DEMAGOGIA (E MITOLOGIA) FISCALE

Il borghese insegue l’ideale chimerico della distribuzione uniforme delle imposte con zelo tanto maggiore, quanto più tale distribuzione gli sfugge in pratica dalle mani. I rapporti di distribuzione che poggiano direttamente sulla produzione borghese, i rapporti fra salario e profitto, profitto e interesse, rendita fondiaria e profitto, possono essere modificati dalle imposte al massimo in punti secondari, inessenziali, ma non possono mai essere minacciati nel loro fondamento. Tutte le indagini e i dibattiti sull’imposta presuppongono la stabilità eterna di questi rapporti borghesi. […] La diminuzione, la più equa distribuzione ecc. della imposta, è la banale riforma borghese (Marx-Engels).

La criminalizzazione dell’evasione fiscale ultimamente sta toccando punte che rasentano il parossismo, e spesso la demagogia più triviale e menzognera. Quanto a populismo giudiziario, come sempre i manettari cinquestellati e il direttore del Fatto Quotidiano sbaragliano la concorrenza: «In galera! In galera!» Mi piacerebbe avere di che evadere solo per fare un dispetto a questi pessimi ed escrementizi personaggi. Purtroppo il contante non mi assiste. A proposito di contante! Qualche giorno fa ho ascoltato la simpaticissima Laura Boldrini fare in televisione l’apologia del denaro elettronico versus il denaro contante, il nuovo sterco del Demonio: «Perché lo Stato deve sapere chi spende e come spende! Chi non ha nulla da nascondere non deve temere la tracciabilità fiscale». Parlare di «Stato di polizia fiscale», come fa la “destra”, è ancora poco, è fin troppo riduttivo. Peraltro, alla “destra” piace solo lo Stato di polizia contro immigrati e “irregolari” d’ogni specie. L’elettore può insomma scegliere quale Stato di polizia (di “sinistra” o di “destra”?) meglio soddisfa le sue idee e le sue aspirazioni.

Ma insomma, il contante è di “destra” o di “sinistra”? E la moneta elettronica? Chi desidera una risposta potrebbe magari organizzare una bella seduta spiritica e girare la fondamentale domanda allo spettro del grande Gaber. Intanto segnalo che l’ultimo feticcio progressista sembra essere l’elemosina elettronica: e così anche la pia coscienza è sistemata e messa al passo con le esigenze del moderno capitalismo!

Sulla natura politica dell’evasione fiscale l’ex ministro Vincenzo Visco ha le idee chiarissime: «Evadere le tasse è chiaramente di destra». È probabile che il cittadino onesto di “destra” non condivida questo sommario giudizio che attesta l’arrogante superiorità morale dei sinistresi, i quali si sono sempre distinti per zelo statalista e moralista. Lo chiamano “amore per il bene comune”, confermando quanto ebbe a dire una volta l’evasore fiscale di Treviri: l’ideologia dominante è l’ideologia della classe dominante. Parlare di “bene comune” nel seno della vigente società è bestemmiare contro la verità e la stessa possibilità dell’emancipazione generale degli individui attraverso il superamento degli attuali disumani rapporti sociali. È dura lottare contro l’ideologia benecomunista che ci invita a essere cittadini onesti e rispettosi («anche della natura!»), ma si tratta del minimo sindacale per un pensiero che non vuole arrendersi all’odiosa quanto menzognera “filosofia” del male minore. Ma non perdiamo il filo!

Il refrain è lo stesso dagli anni Settanta del secolo scorso: Pagare tutti le tasse per pagare tutti meno tasse.  Quando ero bambino, il mantra antievasione era soprattutto sulle labbra di “comunisti” e sindacalisti, i quali lo usavano anche per giustificare la loro escrementizia politica di collaborazione con i «padroni onesti, quelli che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo». I bassi salari degli operai venivano spiegati anche tirando in ballo gli evasori fiscali, i quali contribuivano a far rimanere alta la pressione fiscale sul “padronato onesto” che poi si rifletteva sulle buste paga, sempre più leggere perché vittime dell’iniquo drenaggio fiscale. Stessa cosa per quanto riguarda le pensioni. Di qui, per “comunisti” e sindacalisti, la necessità di un’alleanza tra i «ceti produttivi onesti» del Paese per battere la Democrazia Cristiana, il partito, dicevano i moralizzatori del tempo, al servizio del clientelismo, degli evasori fiscali e del malaffare, mafia compresa. Com’è noto, il Pci in Parlamento sostenne tutte le leggi governative che prevedevano l’allargamento della spesa pubblica improduttiva, perché i voti facevano e fanno gola a tutti i partiti, a cominciare da quelli cosiddetti di massa – o interclassisti che dir si voglia. Ciò che distingueva il Pci dalla DC era un sovrappiù di odiosa e del tutto infondata propaganda moralistico-demagogica intesa a presentare il partito che fu di Togliatti e di Berlinguer come il partito degli onesti e dei lavoratori. Ma non dico altro per non commuovere i nostalgici della cosiddetta Prima Repubblica, i cui riti “barocchi” peraltro sono ritornati in auge proprio in questi giorni.

L’ex Premier Mario Monti una volte disse che «l’evasore mette le mani nelle tasche degli Italiani onesti, aumentando il loro carico fiscale». Qualche anno più tardi Matteo Renzi sostenne che il suo governo aveva al primo punto «la lotta all’evasione: se paghiamo tutti, paghiamo meno». Al di là di ogni considerazione politica che chi scrive potrebbe fare sulla questione qui considerata, c’è del vero in quella convinzione? È vero che aumentando il gettito fiscale automaticamente lo Stato si pone nelle condizioni di ridurre il carico fiscale? Nemmeno per idea! In ogni caso sarà sempre il governo in carica a decidere dove allocare le maggiori entrate fiscali: ridurre la pressione fiscale per famiglie e imprese o aumentare le spese militari? Investire in spesa pubblica produttiva o allargare la spesa pubblica clientelare?

