Il borghese insegue l’ideale chimerico della distribuzione uniforme delle imposte con zelo tanto maggiore, quanto più tale distribuzione gli sfugge in pratica dalle mani. I rapporti di distribuzione che poggiano direttamente sulla produzione borghese, i rapporti fra salario e profitto, profitto e interesse, rendita fondiaria e profitto, possono essere modificati dalle imposte al massimo in punti secondari, inessenziali, ma non possono mai essere minacciati nel loro fondamento. Tutte le indagini e i dibattiti sull’imposta presuppongono la stabilità eterna di questi rapporti borghesi. […] La diminuzione, la più equa distribuzione ecc. della imposta, è la banale riforma borghese (Marx-Engels).
La criminalizzazione dell’evasione fiscale ultimamente sta toccando punte che rasentano il parossismo, e spesso la demagogia più triviale e menzognera. Quanto a populismo giudiziario, come sempre i manettari cinquestellati e il direttore del Fatto Quotidiano sbaragliano la concorrenza: «In galera! In galera!» Mi piacerebbe avere di che evadere solo per fare un dispetto a questi pessimi ed escrementizi personaggi. Purtroppo il contante non mi assiste. A proposito di contante! Qualche giorno fa ho ascoltato la simpaticissima Laura Boldrini fare in televisione l’apologia del denaro elettronico versus il denaro contante, il nuovo sterco del Demonio: «Perché lo Stato deve sapere chi spende e come spende! Chi non ha nulla da nascondere non deve temere la tracciabilità fiscale». Parlare di «Stato di polizia fiscale», come fa la “destra”, è ancora poco, è fin troppo riduttivo. Peraltro, alla “destra” piace solo lo Stato di polizia contro immigrati e “irregolari” d’ogni specie. L’elettore può insomma scegliere quale Stato di polizia (di “sinistra” o di “destra”?) meglio soddisfa le sue idee e le sue aspirazioni.
Ma insomma, il contante è di “destra” o di “sinistra”? E la moneta elettronica? Chi desidera una risposta potrebbe magari organizzare una bella seduta spiritica e girare la fondamentale domanda allo spettro del grande Gaber. Intanto segnalo che l’ultimo feticcio progressista sembra essere l’elemosina elettronica: e così anche la pia coscienza è sistemata e messa al passo con le esigenze del moderno capitalismo!
Sulla natura politica dell’evasione fiscale l’ex ministro Vincenzo Visco ha le idee chiarissime: «Evadere le tasse è chiaramente di destra». È probabile che il cittadino onesto di “destra” non condivida questo sommario giudizio che attesta l’arrogante superiorità morale dei sinistresi, i quali si sono sempre distinti per zelo statalista e moralista. Lo chiamano “amore per il bene comune”, confermando quanto ebbe a dire una volta l’evasore fiscale di Treviri: l’ideologia dominante è l’ideologia della classe dominante. Parlare di “bene comune” nel seno della vigente società è bestemmiare contro la verità e la stessa possibilità dell’emancipazione generale degli individui attraverso il superamento degli attuali disumani rapporti sociali. È dura lottare contro l’ideologia benecomunista che ci invita a essere cittadini onesti e rispettosi («anche della natura!»), ma si tratta del minimo sindacale per un pensiero che non vuole arrendersi all’odiosa quanto menzognera “filosofia” del male minore. Ma non perdiamo il filo!
Il refrain è lo stesso dagli anni Settanta del secolo scorso: Pagare tutti le tasse per pagare tutti meno tasse. Quando ero bambino, il mantra antievasione era soprattutto sulle labbra di “comunisti” e sindacalisti, i quali lo usavano anche per giustificare la loro escrementizia politica di collaborazione con i «padroni onesti, quelli che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo». I bassi salari degli operai venivano spiegati anche tirando in ballo gli evasori fiscali, i quali contribuivano a far rimanere alta la pressione fiscale sul “padronato onesto” che poi si rifletteva sulle buste paga, sempre più leggere perché vittime dell’iniquo drenaggio fiscale. Stessa cosa per quanto riguarda le pensioni. Di qui, per “comunisti” e sindacalisti, la necessità di un’alleanza tra i «ceti produttivi onesti» del Paese per battere la Democrazia Cristiana, il partito, dicevano i moralizzatori del tempo, al servizio del clientelismo, degli evasori fiscali e del malaffare, mafia compresa. Com’è noto, il Pci in Parlamento sostenne tutte le leggi governative che prevedevano l’allargamento della spesa pubblica improduttiva, perché i voti facevano e fanno gola a tutti i partiti, a cominciare da quelli cosiddetti di massa – o interclassisti che dir si voglia. Ciò che distingueva il Pci dalla DC era un sovrappiù di odiosa e del tutto infondata propaganda moralistico-demagogica intesa a presentare il partito che fu di Togliatti e di Berlinguer come il partito degli onesti e dei lavoratori. Ma non dico altro per non commuovere i nostalgici della cosiddetta Prima Repubblica, i cui riti “barocchi” peraltro sono ritornati in auge proprio in questi giorni.
