prendo di mira le posizioni di Aurora non tanto per polemizzare con i suoi redattori, quanto piuttosto per prendere posizione contro una tendenza politica mondiale che la crisi economica sta rafforzando.

«La barbara distruzione della Jamahirya libica dovrebbe servire da lezione per qualsiasi persona intelligente, di ciò che i paesi della NATO intendono per “diritti umani”, “democrazia” e “dominio della legge”». La giusta denuncia dell’imperialismo occidentale non implica affatto l’adesione agli interessi dei suoi nemici, i quali, ancorché “straccioni”, vantano la stessa sostanza sociale ultrareazionaria del primo. Certo, se uno pensa che la Jamahiriya libica fosse «una prospera economia socialmente orientata»… «Socialmente orientata»: bel concetto di società, complimenti! L’intangibilità della Sovranità Nazionale è un concetto borghese che nel XXI secolo trasuda violenza da tutti i pori, e fa il paio con la posizione di chi teorizza la tendenziale fine dello Stato Nazionale nell’attuale congiuntura “Imperiale”. Entrambi i punti di vista non fanno i conti con la realtà del processo sociale colto dal punto di vista delle classi subalterne.

«Le relazioni venezuelano-bielorusse sono un esempio unico di ciò che la diplomazia internazionale, in un mondo socialista, potrebbe significare per l’umanità». Quando il sovranista, che sogna un Capitalismo di Stato – perché di questo si tratta – a forte vocazione autarchica e assai bellicoso (sul piano interno come su quello internazionale), parla di “socialismo” come si fa a non sghignazzare e a non sentirsi dei giganti del pensiero sociale?