La famosa “evidenza scientifica” ci dice, ad esempio, che in presenza di un forte recupero di evasione fiscale, che dura ormai da molti anni (il trend è in crescita almeno dal 2006), la pressione fiscale non solo non è diminuita, ma è cresciuta, così come si è espansa la spesa pubblica finanziata in debito. Scriveva Luciano Capone qualche anno fa: «C’è una convinzione diffusa nella classe dirigente italiana, quella che l’elevata pressione fiscale dipenda dall’evasione fiscale. Il corollario di questo assunto è che l’unico modo per abbassare le tasse sia ridurre l’evasione: pagare tutti per pagare meno. […] L’idea di fondo è che i contribuenti onesti sono costretti a sobbarcarsi anche la quota di quelli che fanno i portoghesi; se questi ultimi pagassero la loro parte, gli altri pagherebbero meno. È una visione che ha una logica, ma purtroppo è falsa. Diciamo “purtroppo” perché se fosse vera in questi anni avremmo assistito a una riduzione della pressione fiscale reale, o per essere più precisi a una riduzione delle aliquote con una pressione fiscale costante ma più equamente distribuita. Invece è successo il contrario: l’evasione è diminuita, mentre la spesa pubblica e la pressione fiscale sono aumentate. Quando si discute di questi temi è necessario farlo con i numeri alla mano. […] Mentre si indicava pubblicamente il perfido evasore come origine di ogni male, il recupero dell’evasione fiscale andava a riempire il bidone bucato della spesa pubblica, aumentata di 6 punti di pil dal 2000 al 2013, da 9.600 euro a 13 mila euro pro capite. Pagare tutti per pagare di più, questo è quello che è successo. La realtà indica una cosa abbastanza intuitiva, che le tasse dipendono dalle spese e non dall’evasione: se la spesa è fuori controllo, la lotta all’evasione finirà per aumentarla. Se i governi avessero messo lo stesso impegno nella spending review, la lotta all’evasione sarebbe stata più efficace e l’economia ne avrebbe giovato, anche perché la repressione fiscale non fa altro che alimentare l’evasione» (Il Foglio). Già, la mitica – e famigerata – spending review che dovrebbe snellire, razionalizzare e moralizzare il settore della Pubblica Amministrazione, la quale secondo Luca Ricolfi è «forse il più tipico luogo del lavoro improduttivo, almeno nell’ottica classica»; il problema, sempre secondo Ricolfi, è che le persone interessate al mantenimento dello status quo «votano» (1).

Qualche dato. Secondo l’Istat la pressione fiscale dei primi tre mesi dell’anno in corso risulta essere del 38%, in aumento dello 0,3% rispetto allo stesso periodo del 2018. In realtà «la pressione fiscale effettiva sull’economia regolare è invece intorno al 60% del Pil, la più alta del mondo sviluppato» (Luca Ricolfi); nel calcolo bisogna infatti tenere presente la cosiddetta economia sommersa, la quale ingrassa il Pil senza dare alcun contributo in termini fiscali. La cosiddetta «economia non osservabile» (economia sommersa ed economia illegale) “fattura” non meno di 211 miliardi di euro. L’evasione fiscale ammonta a circa 109 miliardi di euro l’anno. Proprio ieri l’Istat ha comunicato quanto segue: «A fine 2018 il debito pubblico era pari a 2.380 miliardi di euro, pari al 134,8% del Pil. Rispetto al 2017 il rapporto tra il debito delle Amministrazioni pubbliche e il Pil è aumentato di 0,7 punti percentuali». Secondo la “mitica” Cgia di Mestre gli sprechi, in termini di inefficienza e di burocrazia, della Pubblica Amministrazione si possono quantificare in 200 miliardi di euro all’anno. Sempre secondo la Cgia, in 20 anni, tra il 1997 e il 2017, le entrate tributarie nel nostro Paese sono aumentate di 198,5 miliardi di euro, salendo a 502,6 miliardi. In termini percentuali, si è registrato un boom di oltre il 65%, che al netto della stessa inflazione nel periodo si traduce in un aumento reale del 22,5%. Secondo calcoli dell’OCSE, il gettito fiscale tra il 1980 e il 2017 è cresciuto del 670%, pari a una media annua del 5,3%. Nello stesso periodo, la spesa pubblica è aumentata del 5% all’anno, praticamente poco meno e sempre più del Pil nominale, cresciuto solo del 4% all’anno.

«Colpiremo con mano pesante solo i grandi evasori fiscali, che vogliamo sbattere in galera, non l’evasione per necessità»: così strilla la propaganda della “componente populista” del governo. Ma chi sono questi «grandi evasori»? Davvero la loro pratica evasiva e/o elusiva è decisiva nella formazione del gettito fiscale che lo Stato non riesce a incassare? Ad esempio, lo sanno tutti che le micro, piccole e medie imprese rappresentano «l’ossatura dell’economia italiana» (2). Lo sanno tutti che è solo evadendo, in toto o in parte, le tasse che una massa di lavoratori “autonomi” e di piccoli addetti al commercio riescono a portare a casa uno straccio di introito. E allora? Forse bisognerebbe prendere sul serio la massima di Totò: È la somma che fa il totale! Probabilmente non ha torto chi sostiene che la grande evasione fiscale è fatta dalla piccola evasione praticata dal “popolo delle partite Iva”.

Ciò che si può dire senza allontanarsi troppo dalla verità è che alla luce dell’attuale sistema fiscale, dell’attuale struttura della spesa pubblica, dell’attuale struttura capitalistica italiana e del vigente sistema politico-istituzionale, fare pagare le tasse a tutti per pagare tutti meno tasse è una tesi semplicemente falsa, oltre che demagogica in sommo grado. Poste le attuali condizioni “sistemiche”, quella tesi si risolve in una tassazione per tutti al più alto livello possibile, secondo il ben noto principio del tassa e spendi. Jean Baptiste Colbert, Ministro delle Finanze del Re Sole, diceva che «l’arte del tassare consiste nello strappare ad un’anatra il massimo numero di penne con il minimo di sibili». Aumentando il numero di anatre probabilmente si incrementa soltanto la quantità di penne da strappare, e il chiasso demagogico sulle tasse evase e sull’impellente e non più derogabile  necessità di mettere le  “manette agli evasori” (sai la novità: è uno slogan vecchio almeno di venti anni!) servirà a silenziare le anatre finite nella rete del Leviatano.

In ogni caso, a pagare davvero il giro di vite fiscale che si annuncia saranno come sempre gli strati sociali più poveri, sia in termini di rincari delle merci e dei servizi di cui essi hanno bisogno, sia in termini di opportunità di lavoro, del lavoro che c’è (o non c’è): in nero, in bianco, in giallo. Molti sono i colori del lavoro salariato, condanna per chi per vivere è costretto a vendere sul mercato capacità fisiche e intellettuali. Mutatis mutandis, analogo discorso può farsi sui provvedimenti intesi ad avviare la cosiddetta “transizione ecologica” e a educare i cittadini a uno stile di vita più sano e più sobrio: sic! Purtroppo i lavoratori facilmente cadono nella trappola demagogica di chi fa leva sul loro disagio sociale per reclutarli nella campagna contro l’evasione fiscale: «Non dovete farvi trattare da fessi, voi che le tasse non potete evaderle!» È difficile trasformare in coscienza di classe il disagio e l’invidia sociale.

Arthur Laffer, l’economista che ispirò Ronald Reagan, sosteneva che la bestia statale va affamata, in modo da consentire ai governi di praticare una politica fiscale orientata a una generale riduzione delle tasse: pagare meno per pagare tutti. Per Paolo Bracolini, «I soldi recuperati dal fisco alimentano solo lo stomaco smisurato dello Stato e della partitocrazia» (3). Per chi scrive il Leviatano non va affamato; esso andrebbe piuttosto archiviato, per così dire, semplicemente. «Dietro l’abolizione della tassazione si nasconde l’abolizione dello Stato. L’abolizione dello Stato ha significato, per i comunisti, solo come conseguenza necessaria dell’abolizione delle classi, con la quale scompare automaticamente la necessità della potenza organizzata di una classe sulle altre» (4).«Vasto e impegnativo programma», lo ammetto; ma non ho la minima intenzione di suggerire al Moloch alcun tipo di riforma fiscale, soprattutto se “rivoluzionaria”.