L’ex Premier Mario Monti una volte disse che «l’evasore mette le mani nelle tasche degli Italiani onesti, aumentando il loro carico fiscale». Qualche anno più tardi Matteo Renzi sostenne che il suo governo aveva al primo punto «la lotta all’evasione: se paghiamo tutti, paghiamo meno». Al di là di ogni considerazione politica che chi scrive potrebbe fare sulla questione qui considerata, c’è del vero in quella convinzione? È vero che aumentando il gettito fiscale automaticamente lo Stato si pone nelle condizioni di ridurre il carico fiscale? Nemmeno per idea! In ogni caso sarà sempre il governo in carica a decidere dove allocare le maggiori entrate fiscali: ridurre la pressione fiscale per famiglie e imprese o aumentare le spese militari? Investire in spesa pubblica produttiva o allargare la spesa pubblica clientelare?
La famosa “evidenza scientifica” ci dice, ad esempio, che in presenza di un forte recupero di evasione fiscale, che dura ormai da molti anni (il trend è in crescita almeno dal 2006), la pressione fiscale non solo non è diminuita, ma è cresciuta, così come si è espansa la spesa pubblica finanziata in debito. Scriveva Luciano Capone qualche anno fa: «C’è una convinzione diffusa nella classe dirigente italiana, quella che l’elevata pressione fiscale dipenda dall’evasione fiscale. Il corollario di questo assunto è che l’unico modo per abbassare le tasse sia ridurre l’evasione: pagare tutti per pagare meno. […] L’idea di fondo è che i contribuenti onesti sono costretti a sobbarcarsi anche la quota di quelli che fanno i portoghesi; se questi ultimi pagassero la loro parte, gli altri pagherebbero meno. È una visione che ha una logica, ma purtroppo è falsa. Diciamo “purtroppo” perché se fosse vera in questi anni avremmo assistito a una riduzione della pressione fiscale reale, o per essere più precisi a una riduzione delle aliquote con una pressione fiscale costante ma più equamente distribuita. Invece è successo il contrario: l’evasione è diminuita, mentre la spesa pubblica e la pressione fiscale sono aumentate. Quando si discute di questi temi è necessario farlo con i numeri alla mano. […] Mentre si indicava pubblicamente il perfido evasore come origine di ogni male, il recupero dell’evasione fiscale andava a riempire il bidone bucato della spesa pubblica, aumentata di 6 punti di pil dal 2000 al 2013, da 9.600 euro a 13 mila euro pro capite. Pagare tutti per pagare di più, questo è quello che è successo. La realtà indica una cosa abbastanza intuitiva, che le tasse dipendono dalle spese e non dall’evasione: se la spesa è fuori controllo, la lotta all’evasione finirà per aumentarla. Se i governi avessero messo lo stesso impegno nella spending review, la lotta all’evasione sarebbe stata più efficace e l’economia ne avrebbe giovato, anche perché la repressione fiscale non fa altro che alimentare l’evasione» (Il Foglio). Già, la mitica – e famigerata – spending review che dovrebbe snellire, razionalizzare e moralizzare il settore della Pubblica Amministrazione, la quale secondo Luca Ricolfi è «forse il più tipico luogo del lavoro improduttivo, almeno nell’ottica classica»; il problema, sempre secondo Ricolfi, è che le persone interessate al mantenimento dello status quo «votano» (1).
