CONSIDERAZIONI – ABBASTANZA INATTUALI – SU ADORNO E SU ALTRO

chagall2La sofferenza incessante ha tanto
il diritto di esprimersi quanto il
martirizzato di urlare (T. W. Adorno).

Basterebbe allo spirito un piccolo
sforzo per liberarsi dal velo di
questa parvenza onnipotente e
pur nulla: ma questo sforzo
pare di tutti il più difficile
(M. Horkheimer, T. W. Adorno).

Attualità di Adorno: è questo il titolo che Sandro Dell’Orco ha voluto dare al suo interessante articolo scritto in occasione del «50° anniversario della pubblicazione di Dialettica negativa» (1966). Qui mi propongo di affrontare un solo aspetto, squisitamente storico-politico, dei problemi messi sul tappeto dall’autore, cioè a dire il rapporto tra Adorno (e la «teoria critica» in generale) e il cosiddetto «socialismo reale» (e la sinistra, più o meno “radicale”, in generale). Come il lettore può facilmente constatare, si tratta di temi che si sposano bene con il clima agostano, diciamo… Sul merito propriamente filosofico della Dialettica negativa mi piacerebbe scrivere qualcosa quanto prima. Si vedrà!

«Diciamolo subito», esordisce Dell’Orco, «Adorno è stato sostanzialmente dimenticato dalla cultura mondiale dall’anno della sua morte. Come il marxismo, a cui si ispirava, è stato spazzato via dai luoghi della cultura istituzionale e mediatica». A mio avviso, e provando a guardare la cosa anche dal punto di vista della «teoria critica» di Adorno e Horkheimer, il fatto denunciato da Dell’Orco per un verso mi appare scontato e necessario, e per altro verso mette a nudo una concezione, quella di Dell’Orco, che sembra avere poco a che fare con un pensiero autenticamente critico-radicale (“marxista” o “rivoluzionario” che dir si voglia), il quale vive, e può vivere, solo lontano «dai luoghi della cultura istituzionale e mediatica», ossia dai centri di elaborazione della cultura e dell’ideologia dominanti. Lontano e contro questi «luoghi». Il “marxismo positivo”, per parafrasare l’Hegel critico della «religione positiva» (ossia istituzionalizzata e canonizzata), equivale alla sclerotizzazione burocratica e alla morte del marxismo.

Mi rendo conto che l’intellettuale cresciuto sotto l’influenza dell’ideologia gramsciana debba pensarla diversamente da me. E infatti, il Nostro continua come segue: «Di fatto, a partire dagli anni ottanta e soprattutto dal 1989, il marxismo da teoria egemone nelle istituzioni culturali, politiche e sociali, diviene una teoria di nicchia, come ai suoi primordi; sociologicamente una sorta di riserva indiana in cui pochi e attempati superstiti o reduci, in attesa di scomparire, ripetono alla luna le loro verità». Ma non è sospetto un punto di vista che si presenta al mondo in guisa di prospettiva radicalmente rivoluzionaria e che poi si afferma come una «teoria egemone nelle istituzioni culturali, politiche e sociali» (borghesi)? La cosa appare quantomeno contraddittoria, almeno agli occhi di chi, come il sottoscritto, non ha mai dato alcun credito alla teoria gramsciana dell’egemonia, la quale ha ben servito il processo di distruzione dell’autonomia teorica e politica del movimento operaio, progressivamente neutralizzato e integrato nel “sistema”, per la felicità dei teorici della «democrazia progressiva» o «Terza via» che dir si voglia. Il fatto che una teoria rivoluzionaria (non solo a chiacchiere, com’è il caso di quelle teorie “radicali” che tanto piacciono agli intellettuali “radicali”) sia costretta a vivere in una dimensione «di nicchia», salvo rare eccezioni, è qualcosa che si spiega con la stessa natura di quella teoria, in considerazione del fatto, cioè, che l’ideologia dominante è quella che fa capo alle classi dominanti. È solo con il “marxismo” formato Seconda Internazionale e Terza Internazionale stalinizzata che si afferma nel cosiddetto Movimento operaio internazionale l’idea che la teoria e la parassi (Partito compreso) devono essere rigorosamente “di massa”, sempre e comunque, a prescindere cioè dal grado di maturazione politica delle mitizzate “masse”, dalla loro effettiva capacità antagonista, dal loro livello di autonomia nei confronti di tutte le fazioni capitalistiche (1). Un fondamentale problema, quello appena evocato (una teoria e una prassi rivoluzionarie possono sempre seguire una “linea di massa”?), che lo stalinismo internazionale avrà cura di rubricare come “sindrome settaria”; un’operazione ideologica, questa, tesa a denigrare e a calunniare i «falsi amici del proletariato» (cioè gli antistalinisti), e che ebbe nel partito “comunista” di Togliatti un esempio forse insuperato nel contesto dello stalinismo europeo.

Il paradosso narrato da Dell’Orco avrebbe un qualche senso qualora il mondo si fosse trovato, prima dei “maledetti” anni Ottanta (il decennio della “controrivoluzione neoliberista”), alle soglie della rivoluzione sociale, come peraltro egli sembra credere: «Adorno, marxista, si eclissa, come tutti gli altri autori marxisti (Lukács, Althusser, Gramsci, Lenin, ecc.) che risplendevano, magari offuscandosi a vicenda, all’orizzonte dell’imminente riscatto dell’umanità. Il neoliberismo non fa distinzioni, è totalitario, con un solo colpo di scopa spazza via Marx e tutti i marxismi. Non con la forza delle idee, naturalmente, ma con quella del denaro, con cui si compra governi, media e istituzioni culturali in ogni parte del pianeta». A un passo dall’Evento palingenetico, il totalitarismo neoliberista diede scacco matto a ogni forma di “marxismo”: Adorno perde e va in soffitta, Habermas vince e va al potere – nelle università, nei partiti “operai”, nei sindacati, nelle istituzioni “borghesi” genericamente intese. Che dire? Mi scuso con il lettore, ma io ho guardato un altro film, oppure mi son distratto un attimo, non saprei dire. Per tacere circa la congruità dell’accostamento che Dell’Orco propone tra Adorno e «gli altri autori marxisti (Lukács, Althusser, Gramsci, Lenin, ecc.)». Non nascondo anche una settaria curiosità sui nomi degli «altri autori marxisti» che l’autore incorpora nell’eccetera.

Insomma, io non ho visto alcuna rivoluzione sociale alle porte (soprattutto compulsando libri e riviste: non sono poi così vecchio!), e d’altra parte il riferimento di Dell’Orco al famigerato 1989 forse ci dice qualcosa sulla natura del presunto quanto «imminente riscatto dell’umanità» cui egli accenna. L’allusione è ovviamente alla crisi definitiva del cosiddetto «socialismo reale», almeno nella sua variante russa; modello politico-sociale che non solo non spaventava neanche un po’ l’«Occidente capitalista» (se non sul piano della competizione interimperialistica, ma questo è un altro discorso), ma piuttosto portava tantissima acqua al suo mulino propagandistico: «Proletari, vedete cosa vi aspetta nel tanto strombazzato socialismo? Il capitalismo non sarà forse il migliore dei mondi possibili, ma di certo il socialismo non vi offre una vita migliore». Beninteso, il falso socialismo di matrice stalinista/maoista di reale aveva soltanto la sua natura capitalistica, un fatto incomprensibile per chi assimila senz’altro il “socialismo” al capitalismo di Stato, un’idiozia dottrinaria che lo stesso Marx ebbe modo a suo tempo di criticare – bastonando ad esempio il «socialismo di Stato» di Lassalle. Ma su questo punto ritornerò tra poco.

A mio giudizio, chi sostiene che il «Socialismo reale» ha avuto almeno il grande merito di far pendere la bilancia dei rapporti di forza tra le classi a favore degli operai occidentali, mostra tutta la sua inconsistenza concettuale e politica, quantomeno come aspirante “rivoluzionario”. Se non si viene fuori dalla confortante – e reazionaria – mitologia del “Trentennio felice” (i tre decenni che seguirono la Seconda carneficina mondiale), la comprensione dell’attuale tragedia storico-sociale (rimanere sequestrati nella disumana dimensione del Dominio mentre la liberazione ci sorride da molto vicino) resta inaccessibile, se non per alcuni suoi aspetti superficiali e periferici, con quel che ne segue necessariamente – e “dialetticamente” – sul terreno dell’iniziativa politica.

Scrive Dell’Orco: «La generazione del sessantotto, che nel mondo occidentale s’infatuò di Adorno, se ne sbarazzò prestissimo – se non in senso fisico (come pure polemicamente suggeriva Beckett) certamente in senso intellettuale. I sessantottini desideravano agire immediatamente, passare all’azione, e chi li invitava a illuminare la propria prassi col pensiero, venne messo nella lista dei “nemici” e dimenticato. La fine che fece poi quella prassi cieca la si conosce, e Adorno che l’aveva ampiamente prevista e combattuta, invece di essere apprezzato, fu escluso dalla teoria rivoluzionaria della sinistra extraparlamentare ancor più radicalmente di quanto non lo fosse stato dalla cultura ufficiale. Insomma una sorta di cane morto che tutti respingevano. Da un lato come “revisionista” e dall’altro come “cattivo maestro”. Ricordo che già nei primi anni settanta il suo nome era impronunciabile nelle assemblee universitarie e nelle riunioni dei gruppi della sinistra radicale». Ma tutto questo non ci invita forse a mettere in discussione la natura “rivoluzionaria” della cosiddetta «teoria rivoluzionaria della sinistra extraparlamentare» e dei «gruppi della sinistra radicale» di allora? Inutile girarci intorno: dove dominano ideologie impregnate di stalinismo, di maoismo e di terzomondismo non è possibile la maturazione di un punto di vista autenticamente critico-rivoluzionario. Il disprezzo dei nipotini di Stalin e di Mao nei confronti di Adorno e Horkheimer si spiega dunque benissimo ed è perfettamente coerente con il loro modo di concepire il mondo. «Adorno, inflessibilmente, da illuminista tenace, non arretra di fronte alla paralizzante conclusione cui la teoria lo conduce. Non si lascia intimidire dalle accuse di disfattismo, di tradimento, di intellettualismo, che gli studenti – per non parlare dei partiti comunisti – gli lanciano. Né approda al riformismo, “che dal canto suo è complice nel favorire la continuazione della cattiva totalità” [Adorno, Parole chiave,]». La mia critica ai detrattori di Adorno va oltre, e sposa, per così dire, il motto secondo cui la miglior difesa consiste nell’attacco; essa, infatti, investe direttamente e alla radice la loro stessa natura politico-sociale, la quale, come già detto, non aveva nulla a che fare con il comunismo, né con quello “ideale” che si trova nei libri di Marx ed Engels, né con quello “reale” che sarebbe stato sperimentato in Russia e altrove, come invece sembra credere Dell’Orco.

Chagall67«Che fare? Qual è la prassi giusta per affrontare e cambiare tale assetto del mondo? La profondità a cui Adorno ha spinto l’analisi del capitalismo gli fa escludere il modello proposto dalle varie dittature del “socialismo reale” e dai partiti comunisti che vi si ispirano. Il problema infatti non è solo abolire il capitalismo, ma lo stesso comportamento istintuale egoistico, il bellum omnium contra omnes, che lo produce e da cui è continuamente riprodotto. L’abolizione meramente economica del capitalismo – come i paesi socialisti hanno dimostrato – non solo non produce automaticamente la fine della condizione di possibilità del dominio, ma è compatibile con la sua degenerazione più brutale e totalitaria». E qui ritorniamo alla vera natura sociale del cosiddetto «socialismo reale», la cui esistenza non dimostra affatto ciò che sostiene Dell’Orco, peraltro sulla scia di Adorno e della Scuola di Francoforte.

Scriveva G. D. H. Cole nel remoto anno di grazia 1961, in pieno boom economico postbellico: «La differenza fondamentale fra la civiltà occidentale moderna e tutte le altre civiltà che sono esistite in passato non è tanto che essa è dinamica mentre le altre erano statiche, perché la storia umana non è mai stata statica anche quando il ritmo delle trasformazioni tecnologiche era prossima a zero, quanto il fatto che le società industriali moderne hanno fatto del progresso, dell’ansia di cambiare, la loro seconda natura. […] L’uomo moderno è stato preso in un vortice immenso di sviluppo economico che finirà per inghiottirlo se egli non riuscirà a padroneggiare le forze che minacciano la società di distruzione» (2). Il concetto di società industriale moderna non coglie l’essenza della cosa: è il dominio sociale capitalistico, infatti, che ha fatto dello sviluppo economico un imperativo categorico e degli individui degli esseri sottoposti alla cieca brama di profitti.

«L’uomo moderno» non ha mai padroneggiato le forze sociali che pure lui realizza sempre di nuovo, soprattutto attraverso il lavoro, ma le ha piuttosto subite alla stregua di potenze estranee e ostili. L’individuo è già negato come uomo, e la società industriale moderna, ossia capitalistica, rappresenta questa negazione. Come altri intellettuali del suo tempo vittime del velo tecnologico che copre la natura di classe della merce, della tecno-scienza e del lavoro salariato, Cole usava il concetto di società industriale moderna per dar conto anche del processo sociale in atto nei Paesi cosiddetti socialisti, i quali, pur avendo «un sistema economico radicalmente diverso dal capitalismo», erano tuttavia segnati da contraddizioni sociali e da problemi esistenziali assai simili a quelli che si potevano osservare in Occidente, nei Paesi a capitalismo per così dire conclamato. Di qui, l’individuazione della causa di quelle contraddizioni e di quei problemi nel processo tecnico industriale, concepito in sé come “sviluppista”, alienante, reificante e via discorrendo. In realtà, e come già sostenuto, il «socialismo reale» (in Russia, in Cina, ovunque), lungi dall’essere «un sistema economico radicalmente diverso dal capitalismo» non era che un capitalismo di Stato (peraltro tutt’altro che “puro”!) a forte vocazione imperialistica, soprattutto sul versante “Sovietico”. Insisto su questo punto perché l’infondata interpretazione del «socialismo reale» è tutt’altro che estranea all’attuale impotenza sociale e politica delle classi dominate del pianeta, la cui speranza in un mondo a misura d’uomo è stata annichilita anche dalle diverse esperienze di “socialismo reale”.

Nel mio studio dedicato alla Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare) provo a chiarire le cause e la fenomenologia della controrivoluzione che annientò totalmente le ancora fragili, limitate e contraddittorie conquiste rivoluzionarie rese possibili dal «Grande Azzardo» architettato dal partito di Lenin.

L’ansia di cambiamento di cui parlava Cole è dunque in primo luogo l’ansia del capitale di intascare profitti, ed è precisamente questa brama che costringe la società capitalistica a continui e sempre più frequenti cambiamenti, non solo in economia, ma in ogni aspetto della prassi sociale, coinvolgendo in profondità la stessa sostanza psicosomatica degli individui. La dimensione del capitalismo oggi è il mondo e, insieme, il corpo stesso degli individui, una risorsa economica capitalisticamente davvero generosa, un mercato perfetto scandagliato e coltivato con ossessiva e maniacale cura dagli specialisti del marketing. La biopolitica pensata da Foucault si è col tempo radicalizzata proprio secondo le previsioni di A. Rüstow: «L’economia del corpo sociale organizzato secondo le regole dell’economia di mercato». La distinzione “ontologica” tra «corpo sociale» e corpo umano tende a evaporare sotto la pressione del “sociale”; ogni sogno notturno è una potenziale domanda rivolta al mercato, il quale è sempre pronto a soddisfare le richieste del cliente. «L’assurdità del capitalismo totalitario, la cui tecnica di soddisfazione dei bisogni rende quella soddisfazione impossibile, tende alla distruzione dell’umanità. […] Tutti questi sacrifici superflui sono necessari» (3).

Nell’ambito della Scuola di Francoforte, soprattutto Marcuse elaborò il concetto di «società industriale avanzata»; seguendo questa cattiva strada egli giun­se appunto ad assimilare il capitalismo occidentale con «le forme at­tuali di comunismo», dove l’errore evidentemente non stava in quella assimilazione, ma piuttosto nell’ac­creditamento “comunista” dei regimi “diversamente capitalisti” radicati in Russia, in Cina e altrove. Il concetto adorniano di «capitalismo totalitario», declinato in un’accezione squisitamente sociale, e non banalmente politologica (intesa cioè a cogliere solo la struttura sociale dei regimi totalitari: fascismo, nazismo, stalinismo), saturava completamente anche la realtà sociale dei Paesi cosiddetti socialisti. In ogni caso, oggi si può ben parlare di dominio totale e totalitario dei rapporti sociali capitalistici, anche in polemica con gli apologeti – attivi a “destra” come a “sinistra” – della «Civiltà occidentale», i cui “valori universali” per costoro sarebbero sottoposti agli attacchi di Paesi (come la Russia, la Cina e, in parte, la Turchia di Erdogan) e di entità politicamente “non convenzionali” (vedi il Califfato Nero) estranei al retaggio dello «Stato di diritto» e dei «diritti umani». Senza peraltro concedere nulla agli apologeti, altrettanto reazionari, dello Stato forte e sovranista, i quali hanno proprio nella Cina e nella Russia (e in generale nell’Asse antiamericano, come ai “bei tempi” della Guerra Fredda) il loro punto di riferimento geopolitico. Ma non divaghiamo!