 

(1) «Più acquisti, più stipendi pubblici, più pensioni, più sussidi, più rendite finanziarie, (titoli di Stato): in breve, più parassitismo. Questo meccanismo ha permesso agli italiani di vivere per vent’anni [1972-1992] al di sopra dei propri mezzi. La borghesia italiana non è mai stata liberale, né ha mai cercato sul serio di ridurre il ruolo della politica. Ha semmai sempre cercato di usare la politica, per ottenere favori, esenzioni, posizioni di rendita, informazioni riservate, commesse, sussidi. I ceti produttivi del Nord non sono nemmeno riusciti a strappare un federalismo degno di questo nome» (Intervista rilasciata da L. Ricolfi a Linkiesta del 15 settembre 2011).
(2) «Le loro attività si concentrano nei settori dei servizi, dell’edilizia , e se Ferrari, Gucci e Versace rappresentano il savoir-faire e la raffinatezza italiana per il grande pubblico, spesso anonime Pmi sono alla base del loro successo e soprattutto sono un punto di riferimento per le famiglie italiane. Le piccole e medie imprese, qui definite come imprese attive con un giro d’affari inferiore a 50 milioni di euro, impiegano l’82% dei lavoratori in Italia (ben oltre la media Ue) e rappresentano il 92% delle imprese attive (dai calcoli sono escluse imprese dormienti con fatturato a zero nell’ultimo anno). Sono numeri che fanno delle PMI un tratto saliente dell’economia italiana e riflettono tradizioni e imprenditorialità diffuse nei territori. Secondo le ultime stime di Prometeia, nel 2017 si contavano circa 5,3 milioni di PMI che davano occupazione a oltre 15 milioni di persone e generavano un fatturato complessivo di 2.000 miliardi di euro. Inoltre, vale la pena di notare come le Pmi abbiano un ruolo fondamentale nell’economia di alcuni territori. Per le regioni meridionali ad esempio le Pmi rappresentano l’83% della produzione, rispetto a un contributo medio nazionale del 57%. Anche il peso in termini di occupazione supera ampiamente quello medio italiano arrivando al 95%. L’impatto economico delle Pmi non può peraltro essere valutato considerando semplicemente il loro coinvolgimento diretto, ma va letto in chiave di filiera. Anche le Pmi italiane fanno ormai parte di catene del valore complesse e globali, contribuendo alla formazione dei loro vantaggi competitivi attraverso soluzioni flessibili e diversificate. Infine, non va dimenticato che il contributo delle Pmi si estende oltre l’aspetto economico e occupa un posto di rilievo nella vita culturale e sociale italiana» (Il Sole 24 Ore).
(3) P. Bracolini, La Repubblica dei mandarini, Marsilio, 2014.
(4) Marx-Engels, recensione a Le socialisme et l’impost di Emile de Girardin pubblicata sulla Neue Rheinische Zeitung Politisch-ökonomische Revue, Aprile 1850.

L’IMPIEGATO “LAVATIVO” OSSESSIONATO DAI GRILLINI

P_35_56_sosgabibbo_fotoPer scherzo oggi ho detto a un mio amico che lavora nella Pubblica Amministrazione di “stare in campana”, adesso che i grillini stanno invadendo tutte le articolazioni del Leviatano: «Guarda che dopo le prossime Amministrative sarà una Striscia la notizia quotidiana, più Le Iene. Sarai controllato continuamente dagli zelanti cani da guardia dell’onestà e della meritocrazia. Timbra sempre il cartellino in orario, non ti allontanare dall’ufficio, sgobba, mostra il tuo fervore verso il Bene Comune! E cerca soprattutto di non rubare la carta igienica dal cesso perché quelli sono pronti con i loro telefonini: un attimo e sei in streaming

Mi aspettavo una risata, un commento ironico, e invece il suo volto è rimasto stranamente serio, direi preoccupato: «Aspetta che assaggino il miele, e poi tutto tornerà come prima. Tutti gli uomini sono corruttibili». Era un auspicio, un esorcismo che celava una reale inquietudine dietro un simulacro di “pessimismo antropologico”. D’altra parte, il mito del Gattopardo è duro a morire, a certe latitudini.

Prese nel vortice di una crisi economico-sociale sempre più grave, vecchie abitudini rischiano di diventare prassi non solo socialmente deprecabili, come dovrebbero esserlo da sempre presso i cittadini ligi al dovere e rispettosi della cosa pubblica (e quindi non sto parlando di me), ma persino penalmente rilevanti, di questo passo. Si annunciano tempi duri per il lavativo “pubblico” (per quello “privato” ci pensa la legge del profitto, da sempre)!

«Ma è proprio la materia prima, il miele di cui parli, che è finita! Grillini e spending review sono le due facce della stessa medaglia. Non c’è più trippa per gatti. O ti adegui ai diktat di Grillo oppure devi piegarti a quelli della Merkel, che si è rotta le balle di pagarti straordinari che non fai e pausa cappuccino di proporzioni bibliche. “Te lo do io il parassitismo sociale”. Oppure: “Foi dire pasta al parazzitismo zociale!”». La risata non è arrivata. Così ho deciso di andare sul sicuro. Poiché il mio amico legge solo La Gazzetta dello sport, ho voluto precisare quanto segue, come se stessi parlando dell’ultima brillante performance del Milan in coppa campioni: «Vedi, più che di etica pubblica si tratta di accumulazione capitalistica…» A questo punto la risata è scattata, ma è stato un attimo: «Basta con questa spending review! Noi non siamo come gli inglesi, i norvegesi, gli americani, e via discorrendo. Noi siamo italiani! Da noi le cose non possono cambiare». Forse voleva dire: non devono cambiare.

strisciaPer tirarlo un po’ su, domani gli farò leggere questa efficace analisi di Edoardo Narduzzi: «È un salto di maturità elettorale: iniziare a porre paletti invalicabili alla pretesa fiscale dello stato significa definire i confini dell’azione pubblica e gettare le basi per un ridimensionamento della spesa statale. Il ceto medio europeo è estinto o è in via di esserlo e non dispone più della capacità fiscale di un tempo, quella che gli aveva permesso di finanziare un generoso stato sociale; i lavoratori sotto i quarant’anni sono spesso precari e mal pagati e hanno ancora meno capacità fiscale di mantenere un generoso welfare pubblico. Oggi gli europei hanno capito che una maggiore spesa pubblica significa più imposte un domani su generazioni che sono già indebitate e che devono difendere l’erosione salariale dalla competizione asiatica. Capiscono che affidarsi a una rinnovata spesa pubblica per andare oltre la crisi è una scorciatoia tentatrice ma non risolutiva del malessere europeo. Così la maggioranza degli elettori è molto più spaventata da un incremento della pressione fiscale di quanto non possa essere conquistata dai vantaggi di un’ampliata spesa pubblica» (Perché gli elettori delusi dal welfare puniscono le sinistre, Il Foglio, 27 febbraio 2013).