Qualche dato. Secondo l’Istat la pressione fiscale dei primi tre mesi dell’anno in corso risulta essere del 38%, in aumento dello 0,3% rispetto allo stesso periodo del 2018. In realtà «la pressione fiscale effettiva sull’economia regolare è invece intorno al 60% del Pil, la più alta del mondo sviluppato» (Luca Ricolfi); nel calcolo bisogna infatti tenere presente la cosiddetta economia sommersa, la quale ingrassa il Pil senza dare alcun contributo in termini fiscali. La cosiddetta «economia non osservabile» (economia sommersa ed economia illegale) “fattura” non meno di 211 miliardi di euro. L’evasione fiscale ammonta a circa 109 miliardi di euro l’anno. Proprio ieri l’Istat ha comunicato quanto segue: «A fine 2018 il debito pubblico era pari a 2.380 miliardi di euro, pari al 134,8% del Pil. Rispetto al 2017 il rapporto tra il debito delle Amministrazioni pubbliche e il Pil è aumentato di 0,7 punti percentuali». Secondo la “mitica” Cgia di Mestre gli sprechi, in termini di inefficienza e di burocrazia, della Pubblica Amministrazione si possono quantificare in 200 miliardi di euro all’anno. Sempre secondo la Cgia, in 20 anni, tra il 1997 e il 2017, le entrate tributarie nel nostro Paese sono aumentate di 198,5 miliardi di euro, salendo a 502,6 miliardi. In termini percentuali, si è registrato un boom di oltre il 65%, che al netto della stessa inflazione nel periodo si traduce in un aumento reale del 22,5%. Secondo calcoli dell’OCSE, il gettito fiscale tra il 1980 e il 2017 è cresciuto del 670%, pari a una media annua del 5,3%. Nello stesso periodo, la spesa pubblica è aumentata del 5% all’anno, praticamente poco meno e sempre più del Pil nominale, cresciuto solo del 4% all’anno.
«Colpiremo con mano pesante solo i grandi evasori fiscali, che vogliamo sbattere in galera, non l’evasione per necessità»: così strilla la propaganda della “componente populista” del governo. Ma chi sono questi «grandi evasori»? Davvero la loro pratica evasiva e/o elusiva è decisiva nella formazione del gettito fiscale che lo Stato non riesce a incassare? Ad esempio, lo sanno tutti che le micro, piccole e medie imprese rappresentano «l’ossatura dell’economia italiana» (2). Lo sanno tutti che è solo evadendo, in toto o in parte, le tasse che una massa di lavoratori “autonomi” e di piccoli addetti al commercio riescono a portare a casa uno straccio di introito. E allora? Forse bisognerebbe prendere sul serio la massima di Totò: È la somma che fa il totale! Probabilmente non ha torto chi sostiene che la grande evasione fiscale è fatta dalla piccola evasione praticata dal “popolo delle partite Iva”.
Ciò che si può dire senza allontanarsi troppo dalla verità è che alla luce dell’attuale sistema fiscale, dell’attuale struttura della spesa pubblica, dell’attuale struttura capitalistica italiana e del vigente sistema politico-istituzionale, fare pagare le tasse a tutti per pagare tutti meno tasse è una tesi semplicemente falsa, oltre che demagogica in sommo grado. Poste le attuali condizioni “sistemiche”, quella tesi si risolve in una tassazione per tutti al più alto livello possibile, secondo il ben noto principio del tassa e spendi. Jean Baptiste Colbert, Ministro delle Finanze del Re Sole, diceva che «l’arte del tassare consiste nello strappare ad un’anatra il massimo numero di penne con il minimo di sibili». Aumentando il numero di anatre probabilmente si incrementa soltanto la quantità di penne da strappare, e il chiasso demagogico sulle tasse evase e sull’impellente e non più derogabile necessità di mettere le “manette agli evasori” (sai la novità: è uno slogan vecchio almeno di venti anni!) servirà a silenziare le anatre finite nella rete del Leviatano.
In ogni caso, a pagare davvero il giro di vite fiscale che si annuncia saranno come sempre gli strati sociali più poveri, sia in termini di rincari delle merci e dei servizi di cui essi hanno bisogno, sia in termini di opportunità di lavoro, del lavoro che c’è (o non c’è): in nero, in bianco, in giallo. Molti sono i colori del lavoro salariato, condanna per chi per vivere è costretto a vendere sul mercato capacità fisiche e intellettuali. Mutatis mutandis, analogo discorso può farsi sui provvedimenti intesi ad avviare la cosiddetta “transizione ecologica” e a educare i cittadini a uno stile di vita più sano e più sobrio: sic! Purtroppo i lavoratori facilmente cadono nella trappola demagogica di chi fa leva sul loro disagio sociale per reclutarli nella campagna contro l’evasione fiscale: «Non dovete farvi trattare da fessi, voi che le tasse non potete evaderle!» È difficile trasformare in coscienza di classe il disagio e l’invidia sociale.