Il rifiuto della prassi – o quantomeno la sua sospensione, in attesa di tempi più propizi – proclamato una volta da Adorno, va a mio avviso  considerato alla luce della tragedia sociale che lo vide protagonista, e che noi abbiamo ereditato. Solo così, penso, possiamo comprenderne il reale significato, coglierne l’autentica portata filosofica e politica, verificarne la vitalità/attualità. Per un verso la guerra mondiale, i campi di sterminio, il desiderio degli individui di lasciarsi rapidamente alle spalle le macerie materiali e “spirituali” della guerra, per ritornare quanto prima a «vivere normalmente», senza interrogarsi sulle profonde radici sociali che avevano generato quella catastrofe, e che promettevano di crearne altre, magari in un nuovo formato, in futuro. Per altro verso il cosiddetto “comunismo”, che non prometteva nulla di buono circa la liberazione dal Dominio: tutt’altro! Per quella che possiamo forse assimilare a una legittima difesa, Adorno e Horkheimer teorizzarono la sospensione della prassi nell’ambito della «teoria critica». Un errore concettuale, certo; ma quale «prassi» alternativa a quella democratico-riformista i due avevano allora dinanzi? È presto detto: quella ultrareazionaria dello stalinismo internazionale con le sue molteplici e spesso fantasiose variazioni nazionali. Prendendo congedo dalla «prassi» essi intesero dunque mettere al riparo la «teoria critica» dall’omologazione stalinista, e personalmente considero questa intenzione, questa sensibilità ideale e politica qualcosa di assai meritevole in sé e per sé, cosa che naturalmente non muta il giudizio che personalmente do alla loro interpretazione del «fenomeno-stalinismo», da Adorno e Horkheimer associato in qualche modo allo stesso pensiero marxiano.

Scriveva Adorno: «Per questa prassi – illiberale e antiumana – ha preso partito il materialismo arrivato al potere politico non meno del mondo che esso un tempo voleva mutare. Esso incatena ancora la coscienza invece di comprenderla e di mutarla a sua volta. Apparati terroristici dello stato si barricano, divenendo istituzioni stabili, dietro il potere frustro di una dittatura (ormai perdurante da cinquant’anni) del proletariato da tempo amministrato. […] Ciò che, nell’attesa della rivoluzione imminente, voleva liquidare la filosofia, era già allora rimasto dietro ad essa, impaziente con la sua pretesa. […] Il materialismo diventa ricaduta nella barbarie, che voleva impedire; lavorare contro questa tendenza è uno dei compiti meno indifferenti di una teoria critica» (4). Ora, nella misura in cui, per un verso il «materialismo storico» di Marx non aveva nulla a che spartire con il «materialismo dialettico» (il famigerato diamat) diventato l’ideologia di Stato dell’Unione Sovietica; e che per altro verso il cosiddetto «socialismo reale» era, e mi scuso se ripeto ossessivamente lo stesso concetto, un capitalismo (più o meno “di Stato”), quella posizione di Adorno ha un po’ il significato di gettare «il bagno col bambino dentro», per usare le sue stesse parole (vedi Minima moralia). Più esattamente: il bambino di Treviri non c’entrava niente con il bagno sporco della barbarie stalinista. Ecco perché il mio inveterato antistalinismo non mi ha mai indotto a prendere le distanze dagli aspetti ritenuti più scabrosi e insostenibili della teoria politica marxiana, come quelli, ad esempio, riguardanti la «rivoluzione sociale» e la «dittatura rivoluzionaria del proletariato», i quali certamente vanno riconsiderati alla luce del capitalismo mondiale del XXI secolo, ma senza farsi spiazzare da una cattiva (infondata) interpretazione del «socialismo reale». Non bisogna leggere Marx alla luce dell’interpretazione dominante (“mainstream”) del «socialismo reale»: è il modesto suggerimento che ho sempre dato a chi intende maturare, come chi scrive, un punto di vista critico-radicale su tutto ciò che si muove tra Terra e Cielo.

Allora (come oggi, del resto) non si trattava di sospendere la prassi, ma di elaborarne una coerente con la teoria che si poneva in assoluta contrapposizione con un mondo sempre più alienato e alienante, atomizzato e massificato, terrorizzante e terroristico (e qui siamo già in piena cronaca!), sussunto completamente sotto le imperiose leggi del calcolo economico. Una prassi all’altezza dei suoi presupposti teorici, certo, ma anche necessariamente adeguata al reale stato della “lotta di classe”. Più facile a dirsi che a farsi, non c’è dubbio. Tanto più per un intellettuale accusato dal “Movimento” di non voler sostenere la “causa del proletariato”: e meno male, dico io, considerato che in quella “causa” militavano i figli di Stalin (e poi i suoi nipotini, sotto forma di maoisti)! D’altre parte, io concepisco la prassi come una forma trasformata della teoria (e viceversa), come la continuazione della politica con altri mezzi – e viceversa. Dico questo per illuminare meglio la posizione di Adorno e Horkheimer a proposito della «prassi».

Una volta Lenin disse che i marxisti avrebbero fatto bene a costruire «una sorta di associazione di amici materialisti della dialettica hegeliana», intendendo con ciò significare che solo i marxisti potevano scoprire il lato fecondo di quella dialettica, e avvantaggiarsene sul piano politico. Riformulo la perorazione leniniana a beneficio del pensiero critico di Adorno e Horkheimer, il quale, con tutti i limiti che sono lungi dal misconoscere (ma chi non ha limiti scagli la prima frottola!), ritengo possa essere fecondo nello sforzo teorico e pratico cui accenno in questo articolo. Ad esempio, la loro critica del «tardo capitalismo», a partire dalla cosiddetta «industria culturale» e dalla dimensione sempre più totalitaria del “sociale”, offre molti spunti di riflessione utili a comprendere meglio la Società-Mondo del XXI secolo.

«La fine del dominio ha bisogno di un atto consapevole e volontario (spontaneo, autonomo) di uomini che sappiano tenere testa al proprio naturale impulso egoistico, prima che a quello degli altri. Solo uomini siffatti, che abbiano saldato i conti col proprio egoismo, e che abbiano esperito nella loro vita rapporti umani così gioiosamente amorevoli, delicati, gratuiti e solidali, da esserne legati più che a qualunque altra soddisfazione, – solo uomini siffatti potrebbero essere i soggetti credibili di una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio. Ma dove sono uomini così? E come pretendere che tutti gli uomini siano così? Perché tutti gli uomini debbono esserlo affinché il bellum omnium non ricominci. Queste domande ci avvicinano moltissimo ai famosi concetti di “dialettica bloccata” o di “rifiuto della prassi” di Adorno». Ebbene, visti dalla prospettiva storica e politica che ho cercato di tratteggiare, i problemi posti da Dell’Orco assumono un aspetto diverso da quello che emerge dalla sua impostazione. Non so dire come si porrà un domani «il problema di una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio», e nei miei modesti lavori mi limito a descrivere e a denunciare, contro i sacerdoti del “male minore”, il carattere necessariamente disumano – e sempre più disumano: «il peggio è adesso e non smette di peggiorare!» – del vigente regime sociale mondiale, e a prospettare la possibilità dell’auspicata emancipazione universale, avendo peraltro cura di chiarire che tale possibilità oggi è sul punto di esalare l’ultimo respiro. Insomma, l’”ottimismo della rivoluzione” – o della volontà – lo lascio volentieri a chi ha bisogno di rassicuranti certezze, mentre oggi si tratterebbe piuttosto di dare voce alla tragedia, di testimoniare la pessima condizione umana, di denunciare il carattere nichilista dei nostri tempi. Scriveva Max Horkheimer negli anni Trenta: «L’ottimismo dei proclami politici proviene oggi dalla disperazione» (5); condivido. Allora l’intellettuale tedesco considerò «prevedibile» anche «una fine innaturale» della tragedia, ossia un «salto nella libertà»; oggi una simile fine mi appare assai meno prevedibile, per non dire altro.

Quel che però so con certezza (e sono pochissime le certezze che posso esibire, purtroppo!) è che il cosiddetto «socialismo reale» non solo non depone contro «una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio», ma anzi ci parla della sua necessità, proprio perché questa miserabile esperienza si colloca tutta dentro il processo sociale capitalistico, essa è, come mi piace dire, un capitolo particolarmente ignobile del Libro nero del Capitalismo mondiale.

marc-chagall 1(1) Naturalmente il vero problema consiste nell’esistenza stessa di una massa, ossia nelle condizioni sociali che rendono possibile la trasformazione (meglio: la creazione, già in tenera età) degli individui in atomi sociali facilmente massificabili. L’identificazione con l’uomo forte da parte dei singoli «presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza dei singoli […] L’identificazione, sia con il collettivo, sia con la figura strapotente del capo, offre all’individuo un surrogato psicologico per quel che gli manca nella realtà» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, in Lezioni di sociologia, p. 96, Einaudi, 2001). Come mi capita spesso di dire, nella misura in cui non padroneggiamo con le mani e con la testa le fonti essenziali della nostra esistenza (a partire dalla creazione e distribuzione dei prodotti che ci tengono in vita), siamo degni della metafora nietzschiana del gregge. «La folla è un gregge docile incapace di vivere senza un padrone. È talmente desiderosa di obbedire che si sottomette istintivamente a colui che le si pone a capo. […] Il gregge esiste anche se manca un pastore» (S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’Io, p. 111, Newton, 1991). Trovo quest’ultimo passo di una profondità davvero notevole, tale da far venire i brividi a chi lo colga in tutta la sua potente estensione concettuale. Posto il gregge, cioè a dire i rapporti sociali che lo rendono possibile sempre di nuovo, il Pastore è sempre dietro l’angolo, pronto a decifrare ogni variazione nella tonalità dei belati. «Pastore sarai tu il mio Signore!». «La regressione delle masse, oggi, è l’incapacità di udire con le proprie orecchie qualcosa che non sia stato ancora udito, di toccare con le proprie mani qualcosa che non sia stato ancora toccato» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 44, Einaudi, 1996). Inutile ricordare, per l’ennesima volta, il maligno ruolo che lo stalinismo internazionale ha avuto nel processo di «regressione delle masse». Però intanto l’ho fatto!
(2) G. D. H. Cole, Storia economica del mondo moderno, pp. 176-177, Garzanti, 1961.
(3) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo.
(4) T. W. Adorno, Dialettica negativa, p. 254, Einaudi 1970.
(5) M. Horkheimer, Gli ebre e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 59, Savelli, 1978.

CUCINARE LENIN IN SALSA SOVRANISTA. SIGNORI, LA CIOFECA È SERVITA!

lenin-cat1Contrapporre Lenin, anche solo in guisa di mostruosa mummia crudelmente esposta nel noto mausoleo moscovita, alle «sinistre» in generale e alla Presidente della Camera Laura Boldrini in particolare è una bizzarra idea che poteva maturare solo nella dialettica testa di un autentico “marxista”, ancorché sedicente “ultimo”. Alludo forse al filosofo più telegenico d’Italia, nonché appunto «ultimo marxiano», come da rubrica, Diego Fusaro? Ovviamente! Leggiamo dunque una perla storico-dialettica di rara bellezza uscita dal suo fecondo cervello: «Nel tempo del sovrano disinteresse per la condizione del lavoro e per i diritti sociali, la sinistra pare essersi reinventata come sinistra arcobaleno dei diritti civili [rispetto a questa cianfrusaglia piccolo-borghese il Virile Vladimir Putin è cosa assai più seria!] e dell’Europa senza se e senza ma. Ma siamo davvero sicuri che l’idea degli Stati Uniti d’Europa sia emancipativa, progressiva e di sinistra? Proviamo a chiederlo a un autore che certo di destra non era e che sarebbe pure difficile liquidare come nazionalista o in odore di fascismo [excusatio non petita, accusatio manifesta?]. Alludo a Lenin, l’eroe della Rivoluzione bolscevica e del comunismo storico novecentesco» (1). Segue citazione leniniana tratta da un celebre (presso i cultori della materia, si capisce) scritto dell’agosto 1915: Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa (2). Ora, accostare l’uomo di Simbirsk alle «sinistre» (da Varoufakis a Laura Boldrini, da Lafontaine a Fassina, da Corbyn a… Fusaro), anche solo in forma strumentale, ossia per criticarne gli esponenti più illustri, ha un solo atomo di senso? A mio avviso ciò può avere un solo senso: quello di metterci nelle condizioni di comprendere l’idea di “sinistra” che hanno in testa Fusaro e gli intellettuali “marxisti” di analogo (pessimo!) conio politico-ideologico. Ma nel momento in cui perfino un Alfredo Reichlin può impunemente scrivere sul giornale fondato da Matteo Renzi (L’Unità) i passi che seguono: «Ebbene sì, Enrico Berlinguer era comunista. Ma c’è di peggio. C’è gente come me che non solo era comunista, lo è ancora»; se le cose stanno così, nessuno, nemmeno Vladimir Il’ic in persona, può impedire al personaggio non di rado preso di mira su questo modesto blog le corbellerie storico-politiche che ama propinare sul mercato delle ideologie.  Ma sì, arruoliamo pure l’internazionalista Lenin nella campagna antieuropeista a difesa dello Stato nazionale (borghese)!

Ma cosa scriveva nel pieno della Grande Guerra il capo bolscevico a proposito dell’ultrareazionaria parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa? Leggiamo qualche passo tratto dall’articolo citato sopra: «Gli Stati uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari. Il capitale è divenuto internazionale e monopolistico. […] In regime capitalistico non è possibile un ritmo uniforme dello sviluppo economico né delle singole aziende, né dei singoli Stati. In regime capitalistico non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in tanto l’equilibrio spezzato, all’infuori della crisi economica nell’industria, e della guerra nella politica. Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati uniti d’Europa, come accordo fra i capitalisti europei… Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme, le colonie usurpate, contro il Giappone e l’America che sono molto lesi dall’attuale spartizione delle colonie e che nell’ultimo cinquantennio si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell’Europa arretrata, monarchica, la quale incomincia a putrefarsi per senilità. In confronto agli Stati Uniti d’America, l’Europa, nel suo insieme, rappresenta la stasi economica. […] Gli Stati uniti del mondo (e non d’Europa) rappresentano la forma statale di unione e di libertà delle nazioni, che per noi è legata al socialismo, fino a che la completa vittoria del comunismo non porterà alla spartizione definitiva di qualsiasi Stato, compresi quelli democratici» (313-314). Per Lenin, dunque, il progetto “europeista” si collocava interamente nella dimensione degli interessi del Capitalismo europeo giunto nella sua fase imperialista: conservare le colonie, difendere lo status quo politico-istituzionale del Vecchio Continente, schiacciare il proletariato rivoluzionario, rafforzarsi nei confronti degli imperialismi concorrenti: Stati Uniti d’America e Giappone, in primis.

Osservo en passant che in una nota scritta alla fine dell’agosto 1915 Lenin puntualizza nuovamente come «la parola d’ordine reazionaria» degli Stati Uniti d’Europa significasse «un’alleanza temporanea delle grandi potenze d’Europa per una più efficace oppressione delle colonie e per la rapina del Giappone e dell’America, che si sviluppano più rapidamente» (3). Ora, volendo ragionare al modo di tante mosche cocchiere “antimperialiste” che ancora oggi si basano sul famigerato principio maoista del Nemico Principale, dovremmo concludere che allora Lenin sostenesse politicamente, in chiave tattica, l’imperialismo nippo-americano («Nemico secondario») contro l’Europa («Nemico principale»). Cosa che naturalmente farebbe scompisciare dal ridere anche la mummia di Lenin.

Ovviamente il rivoluzionario russo non era così teoricamente sciocco e politicamente così sprovveduto da pensare che la rivoluzione sociale proletaria potesse avere immediatamente una dimensione mondiale; proprio a causa dell’ineguale sviluppo capitalistico, «una legge assoluta del capitalismo» che detta i tempi – e impone il ritmo – al processo sociale considerato nella sua dimensione planetaria rende impossibile «il trionfo del socialismo» in tutti i Paesi, o quantomeno nei più importanti Paesi del mondo, “in simultanea”, e nemmeno nel corso di un breve arco di tempo. Certo, se poi la cosa dovesse realizzarsi nessun comunista griderebbe allo scandalo, questo è sicuro! Ma è sempre meglio attrezzarsi per il peggio, come testimonia peraltro la stessa esperienza rivoluzionaria europea di inizio Novecento culminata nell’Ottobre Rosso – poi, con lo stalinismo, diventato Russo, anzi: Grande-Russo.

Qualche mese fa un lettere di un mio post sulla Cuba castrista mi domandava (fra l’altro): «Dunque per te la rivoluzione o è mondiale o non è?». Ecco la mia risposta:

Anche per me la rivoluzione sociale anticapitalistica non può prescindere dall’ambito nazionale, necessariamente, perché la dimensione nazionale è un dato di fatto. La simultaneità della presa del potere su scala planetaria è un’ipotesi affascinante e bellissima, ma credo abbastanza utopistica. Penso anche che se la dimensione nazionale di una rivoluzione riuscita non viene superata quanto prima (e solo la prassi può stabilire la misura di questo tempo) la «costruzione del socialismo in un solo Paese» sia non un’utopia, ma un’idea ultrareazionaria buona solo a mistificare la realtà della sconfitta. Ogni riferimento alla controrivoluzione stalinista è del tutto voluto. La natura proletaria e socialista del Grande Azzardo leniniano non consistette, a mio avviso, nelle misure economico-sociali prese dai bolscevichi dopo l’Ottobre, quasi tutte rubricabili come provvedimenti da economia di guerra (questo fu in pratica il “Comunismo di guerra” sul terreno economico-organizzativo, come confesserà lo stesso Lenin nel 1921, in sede di bilancio critico) (4), ma nella dimensione internazionale di quella rivoluzione, nel porsi essa come avanguardia di un processo sociale rivoluzionario di respiro mondiale, o quantomeno europeo. La Russia come anello debole della catena imperialistica; la Rivoluzione Russa come scintilla che incendia il mondo: su queste basi Lenin architettò nel corso di molti anni e implementò con geniale tempestività il Grande Azzardo. Com’è noto, il mondo non prese fuoco. Ma ciò, sempre a mio avviso, non depone contro la Grande Scommessa; dimostra piuttosto che la rivoluzione sociale è un’equazione con moltissime incognite (5).