Che dite, sono un perfido? Ma è la spending review! Mi correggo: è il processo allargato dell’accumulazione capitalistica*.

Raddrizzare la schiena agli italiani. È, questo, un ambizioso programma politico-antropologico che precede la stessa Unità nazionale risorgimentale. Sul cattivo carattere degli italiani sono state stampate migliaia di pagine di libri, di riviste, di quotidiani. Com’è noto, Mussolini riteneva che governare gli italiani non fosse un’impresa impossibile, quanto piuttosto inutile. Per il Duce l’Italiano è privo di virile carattere, e soprattutto non ha la serietà, la tenacia e la laboriosità del Tedesco. Quando veniva informato che la neve cadeva a Sud di Bologna, egli si rallegrava della buona novella metereologica, perché pensava che il freddo potesse in qualche modo temprare un corpo e uno spirito fin troppo avvezzi alla calura del Mezzogiorno, fonte di pigrizia e di spossatezza congenita. Maledetta Africa! Troppo vicina.

imagescaxb1juxCiò che non è riuscito a duci e a statisti di gran pregio potrebbe riuscire a un «clown»? Le vie della modernizzazione capitalistica sono –quasi – infinite. Intanto, a proposito di schiena dritta e di «clown», il Beppe nazionale (e nazionalista) si è in parte riconciliato con Re Giorgio, in questi giorni “a rapporto” con la Cancelliera. (Silvio, trattasi di rapporto politico-diplomatico!) È stato sufficiente un minimo sindacale di «dignità nazionale» a trasformare l’antipatico Napolitano nel «mio presidente», finalmente espressione di un’Italia che mantiene la schiena dritta dinanzi ai cattivoni eredi del Terzo Reich. Già sento il sinistrorso segato dall’urna: «Vedete, Grillo è già pronto all’inciucio con Bersani!» Che scandalo! A Miserabilandia non ci si annoia mai.

*Per approfondire il tema:
I dilemmi della «coalizione distributiva»
Per chi suona l’Agenda
Debito pubblico, parassitismo sociale e accumulazione capitalistica
Elogio dell’accumulazione
Il vantaggio competitivo del “neoliberista”
Come rendere più produttiva la vacca sacra

Il VANTAGGIO COMPETITIVO DEL “NEOLIBERISTA”

Quanto il punto di vista schiettamente liberista vanti un enorme vantaggio competitivo (è proprio il caso di dirlo) su quello progressista in fatto di lettura dell’attuale crisi economica, e dei fenomeni economici in generale, ho avuto modo di constatarlo, per l’ennesima volta, leggendo una polemica che ha come protagonisti un blogger e un Blog. Il blogger si chiama Lorenzo Tondi, e sostiene la parte del cattivo liberista, più o meno al servizio del diabolico Finanzcapitalismo, secondo gli avversari progressisti; il Blog si chiama Su la testa, e secondo il blogger di cui sopra sembra «non avere idea di come funzioni l’economia». Tendo a concordare con Lorenzo Tondi, sebbene da una posizione teorica e politica schiettamente anticapitalista. Mi par di sentire gli amici (mi si conceda questa inflazionata forma retorica) di Su la testa: «Ma questa è una provocazione!» No, si tratta piuttosto di un punto di vista critico-radicale sulla società basata sullo sfruttamento intensivo e scientifico della natura e del capitale (dis)umano – insomma, del lavoro salariato, manuale e intellettuale.

Questa prospettiva mi pone su un terreno del tutto alieno ad entrambi i contendenti, il cui punto di vista infatti si esaurisce nella dimensione della conservazione sociale: come aiutare il Paese e l’Europa a uscire dalla crisi economica? Una preoccupazione legittima, beninteso, ma che al sottoscritto non procura alcuna ansia. Per questo penso di poter offrire un giudizio non partigiano, abbastanza “equanime”, sui concorrenti in gara per la salvezza della società capitalistica.

Secondo Su la testa «Il bilancio degli ultimi vent’anni di scelte di politica economica neoliberista, cui si ispirano le critiche che ci sono state mosse da Lorenzo, hanno impoverito il Paese, ridotto i diritti e la coesione sociale, fiaccato l’economia. Hanno insomma creato quella lotta di classe dall’alto verso il basso che è il maggior ostacolo nella strada che porta all’uscita dalla crisi». Giulio Tremonti, sulla scorta dei suoi ultimi libri «antimercatisti» e del suo Manifesto elettorale 3L (Lista, Lavoro, Libertà), sottoscriverebbe subito. Un suo concorrente, il “liberista-selvaggio” Oscar Giannino, impegnato a far uscire l’Italia dal declino (che affollamento al capezzale della Patria!), vi spiegherebbe invece che negli ultimi venti anni si è bensì tanto parlato di «riformismo economico liberale», ma per non farne praticamente nulla. Al netto di piccole «riforme strutturali», che non hanno inciso in profondità (salvo che per un segmento del mercato del lavoro: quello del precariato), il capitalismo italiano continua a manifestare le magagne che da sempre ne hanno frenata la competitività sistemica. La magagna più grossa si chiama parassitismo sociale, che si concretizza soprattutto in quella larga base sociale che si nutre, direttamente e indirettamente, di manna pubblica, creata dalla tassazione. Non da oggi questo parassitismo sociale, che non è una categoria etica, la quale implica un giudizio morale, ma un fenomeno economico-sociale molto interessante da studiare anche per le sue forti implicazioni politiche (vedi anche alla voce clientelismo elettorale); il parassitismo di molti strati sociali, dicevo, distrugge capitali, pubblici e privati, altrimenti utili al processo di accumulazione allargata.

L’Istituto Sergio Leoni, noto covo di “liberisti-selvaggi”, ha stimato in 50-60 miliardi di euro l’anno la risorsa finanziaria che si poterebbe liberare attraverso una seria ristrutturazione della Pubblica Amministrazione. Capitali oggi bruciati nella spesa corrente della PA si potrebbero orientare verso sentieri produttivi, come la costruzione di infrastrutture «materiali e immateriali», la ricerca scientifica, il supporto alle imprese più innovative, gli sgravi fiscali e quant’altro parli al cuore del profitto, il solo motore in grado di spingere in avanti l’intero carrozzone sociale. «Se l’Italia allineasse la propria spesa pubblica, in proporzione al Pil, ai livelli della Germania, si troverebbero le risorse per abolire l’Irap e ridurre del 10-15% l’Irpef» (La spesa pubblica in Italia e in Europa, a cura dell’Istituto Sergio Leoni).