Arthur Laffer, l’economista che ispirò Ronald Reagan, sosteneva che la bestia statale va affamata, in modo da consentire ai governi di praticare una politica fiscale orientata a una generale riduzione delle tasse: pagare meno per pagare tutti. Per Paolo Bracolini, «I soldi recuperati dal fisco alimentano solo lo stomaco smisurato dello Stato e della partitocrazia» (3). Per chi scrive il Leviatano non va affamato; esso andrebbe piuttosto archiviato, per così dire, semplicemente. «Dietro l’abolizione della tassazione si nasconde l’abolizione dello Stato. L’abolizione dello Stato ha significato, per i comunisti, solo come conseguenza necessaria dell’abolizione delle classi, con la quale scompare automaticamente la necessità della potenza organizzata di una classe sulle altre» (4).«Vasto e impegnativo programma», lo ammetto; ma non ho la minima intenzione di suggerire al Moloch alcun tipo di riforma fiscale, soprattutto se “rivoluzionaria”.
(1) «Più acquisti, più stipendi pubblici, più pensioni, più sussidi, più rendite finanziarie, (titoli di Stato): in breve, più parassitismo. Questo meccanismo ha permesso agli italiani di vivere per vent’anni [1972-1992] al di sopra dei propri mezzi. La borghesia italiana non è mai stata liberale, né ha mai cercato sul serio di ridurre il ruolo della politica. Ha semmai sempre cercato di usare la politica, per ottenere favori, esenzioni, posizioni di rendita, informazioni riservate, commesse, sussidi. I ceti produttivi del Nord non sono nemmeno riusciti a strappare un federalismo degno di questo nome» (Intervista rilasciata da L. Ricolfi a Linkiesta del 15 settembre 2011).
(2) «Le loro attività si concentrano nei settori dei servizi, dell’edilizia , e se Ferrari, Gucci e Versace rappresentano il savoir-faire e la raffinatezza italiana per il grande pubblico, spesso anonime Pmi sono alla base del loro successo e soprattutto sono un punto di riferimento per le famiglie italiane. Le piccole e medie imprese, qui definite come imprese attive con un giro d’affari inferiore a 50 milioni di euro, impiegano l’82% dei lavoratori in Italia (ben oltre la media Ue) e rappresentano il 92% delle imprese attive (dai calcoli sono escluse imprese dormienti con fatturato a zero nell’ultimo anno). Sono numeri che fanno delle PMI un tratto saliente dell’economia italiana e riflettono tradizioni e imprenditorialità diffuse nei territori. Secondo le ultime stime di Prometeia, nel 2017 si contavano circa 5,3 milioni di PMI che davano occupazione a oltre 15 milioni di persone e generavano un fatturato complessivo di 2.000 miliardi di euro. Inoltre, vale la pena di notare come le Pmi abbiano un ruolo fondamentale nell’economia di alcuni territori. Per le regioni meridionali ad esempio le Pmi rappresentano l’83% della produzione, rispetto a un contributo medio nazionale del 57%. Anche il peso in termini di occupazione supera ampiamente quello medio italiano arrivando al 95%. L’impatto economico delle Pmi non può peraltro essere valutato considerando semplicemente il loro coinvolgimento diretto, ma va letto in chiave di filiera. Anche le Pmi italiane fanno ormai parte di catene del valore complesse e globali, contribuendo alla formazione dei loro vantaggi competitivi attraverso soluzioni flessibili e diversificate. Infine, non va dimenticato che il contributo delle Pmi si estende oltre l’aspetto economico e occupa un posto di rilievo nella vita culturale e sociale italiana» (Il Sole 24 Ore).
(3) P. Bracolini, La Repubblica dei mandarini, Marsilio, 2014.
(4) Marx-Engels, recensione a Le socialisme et l’impost di Emile de Girardin pubblicata sulla Neue Rheinische Zeitung Politisch-ökonomische Revue, Aprile 1850.