Lo scritto di Lenin sugli stati Uniti d’Europa è stato spesse volte chiamato in causa dagli stalinisti, e dallo stesso Stalin nel dicembre del 1924, se ricordo bene, per dimostrare – contro Trotskij (6) – come la tesi del Socialismo in un solo Paese fosse stata elaborata, o quantomeno evocata, per la prima volta da Lenin, il quale scriveva: «È possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si porrebbe contro il resto del mondo capitalistico, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, infiammandole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati» (7). Ora, qualsiasi cosa avesse in testa Lenin nel 1915 a proposito dell’organizzazione della produzione socialista in un solo Paese (e certamente allora egli non stava pensando alla capitalisticamente arretrata Russia, ma semmai alla Germania e all’Inghilterra), rimane il fatto che alla fine della Guerra Civile il comunista russo sosterrà la vitale necessità di una dolorosa «ritirata strategica», da sostanziarsi soprattutto in una Nuova Politica Economica che mettesse il proletariato russo nelle condizioni materiali, oserei dire fisiologiche, di resistere al potere in alleanza con i contadini poveri, in attesa di un nuovo ciclo rivoluzionario in Europa e nel mondo. La Rivoluzione d’Ottobre può essere valutata correttamente solo da un punto di vista internazionale.  La scommessa, al limite dell’impossibile, non andò a buon fine, e al posto della rivoluzione mondiale chiamata a soccorrere l’affamata, isolata e accerchiata Russia dei Soviet sarebbe arrivata la marea controrivoluzionaria che porta il nome di Stalin. Ma questa è un’altra storia – il cui maligno retaggio però continua a intossicare non poche teste.

Se, per mera (assurda?) ipotesi, qualche marxista, o perfino lo stesso Marx (che però non era, com’è noto, un marxista, esattamente come chi scrive!), prima del 1917 avesse coltivato l’idea del «Socialismo in un solo Paese», la prassi, la prova regina del materialismo storico, ha definitivamente tolto ogni pur debole fondamento a quell’idea sbagliata sul terreno della teoria critico-rivoluzionaria. La prassi controrivoluzionaria ha confermato in pieno la teoria rivoluzionaria.

Il materialista storico-dialettico Fusaro mette nella testa di Vladimir (si parla di Il’ic Ul’janov, non di Putin!) il concetto di nazione che lui ha nella sua testolina di intellettuale borghese, e così fa del comunista russo un sostenitore, uno sponsor di «un impiego emancipativo del concetto di nazione, non regressivo e reazionario». In primo luogo, se Lenin non avesse concepito (già un secolo fa!) la nazione, almeno la nazione come si configurava storicamente e socialmente nei Paesi capitalisticamente avanzati del suo tempo (ma anche nella Russia zarista, per la sua funzione storica di avamposto controrivoluzionario), nei termini di un concetto regressivo e reazionario, un concetto contrario alla lotta di emancipazione delle classi subalterne e dell’intera umanità, egli non avrebbe certo definito come imperialista, da ogni lato del fronte, la natura della Grande Guerra. Lenin oppose alla reazionaria parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa l’internazionalismo proletario, non un «concetto di nazione non regressivo e reazionario». Scriveva sempre Lenin: «L’Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l’Italia della rivoluzione borghese che si liberava dal giogo austriaco, l’Italia del tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente davanti ai nostri occhi nell’Italia che opprime altri popoli, che depreda la Turchia e l’Austria, nell’Italia di una borghesia brutale, sudicia, reazionaria» (8).  Ecco come ragiona un autentico materialista storico: sul piano del progresso storico l’Imperialismo, in Italia e negli altri Paesi capitalisticamente sviluppati d’Europa e del mondo, attesta definitivamente, una volta per tutte, l’esaurimento della spinta propulsiva dell’epoca borghese, e ciò implica necessariamente che niente di storicamente progressivo (non diciamo di rivoluzionario) può più dare la borghesia nazionale nell’epoca del dominio totalitario (o globale) del Capitale sugli uomini e sulla natura. Altro che Nazione proletaria! Altro che Secondo Risorgimento! Altro che Nazionalismo di classe! Altro che Socialismo nazionale! Altro che… Benito Mussolini! Analogo discorso si può fare per la Seconda guerra mondiale.

In risposta al libro di T. Barboni Internazionalismo o nazionalismo di classe? (1915), Lenin scrisse che i veri socialisti «devono servirsi di ogni lotta allo scopo di smascherare e abbattere ogni governo, e in prima linea il proprio governo per mezzo dell’azione rivoluzionaria del proletariato internazionalmente solidale. Non c’è via di mezzo; in altre parole: il tentativo di prendere una posizione intermedia significa in realtà un passaggio camuffato dalla parte della borghesia imperialista» (9). Com’è noto, la mosca cocchiera (o «transfuga del partito operaio» secondo il Lenin del 1915) che si affermerà in guisa di Duce degli italiani all’inizio degli anni venti, alla fine del 1914 bollò la posizione internazionalista qui sintetizzata da Lenin (e sostenuta dall’estrema sinistra del PSI) come il frutto di un socialismo parolaio che non sapeva fare i conti con la storia, e che quindi era condannato al più impotente dei settarismi. Contro la «barbarie teutonica» l’ex massimalista di Predappio difendeva «un impiego emancipativo del concetto di nazione, non regressivo e reazionario».

In secondo luogo, la dimensione nazionale a cui alludeva Lenin nello scritto sull’Europa era quella segnata dalla rivoluzione proletaria vittoriosa, non la dimensione caratterizzata dal dominio capitalistico. Quando parla di nazione e di Stato nazionale Fusaro rimane sempre nel vago, usa formule ambigue (10) prese a prestito quasi sempre da Gramsci: non si capisce se sta parlando dello Stato nazione borghese, o dello Stato di nuovo conio che sorge in quanto «dittatura rivoluzionaria del proletariato», secondo la nota formulazione marxiana. Scrive Fusaro: «Come dirà Gramsci, nei Quaderni del carcere, la prospettiva deve certo essere internazionalista (l’emancipazione dell’umanità), ma il punto di partenza dev’essere nazionale». Su questo punto io cito l’internazionalista di Treviri: «Lassalle aveva considerato il movimento operaio dal più angusto punto di vista nazionale, in contrasto con il Manifesto comunista e con tutto il socialismo precedente. Lo si segue in questo e proprio dopo l’attività dell’Internazionale! Si comprende da sé che per poter, in genere, combattere, la classe operaia deve necessariamente organizzarsi nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il teatro immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma per la sua “forma”. Ma l’ambito dell’odierno Stato nazionale, per esempio del Reich tedesco, si trova a sua volta, economicamente, nell’ambito del mercato mondiale, e politicamente “nell’ambito del sistema degli Stati”. […] L’intero programma , malgrado tutte le chiacchiere democratiche, è appestato completamente dalla fede del suddito, proprio della setta di Lassalle, verso lo Stato o, cosa non certo migliore, dalla fede democratica nei miracoli, oppure è piuttosto un compromesso tra queste due specie di fede nei miracoli, ugualmente lontane dal socialismo» (11). Avete capito adesso chi è il vero teorico dei socialsovranisti, da Stalin in poi? State forse pensando allo statalista Lassalle? Allora pensate bene! Il fatto che la stragrande maggioranza delle persone, di “destra” come di “sinistra”, associa il “socialismo” con il Capitalismo di Stato ci dà la misura del successo politico di Lassalle, camuffato con la barba del mangia crauti tedesco (12).

«Io non sto con i buoni. Io sto con i cattivi. Io non sto con gli Stati Uniti di Obama ma con la Russia di Putin, e anche l’Europa dovrebbe stare con il “cattivo” Putin. Il mondo ha bisogno di una Russia geopoliticamente forte e militarmente autonoma. L’Europa dovrebbe guardare alla Russia per contenere l’imperialismo americano, per appoggiare i Paesi che vi si oppongono, per frenare il dilagare dell’economia capitalistica di stampo americano. Ma l’Europa oggi non esiste nemmeno geograficamente; esiste solo l’euro» (13). Geopoliticamente parlando l’Europa non esiste: che peccato! Ma un momento: questo significa che degli Stati Uniti d’Europa cattivi, geopoliticamente forti e militarmente autonomi, ossia di stampo rigorosamente antiamericano, andrebbero bene a Fusaro? Giuro, non l’ho ancora capito! Per una mia congenita indigenza dialettica, probabilmente.

In effetti, l’intellettuale che dalla gabbia televisiva recita il ruolo del “rivoluzionario” duro e puro per una platea assetata di sangue “castale” e neoliberista sembra avere occhi solo per un imperialismo (quello statunitense/Occidentale), solo per un’economia sfruttatrice (quella di stampo anglosassone), solo per una cultura omologata e omologante (quella statunitense/Occidentale). Evidentemente egli ritiene più “umani” e “progressivi” l’imperialismo, il capitalismo e la cultura dei Paesi concorrenti degli Stati Uniti. Insomma, qui ci troviamo dinanzi al solito antiamericanismo camuffato da antimperialismo che sa fare politica e geopolitica, che è in grado di fare i conti con la realtà qual è, e non come taluni dottrinari vorrebbero che fosse. Peccato che sia una capacità politica messa interamente al servizio dell’imperialismo che contende agli Stati Uniti il dominio, o quantomeno l’egemonia sull’intero pianeta. L’operazione politica di non pochi putinisti di “sinistra” (perché ci sono anche quelli di “destra”) è oltremodo chiara: mettere l’internazionalista Lenin al servizio dell’imperialismo russo, assetato di rivincita dopo i disastri dell’Unione Sovietica. Cucinare Lenin in salsa putiniana: la ciofeca è servita!

«La vera prospettiva internazionale è quella che non annulla le specificità universali sotto il segno del capitale e della sua uniformazione planetaria: è, invece, quella che unifica mantenendo le specificità nazionali e culturali, facendo sì che i popoli siano fratelli e democratici, liberi e solidali. Per queste ragioni, oggi più che mai, con Lenin bisogna ripetere senza tema di smentita che “la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa è sbagliata”» (14). Almeno fino a quando essa non sarà lanciata contro gli Stati Uniti d’America: sbaglio? Che significa, poi, mantenere le «specificità nazionali e culturali»: di quali nazioni e di quale cultura si sta parlando? «Che i popoli siano fratelli e democratici, liberi e solidali»: qui poi siamo in piena retorica veterostalinista! Quando un Tizio dice di voler stare con la Russia di Putin (o con l’America di Obama, con la Germania della Merkel, con la Cina di Xi Jinping, con il Venezuela chavista, e così via), e magari difende le ragioni del noto macellaio di Damasco, e poi, come se niente fosse, mi parla di “socialismo”, di “libertà” e di “umanità”, beh io non posso fare a meno di tirare fuori la metaforica pistola: come diceva il compagno Totò, anche il mio limite ha una pazienza!

«Lenin», ci spiega ancora Fusaro, «sta dicendo che la lotta contro l’internazionalismo deve essere lotta all’interno dello Stato nazionale: non per santificare lo Stato nazionale, bensì per fare sì che da singoli Stati nazionali liberati dal capitale si passi gradualmente a un’universalizzazione del socialismo, mediante la lotta di questi Stati contro il regime del classismo planetario». Ecco, questo lo dice appunto Lenin, sempre al netto delle ambiguità fusariane intorno allo Stato nazionale. Ecco cosa invece dice Fusaro in quanto Fusaro: «È il culmine del dominio usurocratico del capitale, che con il debito impone la schiavitù e nuove radicali forme di classismo, delle quali la Grecia è un laboratorio a cielo aperto. È il sistema che distrugge il pur residuale [sic!] primato del politico sull’economico, primato garantito dalla forma Stato [borghese, aggiungo io per mera pignoleria]. Seguitando con Lenin [ci risiamo!], gli Stati Uniti d’Europa si sono realizzati, appunto, da Maastricht a Lisbona, “come accordo fra i capitalisti europei” con il tacito accordo di schiacciare non solo “il socialismo in Europa”, ma anche le residue forme di democrazia esistenti nel quadro del vecchio e certo perfettibile [all’infinito!] Stato sovrano nazionale» (borghese). Non è che citando Marx e Lenin nel contesto di una riflessione centrata sulla difesa dello Stato nazionale (borghese, lo Stato nazionale del XXI secolo, epoca del tardo imperialismo), questa riflessione diventa, chissà per quale strana magia, meno ultrareazionaria. Questo modo di fare può forse impressionare qualche intellettuale sinistrorso ossessionato dal «pensiero unico neoliberista» ma non certo chi si sforza – almeno ci tenta!  – di elaborare un’autentica posizione anticapitalistica, di praticare l’autonomia di classe come sa, tutte le volte che può, nei modi che la contingenza rende possibile.

A proposito, con «il socialismo in Europa» che sarebbe stato schiacciato dagli Stati Uniti d’Europa «da Maastricht a Lisbona» si allude forse al cosiddetto «Socialismo reale» di marca russa? Lo so, la domanda suona fortemente retorica, visto che Fusaro è fra i non pochi (compresi molti geopolitici occidentali) che rimpiangono il precedente assetto imperialistico del mondo chiamato Guerra Fredda (15).

«Quello che mi piace di Tsipras, diversamente da una certa sinistra nostrana, è la capacità d’intrecciare la lotta classica contro il capitale transnazionale finanziario per l’emancipazione a una lotta per la sovranità nazionale democratica» (16). Così parlava il nostro filosofo il 26 agosto scorso, cioè prima che il leader greco portasse a compimento il suo “tradimento” accettando (per pavidità? per opportunismo? per realpolitik?) gli ignobili diktat dei famigerati “poteri forti” transnazionali. In buona sostanza, per Fusaro Lenin e il Tsipras dell’ Oxi stanno, mutatis mutandis, sullo stesso terreno politico: quello della “vera sinistra”; i due personaggi condividerebbero, sempre mutatis mutandis,  la stessa prospettiva strategica: la rivoluzione sociale anticapitalistica in vista della comunità senza classi. Naturalmente nell’ambiente mediatico, culturale e politico che abitualmente frequenta il Nostro a nessuno verrà mai in mente di chiedergli: «Scusi, ma lei sostiene queste cose per scherzare, per farci ridere, per prenderci in giro oppure crede davvero in quel che dice?». Ci crede, ci crede, eccome se ci crede! Un’altra perla fusariana: «Sempre citando Lenin, in forma variata, oggigiorno solo lo Stato può essere rivoluzione, perché è il solo capace, potenzialmente, di imporre politiche di sviluppo e distributive senza dover chiedere il permesso alla Finanza internazionale». Più che «in forma variata», Fusaro cita Lenin in forma avariata. Infatti, lo Stato di cui egli parla è lo Stato attuale, lo Stato come Leviatano posto a difesa dei vigenti rapporti sociali; ciò che per lui rappresenta, almeno «oggigiorno», la «rivoluzione» è il Capitalismo di Stato (o «socialismo nazionale», socialnazionalismo, come si chiamava una volta). Mi stupisco? Mi indigno? Trasecolo? Mi arrabbio? Ma nemmeno un poco! È una vita che faccio i conti con stalinisti e statalisti d’ogni risma e colore.

Quando gli intellettuali “marxisti” cianciano di “rivoluzione”, di “lotta di classe”, di “comunità umana”, di “anticapitalismo” e quant’altro, per capire l’autentico significato del loro discorso bisogna fare la dovuta tara alle parole che usano, le quali normalmente celano una sostanza che chiamare escrementizia è ancora poco. Un ultimo esempio: «Credo nel primato della politica e dello Stato [borghese!] sull’economia. Un ritorno a una valuta nazionale sia in Grecia come in Italia sarebbe un modo per riaffermare il potere sovrano dello Stato» [borghese]. Solo dei raffinati dialettici possono afferrare la sostanza “internazionalista” e “umanista” in un discorso che prima facie appare grettamente e odiosamente nazionalista.

«Il sacro dogma degli Stati Uniti d’Europa», lamenta Fusaro, «da qualche tempo è diventato la nuova bandiera delle sinistre, un cliché indiscutibile, sottratto a ogni agire comunicativo habermasiano e a ogni dialogo socratico: di più, chi osi anche solo metterlo in discussione sarà puntualmente silenziato e diffamato con le categorie di reazionario e nazionalista» (17). Personalmente credo che si possa dare tranquillamente, e con un certo fondamento “scientifico”, del reazionario nazionalista al filosofo ingabbiato anche senza conoscere né l’«agire comunicativo habermasiano», qualunque significato si voglia attribuire a questa sofisticata  locuzione, né il dialogo socratico. Lo dico sapendo peraltro che con me il simpatico “ultimo marxiano” non corre il rischio né di essere silenziato né di essere diffamato: purtroppo non sono un assiduo frequentatore di talk show televisivi. Mannaggia!