Di qui l’esigenza, per la classe dominante del Bel Paese, di una seria spending review, la quale non è «un abbaglio liberista che va contrastato e sovvertito», come sostengono gli amici di Su la testa, ma una politica obbligata (ancorché tardiva: è dagli anni Settanta del secolo scorso che se ne parla!), e non solo perché «ce lo chiede l’Europa». Per come la vedo io, la lotta contro i sacrifici imposti a chi vive di salario e di magre pensioni dalle classi dominanti per «salvare il Paese» (preoccupazione che, ribadisco, non mi tange in alcun modo) va condotta su un ben diverso terreno, affinché l’attuale «lotta di classe dall’alto verso il basso» di cui parla Luciano Gallino possa rovesciarsi in una lotta di classe dal basso verso l’alto. «Di certo non si esce dalla crisi in una condizione di lotta di classe», sostengono quelli del Blog progressista. Io, più modestamente, vorrei uscire dal capitalismo…

«Non può essere così», obietta il simpatico Giulio (Tremonti), «perché la vita non è fatta solo dell’economia. Perché l’uomo non è né un automa economico, né una merce. Si sbaglia, se si pensa di poter risolvere con il denaro problemi che il denaro da solo non può risolvere!» (dal Manifesto tremontiano). Qualcuno avvisi lo Scienziato Sociale di Sondrio che nel Capitalismo l’intera esistenza degli individui è sussunta sotto l’imperio delle necessità economiche, e che per edificare la Comunità netta di diktat economici, la Comunità dominata dal pensiero umano, secondo la feconda intuizione degli idealisti d’un tempo, occorre superare l’attuale società materialistica, dominata dal Capitale in ogni sua demoniaca manifestazione: merce, mercato, denaro, tecnologia, scienza, lavoro… Come diceva l’uomo con la barba basato a Londra, il denaro non è una cosa magica, non è lo sterco del Demonio, ma l’espressione di un rapporto sociale che rende possibile la creazione di quel plusvalore che alimenta tutte le forme in cui si dà il profitto. Ecco perché quando qualcuno proferisce banalità di questo calibro: «I valori che contano non sono solo quelli espressi dalle borse di Francoforte, di Londra, di New York o dell’Asia. Non tutti i valori sono indicati dallo “spread” o dal Mibtel o dal Nikkei», mi vedo costretto a gonfiare il mio Ego.

Naturalmente parlo dell’ex Ministro Tremonti per alludere ai progressisti presi di mira dal blogger “liberista-selvaggio”.

Quando Lorenzo Tondi lamenta che lo «sperpero non include solo Fiorito, ma anche i sussidi a pioggia alle imprese, i finanziamenti statali alle grandi aziende e molto altro» non fa che denunciare il connubio, benedetto dai sindacati parastatali (CGIL in testa, ovviamente) tra capitalismo di Stato e grande impresa privata, che da sempre è uno dei maggiori fattori di inefficienza, di clientelismo, di parassitismo e di scarsa competitività. Giavazzi e Alesina calcolano in 60 miliardi l’aiuto diretto e indiretto che lo Stato offre ogni anno alle imprese, perlopiù per prolungarne la inefficiente sopravvivenza. «Se vogliamo gli Stati Uniti d’Europa (io li voglio)», osserva Tondi, «dobbiamo prima risanare il Paese». Lascio al blogger e al Blog il «sogno europeista» e le preoccupazioni circa il risanamento del Paese: io continuo a remare contro, rispettosamente e pacatamente, come piace a Re Giorgio.

A proposito del nuovo capro espiatorio nazionale evocato appena sopra (mi riferisco al noto cinghialone laziale), dato in pasto all’opinione pubblica dal circuito politico-mediatico per saziarne almeno la «sete di giustizia», mi si consenta di scrivere quanto segue, a sfregio dell’indignazione priva di coscienza e come promemoria per il prossimo confronto elettorale: ai miei occhi non vi è alcun merito nell’essere strumenti onesti e incorruttibili delle classi dominanti. Chiudo la doverosa parentesi “etica” e ritorno nella grigia sfera dell’economia.

Al netto delle italiche magagne, la crisi economica è innanzitutto un fenomeno tipico del Capitalismo: insieme all’espansione del ciclo essa realizza il respiro della mostruosa creatura. È quindi completamente sbagliato cecare nella crisi gli errori della politica, da sempre ancella, pardon: serva degli interessi che fanno capo alla creazione e alla distribuzione della ricchezza sociale nella sua attuale – e mondiale – forma capitalistica. L’alternanza di politiche liberiste e protezioniste, privatistiche e stataliste si spiega, “in ultima analisi”, con le mutevoli necessità che fanno capo all’accumulazione capitalistica e, in generale, alla conservazione dell’ordine sociale: vedi alla voce keynesismo, ad esempio. Solo chi non capisce una virgola del processo sociale capitalistico può attribuire l’attuale crisi al cosiddetto «neoliberismo», e metterlo in antitesi rispetto alle politiche neokeynesiane. Le classi dominanti se ne fregano, fascisticamente e democraticamente, delle false contrapposizioni ideologiche architettate dagli Scienziati sociali, che peraltro usano in chiave di lotta politica, all’interno dei confini nazionali come sul terreno della competizione sistemica internazionale.

«Le politiche economiche europee devono essere sotto il controllo dei cittadini europei. Si chiama democrazia» (Su la testa). Non c’è dubbio. Si dà il caso, tuttavia, che la democrazia sia la migliore (la più efficiente, la più pulita, la più “economica”) forma politico-ideologica del dominio sociale capitalistico. Di qui la frustrazione degli europeisti «senza se e senza ma» dinanzi alla guerra sistemica europea, che oggi vede vincente la Germania in virtù della sua maggiore potenza economica. Per questo gli «ulteriori trasferimenti di poteri decisionali e di quote di sovranità alle istituzioni europee, sia nel campo della finanza e delle banche, sia in quello delle politiche economiche e di bilancio», perorati da Re Giorgio il napoletano nel videomessaggio ai Cavalieri del Lavoro del 13 ottobre, significano di fatto un allineamento della zona euro allo standard tedesco. Checché ne pensino i sovranisti del continente!

Ma è tempo di concludere. In risposta a Lorenzo Tondi, secondo il quale «La patrimoniale non serve a nulla ed è destinata ad avere un gettito poco significativo. Basta guardare gli effetti della tassa sugli yacht approvata dal Governo Monti: l’Esecutivo si attendeva 115 milioni, ne ha incassati 23,5», Su la testa scrive queste autentiche perle progressiste (detto senza un atomo di retorica): «L’alibi del gettito ‘poco significativo’ (in buona parte da dimostrare, peraltro, e comunque si tratta gettito prezioso, con questi chiari di luna) è lo stesso alibi della Casta dei politici: ‘non è tagliando i nostri privilegi che si sistema il debito pubblico!: e così si tengono i privilegi. Ma tassare i più ricchi (aldilà del pur benvenutissimo gettito) è l’unico modo civile e onesto per poter poi chiedere i famosi sacrifici anche agli altri». E poi dice che uno odia la civiltà e l’onestà! Con un simile materiale umano progressista per i populisti e i demagoghi d’ogni risma è una pacchia fare politica: come li invidio!