(1) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.
(2) Lenin, Opere, XXI, p. 311, Editori Riuniti, 1966.
(3) Lenin, Opere, XXI, p. 315.
(4) Nell’ottobre del ’21, presentando al Partito La Nuova Politica Economica, Lenin ammise con la consueta franchezza la grande illusione nella quale i bolscevichi vissero durante tutto il periodo precedente: «In parte sotto l’influenza dei problemi militari e della situazione apparentemente disperata nella quale si trovava la repubblica noi commettemmo l’errore di voler passare direttamente alla produzione e alla distribuzione su basi comuniste. […] Non posso affermare che noi allora ci raffigurassimo questo piano con così grande precisione ed evidenza; comunque, agimmo press’a poco in questo senso. Disgraziatamente è così» (Lenin, La Nuova Politica Economica e i compiti dei centri di educazione politica, Opere, XXXIII, p. 48, opere, 1967). Scriveva  sempre Lenin in un opuscolo del 1918 (Sull’economia russa contemporanea ): «Nessun comunista, credo, ha più contestato che l’espressione “Repubblica socialista sovietica” significa che il potere dei Soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici» (i passi saranno ripresi dallo stesso autore nell’importante discorso Sull’imposta in natura, 1921,  p. 310, Opere, XXXII, 1967).
Come ricorderà Lukács nel 1967, nella Postilla all’edizione italiana del suo saggio su Lenin del 1924, «Già prima dell’ottobre 1917 Lenin previde giustamente che nella Russia economicamente arretrata era indispensabile una forma di transizione del tipo della futura NEP. Tuttavia la guerra civile e gli interventi imposero ai soviet di ricorrere al cosiddetto “comunismo di guerra”. Lenin si piegò alla necessità dei fatti, senza però rinunciare alla sua convinzione teorica. Egli attuò al meglio tutto il “comunismo di guerra” che la situazione imponeva, ma, a differenza della maggior parte dei suoi contemporanei, senza riconoscere neppure per un istante nel comunismo di guerra la vera forma di transizione al socialismo; era fermamente deciso a tornare alla linea teoricamente giusta della NEP, appena la guerra civile e gli interventi [militari] fossero finiti. In entrambi i casi non si comportò né da empirista né da dogmatico, ma da teorico della prassi, da realizzatore della teoria» (G. Lukács, Lenin, Unità e coerenza del suo pensiero, p. 124, Einaudi, 1967).
(5) Nel caso di specie, la più grande incognita fu rappresentata dai contadini. «Non per niente i radicali russi chiamavano il contadino la sfinge della storia russa» (L. Trotskij, La rivoluzione permanente, 1929, p. 77, Einaudi, 1975 ). Sul ruolo ambivalente (contraddittorio) giocato nella Rivoluzione d’Ottobre dai contadini rinvio al mio studio Lo scoglio e il mare.
(6) «È utile ricordare qui la distinzione trotskiana tra Stato operaio e società socialista. Lo Stato operaio sorge non appena il potere politico è stato strappato alle vecchie classi dominanti, emerge dalla stessa vittoria della rivoluzione. la società socialista è lo stadio conclusivo di un processo, ed è appunto questo stadio che non può essere raggiunto se non infrangendo il quadro angusto degli Stati nazionali. E dalla proposizione teorica derivano implicazioni politiche concrete. Dall’affermazione della possibilità della costruzione del socialismo in un paese solo e, più tardi, dalla presunzione che l’obiettivo fosse stato raggiunto, discendeva che compito essenziale di tutto il movimento operaio e dell’Internazionale era la difesa dello Stato sovietico. Dalla tesi trotskiana discendeva, invece, che compito primario era lo sviluppo della rivoluzione su scala mondiale e che a questo fine la difesa degli interessi dello Stato sovietico doveva essere subordinata. A Trotskij l’utopia risibile di una rivoluzione contemporanea su scala mondiale o continentale non gli può essere in alcun modo attribuita» (L. Maitan, Introduzione a La rivoluzione permanente di Trotskij, pp. XIX-XX). In compenso, si può accusarlo di intelligenza con il Capitalismo mondiale, con l’imperialismo, con il fascismo, con il nazismo (salvo Patto Ribbentrop-Molotov, si capisce), e magari poi spettinargli i capelli con un bel colpo di piccozza, giusto per estirpare definitivamente dalla sua testa traditrice la mala pianta del… trotskismo.
(7) Lenin, Sulla parola d’ordine…, p. 314.
(8) Lenin, Imperialismo e socialismo in Italia, 1915, Opere, XXI, p. 327.
(9) Ibidem, p. 331.
(10) Del genere: «Il concetto di comunità umana deve esprimersi non attraverso l’internazionalismo [e questo è chiarissimo!], ma attraverso comunità locali specifiche» (e questo è meno chiaro, diciamo). Più che marxismo, più o meno (a)variato, qui parlerei di supercazzolismo comunitarista.
(11) K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875, pp. 45-56, Savelli, 1975.
(12) Scriveva E. Franceschini qualche giorno fa su Repubblica: «Nelle librerie d’Inghilterra c’è una nicchia che all’improvviso vende benissimo: quella specializzate in opere di Marx, saggi sull’anarchia, testi sulla storia del movimento operaio. Il Times lo descrive come un’esplosione di interesse per i libri di sinistra, collegando il fenomeno alla “Corbynmania”: il fervore per un progressismo più radicale e per i suoi valori tradizionali, alimentato dalla recente elezione di Jeremy Corbyn, per trent’anni inascoltata primula rossa del suo partito, a nuovo leader del Labour, a cui ha imposto una sterzata rispetto al riformismo di Tony Blair e anche alla linea dei suoi successori Gordon Brown e Ed Miliband. […] Nuovi clienti, in particolare giovani, richiedono autori che erano stati a lungo messi da parte; e le presentazioni di libri su questi argomenti registrano di colpo il tutto esaurito. […] Un simile revival potrebbe rendere orgoglioso Karl Marx [come no!], che a Londra morì e vi è sepolto. Ma proprio attorno alla sua tomba è scoppiata in questi giorni una polemica, riportava ieri l’edizione europea del Wall Street Journal. Il piccolo cimitero di Highgate dove giace il padre del comunismo è privato, non pubblico; e i gestori fanno pagare 4 sterline (circa 5 euro e mezzo) d’ingresso ai visitatori che vanno a scattare foto o deporre fiori sulla lapide con la scritta “proletari di tutto il mondo unitevi”. I responsabili sostengono che quei soldi servono a coprire le spese per tenere in ordine il cimitero, ma qualche associazione di sinistra contesta la procedura come un modo indebito di fare soldi sul marxismo [presto, datemi un martello!]. Sarebbe piaciuto al nemico del capitalismo, ironizza il quotidiano di Wall Street, un simile commercio sul suo sepolcro?». Ma la domanda che, anche qui, deve porsi chiunque abbia un minimo di sale in zucca è un’altra, questa: che cavolo ci azzecca l’ultrareazionario (e ultra scialbo) Corbyn con il comunista di Treviri? Che senso ha leggere Marx, o un altro rivoluzionario (anche borghese: un Robespierre, ad esempio), alla luce della “teoria” e della prassi di un Corbyn? Può avere un solo significato, quello di addomesticare lo Spettro, di ridurlo in guisa di vecchio leone da zoo: spelacchiato, sdentato, fiaccato dalla noia, incapace di ruggire mentre in compenso sbadiglia per tutto il giorno. Meglio, molto meglio, l’oblio!  Associare in qualche modo Marx al nuovo leader laburista inglese la dice lunga sul cattivo mondo in cui viviamo; un mondo totalmente incapace non solo di “fare” la rivoluzione sociale ma anche semplicemente di pensarla. E così all’ubriacone tedesco possiamo fargli recitare come se nulla fosse la parte del nonno degli ultrareazionari chiamati progressisti (o “socialisti”, o financo “marxisti”). Si, datemi un martello! «Che cosa ne vuoi fare?». Beh, per iniziare potrei distruggere il Santo Sepolcro di Londra, e poi magari fare una capatina a Mosca… Iconoclasta, sono!
(13) D. Fusaro, da La Gabbia, 16 settembre 2015.
(14) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.
(15) «La Russia in Siria ci riporta alla Guerra Fredda, per fortuna. Dalla dissoluzione dell’Urss, l’Onu e la cosiddetta comunità internazionale hanno sostenuto interventi “umanitari” contro i governi legittimi, con risultati disastrosi. La mossa di Putin può anticipare un sano ritorno al multilateralismo e alla tutela dello Stato sovrano» (C. Moffa, Limes, 26 ottobre 2015). Sì, compagni e amici, visto che oggi non possiamo fare la rivoluzione sociale mondiale simultanea, non ci rimane che lottare affinché il mondo abbia non un solo poliziotto, ma molti poliziotti; non un solo padrone, ma molti padroni. È la politica del “male minore” in vista di “equilibri sociali più avanzati”.
(16) Intervista di A. De Alberi a D. Fusaro, Lettera 43, 26 agosto 2015.
(17) D. Fusaro, Lettera 43, 27 ottobre 2015.

Comparazioni storiche. FALCE STALINISTA E SVASTICA NAZISTA

Blood brothers: Stalin and Hitler

Blood brothers: Stalin and Hitler

Lo scorso 11 aprile Massimo Gramellini commentava su La Stampa la notizia che «il Parlamento ucraino ha approvato a larghissima maggioranza una legge che equipara il comunismo al nazismo come regimi criminali»; evento che, proseguiva Gramellini, «costringe chi è stato svezzato nel secolo scorso a fare i conti con una questione irrisolta. Il nazismo pianificava il dominio di una razza in seguito a stermini di massa, mentre il comunismo predicava la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. A livello teorico qualsiasi accostamento tra i due sarebbe dunque una bestemmia. Ma se le utopie vanno valutate sul terreno dell’applicazione concreta, non c’è dubbio che il comunismo realizzato sia stato ovunque un sistema oppressivo, violento e liberticida. Nella storia non esiste traccia di comunismi senza carri armati e polizie segrete.  Per un ucraino o un ungherese che hanno avuto i figli torturati e uccisi dal Kgb, il comunismo rappresenta il male assoluto, accomunabile nella condanna al regime che organizzò l’infamia eterna dell’Olocausto. Invece gli italiani il comunismo lo hanno molto predicato ma, grazie al cielo e agli americani, mai sperimentato. In compenso hanno conosciuto gli orrori dell’occupante nazista contro la comunità ebraica e non solo. Una legge come quella ucraina farebbe fatica a essere approvata. Da noi il nazismo sarà sempre considerato peggiore del comunismo. Per fortuna, aggiungerei. Perché, per poterci permettere di pensarla diversamente, avremmo dovuto sorbirci anche quello».  Non c’è dubbio. Ma di che «comunismo» stiamo parlando, signor Gramellini?

Naturalmente il significato politico-ideologico  e geopolitico dell’operazione architettata da Kiev non mi sfugge (vedi la divisione tra la maggioranza ucraina, schiettamente “anticomunista”, e la minoranza russofona, ancora legata all’epopea stalinista, quando l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti gareggiavano alla pari per il dominio sul mondo), né è sfuggito al virile Putin, il quale difatti si è premurato a prendere le difese del «comunismo», al netto delle sue «deformità e repressioni». Né mi sfuggono le preoccupazioni del mondo ebraico circa il rischio di relativizzare il significato della Shoah considerato come Male Assoluto. Ma qui non è su questi aspetti della questione che intendo brevemente intrattenere il lettore.

Ieri ho fatto un salto dalle parti di Sinistrainrete e ho incrociato subito un post dedicato proprio all’articolo di Gramellini che equiparava nazismo e comunismo. «Per fortuna c’è ancora gente disposta a difendere il buon nome del comunismo», ho pensato nella mia infinita ingenuità, della quale mi scuso in primo luogo con me stesso. E con eccellente disposizione d’animo ho letto il “pezzo” firmato Infoaut. Alla fine la delusione è stata tanta. Infatti, anziché gridare ai quattro venti che quello che Gramellini chiama «comunismo» fu in realtà una variante russa (e poi cinese) di Capitalismo di Stato e di Imperialismo; invece di denunciare il fatto che mentre lo stalinismo «predicava la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo», esso lo praticava nel modo più brutale (vedi, ad esempio, lo stacanovismo); anziché dire che i carri armati e le polizie segrete dello stalinismo agivano per conto di interessi e di finalità storiche contrarie alle classi dominate, Infoaut  se ne esce con questa blanda (sì, faccio della diplomazia, o dell’ironia) obiezione: «esiste nella storia traccia di stati senza carri armati e polizie segrete? A ben vedere, no». Insomma, l’articolo in questione dà per scontato il carattere comunista dei regimi stalinisti: una gran bella difesa del comunismo, non c’è che dire.

Ciò che davvero conta nel giudizio che diamo sulle società del Novecento, scrive Infoaut, non è la quantità di violenza che esse hanno messo in campo o il numero dei morti che hanno prodotto, ma l’obiettivo strategico che queste società intesero perseguire, la causa sociale sull’altare della quale fu esercitata la violenza e fu versato il sangue. Ma ecco la citazione: «Tanti stronzi che ci opprimono e ci sfruttano oggi hanno tutte le ragioni per continuare a demonizzare uno spettro dato per morto tante volte, perché sarebbero, se esso realizzasse i desideri di molti, sen’altro in disgrazia e senz’altro oppressi. Fulcro non è “l’utopia”, né la violenza, bensì la direzione politica e sociale che diversi progetti politici hanno e assumono, e l’interesse materiale cui tentano di dar organizzazione e sostanza pratica, visione e strategia. Oppressione di chi? Libertà di chi? Queste sono le domande cui il liberale finge di non dover rispondere. L’efficacia effettiva che un progetto ha nel divaricare il futuro dal passato, i nuovi rapporti sociali da quelli vecchi, che sono quelli liberali: questo fa la differenza per chi non ha vissuto lo sfruttamento e le polizie di ieri, ma sta vivendo e affrontando quelli di oggi». Insomma, la violenza e il sangue del “comunismo” di ieri si spiegano con la rivoluzione sociale e con la transizione dal capitalismo al comunismo, mentre la violenza e il sangue del nazismo si spiegano con la controrivoluzione e con gli interessi che fanno capo al capitalismo, il quale, a differenza del “comunismo novecentesco”, non ha ancora tirato le cuoia. «Per fortuna», aggiungerebbe Gramellini – io no, mi si creda sulla fiducia.

Ora, se non si è in grado di capire che lo stalinismo, nelle sue diverse varianti nazionali (dal togliattismo al maoismo), non ebbe mai niente a che fare con “l’utopia” dell’emancipazione umana, ma ne fu anzi la più cruda (e ingannevole: infatti si spacciava per comunismo!) negazione, che razza di alternativa al capitalismo si pensa di offrire oggi al mondo?  Per come la vedo io, chi ha demonizzato lo spettro dell’emancipazione è stato soprattutto il falso comunismo degli stalinisti, meritevoli di una statua d’oro per i servizi che essi hanno reso alla conservazione del Dominio capitalistico. Gramellini e gli altri «sicofanti della borghesia» (Marx) hanno facile gioco nel dimostrare che l’alternativa al capitalismo è un regime sociale ancora meno gradevole, diciamo così, di quello fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

La critica che Infoaut sviluppa intorno al «capitalismo liberale», correttamente individuato come il padre del fascismo e del nazismo (e poi della «Repubblica democratica nata dalla Resistenza»!), si esaurisce necessariamente, visti i suoi presupposti teorici (anche storici, mi sembra di capire), in un cortocircuito concettuale e politico che taglia completamente fuori la stessa possibilità di immaginare la Comunità degli «uomini in quanto uomini» a partire dalle condizioni sociali del XXI secolo e in un modo che non riproduca il cattivo presente – o il cattivo passato, come sembrano adombrare le tesi “anticapitalistiche” di alcuni nostalgici della Guerra Fredda*. C’è gente che continua a opporre il chavismo, o «socialismo del XXI secolo» [sic!], al «modello liberale degli anni Novanta» come se si trattasse della cosa più rivoluzionaria che l’anticapitalista possa concepire in questi difficili tempi. Invece si tratta di una truffa tentata ai danni di sé stessi,in primo luogo. Qui non parlo di Infoaut, che non ho il piacere di conoscere, ma di una posizione che circola nel vasto universo del cosiddetto anticapitalismo/antimperialismo.

Chi parla della necessità storica della violenza e dell’oppressione (pensando magari alla marxiana «dittatura rivoluzionaria del proletariato»), ma non è in grado di cogliere la radice sociale (capitalismo/imperialismo) che rende del tutto legittimo il confronto tra stalinismo e nazismo ha in testa un “comunismo” che, stronzo come sono, non posso non demonizzare.

«”Chi è la feccia della Terra?” chiese Hitler a Stalin nel settembre 1939. “Il sanguinario assassino dei lavoratori” rispose il geniale georgiano». Poi i due tiranni, «Blood brothers», stapparono una bottiglia di champagne. «In questo brillante modo», scriveva Nigel Jones sul Telegraph dell’agosto 2014, «David Low ha riassunto nel cartone animato Rendezvous la visione del mondo dell’alleanza apparentemente innaturale tra i poteri totalitari gemelli d’Europa, un’alleanza che ha consentito l’invasione della Polonia e quindi l’inizio della Seconda guerra mondiale 75 anni fa»**. Apparentemente innaturali, appunto.

* «Oggi dobbiamo riconoscere, anche noi di scuola luxemburghiana, che la grande sconfitta subita dall’Unione Sovietica ha colpito a morte non solo i comunisti ma l’anticapitalismo in generale. C’è bisogno di una vera e propria resurrezione». Così il «socialista luxemburghiano» Fausto Bertinotti alla presentazione del suo ultimo capolavoro editoriale (Colpita al cuore, Castelvecchi editore), praticamente un’apologia del lavoro (salariato) posto a fondamento della Repubblica Italiana. «Un lungo ciclo di impoverimento dei diritti conquistati che è culminato, nel puro linguaggio gauchista, “nel rovesciamento del conflitto di classe”. La rivincita delle classi dirigenti, l’affermazione del “pensiero unico” hanno ucciso l’articolo 1. Ma Bertinotti continua a sperare in un secondo tempo» (La Repubblica.it, 16 febbraio 2015). E magari nei supplementari, e poi nei rigori. La partita dei sinistri, ancorché di «scuola luxemburghiana», non finisce mai?

Qui il lettore può farsi un’idea circa la mia interpretazione dello stalinismo come espressione/strumento della controrivoluzione antiproletaria (“antisovietica”) e come formidabile strumento posto al servizio 1) dell’accumulazione capitalistica a ritmi accelerati e 2) degli interessi della Russia in quanto potenza imperialistica di rango mondiale – in assoluta continuità con la storia dell’Impero zarista. «E se il cosiddetto Libro nero del comunismo non fosse, in realtà, che un capitolo particolarmente tragico del Libro nero del capitalismo?».

** «In realtà, i due dittatori non si incontrarono mai, e la firma formale di Mosca del trattato di non aggressione fu effettuata, sotto lo sguardo di approvazione di Stalin, dai loro fedeli tirapiedi: dal Ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop, un venditore di champagne fallito e da Vyacheslav Molotov, soprannominato “Stone-ass” per la sua abilità e capacità di resistenza nelle trattative».

MURO DI BERLINO E CODA DI PAGLIA

EastSideGalleryBerlino_0_11Si può impedire ai “destri” del Belpaese di infierire sui “sinistri” quando si celebra la caduta del famigerato Muro di Berlino? Certo che no! Almeno così si ritiene dalle mie parti. E allora vediamo due esempi di questo orgasmo intellettuale “anticomunista”.

Scrive Mario Cervi (Il Giornale, 5 novembre 2014): «Il 13 agosto del 1961 il Muro di Berlino trasformò la Repubblica Democratica tedesca, Stato anomalo e sostanzialmente illegale di fabbricazione sovietica – ma a lungo tollerato dall’Occidente –, in una immensa prigione a cielo aperto. La propaganda rossa motivò l’erezione della barriera con le possibili infiltrazioni del capitalismo. Ma la storia dimostra che fu una galera per milioni di persone». Non c’è dubbio. Occorre d’altra parte aggiungere, per mera pignoleria storico-sociologica, che si trattò di una galera di pura marca capitalistica, il cui fondamento geopolitico è da ricercarsi negli accordi sottoscritti dalle due super potenze mondiali protagoniste della Guerra Fredda: Unione Sovietica e Stati Uniti.

Non le «infiltrazioni del capitalismo» temevano a Berlino Est e a Mosca, quanto piuttosto l’indebolimento della Cortina di ferro nel suo punto strategicamente più sensibile. Come scrivo spesso, il «socialismo reale» fu un capitolo particolarmente odioso del Libro nero del Capitalismo. Sono stati gli stalinisti d’ogni tipo a permettere ai vari Mario Cervi, apologeti  del capitalismo/imperialismo con caratteristiche occidentali, di ergersi a paladini del “mondo libero”.

Ma veniamo ai “rossi” di casa nostra: «La protesta internazionale fu intensa e inutile. Ulbricht aveva dalla sua parte non solo gli obbedienti mezzi d’informazione dei Paesi vassalli, ma anche i partiti comunisti “occidentali”. Tra i quali ebbe modo di distinguersi, per zelo servile, il Pci di Palmiro Togliatti. L’indomani del fattaccio, il 14 agosto, l’Unità annunciò l’imprigionamento dei tedeschi dell’Est con un titolo burocratico: “Misure di sicurezza della RDT ai confini con Berlino Ovest”. Il testo della notizia spiegava che “contro le attività di spionaggio e provocazione dei revanscisti di Bonn sono state assunte misure di sicurezza che ogni Stato sovrano applica alle proprie frontiere”. Mancava a queste attestazioni di prona ortodossia l’imprimatur a firma di Togliatti che, infatti, arrivò il 20 agosto. Il Migliore trasse spunto dall’evento berlinese per sostenere che il mondo stava assistendo a uno scontro fra il partito della guerra, capitalista, e il partito della pace, che aveva la sua guida nell’Urss» (M. Cervi).

Naturalmente i “comunisti” del Belpaese non potevano non appoggiare, senza se e senza ma, il «partito della pace» e la sua luminosa guida: la Patria del “Socialismo” – in realtà un capitalismo con caratteristiche russe. Con lo stesso zelo, i “comunisti” italiani avevano difeso il patto nazi-stalinista dell’agosto1939, vero atto iniziale della Seconda macelleria mondiale – chiamata poi dai “comunisti” Guerra patriottica di Liberazione.

D’altra parte, nel 1956 l’attuale Presidentissimo della Repubblica, Giorgio Napolitano, difese l’intervento sovietico in Ungheria del 1956 tirando in ballo il solito mantra della pace mondiale: «Nel quadro della aggravata situazione internazionale, del pericolo del ritorno alla guerra fredda non solo ma dello scatenamento di una guerra calda, l’intervento sovietico in Ungheria, evitando che nel cuore d’Europa si creasse un focolaio di provocazioni e permettendo all’Urss di intervenire con decisione e con forza per fermare la aggressione imperialista nel Medio Oriente, ha contribuito in misura decisiva, oltre che ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, a salvare la pace nel mondo». Si può forse dire che i “comunisti” avessero elaborato un concetto un tantino stravagante circa la pace nel mondo, ma bisogna comunque concedere loro l’attenuante della buona fede. O no?

Com’è noto (o no?), L’Unità, l’organo del cosiddetto Partito Comunista Italiano, il 19 giugno 1953, dopo l’intervento dei carri armati sovietici a Berlino Est, approvò senza riserve la repressione dei moti operai definendo la rivolta «un complotto a opera degli statunitensi e di Adenauer». Stessa cosa si ripeté nel giugno del 1956 a proposito della rivolta operaia di Poznań: «La responsabilità per il sangue versato ricade su un gruppo di spregevoli provocatori che hanno approfittato di una situazione temporanea di disagio in cui versavano Poznań e la Polonia» (L’Unità, 30 giugno 1956). Benedetti cingolati sovietici!

EastSideGalleryBerlino_0«Restammo tutti di sale», scriveva ieri Paolo Guzzanti sempre sul Giornale berlusconiano, «quando Sandro Curzi, direttore del Tg3 detto Telekabul in quota PCI, inneggiò alla caduta del Muro di Berlino seguito dalla maggior parte dei comunisti italiani, nessuno dei quali accennò alla vergogna dell’ideologia e a quella propria». Evidentemente allora Guzzanti sottovalutò l’intelligenza politica dello stalinismo con caratteristiche italiane, o togliattismo che dir si voglia. In realtà quella togliattiana fu una grande scuola di realismo politico, sul versante della politica interna come su quello della politica internazionale. Anche il rottamato baffino D’Alema ne sa qualcosa: «Ne avverto una certa nostalgia, diciamo».

Leggi LA CADUTA DI QUALE MURO

LA CINA E LA QUESTIONE DEL SOCIALISMO NEL 21° SECOLO

Ossia, lo sviluppo della lotta di classe nella più
grande fabbrica capitalistica del pianeta.

milano_070614Scrive il tardo maoista Francesco Valerio della Croce:«Secondo un assunto, alquanto semplicistico, la Repubblica popolare cinese sarebbe divenuta, nel corso del tempo, una forma inedita di “capitalismo di stato”, una realtà economica in cui le regole del profitto e della turboproduzione vigerebbero assolute e incontrastate» (Il sorpasso: come la Cina cambierà la storia). Secondo il mio assunto, non so quanto semplicistico (tocca al lettore giudicare), la Repubblica popolare cinese è SEMPRE stata una realtà sociale pienamente capitalistica, dalla sua proclamazione (1949) in poi. Naturalmente in modi diversi nel corso dei decenni sulla base del retaggio storico di quel grande Paese, della sua struttura sociale (caratterizzata dalla predominanza dell’elemento rurale) e nazionale (presenza nello spazio cinese di diverse nazionalità, etnie, ecc.), nonché della sua collocazione nello scenario internazionale (vedi in primis il bipolarismo USA-URSS).

Ai sostenitori della natura pienamente capitalistica/imperialista della Cina, della Croce obietta sostanzialmente due argomenti: il forte tasso di sviluppo dell’economia cinese, anche nel contesto della crisi economica internazionale deflagrata nell’estate del 2007 a cominciare dagli Stati Uniti, e la forte presenza in quell’economia dello Stato: «Ebbene, il suddetto pensiero cozza non poco con la realtà, per più d’un motivo. Il più vistoso motivo è rappresentato proprio dallo stato di salute in cui prospera l’economia cinese: una situazione di segno decisamente opposto rispetto all’occidente capitalistico, spolpato di una parte ingentissima della sua capacità produttiva dal 2007, anno in cui la crisi di sovraspeculazione finanziaria è esplosa ed ha palesato in proporzioni gigantesche l’enorme indebitamento che ha risucchiato via una parte consistente di economia reale […] Decisivo, per comprendere come la presenza irremovibile dello Stato nelle scelte di orientamento dell’economia cinese si raccordi in ogni ambito della vita produttiva del Paese, è sottolineare che lo strumento principale di legislazione, regolazione e controllo è rappresentato dal Piano quinquennale». Ho risposto a queste due risibili obiezioni in diversi post, ad esempio in questo: L’indiscutibile successo del Capitalismo con caratteristiche cinesi.

A proposito del mitico «Piano quinquennale» scrivevo qualche tempo fa: «Detto en passant, anche Stalin e, in seguito, Kruscev puntarono i riflettori della propaganda sugli altissimi tassi di sviluppo dell’industria russa per dimostrare la natura socialista dell’economia del Paese, e magnificarne la superiorità nei confronti dei competitori occidentali. Lungi dall’attestare la natura socialista della Russia stalinista, i mitici Piani Quinquennali ne testimoniavano piuttosto l’essenza capitalistica; essi raccontavano, a chi avesse orecchie per ascoltare la verità, il processo «di accumulazione originaria» in un Paese capitalisticamente arretrato e molto ambizioso sul terreno della contesa imperialistica, peraltro in ossequio alla tradizione Grande-Russa del Paese, così odiata dall’uomo che subì l’oltraggio della mummificazione – in tutti i sensi. Di qui l’opzione di politica economica tesa a orientare tutti gli sforzi della nazione verso la costruzione, a ritmi stachanovisti, di una potente industria pesante: più acciaio e meno burro! Com’è noto il burro non fa ingrassare gli arsenali» (L’imperialismo è la grande Cina).

stalin33Stalinismo e maoismo come facce della stessa (capitalistica) medaglia? Non c’è dubbio. Almeno per chi scrive, si capisce. Diciamo meglio: il maoismo come stalinismo con caratteristiche cinesi.

«La nuova leadership del Presidente Xi Jiping, sembra aver compreso appieno l’importanza del ruolo internazionale che la Repubblica popolare svolge oramai a livello mondiale ed accanto a questa consapevolezza si mantiene saldo il riferimento al marxismo-leninismo in una visione dialettica di riforma dello Stato». La «visione dialettica» del «marxismo-leninismo» posta al servizio dell’Imperialismo con caratteristiche cinesi. Andiamo bene, nel migliore dei «socialismi reali» possibili. Ovvero: Come volevasi dimostrare.

«La visita di Putin in Cina, in programma a maggio, diventa quindi un appuntamento cruciale, sia per comprendere i prossimi sviluppi del rapporto tra le due potenze (in termini commerciali, militari e strategici) che per veder messi seriamente in discussione gli attuali equilibri di potere. Un asse russo-cinese, con ovvie ricadute anche nei rapporti all’interno dei Brics, costituirebbe una sfida decisiva al predominio politico-militare del blocco a guida statunitense. Non ci resta che attendere. Fiduciosi, se abbiamo come obiettivo la pace e il dialogo fra civiltà e culture (D. A. Bertozzi, Il “filo rosso”: Cina e Russia sempre più vicine ). Come ai bei tempi della Guerra Fredda (vedi i famigerati Partigiani della Pace) l’obiettivo della “pace” e del «dialogo fra civiltà e culture» riposa nelle mani della Cina e della Russia. In effetti, la cosa gronda fiducia da tutte le parti, e quasi mi converto alla lungimirante visione strategica elaborata dal «maggiore generale cinese Wang Hayun (consulente presso il China International Institute for Strategic Society)». Quasi. Datemi il tempo di imparare un po’ di «marxismo-leninismo».

timthumbDal post pubblicato su Facebook

实事求是 *

«Nel numero dedicato alla morte del Grande Condottiero, l’11 settembre del 1976, L’Economist scrive: “Mao deve essere accettato come uno dei grandi vincitori della storia. Per aver elaborato, contro le prescrizioni di Marx, una strategia rivoluzionaria incentrata sui contadini, che permise al Partito comunista di conquistare il potere a partire dalle campagne, e per aver diretto la trasformazione della Cina da società feudale, distrutta dalla guerra e dissanguata dalla corruzione, a Stato egualitario e unificato, nel quale nessuno muore di fame”» (A. Barbera, La stampa, 12 maggio 2014). Non «contro le prescrizioni di Marx», come se Mao avesse voluto seguire una strada originale rispetto alla rivoluzione proletaria marxiana, ma piuttosto sulla base di una concezione borghese del mondo messa al servizio di una rivoluzione nazionale-borghese centrata sull’iniziativa del vasto mondo rurale cinese**. Già Stalin aveva chiamato «socialismo» («in un solo paese») l’accumulazione capitalistica a tappe accelerate in Russia.

Quanto alla natura “egualitaria” dello stato cinese è meglio stendere un velo pietoso. Anzi funerario, come racconta Yang Jisheng, l’autore di Tombstone, The Great Chinese Famine, 1958-1962: «A quel tempo Yang Jisheng ha 36 anni, è iscritto al Partito ed è un “orgoglioso giornalista” dell’agenzia di Stato Xinhua. Ma la convinta adesione all’Utopia non gli impedisce di scavare attorno a quel che accadde fra il 1958 e il 1962, gli anni della grande carestia in cui suo padre se ne va, apparentemente per una tragica volontà della natura […] Il padre di Yang se ne va in tre giorni, ma per almeno dieci anni, fino alla fine delle sue ricerche, fino ai fatti di piazza Tienanmen, Yang non avrà piena consapevolezza di quali fossero le vere ragioni della Grande Carestia, dei suoi 36 milioni di morti in quattro anni, del perché masse di cinesi fossero finite in una condizione tale da spingere i più sfortunati – lo ha ricostruito lui stesso – che a cibarsi di escrementi di uccelli o delle carni dei propri defunti». Ho provato ad indagare quelle «vere ragioni» in Tutto sotto il cielo (del Capitalismo).

«Avevo 18 anni, ero studente e vivevo a pochi chilometri dal mio villaggio. Non c’era molto da mangiare, ma come immagino accadesse nelle scuole di Hitler e Mussolini una ciotola di riso me la davano tutti i giorni». L’”egualitarismo” come miseria di massa: un classico delle cosiddette utopie negative raccontate in diversi romanzi fantapolitici. Solo che questo è il mondo reale dell’accumulazione capitalistica, la quale, com’è noto, non è un pranzo di gala.

«”Quando eravamo tutti uguali, non si può dire fossi realmente infelice, ma il problema era che non avevo la più pallida idea di quale fosse la differenza fra essere felice o infelice. Ora lo so, e l’ho spiegata ai cinesi con una formula matematica”. Prende un pezzo di carta e scrive: “Il tasso di felicità è dato dal rapporto fra la qualità della vita attuale e quella passata. Alla formula completa manca solo il coefficiente: la quantità di informazioni a disposizione”. L’orgoglio del giornalista ha attraversato indenne la storia». Peccato che l’orgoglio da solo non è in grado di cogliere la radice sociale delle disgrazie.

Scrive M. Borghi: Con la sua ricerca completa e puntuale “Tombstone”, pubblicato a Hong Kong nel 2008 e subito vietato nel resto della Cina per ovvie ragioni, ha il merito di fare chiarezza sulla vera causa che portò alla morte di ben 36 milioni di persone (fra cui il padre adottivo dell’autore): l’economia pianificata. Quella gestione statale e burocratica che ancora oggi molti, dall’estrema sinistra all’estrema destra, sognano ancora, pur con accenti e modalità diverse. Speriamo che la lettura del saggio di Jisheng (che a breve verrà pubblicato in traduzione italiana da Adelphi) possa contribuire a far cambiare loro idea» (L’intraprendente, 12 maggio 2014).

Personalmente non ho avuto mai una grande simpatia, se mi si concede l’ironico eufemismo, per il Capitalismo di Stato, soprattutto per quello venduto al mondo (per la gioia degli anticomunisti) come «socialismo», ancorché «reale».

* Shí shì qiú shì: cercare la verità attraverso i fatti.

** «Nel caso dei Paesi arretrati che hanno bevuto l’amaro calice del colonialismo e dell’imperialismo, la rivoluzione contadina assume necessariamente anche una valenza nazionale, cioè a dire anticoloniale e antimperialista, senza che ciò esuberi minimamente dal quadro borghese. «Non vi può essere il minimo dubbio – scriveva Lenin – che ogni movimento nazionale può essere soltanto un movimento democratico-borghese, perché la massa fondamentale della popolazione dei Paesi arretrati consiste di contadini, che sono rappresentanti di rapporti borghesi capitalistici»1. Certo, il sincero rivoluzionario contadino di una volta si sarebbe ribellato dinanzi a questa impostazione “dottrinaria”, e avrebbe sostenuto che a lui il borghese e il capitalista piacevano più da morti che da vivi. Ma egli, proprio come Mao, non conosceva né la dialettica storica né il concetto marxiano di ideologia: non sempre – per usare un eufemismo – chi parla sa esattamente quale tendenza storica gli sta, per così dire, suggerendo il discorso, e per questo Marx invitava a studiare la storia al netto di quel che i suoi protagonisti pensano di se stessi.

[…]

L’unificazione economica e politica della Cina deve perciò diventare l’assoluta priorità di una forza sociale autenticamente nazionale, cioè borghese, nel senso storico, non puramente sociologico, della parola. E questo però in un contesto che non vede agire una forte classe borghese, e dove per giunta lo spirito nazionalistico di questa classe è assai indebolito in grazie dei profondi legami che fin da subito si sono instaurati tra capitale interno e internazionale. Pure forti sono i legami che legano la borghesia delle città ai proprietari terrieri. Come in India, anche in Cina la borghesia urbana parla una lingua internazionale, la lingua del capitale. Stando così le cose, la forza sociale che appare in grado di portare a termine l’unificazione della Cina nella nuova epoca storica abita nelle campagne cinesi: sono i contadini che non hanno nulla a che spartire con i grandi proprietari terrieri. Si tratta di mobilitare, disciplinare e organizzare questa immensa risorsa rivoluzionaria, della quale la borghesia cinese ha giustamente paura, anche perché la comparsa del proletariato sulla scena mondiale getta una inquietante ombra sui movimenti sociali a carattere democratico-nazionale che giungono in ritardo all’appuntamento con quello che, scomodando Hegel, possiamo chiamare Processo Storico Universale. È precisamente in questa complicata dialettica storica che viene a inserirsi il maoismo, che diventa il catalizzatore della rivoluzione nazionale-borghese, in parte per una consapevole scelta del PCC, in parte in virtù di tendenze oggettive che passarono largamente sopra la sua testa» (Tutto sotto il cielo – del Capitalismo).