IL SENSO DELLA SOCIETÁ PER LA GUERRA

Nell’ultimo anno il concetto di guerra è stato “sdoganato”, da politici, economisti e intellettuali di diversa tendenza e competenza, con uno zelo che nelle ultime settimane ha rasentato la frenesia. In Italia ne hanno parlato, solo per citare gli ultimi e più “illustri”, l’onorevole Quagliariello, per giustificare l’appoggio del suo partito (PDL) «al governo di salvezza nazionale» di Monti, il nuovo presidente della Confindustria («i risultati della crisi economica sono paragonabili a quelli di una guerra») e, proprio ieri, il premier italiano in persona, al cospetto dei banchieri italiani. Monti ha citato la guerra non meno di dieci volte nell’arco di pochi minuti. Guerra in tutte le salse. Eccone una breve sintesi: «percorso di guerra», «guerra contro la crisi economica», «guerra contro i nostri vizi pubblici e privati», «guerra contro il debito pubblico», «guerra alla concertazione», «guerra contro i pregiudizi interni e internazionali» e, dulcis in fundo, «guerra contro interessi fortissimi». Quest’ultimo concetto Monti l’ha ripetuto più volte, per rimarcare il senso bellico delle sue parole, ossia per mettere nel cono di luce la portata della posta in gioco, la durezza e la dimensione dello scontro in atto nella società italiana (il quale attraversa il Paese in tutte le sue articolazioni: dal livello economico, pubblico e privato, a quello istituzionale, da quello geosociale o regionale a quello culturale), il suo carattere aperto e incerto ma anche il decisionismo con cui il Sovrano intende fare i conti con questa sfida sistemica.

Il solito intellettuale politicamente corretto (e quindi “de sinistra”) ha tenuto a farci sapere che è pericoloso civettare con quella parolina, e certamente ciò dovrebbe essere senz’altro precluso a chi ricopre alte cariche governative, a chi è investito della responsabilità politica più alta. Non è certo la prima volta che qualcuno si prende la briga di condannare il nome della cosa, e non la cosa stessa. E la cosa, oggi, si chiama appunto guerra.

Scriveva ieri Barbara Spinelli: «L’economia può sembrare un tema minore, ma per la storia tedesca non lo è affatto. Quando la Repubblica federale nacque dalle rovine della guerra, l’economia prese il posto della coscienza nazionale, statale, democratica. Il primato economico ha una storia nel pensiero tedesco che va esplorata, se non vogliamo che l’unità europea degeneri in guerra prima verbale, poi civile. L’operazione tedesca è singolare. Parla di Federazione, ma intanto tratta i paesi meridionali dell’Eurozona come se fossero nazioni dimezzate e vinte in guerra, i cui Stati hanno perduto non tanto consistenza, quanto legittimità. Come se tutti dovessero percorrere la via tedesca, pur venendo da storie così diverse» (La Germania davanti al bivio, La Repubblica, 11 luglio 2012).

Lungi dall’essere «un tema minore», l’economia (capitalistica: diamo un preciso significato alle parole!) insiste al cuore del problema che chiamiamo guerra; guerra sistemica, ossia guerra totale: economica stricto sensu, certo, ma anche politica, istituzionale, culturale, psicologica, persino “antropologica” (la fabbricazione del “cittadino europeo” deve avvenire sul modello Nord-europeo o su quello Sud-europeo, ovvero su un ibrido, per non far torto a nessuno? Mussolini preferiva il modello tedesco e aborriva quello meridionale, «frignone, pastasciuttaio e vittimista». Monti e la Fornero anche).

Ma la Spinelli sbaglia in modo colossale quando attribuisce alla sola Germania quella spiccata valenza economica nella sua prassi sociale. L’intero pianeta ruota oggi intorno al principio totalitario dell’accumulazione capitalistica, il quale ovviamente trova la sua massima evidenza e pregnanza nei paesi capitalisticamente più forti e dinamici. In Europa è il caso della Germania, la cui potenza sistemica alla fine ha avuto ragione persino della divisione nazionale stabilita dagli imperialismi vittoriosi nell’ultima carneficina mondiale. Si dimentica, ad esempio, che lo spread, lungi dall’essere la maligna creatura dei cinici gnomi della speculazione finanziaria, si limita a misura il differenziale di produttività sistemica di un Paese rispetto al Paese-standard (in Europa la Germania).

La subordinazione dell’economia alla politica è un’illusione che prima o poi i fatti si incaricano di smentire, con conseguente piagnisteo da parte di chi aveva creduto nelle proprie chimere: «la Civiltà europea ancora una volta paga un salatissimo prezzo al dogma dei mercati e al nazionalismo delle piccole patrie!» Nel processo di unificazione del Vecchio Continente, sempre a rischio di disintegrazione, «la via tedesca» si impone “naturalmente”, a cagione dello sviluppo ineguale del Capitalismo nei diversi paesi, e una parte della stessa classe dirigente tedesca guarda con timore a questo processo, memore dei ben noti disastri. Non è che gli uomini non imparano mai dai loro errori; il fatto è che la storia va avanti, sotto il cielo del Capitalismo mondiale, alle loro spalle. Mi rendo conto che, questo, è un concetto difficile da accettare, ma la verità, per quanto cattiva, va guardata in faccia senza illusioni: essa va compresa, non esorcizzata o depotenziata.

Nel Capitalismo ciò che rende possibile la vita del tutto è, in ultima analisi (la quale in tempi di crisi diventa la prima), l’accumulazione capitalistica, ossia il continuo allargamento del meccanismo che sempre di nuovo crea ricchezza sociale (ossia merci, tecnologie, scienza, capitali, denaro). Senza tenere nella dovuta considerazione questo meccanismo sociale parlare ad esempio di welfare è semplicemente ridicolo. Di qui il razzismo antimeridionale, denunciato da Barbara Spinelli, che si sta diffondendo in Germania: la “formica” non vuole dare pasti gratuiti alla “cicala”, la quale piange e prega la Merkel: «Dacci oggi in nostro pane quotidiano». E di qui la guerra che le classi dominanti europee stanno portando ai lavoratori sotto forma di licenziamenti, ristrutturazioni, svalorizzazione salariale, spending review, e via di seguito.

Commentando il mio post La Germania e la sindrome di Cartagine, un lettore chiedeva: «Che cosa intende quando dice che ci si può attendere tutto il peggio? Intende guerre in seno ai paesi occidentali?» Ecco una parte della mia risposta:

Con il concetto di peggio che non smette di peggiorare alludo in primo luogo alla condizione (dis)umana degli individui nella società-mondo del XXI secolo. A mio modesto avviso questa condizione si fa sempre più critica per l’individuo: infatti, cresce la sua alienazione, la sua mercificazione, la sua atomizzazione, la sua illibertà – al di là dell’ideologia idealista e liberista che cela la dittatura delle esigenze economiche su ogni aspetto della nostra esistenza. Proprio il trattamento che gli individui subiscono dal Dominio sociale li espone a ogni sorta di “avventura populista”, come ho cercato di argomentare nel post Fermate il mondo, voglio scendere! Insomma, per me il peggio è adesso. Guerra o non guerra. E non cessa di peggiorare… Per mutuare Dostoevskij, se l’uomo non esiste tutto il peggio è possibile. Quanto alla guerra, per me non si tratta di prevederla – purtroppo non sono un mago –, ma se mai di concepirla come una possibilità che sta naturaliter sul terreno dell’odierno sistema capitalistico mondiale. Ma, ripeto, quando ho scritto quella locuzione “peggiorativa” non pensavo alla guerra guerreggiata, bensì alla guerra che tutti i giorni questa società fa agli individui. In questo senso, la prima è la continuazione della seconda con altri mezzi.