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Russia e dintorni. LO STALINISMO NON È (PURTROPPO) UN’ OPINIONE!

1907999_10152145425756849_6462953652035130416_nLo giuro davanti all’ubriacone di Treviri: i passi che seguono li ho trovati su Facebook. Lo so, è difficile crederlo, ma abbiate fede nell’agente dell’Imperialismo (naturalmente occidentale, ai danni della Russia, della Cina, di Cuba, del Venezuela, della Corea del Nord e delle altre patrie dell’antimperialismo militante) e del Sionismo che vi sta turlupinando in questo momento.

«Leggendari i compagni del Partito Comunista Russo che richiamano il gesto dell’armata rossa il 9 maggio 1945 quando alla parata della vittoria buttarono di fronte al compagno Stalin tutti i simboli e le bandiere naziste che avevano preso durante la guerra, in segno di sottomissione e sconfitta del nazifascismo. I compagni russi hanno rifatto la stessa cosa ma con le bandiere degli USA, di settore destro, dell’Unione Europea e delle SS di Bandera, il criminale nazista che nella seconda guerra mondiale collaborò con i nazisti massacrando la popolazione sovietica. Che dire? Fantastici!» (dal profilo Facebook di Vladimiro Giacché).

Che dire? Che lo STALINISMO è purtroppo vivo e lotta insieme a voi contro la stessa idea di comunismo (non quello pseudo ed escrementizio del «compagno Stalin» e dei «leggendari compagni del Partito Comunista Russo» [strasic!], ma quello di Marx, con rispetto parlando).

È proprio vero: la prima volta come tragedia (la controrivoluzione stalinista, il patto Ribbentrop-Molotov, la Seconda carneficina mondiale, ecc.), la seconda come… Non riesco a trovare un termine adeguato. Con farsa mi sembrerebbe di concedere fin troppo a personaggi che meritano epiteti che non riesco neanche a immaginare. Fate un po’ voi!

Ribbentropp-Molotov 1Scrivevo qualche giorno fa: «Molti stalinisti, più o meno dichiarati e più o meno “post ideologici”, sembrano vivere una seconda giovinezza. La crisi ucraina ha fatto questo cattivo miracolo. Ad esempio, mi è capitato di leggere su Facebook commenti di questo genere: «L’offensiva di Kiev fallirà senza bisogno dell’intervento dell’Armata Rossa». Capite? Armata «Rossa», non Russa. Lo so, qui siamo allo stadio più patologico dello stalinismo, ma non bisogna credere che quelli che applicano lo schema della Seconda guerra mondiale (quella «patriottica» e «antinazista») alla questione ucraina esibiscono un’eccellente stato di salute, quantomeno sul terreno dell’analisi politica e geopolitica. Per dirla con l’ubriacone di Treviri, la prima volta come tragedia, la seconda come malattia. C’è gente talmente ideologicamente “malata”, che non capisce come essere contro tutti gli attori della crisi (filoeuropei, filorussi, filoamericani, nazionalisti, stalinisti, democratici, autoritari, ecc.) non equivale affatto ad assumere una posizione neutrale nel conflitto, ma come all’opposto questo atteggiamento sia il solo adeguato sul terreno dell’autentico anticapitalismo/antimperialismo. Non in un’astratta dimensione storica, ma nel 2014, nell’epoca della sussunzione totalitaria e mondiale del pianeta al Capitale. Se un Tizio assimila l’autonomia di classe al neutralismo, vuol proprio dire che con lui perfino l’esorcista avrebbe vita difficile. Amen!» (Odessa e il modo sempre più feroce).

putDa Facebook (9 maggio 2014):

Russia. Finalmente una degna celebrazione della vittoria nel secondo macello mondiale!

Putin gonfia il virile petto ricordando i fasti dell’ultimo conflitto imperialista mondiale, meglio noto come «Guerra di Liberazione dal nazifascismo». Com’è noto, sono i vincitori che nominano le cose. «Sfilata oggi a Mosca nel 69mo anniversario della vittoria della Seconda guerra mondiale: nella storica Piazza Rossa sfilano, alla presenza delle autorità, 11mila militari e in prima fila il Corpo della Flotta del Mar nero con le bandiere di Sebastopoli e della Crimea, le nuove regioni annesse alla Federazione russa. La manifestazione quest’anno assume quindi un significato prima di tutto politico, che si inserisce nel pieno della crisi ucraina. […] Nel discorso di apertura della parata Putin si è riferito al proprio Paese affermando che “ha sempre vinto contro i fascisti”, una terra di cui “noi proteggeremo la sua unità e la sua storia”.“Noi dobbiamo meritarci i nostri nonni e i nostri padri e chi ha combattuto”, ha detto Putin in riferimento a chi ha combattuto nella seconda guerra mondiale. Ha poi detto, riferendosi in particolare alla crisi ucraina, che “Il nazismo europeo torna a sollevare la testa”» (Notizie geopolitiche). Per fortuna c’è sempre l’Armata Russa pronta a salvarci dai cattivoni di turno! Viva la Patria del Socialismo! Pardon: del petrolio, del gas, del carbone, delle terre rare, ecc. Gli stalinisti di tutte le tendenze sono in pieno orgasmo patriottico e resistenziale per l’uomo forte di Mosca. «A morte i nazisti!» Anche perché un nuovo patto Ribbentrop-Molotov non è alle viste… Un simpatico pensiero in questo fausto giorno per chi vigila sulla nostra “libertà”:

«Com’è noto furono i compagni-camerati nazisti a tradire la fiducia di Stalin, il quale fino all’ultimo non volle credere alla possibilità di un’imminente invasione tedesca del sacro suolo russo. Se Hitler non avesse rischiato il grande azzardo del dominio totale ed esclusivo sul Vecchio Continente, il “patto di non aggressione” del ’39 avrebbe dato i suoi frutti, con grande soddisfazione per la “Patria Socialista”. Probabilmente a Ovest di Varsavia gli uomini avrebbero portato i baffetti alla Adolf, e a Est della capitale – o ex capitale – polacca i baffoni alla Joseph. Di là tutti “camerati”, dall’altra parte tutti “compagni”. Probabilmente» (Miseria della geopolitica apologetica).

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CHIMERE LETALI

1468490451327Nel suo interessante libro Utopie letali (Jaca Book, 2013) Carlo Formenti prende di mira le «utopie “di sinistra”», le quali secondo l’autore «hanno poco a che fare con l’utopia comunista che ancora spaventa il capitale» (p. 7). Tesi che mi sento di condividere pienamente, e che già spiega in qualche modo il giudizio di cui sopra. Non è mia intenzione soffermarmi su ogni tema toccato dall’autore (dal «divorzio fra democrazia e mercato» alle «sperimentazioni sociali» in atto in Americana Latina, soprattutto nella Venezuela di chávista, passando per la critica all’ideologia-prassi neoliberista, ecc.); qui mi limito a toccare solo alcune questioni poste nel libro.

Cerchiamo intanto di capire meglio quali sono «le utopie letali con cui polemizza questo libro»: «si tratta delle utopie di quelle sinistre “movimentistiche” postmoderne, postideologiche, postmateriali, postindustriali (l’elenco potrebbe andare avanti per pagine e pagine, ma ve le risparmio) che hanno sostituito le velleità rivoluzionarie con il sogno di un crollo indolore del capitalismo che dovrebbe essere provocato da improbabili mutazioni della psicologia e dell’antropologia individuali, oppure dalle lunghe marce per i nuovi diritti, o dall’invenzione di “terze vie” che ci proiettino oltre la dicotomia fra pubblico e privato, oppure da tutto questo assieme e da altro ancora.
La lista delle ideologie chiamate in causa è lunga e, apparentemente, eterogenea: neo e postoperaisti, neo anarchici, benecomunisti, girotondini, parte dei movimenti femministi, ecologisti e pacifisti; soggetti in cerca di riconoscimento identitario; entusiasti della democrazia di Rete; paladini dei nuovi diritti, ecc.». Chi segue il mio blog certamente avrà notato una certa assonanza tra ciò che scrive Formenti e le polemiche che assai più modestamente organizza chi scrive contro gli ottimisti della rivoluzione, quelli che gridano entusiasticamente Rivoluzione!  a ogni sussulto – a volte perfino a ogni peto, con rispetto parlando – del processo sociale, nonché contro i teorici del post-tutto (o oltrismo: oltre Marx, oltre il Capitalismo, oltre la legge del valore, oltre la modernità, oltre il pubblico, oltre… l’oltre!), intellettuali di successo sempre alla nevrotica ricerca di «nuovi soggetti sociali» cui attribuire la pesante responsabilità di «nuova classe rivoluzionaria». Di qui, probabilmente, il loro imperituro successo come – sedicenti – avanguardie rivoluzionarie.

Sotto questo aspetto, di particolare interesse ho trovato la critica che Formenti rivolge ai teorici del cosiddetto Capitalismo cognitivo, Antonio Negri in testa, i quali «hanno occhio solo per il lavoro immateriale di knowledge workers» e «in particolare sostengono che oggi il general intellect non si oggettiva nel lavoro morto, cioè nel sistema delle macchine, bensì nella cooperazione sociale spontanea e nella produzione di “sapere vivo”. Per questo motivo, aggiungono, il lavoro vivo, pur dipendendo tuttora dall’impresa capitalistica nella sua attuale forma di rete, sarebbe in grado di auto-organizzarsi indipendentemente dal comando capitalistico […] Queste tesi esprimono un’incredibile sottovalutazione della capacità del nuovo sistema di macchine di sovra determinare non solo l’organizzazione, ma anche la stessa antropologia del lavoro» (p. 81). Comprensibilmente l’autore di Utopie letali si stupisce di come certi intellettualoni che dovrebbero conoscere a fondo il meccanismo capitalistico nell’epoca della sussunzione totalitaria di tutto e tutti al Capitale, prendono invece gigantesche cantonate quando si tratta di analizzare criticamente prassi sociali il cui significato va nel senso di un sempre più radicale, stringente, capillare e profondo dominio del rapporto sociale capitalistico. Rimandando il lettore alla critica dei teorici del Capitalismo 2.0 svolta in diversi post e nel mio Dacci oggi il nostro pane quotidiano, qui mi permetto di citare un passo di Cripto-moneta del comune e “acciarpature monetarie”:

«Per una bizzarria del pensiero che andrebbe indagata più a fondo, i teorici del bio-capitalismo cognitivo osservano una contraddizione in grado di far sviluppare forme economiche alternative incompatibili con lo sfruttamento del lavoro e con la ricerca del massimo profitto, là dove invece la contraddizione, che è immanente al concetto stesso di Capitale, attesta il continuo approfondimento del rapporto sociale capitalistico. Riformisticamente, essi rigettano l’ipotesi rivoluzionaria “classica” come unica via maestra in grado di superare con un movimento in avanti la contraddizione. La cosa si mostra con particolare evidenza a proposito del mitico general intellect, che in Marx ha una pregnanza concettuale potentemente dialettica (rivoluzionaria), mentre nei teorici di cui sopra esso svolge una funzione ideologica chiamata a supportare chimerici programmi comunardi da realizzarsi hic et nunc, nell’ambito stesso del Capitalismo, e intellettualistiche congetture intorno a supposti nuovi soggetti rivoluzionari […] Solo la Rivoluzione sociale è in grado di rovesciare dialetticamente la Potenza del Capitale, di assestare un colpo mortale ai vigenti rapporti sociali, i quali danno corpo a una prassi che rende sempre più possibile l’emancipazione integrale (materiale e “spirituale”) degli individui nello stesso momento in cui la nega sempre di nuovo nel modo più violento. Se non si comprende questo, 1. si rimane abbagliati dalla strapotenza del Capitale (per reagire alla quale l’ideologia degli ottimisti della “rivoluzione” offre sempre mille illusorie vie di fuga concettuali), 2. facilmente si nutrono bizzarre idee intorno a «questo tempo di algoritmi macchinici», 3. si cullano false – ancorché poco allettanti – speranze su «una possibilità per costruire un sistema monetario e finanziario alternativo, in grado di superare i nodi contraddittori e iniqui del capitalismo contemporaneo» (Fumagalli)».

11_MGzoomNaturalmente condivido l’opzione decisamente rivoluzionaria che Formenti sembra avanzare quando sostiene che «il capitalismo non cade da solo, né possiamo illuderci che siano le richieste di diritti e riconoscimenti identitari a rovesciarlo». E come non condividere il suo invito, che colpisce in pieno «lo spontaneismo, l’orizzontalismo organizzativo e culturalista degli ultimi decenni», a «tornare a riflettere sull’idea di partito come organizzazione antagonistica degli interessi di classe, un concetto che va tuttavia adeguato alle attuali condizioni di frantumazione delle soggettività, inventando nuove forme organizzative e nuove procedure decisionali»?

Purtroppo tanto sul terreno squisitamente politico, il terreno appunto del partito di classe (o della classe che si fa partito, marxianamente e dialetticamente parlando), quanto su quello dell’associazionismo operaio e proletario genericamente inteso, siamo praticamente all’anno zero, perché le vecchie forme, anche quelle un tempo più adeguate a una prassi autenticamente rivoluzionaria, oggi non sono replicabili. Insomma, il nuovo Manifesto del Partito Comunista e il nuovo Che fare? aspettano ancora di essere scritti. Lo saranno?

Perché allora sopra ho scritto sembra? Perché avanzo forti dubbi intorno alla reale portata rivoluzionaria delle tesi elaborate da Formenti? Semplicemente perché non mi basta il pur generoso incitamento a «testimoniare la verità», a continuare a chiamare, contro il pensiero unico liberale-riformista, «le cose con il loro nome: lotta di classe, sfruttamento, comunismo, eccetera». Più che di nominare le cose, si tratta infatti di sviscerarne il contenuto, di precisarne il concetto. Per quanto mi riguarda possiamo chiamare il comunismo Pippo, purché si faccia chiarezza intorno alla sua sostanza concettuale, con ciò che ne segue sul piano dell’interpretazione storica e della prassi. Gli stalinisti di tutte le tendenze per decenni si sono riempiti la bocca di comunismo, lotta di classe, rivoluzione, dittatura proletaria e via di seguito blaterando, per riferirsi a concetti e a pratiche che giudico l’esatto opposto di quanto Marx e Lenin avevano elaborato e praticato. Anche – non solo – per non venir associato a questi ultrareazionari personaggi rifuggo da certe pompose autodefinizioni, e come Marx mi proclamo non marxista. Ma ritorniamo a Formenti.

«Le periodizzazioni sono sempre opinabili, ma resta un dato storico inconfutabile: a partire dai primi anni Ottanta, il filo rosso che corre dalla Comune di Parigi alla Rivoluzione d’Ottobre, proseguendo nel secondo dopoguerra con le lotte operaie in Occidente e con le guerre di liberazione in Asia, Africa e America Latina, si spezza definitivamente. La caduta del Muro di Berlino non ha fatto altro che calare il sipario su una tragedia che si era consumata da tempo» (p. 151). In questo caso la periodizzazione più che opinabile mi sembra del tutto infondata. Il filo rosso di cui parla Formenti si spezzò non «a partire dai primi anni Ottanta» del secolo scorso, in concomitanza con l’ascesa del thatcherismo, del reaganismo e – su una scala assai più modesta, diciamo casalinga – del craxismo, ma appunto con il trionfo dello stalinismo alla fine degli anni Venti. Lo stalinismo, lungi dall’essere stato la continuazione dell’Ottobre con altri mezzi, nelle mutate circostanze interne e internazionali, fu invece l’espressione-strumento: 1. della controrivoluzione capitalistica internazionale dopo l’ondata rivoluzionaria postbellica (vedi «biennio rosso» in Italia e in Germania), 2. dell’accumulazione capitalistica a ritmi accelerati in Russia e 3. della continuità imperialistica della Russia (di qui anche la scelta di promuovere innanzitutto l’industria pesante, a detrimento dell’industria dei beni di consumo e dell’agricoltura) dopo la brevissima parentesi rivoluzionaria.

Dal punto di vista del proletariato internazionale lo stalinismo fu una controrivoluzione, mentre dal punto di vista dello sviluppo capitalistico russo esso giocò una funzione storicamente progressiva. Com’è noto, nell’Ottobre ’17 Lenin tentò il Grande Azzardo per mettere il giovane proletariato russo all’avanguardia del movimento operaio internazionale, non certo per trasformare il suo partito in un eccezionale strumento al servizio dell’accumulazione capitalistica. Per questa triste bisogna, sarebbero bastati i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, i quali infatti denunciarono il programma leniniano esposto nelle Tesi d’aprile come l’opera di un pazzo visionario. Per la verità, non pochi bolscevichi allora pensarono la stessa cosa, a dimostrazione di quanto sia difficile mantenere fermo il punto di vista di classe nelle grandi svolte della storia.

Mutatis mutandis, in Cina il maoismo rappresentò l’ala più radicale, e alla fine vincente, della rivoluzione nazionale-borghese basata sui contadini. La fragile natura proletaria del comunismo cinese evaporò alla fine degli anni Venti, anche grazie all’intervento di Mosca nella lotta di classe in Cina. Che il Partito di Mao si proclamasse “comunista”, come il cugino russo, può forse fare qualche differenza in sede di analisi storica? Certamente. Ma in questo senso: grazie allo stalinismo e alla sua variante cinese nel mondo è circolato un mito (o una balla speculativa) che con il socialismo non aveva nulla a che fare. E ne piangiamo ancora le conseguenze, come lo stesso Formenti conferma.

Apepperosa__chimera_gIl crollo del Muro di Berlino non ha dunque rappresentato «Il venir meno di qualsiasi alternativa – per quanto “nominale” – alla società capitalistica» (p. 68), ma piuttosto la ratifica della sconfitta subita dell’Unione Sovietica, Paese capitalistico/imperialista alla stessa stregua dei suoi avversari,  nella competizione interimperialistica chiamata Guerra Fredda.