Il PUNTO SULLA GUERRA IN EUROPA (2)

Mario Deaglio parla di «miope rigorismo tedesco». Il noto filantropo George Soros rincara la dose: «La Germania deve convincersi che un’austerità fine a se stessa è ottusa e non porta da nessuna parte» (La Repubblica, 12/05/2012). Tanto per il primo quanto per il secondo l’alternativa al «dogma della disciplina di bilancio» esiste, e si chiama – indovinate? – «crescita». Non so perché, ma la cosa non suona nuova ai miei orecchi…

Crescita e sviluppo: un mantra stucchevole e «surrealista», per dirla con Le Figaro, dietro il quale si nasconde, come osservava lo scorso venerdì Le Monde facendo le pulci alle illusioni keynesiane di Hollande, il ritardo sistemico dei paesi che stanno perdendo la guerra della competitività totale con la Germania. Se il modello del nuovo Presidente francese è Mitterrand, ragionava Le Monde, non c’è da essere allegri. La politica della spesa pubblica non solo non porterà la Francia fuori dalla crisi, ma aggraverà piuttosto la sua situazione debitoria ed economica. Intanto Hollande inizia a riposizionarsi sullo scacchiere interno e internazionale, e con la scusa dei «diktat tedeschi» inizia a preparare l’opinione pubblica francese a una ritarata che da “tattica” potrebbe rivelarsi subito – e rovinosamente – strategica. Già mi pare di sentire le insulse grida dei suoi fans europei: «Hollande, anche tu ti stai vendendo alla Germania!» Prevedo una ripresa dell’indignazione generale.

Tutti a dare consigli alla «cinica e ottusa» Germania: «aumenta la capacità di spesa dei lavoratori tedeschi, diminuisci la loro competitività, lasciali andare a fare i turisti nel Mezzogiorno d’Europa, allenta il morso della disciplina e abbandona la paura dell’inflazione». Sono tutti “operaisti”, con i lavoratori degli altri paesi…

Come altre volte ho scritto, lungi dall’essere ottusa e «fine a se stessa», la politica «rigorista» tedesca si spiega semplicemente con i legittimi interessi del Capitale tedesco e della società tedesca colta nella sua totalità. Che la Germania non voglia perdere la battaglia della competitività sistemica, e che essa veda come il fumo negli occhi un cospicuo trasferimento della sua ricchezza a favore delle «cicale» meridionali, e magari della Francia, ebbene questo fatto può suscitare irritazione solo presso i sognatori del federalismo europeo e i nazionalisti, a partire dalla loro configurazione progressista (alludo ai socialnazionalisti).

Che nel Vecchio Continente spiri un’arietta sovranista densa di – potenziali – nefaste conseguenze, lo si è potuto cogliere, quasi con sorpresa, nella conferenza stampa della Presidenza del Consiglio di ieri, quando l’ineffabile Monti ha dichiarato che con i sacrifici l’Italia si è sottratta al destino di colonia nelle mani di istituzioni politico-finanziarie sovranazionali. Questo anche per rispondere alle accuse di «servilismo» nei confronti della Germania e dei «poteri forti» della finanza mondiale che gli sono stati rivolti da “destra” e da “sinistra”.

La Germania, ovviamente, è ben cosciente delle gravi conseguenze politiche e sociali immanenti alla sua tetragona strategia, al punto che la Bundesbank ieri ha lasciato trapelare la possibilità di più alti salari per i lavoratori del Paese, e una politica monetaria meno aggressiva nei confronti dell’inflazione. Ma siamo sul terreno della diplomazia, arma insostituibile in ogni guerra che si rispetti. Al contempo, la banca centrale tedesca ha fatto sapere, attraverso canali «non ufficiali», che la fuoriuscita della Grecia dall’eurozona non deve spaventare più di tanto gli investitori europei e mondiali. Ci si porta avanti col lavoro…

D’altra parte, la Merkel ha sempre dichiarato che il problema che affligge le «cicale» meridionali non è la spesa pubblica «in sé», in quanto tale, ma la sua pessima qualità, ossia la sua consistenza largamente improduttiva e parassitaria. E qui viene nuovamente in prima linea la madre di tutti i problemi: come liberare capitali, pubblici e privati, dall’obeso sistema fiscale per orientarli verso l’accumulazione capitalistica in grande stile? Chi contrappone ideologicamente il pubblico («buono») al privato («cattivo»), politiche keynesiane a politiche liberiste, mostra di non aver compreso il reale funzionamento dell’economia basata sul profitto, né la natura dell’odierna crisi economica.

Prendere coscienza di ciò (altro che «prendere le armi», come farneticano i “nuovi terroristi”!) significa orientare il pensiero che vuole essere radicale verso pratiche politiche all’altezza della situazione.

Vedi anche:

SPENDING REVIEW

IL PUNTO SULLA GUERRA

SPENDING REVIEW

Si scrive spending review ma si legge lacrime e sangue. Molte lacrime, a dire il vero, e tanto sangue da versare sull’altare della salvezza nazionale. In alto loco molti ne parlano, chi con discrezione e circospezione, chi con esaltazione e infatuazione, ma nessuno osa entrare nel merito della cosa, specificarne i contenuti, fare i metaforici nomi e cognomi. E così la questione rimane sospesa nell’aria, come una gigantesca spada di Damocle che minaccia di abbattersi sul Bel Paese da un momento all’altro.

Come si ristruttura radicalmente la spesa pubblica in Italia? Sì, perché gira e rigira tutte le discussioni intorno al che fare? per iniziare a costruire i gradini della scala che dovrebbe portarci fuori dalla crisi finiscono per ruotare ossessivamente intorno a quella domanda. Si fa presto a dire spending review! Naturalmente chi ci governa sa benissimo di che si tratta, ma nessuno vuole assumersi fino in fondo la responsabilità della «macelleria sociale» che la cosa implica, per non perdere consenso elettorale, certo, ma anche per non evocare lo spettro di un duro e duraturo conflitto sociale, a cui la società italiana, corporativa e statalista dai tempi della Grande Crisi, non è abituata. Non per niente i capi sindacali hanno rimproverato al duo Monti-Fornero l’intenzione di voler licenziare la «politica della concertazione».