Sul post del 18 marzo scrivevo: «Nel definire il concetto di Guerra Fredda, Thomas L. Friedman mette avanti lo scontro ideologico fra due sistemi sociali alternativi, cosa che indusse Fukuyama, per la verità un po’ troppo in anticipo sui tempi, a dichiarare la fine della storia allorché uno dei due poli maggiori della contesa interimperialistica (quello cosiddetto Sovietico) crollò miseramente, e con una rapidità che allora sorprese solo chi ignorava la disastrata condizione dell’economia russa». Anche Formenti sembra prendere sul serio la tesi di Fukuyama, sebbene per affermare un atteggiamento politico di rivalsa nei confronti del «Capitalismo neoliberista» trionfante.

La «delegittimazione non solo di teorie, ideali e speranze, ma delle stesse parole che per un secolo e mezzo, dalla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels alla fine del XX secolo, erano servite a nominarli», non si verifica, come sostiene il Nostro, nel 1989 e negli anni che videro il miserabile crollo dell’ex «Patria del Socialismo» (ancorché «reale»: sic!), ma ben prima, molto tempo prima, con la semplice esistenza di un «socialismo reale» in Russia, nei suoi «Paesi Fratelli», in Cina, in Vietnam, nella Corea del Nord, e così via.

A pagina 74, l’autore scrive che «fra i primi anni Sessanta e la metà degli anni Settanta del secolo scorso», in risposta alle trasformazioni intervenute nella struttura industriale del capitalismo avanzato, Renato Panzieri, Mario Tronti, Antonio Negri, Romano Alquati e altri intellettuali di sinistra andarono «all’assalto dell’ortodossia marxista del PCI». Ora, quella che Formenti definisce «ortodossia marxista del PCI» in realtà non fu che la variante italiana, diciamo togliattiana, dello stalinismo. Gran parte degli errori teorici di Negri si spiegano con il suo tentativo di colpire quello che negli anni Settanta egli definiva «il movimento operaio ufficiale» (il PCI di Togliatti-Longo-Berlinguer e la CGIL di Lama), concepito, erroneamente, come espressione della vecchia composizione di classe, superata dal Capitalismo «postmoderno», e non come movimento politico-sociale borghese tout court. La teorizzazione della Moltitudine e del «proletariato cognitivo» di oggi ha molto a che fare con la teorizzazione dell’«operaio sociale» di ieri.

Il novantenne (auguri miglioristi!) Macaluso ha ragione quando sostiene che il PCI non è morto con Renzi: «Il Pci non esiste più dal 1991, quando fu travolto dalle macerie del Muro crollato due anni prima». Il Partito Comunista d’Italia nato a Livorno nel ’21 morì invece con la sua stalinizzazione iniziata “diplomaticamente” da Gramsci* e continuata con mezzi più sbrigativi da Palmiro il Migliore. Insomma, la «sinistra storica», quella dedita all’«ortodossia marxista», gronda stalinismo da tutte le parti.

Ecco perché quando nell’Introduzione Formenti scrive che, «se si vuole gestire la transizione a una civiltà postcapitalista, occorre tornare a ragionare, con Gramsci, anche sul “farsi Stato” delle classi subordinate e sulla loro capacità egemonica», il consiglio giunge al mio orecchio con un suono assai sinistro. È la stessa sgradevole sensazione acustica che da ragazzino provavo quando taluni “comunisti radicali” parlavano di «dittatura del proletariato» e mi invitavano a leggere il Libretto Rosso di Mao, oppure Materialismo dialettico e materialismo storico di Stalin.

Se un rimprovero si deve dunque muovere alla «nuova sinistra», e per la verità allo stesso Formenti, è quello di non avere fatto i conti fino in fondo con lo stalinismo; non solo, ma di avere a un certo punto contrapposto a esso ideologie e “modelli sociali” che proprio nello stalinismo e nell’esperienza russa post-rivoluzionaria avevano la loro radice. Alludo ovviamente al maoismo e al “comunismo cinese”, in primo luogo, e poi al castrismo, al guevarismo e via di seguito. Lo stesso DNA politico-ideologico delle brigate rosse appartiene a quella cattiva storia (vedi, ad esempio, la loro mitologia resistenzialista intorno alla «rivoluzione tradita» dal PCI togliattiano), come peraltro hanno riconosciuto i politologi più competenti e meno organici alla tradizione “comunista”. Insomma, più che di utopie letali io parlerei, a questo proposito, di chimere letali.

* Scrive Giorgio Galli nella sua Storia del PCI (Bompiani, 1976) a proposito del Comitato esecutivo del partito comunista a guida gramsciana (1925): «Il linguaggio, che riecheggia quello dell’apparato staliniano che in quegli stessi mesi sta preparando il terreno per il XIV Congresso del partito che ormai controlla, corrisponde a un nuovo concetto per il quale i dirigenti in carica si identificano col partito. Quando infatti la sinistra osserva che se ha dovuto organizzarsi in corrente è perché gli organi del partito funzionano da centro di coordinazione della corrente gramsciana, tocca a Longo, dirigente della Federazione giovanile sino a pochi mesi prima su posizioni di sinistra e che ora svolge un ruolo di punta nella campagna contro Bordiga, replicare che, anche in fase congressuale, “vi deve essere una centrale che ordina e dei compagno costretti, dalla disciplina, a ubbidire”. […] Dunque, da nemico della Centrale, cioè del partito, l’oppositore [antistalinista] è già trasformato in “agente provocatore”. E alle parole seguono i provvedimenti disciplinari: nel giugno Ugo Girone viene espulso. […] Nello stesso mese di luglio Terracini viene arrestato, ma in agosto Togliatti, scarcerato per amnistia [sia da stalinista che da statista l’amnistia sarà per Palmiro una sorta di destino… ], torna a fianco di Gramsci per dirigere con lui la battaglia contro le superstiti velleità bordighiane. […] Alla presunta ragione che la Russia conferiva all’argomentazione di Gramsci, la grande maggioranza dello stato dirigente del Pci sacrificò il principio dell’esame critico, tollerando le falsificazioni e le sopraffazioni» (pp. 112-118).

La leggenda metropolitana del Gramsci antistalinista della prima ora è parte di quella vicenda segnata dall’accecamento ideologico, dalle falsificazioni più pacchiane e dalle sopraffazioni più odiose, in Italia come in Russia – vedi la tragica storia dei comunisti italiani che si rifugiarono in quella che credevano fosse la «Patria del socialismo» per sfuggire alla persecuzione fascista, salvo finire nella brace stalinista.

STALINISMO DI ANDATA E DI RITORNO

1891015_1397452320523595_381073666_nLa foto qui sopra, ripresa da Facebook, è introdotta dal commento che segue:

«La foto di oggi arriva da Donetsk, capitale della regione orientale dell’Ucraina: la regione dei minatori.
Mobilitazione di classe, mobilitazione in difesa della sovranità nazionale, mobilitazione antifascista e antimperialista, protagonismo dei comunisti: tutto si tiene
».

Segue il mio lapidario commento: Con il maligno cemento dello STALINISMO (vetero, post, 2.0) tutto si tiene.

Fuori sacco, ecco una modesta riflessione sullo stalinismo da me scritta qualche tempo fa per soddisfare la curiosità di qualche lettore, e che a quanto pare mostra purtroppo di conservare un certo fondamento. Anche nel XXI secolo!

Della serie AI CONFINI DELL’IRREALTÀ? Purtroppo ben dentro questa cattiva realtà. Scompisciarsi dal ridere o piangere? Fate un po’ voi. Per quanto mi riguarda, vado a cambiare lo slip!

Della serie AI CONFINI DELL’IRREALTÀ? Purtroppo ben dentro questa cattiva realtà. Scompisciarsi dal ridere o piangere? Fate un po’ voi. Per quanto mi riguarda, vado a cambiare lo slip!

Per me lo stalinismo fu una dittatura capitalistica esattamente – mutatis mutandis sulla scorta del diverso retaggio storico – come lo furono, dittature al servizio del Capitale, il fascismo in Italia e il nazismo in Germania. Per certi versi quello russo (o «sovietico») fu un regime sociale ancora più oppressivo e miserabile di quello italiano e di quello tedesco. In più, ma dalla mia prospettiva sarebbe meglio dire ancora peggio, tale regime dittatoriale (capitalistico: questo elementare concetto va sempre ripetuto) si autoproclamava «socialista/comunista», gettando in tal modo nel discredito, con la zelante collaborazione degli stalinisti basati a Occidente, la stessa possibilità dell’emancipazione del proletariato internazionale e, dunque, dell’intera umanità. Basta insomma poco per comprendere perché lo stalinismo in tutte le sue varianti nazionali (togliattismo, maoismo, guevarismo, castrismo, ecc.) si sia subito imposto alla mia mente come il nemico principale su cui sparare a palle incatenate.

Infatti, per me si è trattato di cogliere due obiettivi strettamente correlati l’uno all’altro: 1. svelare la natura capitalistica del falso socialismo/comunismo russo (e poi jugoslavo, cinese, cubano, vietnamita e chi più ne ha più ne metta), mostrando per questa via la miserabile funzione controrivoluzionaria espletata dal cosiddetto «movimento comunista internazionale» devoto a Mosca (e poi in parte anche a Pechino); 2. combattere la falsa idea secondo la quale l’esperimento «sovietico» dimostrerebbe quanto vana sia la ricerca di una società fondata su rapporti sociali umani: «Se il comunismo è questo, meglio tenerci il capitalismo!». Gli stalinisti di tutto il mondo hanno fatto di tutto per confermare al 100 per 100 il noto aforisma di Churchill.

Non ho mai pensato che questa battaglia fosse facile, tutt’altro; ma una volta impadronitomi di questo fondamentale punto di vista su un evento che ha segnato l’intero Novecento, e che proietta la sua maligna ombra anche sul nuovo secolo, per me non si è posta all’attenzione alcuna alternativa, né a dire il vero l’ho mai cercata. Per mutuare un noto statista americano, sono da sempre un antistalinista non perché sia facile esserlo, ma perché è vero (ancora oggi, anche dopo il crollo dei miserabili muri!) esattamente il contrario.

Naturalmente da questo giudizio sullo stalinismo (come espressione della sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre) discendono a cascata una serie di importanti tesi: sulla Seconda guerra mondiale (come guerra imperialistica analoga alla Prima), sulla Resistenza (come continuazione della guerra imperialistica con altri mezzi e nelle mutate circostanze), sulla «Repubblica nata dalla Resistenza» (come continuazione del regime sociale capitalistico con altri mezzi e nelle mutate circostanze, e quindi in assoluta continuità “strutturale” con il precedente regime fascista), e via di seguito. Sul piano teorico, l’antistalinismo mi ha permesso di approcciarmi a Marx e a Lenin senza la maligna mediazione dei “marxisti-stalinisti”, cosa che mi ha evitato un miserabile destino di statalista-riformista-nazionalista.

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Un orrore del Capitalismo mondiale attribuito a un inesistente comunismo

ucrainaPareva di lontano che il braccio trasversale della croce fosse scomparso, fuso con quello verticale, e che la croce perciò si fosse trasformata in una spada acuminata e minacciosa. Ma non è spaventosa: tutto passerà. Sofferenze, tormenti, sangue, fame e violenza. Scomparirà la spada ed ecco: le stelle rimarranno, quando sulla terra non sarà rimasta neppure l’ombra dei nostri corpi e delle nostre opere. E non c’è nessuno che non lo sappia. E allora perché non vogliamo rivolgere il nostro sguardo alle stelle? Perché? (Michail Bulgakov, La guardia bianca, 1924).

img17023L’accumulazione capitalistica a tappe forzate non è un pranzo di gala!

Cercando informazioni sull’Ucraina, mi sono imbattuto in una strana parola: holodomor, e alla fine ho scoperto che ne conoscevo da tempo il concetto, il riferimento storico. In ucraino holodomor significa, pressappoco, strage da fame provocata dall’uomo, ma anche infliggere la morte mediante la fame. Il riferimento storico va dritto al cuore della micidiale stagione della collettivizzazione forzata nelle campagne russe, una delle pagine più nefaste dello stalinismo e, dunque, del Capitalismo mondiale, passata però alla storia come un’infamia del Comunismo. Chi legge le mie modeste cose sa che per me di Comunismo nel mondo (a cominciare dalla Russia di Stalin e dalla Cina di Mao) non ce n’è stato nemmeno un atomo, un grammo, un fiato, e che la grande sfida lanciata dal partito di Lenin nel 1917 al Capitalismo mondiale in alleanza (strategica) con il proletariato d’avanguardia occidentale e (tattica) con i contadini russi si infranse contro il muro della controrivoluzione interna (stalinismo) e internazionale (fascismo, ipnosi democratica, ristrutturazione capitalistica, ripresa economica, preparazione della seconda carneficina mondiale).

Scrive Paolo Rumiz: «Cancellate quel Pulitzer. Fatelo a tutti i costi. E non importa se fu dato nel lontano ‘32, o il premiato è morto da decenni. Qui c’è un “infame” da punire. Walter Duranty, corrispondente nella Mosca di Stalin per conto del New York Times. Troppo grave la sua colpa, dicono negli Usa. Non ha solo magnificato piani quinquennali, inneggiato a un dittatore, edulcorato purghe infami. Ha fatto di peggio. Ha liquidato come inesistente il deliberato sterminio dei contadini nel 1932-33, almeno sei milioni di morti per fame nella sola Ucraina. Tutto il grano sequestrato, fino all’ultimo chicco, per far crepare i “kulaki”, rei di opporsi alla collettivizzazione. Nel granaio d’Europa, le terre nere di leggendaria fertilità, morirono come mosche: 25 mila al giorno. Diciassette al minuto, una frequenza quadrupla che nell’ecatombe di Verdun. L’assassinio tramite requisizione di cibo non s’era mai visto nella storia dell’uomo, e l’Ucraina dovette inventare una parola nuova per descriverlo: Holodomor, strage da fame provocata dall’uomo. Fu orrendo. Un morto su tre era bambino o neonato. Le teste, le gambe, le pance si gonfiarono, divennero mostruose. I piccoli urlavano come animali, le madri scapparono di casa per non sentirli. Alcuni finirono vivi nelle fosse comuni. Furono sbarrate le città, perché gli operai non vedessero cosa accadeva ai contadini. Ma i contadini dovevano essere puniti, perché si opponevano all’imbroglio dei Kholkoz. Furono milioni di morti. Impossibile capire Kiev ignorando questo fatto. Impossibile, anche, capire perché una parte del Paese accolse Hitler come un liberatore» (La Repubblica, 31 ottobre 2003). Naturalmente Togliatti, che sapeva ogni cosa, fiancheggiò sempre il negazionismo staliniano.

Ancora Rumiz: «In quegli anni il capitalismo era troppo sconvolto dalla crisi del ‘29 per guardare ai malanni del comunismo [leggi capitalismo con caratteristiche russe]. E Roosevelt, appena eletto presidente, era impegnato a gestire il riconoscimento diplomatico dell’Urss e il suo ingresso nella Società delle Nazioni. Ricorda lo storico dell’Est Federigo Argentieri che i pochi scampati alla carestia, giunti negli Usa, si trovarono di fronte a “un muro di diffidenza e incredulità”. E che dire di Mussolini? Bombardato di lettere allarmate dal console Gradenigo di stanza a Kharkov, non disse nulla perché in quel momento flirtava con Mosca. Hitler, pure lui informato, tacque. Troppo impegnato, forse, nella presa del potere. Poi, dopo la guerra, venne il negazionismo dei comunisti occidentali. Inghilterra, Francia, Italia. Milioni di vittime ignorate per realpolitik». Capite ora perché parlo dell’holodomor come di un orrore del Capitalismo mondiale?

mdDGKQIA=--Adesso cito dal Libro Nero del Comunismo: «Nell’anno 1933, mentre milioni di contadini morivano di fame il governo sovietico continuava a vendere all’estero 18 milioni di quintali di grano per “le esigenze dell’industrializzazione”». Già sento l’indignata obiezione del sinistrorso: «Ma come, sciagurato, adesso citi anche la bibbia del berlusconismo? Non ti vergogni?» Ma neanche un po’! Per due motivi: in primo luogo perché, come non faccio che ripetere da anni, lo stalinismo è per me una pagina particolarmente odiosa del Libro Nero del Capitalismo, e in secondo luogo perché è dalla fine degli anni Settanta che denuncio i crimini dello stalinismo, e difatti per questa benemerita attività sono stato oggetto delle peggiori invettive da parte dei cosiddetti “compagni” già ai bei tempi del Movimento Studentesco. Magari è proprio il sinistrorso che mi critica che dovrebbe vergognarsi, soprattutto se oggi appoggia gli stalinisti ucraini, ossia l’ala dura della tendenza filorussa. Personalmente non faccio alcuna differenza tra filoeuropei, nazionalisti, fascisti e stalinisti: li vorrei mandare tutti a quel paese. Quale? Il solito!

COPERTINA Il mio giudizio sulla Nuova Politica Economica di Lenin e sulla teoria del «Socialismo in un solo paese» di Bucharin-Stalin si trova ne Lo scoglio e il mare, dal quale cito qualche passo a proposito della collettivizzazione:

«Scriveva Trotsky nel 1935, nell’introduzione alla seconda edizione inglese di Terrorismo e Comunismo (Sugarco, 1977): “Il nuovo corso politico avviato nel 1928 mise chiaramente in luce la dipendenza della burocrazia sovietica dalle basi economiche gettate dalla rivoluzione d’ottobre. Recalcitrante e di mala voglia, la burocrazia fu costretta a prendere la strada dell’industrializzazione e della collettivizzazione. Per la prima volta qui essa mise in luce le sconfinate possibilità produttive che sono il risultato necessario della concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani dello Stato”. Qui dunque Trotsky rivendica la natura progressiva, in senso socialista, delle due misure capitali dello stalinismo: la collettivizzazione forzata delle imprese agricole e l’industrializzazione a tappe forzate basate sul capitalismo di Stato (egli esalta «i successi meravigliosi, anche se molto ineguali, del piano quinquennale»). Seguendo questa pista che lo conduceva direttamente alla capitolazione teorica e politica (cosa assai più grave della sconfitta politica, sempre recuperabile una volta che fossero mutate le circostanze), egli giunge a considerare “il sistema di Stalin […] la forma burocraticamente deformata di autodifesa adottata da un socialismo in via di sviluppo”. Per chi scrive, invece, “il sistema di Stalin” fu la forma storicamente necessaria (poste certe premesse) di un capitalismo in via di sviluppo. Due tesi affatto diverse». Un capitalismo, va detto, dalla fortissima vocazione imperiale (vedi il retaggio zarista), il che contribuisce a spiegare l’opzione per un’accumulazione a tappe forzate basata sull’industria pesante, la sola che potesse soddisfare le ambizioni di grande potenza mondiale che la Russia di Stalin legittimamente coltivava.