Il problema è noto: per un verso la crisi economica esigerebbe una politica economica tesa a rendere più facili, o solo meno problematici, gli investimenti privati, attraverso un alleggerimento del carico fiscale (oggi intorno al 47%, ma si parla di una «pressione fiscale reale» che supera il 50%), agevolazioni fiscali d’ogni tipo (anche in deroga ai trattati europei sulla concorrenza), prestiti pubblici a fondo perduto, investimenti pubblici in opere infrastrutturali materiali e immateriali (ricerca scientifica inclusa), e così via. Per altro verso, la crisi del debito, aggravata dalla crisi economica generale (con relativo indebolimento del gettito fiscale), suggerisce ai governi di praticare politiche economiche di segno contrario a quanto appena detto. L’obesità degli interessi sul debito è tale, da fagocitare una parte sempre più consistente dei capitali che lo Stato riesce a rastrellare in giro, generando una vera e propria trappola del debito che si autoalimenta in modo davvero imbarazzante – per chi ci amministra. Se la spesa per il rimborso di prestiti nel 1960 era pari al 3,9% sul totale della spesa pubblica, mezzo secolo dopo si arriva alla mostruosa cifra di oltre il 25,2%. Contestualmente la spesa per l’amministrazione generale è passata, nello stesso periodo, dal 27% al 36%. L’incubo dello  non è solo – lo è in parte, perché la catastrofe è una merce che si vende sempre molto bene – un’invenzione giornalistica. Il debito pubblico si avvita su se stesso, stritolando i poveri contribuenti e rendendo più difficile la ripresa dell’accumulazione capitalistica in grande stile, che è poi la sola vera cura ai mali che oggi affliggono il Capitalismo occidentale.

La trappola del debito sovrano non consente all’Italia – ma analogo discorso si può estendere a tutto il Mezzogiorno europeo – di attuare quelle politiche “keynesiane” che ormai tutti, compresi i liberisti più ortodossi, invocano a gran voce, e con grande indignazione per il «commissariamento tecnocratico» del Paese imposto dalla Germania e dalla Banca Centrale Europea, cioè da Francoforte… La Germania, dal canto suo, non sarebbe contraria, in linea di principio, a che moderate misure “keynesiane” fossero implementate nei paesi europei più colpiti dalla crisi, anche perché la loro ridotta capacità d’acquisto non può lasciare indifferente un capitalismo orientato scientificamente alle esportazioni (l’80% del surplus commerciale tedesco è nei confronti degli altri Paesi europei). Tanto più che nella patria della Cancelliera di ferro Keynes parla molto bene il tedesco, all’occorrenza. La buonanima di Adolf ne sa qualcosa. Ma, e questo è il punto dirimente che i nemici della Germania rigorista fanno finta di non capire, per i tedeschi quelle misure espansive devono presupporre una profonda ristrutturazione della spesa pubblica nella zona euro, per scongiurare che la festa delle cicale si traduca in un trasferimento di ricchezza ai danni delle formiche.

I tedeschi ci guardano...

Allargare i cordoni della borsa di Pantalone per dare un po’ di sollievo a un’economia abbastanza acciaccata oggi, fermo restando lo status quo nella struttura e nei numeri del bilancio statale, non è possibile, e giustamente Monti ha criticato chi ha voluto interpretare le vicende francesi e olandesi come la fine del rigorismo finanziario. «Giustamente», beninteso, dal punto di vista del Sistema Paese. Subito dopo il successo elettorale – peraltro inferiore alle attese – di François Hollande da Francoforte è partita la bordata rigorista: «comunque vadano le cose in Francia il fiscal compact non si tocca». Approfittando della Sacra ricorrenza nazionale ieri il premier italiano ha dichiarato che «dobbiamo liberarci dai vecchi modi di pensare e di vivere». Chissà cosa intendeva dire… Intanto, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, voluta soprattutto dalla Germania, fa capire fino a che punto l’economia si fa sistema sociale tout court.

Rigorismo, dunque. Oppure? In effetti ci sarebbe una “terza via” tra una politica “spendacciona” e un’altra vocata a un ottuso fiscalismo contabile, e a ben guardare sarebbe la via maestra, e nessuno può escludere che alla fine il Paese sarà costretto a imboccarla, e a bere dall’amaro calice della spending review fino all’ultima goccia. E qui arriviamo alle lacrime e al sangue, o alla «macelleria sociale», se suona meglio. È sufficiente compulsare anche solo sbrigativamente la composizione della spesa pubblica italiana per capire fino a che punto essa dreni capitali privati, attraverso tasse, imposte e balzelli d’ogni genere, per scopi assolutamente improduttivi. (Inutile dire che il metro di valutazione cui faccio riferimento è l’unico possibile nella vigente società: la redditività del capitale investito in termini di profitti. Ogni concezione benecomunista qui è bandita, nel modo più assoluto). Attaccare prima con l’ascia, e poi col bisturi interi «capitoli di spesa» metterebbe il Paese nelle condizioni di liberare capitali, pubblici e privati, oggi indisponibili per il processo di accumulazione allargato, mentre tasse, patrimoniali, lotta all’evasione fiscale e al «lavoro nero» e altre misure «politicamente corrette» nell’immediato sortiscono l’effetto di deprimere ulteriormente un quadro economico-sociale già abbastanza deprimente.

Ieri il Wall Street Journal ha definito «ipocrita» il dibattito europeo intorno al falso problema crescita o austerità?, e ha soprattutto criticato i keynesiani ideologici, i quali sostengono che spendendo di più si otterrà la crescita, mentre la realtà dimostra «che la spesa pubblica finanziata con le tasse non può portare alla prosperità». Ricetta? «Liberalizzare l’economia, a partire dal mercato del lavoro, e tagliare la spesa pubblica improduttiva». Il capitale non si stampa col torchio del Tesoro, ma si genera attraverso lo sfruttamento intensivo della capacità lavorativa. È dai tempi di Quesnay e Adam Smith che la cosa è nota. Checché ne dica Toni Negri… Anche Mario Draghi lo ha detto chiaro e tondo ieri all’europarlamento: i governi ricorrono alle tasse perché non vogliono toccare la spesa pubblica improduttiva, e ciò li costringe a manovre finanziarie recessive. È un mantra: tagliare la spesa pubblica improduttiva.

Spending review significa appunto tagliare, accorpare, controllare, alleggerire, razionalizzare, riorganizzare, disciplinare, economizzare, privatizzare e, dulcis in fundo, licenziare, nonché comprimere il più possibile gli stipendi dei lavoratori statali, i quali consumano ricchezza sociale senza crearne alcuna. Non l’ideologia liberista ma la prassi capitalistica fa di questi lavoratori uno strato sociale economicamente parassitario.

Sto forse cercando di dare dei consigli a chi ci amministra con tanta cura? Non credo che le mie parole possano arrivare in così alto loco, né intendo dare il mio contributo all’elaborazione di politiche economiche alternative, ”reazionarie” (liberiste) o “progressiste” (keynesiane) che siano. Invito solo a prendere molto sul serio le ragioni del Capitale, colto nella sua dimensione sociale, per meglio contrastarle e affermare con forza le ragioni delle classi dominate. Ragioni che, a ben guardare, vanno ben oltre le lotte per affermare un diritto alla mera – o «dignitosa» – sopravvivenza.