Essendo un “materialista storico” di vecchia scuola, quando parlo di Stalin non mi riferisco mai alla sua persona ma piuttosto alla tendenza storico-sociale che egli in qualche modo “incarnò”.

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L’IMPERIALISMO ENERGETICO DELLA RUSSIA

L’UCRAINA DA LENIN A LUCIO CARACCIOLO

QUANDO UNA STATUA DI LENIN (O DI MARX) CADE

INTRIGO UCRAINO

LE CATTIVE ANALOGIE STORICHE DEI POST-STALINISTI

guillottineIn linea generale le analogie storiche hanno un certo valore, perché permettono di chiarire a chi ne fa uso passaggi concettuali complessi in forma sintetica e suggestiva, realizzando un’apprezzabile economia di pensiero. Va da sé che l’analogia ha successo, coglie l’obiettivo, solo quando essa non solo appaia, ma sia effettivamente storicamente fondata. Viceversa, da strumento di verità si capovolge immediatamente in strumento ideologico al servizio della menzogna. È questo il caso di Alain Badiou e di Diego Fusaro.

Nel suo libro Il secolo, il filosofo francese Badiou ha scritto che dopo i noti e famigerati (beninteso solo per i “comunisti” di derivazione stalinista e maoista) eventi prodottisi nel 1989 la nostra epoca sta vivendo una «seconda restaurazione», in analogia con la Restaurazione che segnò l’Europa con la fine del lungo ciclo rivoluzionario apertosi con la Grande Rivoluzione del 1789. Badiou, dice Fusaro in un video postato su YouTube, realizza un fecondo accostamento, per analogia storica, tra lo scenario politico e filosofico che si schiuse dopo la fine della rivoluzione francese, segnato dal Congresso di Vienna e dalla vittoria delle potenze conservatrici e controrivoluzionarie, e lo scenario che si è aperto con il 1989. Come la prima restaurazione diede corpo alla criminalizzazione delle concezioni rivoluzionarie (borghesi) che avevano avuto nei giacobini la loro espressione politico-ideologica più avanzata e radicale, analogamente la «seconda restaurazione» post 1989 è segnata da una vera e propria demonizzazione della «passione utopica», criminalizzata come antidemocratica e tendenzialmente totalitaria: «Avete provato a cambiare il mondo, ne sono scaturite le peggiori sciagure sulla terra, non provateci mai più». Così, dice il filosofo made in Italy, ragiona l’ideologia dominante, la quale «si caratterizza esattamente per una sorta di desertificazione dell’immaginario che rende per ciò stesso impossibile le alternative rispetto al presente totalmente saturo della forma merce capitalistica». Non c’è dubbio.

Gran parte di ciò che oggi passa per critica, ad un esame appena più attento si rivela essere non più che una nota di tono diverso nella sinfonia apologetica che accompagna la nostra esistenza nel migliore dei mondi possibili. Ma questo, a mio avviso, vale anche per Badiou e per Fusaro, il quale afferma che «il capitalismo pienamente realizzato» dei nostri tempi «è tornato a trionfare incontrastato perché è venuto meno il colosso sovietico che per più di cinquant’anni lo aveva tenuto a freno, seppure in forma contraddittoria». Insomma, per i nostri due filosofi solo dopo il crollo del miserabile Muro si è affermata nel mondo occidentale la tendenza controrivoluzionaria e restauratrice che criminalizza gli «ideali utopici e rivoluzionari». Niente di più infondato, almeno per come la vedo io.

imagesDG0NK8NMSe vogliamo rimanere con qualche fondamento storico sul terreno analogico, possiamo parlare di «seconda restaurazione» non a proposito del 1989, che segnò il crollo, dopo una lunghissima agonia, di un regime capitalistico particolarmente rognoso (sto alludendo all’Unione Sovietica) e dell’alleanza imperialistica centrata sul suo dominio (alludo al Patto di Varsavia), ma piuttosto in riferimento alla fine degli anni Venti, quando apparve chiaro ai comunisti occidentali che si rifiutarono di aderire all’ideologia controrivoluzionaria elaborata da Bucharin e praticata da Stalin, che il «Nuovo Corso» moscovita costruiva una prospettiva capitalistica e Grande-Russa sulle ceneri dell’Ottobre Rosso di Lenin. Per non scadere nel ridicolo, o nella più ottusa e reazionaria delle ideologie, occorre far retrocedere la «seconda restaurazione» almeno di sessant’anni.

Associare per analogia storica i giacobini agli stalinisti potrebbe avere un senso solo se si collocano entrambi i soggetti sul terreno della società borghese in divenire, e sempre tenendo fermo un punto essenziale, soprattutto in termini politici, cioè a dire la natura controrivoluzionaria dal punto di vista proletario dello stalinismo. Gli stalinisti furono violentemente radicali sul terreno degli interessi della nascente Potenza Russa post-zarista, e questa radicalità capitalistica, spacciata per «un secondo Ottobre», si dispiegò a spese del proletariato interno e internazionale.

Com’è noto, Trotsky lesse la sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre nei termini di un «tradimento» o, in analogia con la Rivoluzione francese, di un «termidoro», ossia di una degenerazione politica del soggetto che aveva promosso la rivoluzione che non poteva cancellare le conquiste sociali di essa.  Obtorto collo, e attraverso mille imbarazzanti contraddizioni che alla fine ne avrebbero generato la fine attraverso una rivoluzione politica (politica, non più sociale), tale soggetto si vedeva costretto a muoversi nel profondo solco tracciato dalle «realizzazioni concrete» prodotte dalla Rivoluzione. Con ciò egli mostrò di non aver compreso la reale portata dei processi sociali, interni e internazionali, che alla fine spezzarono la radice stessa di quella esperienza storica, non lasciando sul terreno delle «realizzazioni concrete» nulla che valesse la pena di difendere e di rivendicare. Seguendo questa pista che lo conduceva direttamente alla capitolazione teorica e politica (cosa assai più grave della sconfitta politica, sempre recuperabile una volta che fossero mutate le circostanze), Trotsky giunge a considerare «il sistema di Stalin […] la forma burocraticamente deformata di autodifesa adottata da un socialismo in via di sviluppo» (L. Trotsky, Introduzione del 1935 a Terrorismo e Comunismo, Sugarco, 1977). Per chi scrive «il sistema di Stalin», con annessa burocrazia e relativa «cricca», fu invece la forma storicamente necessaria di un capitalismo in via di sviluppo.

stalin_gulagNon l’ideologia dominante dei nostri giorni, ma lo stalinismo internazionale (con le sue diverse varianti nazionali: maoismo, titoismo, togliattismo, chevarismo, ecc.) ha assestato il più drammatico e violento colpo alla prospettiva dell’emancipazione del proletariato e dell’intera umanità, semplicemente accreditandosi come soggettività comunista. Ovviamente le classi dominanti del pianeta hanno avuto tutto l’interesse ad assecondare questa colossale menzogna storica, politica, concettuale, sociale. Infatti, solo dalla prospettiva che da sempre mi sforzo di “socializzare” è possibile attaccare in radice la posizione che associa il comunismo al «socialismo reale», il quale non fu, in Russia e ovunque nel mondo, che un reale capitalismo-imperialismo ignobilmente celato dietro bandiere rosso-sangue. Ignobilmente e, aggiungo, assai ridicolmente, almeno all’avviso di chi aveva resistito ai richiami della trionfante sirena stalinista e aveva cercato di scrivere la storia del movimento operaio con l’amaro ma veritiero inchiostro degli sconfitti.

Evidentemente Fusaro, dall’alto della sua concezione dialettica del processo storico, prende per oro colato la tesi stalinista dei «due campi» che si sarebbero confrontati durante la cosiddetta guerra fredda: quello «capitalista», capeggiato dagli Stati Uniti, e quello «socialista», con al vertice Mosca – e poi Pechino per molti “comunisti dissidenti” occidentali. Un confronto interimperialistico declinato in termini di “lotta di classe”: io non potrei mai arrivare a tali cifre dialettiche, nemmeno se leggessi tutti i tomi di Badiou, di Žižek (la cui concezione “post-stalinista” dello stalinismo ho pure criticato in passato) e di Fusaro! E difatti son qui a ridacchiare come il peggiore dei servi dell’Imperialismo alle spalle dei credenti in Chávez, e a sparare a palle incatenate contro quei Socialnazionalisti che ritengono essere massimamente rivoluzionario, o quantomeno “storicamente progressivo”, appoggiare tutti i nemici imperialisti del Grande Satana d’Occidente.

Insomma, quando il buon filosofo italiano ciancia, sempre nel video di cui sopra, di «coscienza rivoluzionaria», e sostiene che bisogna reagire alla «logica illogica» del pensiero dominante riscoprendo «la prospettiva utopica nel senso più alto del termine, nel senso di Marx e di Bloch», egli ha ai miei occhi una credibilità pari allo zero assoluto, e peraltro in ciò sono oltremodo confortato dalle sue posizioni politiche ultrareazionarie – in economia, in politica interna e internazionale e via di seguito.

Vedi anche:

Il Marx dei fasciostalinisti
Essere senza coscienza – di classe
Il katéchon “comunista” di Diego Fusaro
La resa incondizionata degli amici del macellaio di Damasco

RENZI E TOGLIATTI

togliatti-renzi-288659Secondo Emanuele Macaluso, interpellato ieri da Aldo Cazzullo per Il Corriere della Sera, «I vecchi comunisti hanno per Renzi una diffidenza quasi antropologica. Parlare del nuovo segretario come di un altro Berlusconi è una sciocchezza. Renzi non ha interessi privati, è una persona rispettabile. Ma appartiene a un’era politica del tutto nuova, in cui il livello culturale è drasticamente crollato. La sinistra storica era fatta di personaggi complessi. Togliatti era un intellettuale di livello europeo, un uomo che teneva testa a Stalin». Teneva testa a Baffone?

Nel remoto 1992 scrissi per una modestissima rivista della mia città un “pezzo” sul libro Palmiro Togliatti di Giorgio Bocca; a perenne ricordo dell’«intellettuale di livello europeo», in arte Il Migliore (degli stalinisti), ne cito alcuni passi.

(…) Ma ritorniamo al Togliatti di Bocca: «Lo stalinismo vero di Togliatti è di tipo ideologico, tale da farlo apparire a certuni come lo stalinista perfetto, capace di razionalizzare e ideologizzare anche gli aspetti irrazionali o ancestrali dello stalinismo».

Emerge nel libro di Bocca la responsabilità del perfido Ercoli in rapporto a tutte le nefandezze perpetrate a Mosca ai danni dei suoi oppositori politici, non importa se russi, italiani, polacchi o spagnoli. Nel somministrare condanne e nel fabbricare calunnie Palmiro-Ercole non tiene in nessun conto il passaporto dei suoi avversari, e in questo rivela il suo profondo spirito… “internazionalista”. Nel terrore egli è persino “democratico”: fa fuori, indifferentemente, anarchici, trotskisti (o presunti tali), bordighisti, e persino stalinisti “anomali”; il solo criterio che lo guida è quello della lotta a qualsivoglia tipo di opposizione politica al regime staliniano. «È lui a spiegare che ora processi e condanne vanno intesi come atti di legittima difesa, non solo della rivoluzione e del socialismo, ma della democrazia e della pace». Attaccare il sempre più ferreo e antiproletario regime staliniano significava dunque mettere a repentaglio anche la democrazia e la pace nel mondo: questo sommo abominio non giustifica forse la Siberia e la fucilazione? Nicchio…

Grazie a lui la piccola comunità di comunisti italiani rifugiatisi in quella che credevano fosse la «Patria del socialismo» per sfuggire dalle grinfie fasciste fu decimata attraverso processi farsa. Inutile forse ricordare sotto quale accusa quei militanti caddero: spie del trotskismo, e quindi oggettivamente servi del fascismo e dell’imperialismo. (…)

C’è nel Togliatti di Bocca il leader “comunista” che si appella (1936) «ai fratelli in camicia nera»; c’è il capo dell’Internazionale che si schiera a favore del patto russo-tedesco del ’39, e che poi fa marcia indietro – alla coda dei padroni moscoviti – quando le divisioni tedesche attaccano il Sacro suolo della Madre Russia. E c’è naturalmente il Togliatti democratico-badogliano del «partito nuovo», della Resistenza, del CLN. Bocca tende a opporre il Togliatti democratico all’Ercole stalinista, riconducendo il secondo al retaggio gramsciano, perché, osserva giustamente il Nostro, il «partito nuovo», maturato a Salerno nel ’43, ha la sua origine a Lione nel 1926 (Terzo Congresso del PC d’Italia). Egli però sbaglia quando crede di trovarsi di fronte alla proverbiale doppiezza togliattiana. In realtà «i due Togliatti», quello stalinista e quello democratico, il servitore scrupoloso dello Stato Russo e il geniale interprete degli interessi nazionali del Bel Paese, vanno considerati le due facce della stessa escrementizia medaglia. Tra il “comunista” Ercole e lo statista nazionale Togliatti ci fu assoluta e “organica” continuità».

imagesMacaluso ha ragione quando sostiene che il PCI non è morto con Renzi: «Il Pci non esiste più dal 1991, quando fu travolto dalle macerie del Muro crollato due anni prima». Il Partito Comunista d’Italia nato a Livorno nel ’21 morì invece con la sua stalinizzazione iniziata “diplomaticamente” da Gramsci* e continuata con mezzi più sbrigativi da Palmirone. L’evocata «sinistra storica» gronda stalinismo da tutte le parti.

* Scrive Giorgio Galli nella sua Storia del PCI (Bompiani, 1976) a proposito del Comitato esecutivo del partito comunista a guida gramsciana (1925): «Il linguaggio, che riecheggia quello dell’apparato staliniano che in quegli stessi mesi sta preparando il terreno per il XIV Congresso del partito che ormai controlla, corrisponde a un nuovo concetto per il quale i dirigenti in carica si identificano col partito. Quando infatti la sinistra [Bordiga ecc.] osserva che se ha dovuto organizzarsi in corrente è perché gli organi del partito funzionano da centro di coordinazione della corrente gramsciana, tocca a Longo, dirigente della Federazione giovanile sino a pochi mesi prima su posizioni di sinistra e che ora svolge un ruolo di punta nella campagna contro Bordiga, replicare che, anche in fase congressuale, “vi deve essere una centrale che ordina e dei compagno costretti, dalla disciplina, a ubbidire ” […] Dunque, da nemico della Centrale, cioè del partito, l’oppositore [antistalinista] è già trasformato in “agente provocatore”. E alle parole seguono i provvedimenti disciplinari: nel giugno Ugo Girone viene espulso […] Nello stesso mese di luglio Terracini viene arrestato, ma in agosto Togliatti, scarcerato per amnistia [sia da stalinista che da statista l’amnistia sarà per Palmiro una sorta di destino… ], torna a fianco di Gramsci per dirigere con lui la battaglia contro le superstiti velleità bordighiane […] Alla presunta ragione che la Russia conferiva all’argomentazione di Gramsci, la grande maggioranza dello stato dirigente del Pci sacrificò il principio dell’esame critico, tollerando le falsificazioni e le sopraffazioni» (pp. 112-118).

La leggenda metropolitana del Gramsci antistalinista della prima ora è parte di quella vicenda segnata dall’accecamento ideologico, dalle falsificazioni più pacchiane e dalle sopraffazioni più odiose, in Italia come in Russia – vedi la tragica storia dei comunisti italiani che si rifugiarono in quella che credevano fosse la «Patria del socialismo» per sfuggire alla persecuzione fascista.

MISERIA DELLA GEOPOLITICA APOLOGETICA

images70Gianni Petrosillo intende ristabilire la verità storica intorno ai grandi meriti dell’Unione Sovietica di Stalin nella cosiddetta guerra di liberazione contro il nazifascismo, la quale per chi scrive fu in primo luogo e a tutti gli effetti un conflitto imperialistico del tutto simile, quanto alla natura storico-sociale delle sue cause reali alla Grande Guerra. Va da sé che per cogliere le radici storico-sociali dell’ultimo conflitto mondiale “tradizionale” occorre andare al di là del suo travestimento ideologico, curato nei minimi particolari soprattutto dalle due Super Potenze vittoriose. Dalla mia prospettiva storica, dunque, non avrebbe alcun senso ricusare al Capo della Russia imperialista chiamata Unione Sovietica i meriti che egli indubbiamente merita, e ancor meno avrebbe senso, sempre dal mio punto di vista, negare all’«aguzzino comunista» (sic!) quella statura di statista di rango mondiale che in Occidente la storiografia “borghese” è disposta a concedere a cuor leggero ai suoi compari di sterminio in guisa di aguzzini democratici. Come si è capito, io metto tutti i protagonisti della Seconda Macelleria Mondiale nello stesso capitalistico sacco: più obiettivo di così! Do perciò a Cesare quel che è di Cesare, e allo statista al servizio del Dominio sociale capitalistico quel che gli spetta di diritto.

Il certificato di Grande Statista per «Koba il Terribile», che tanto a cuore sta a Petrosillo, di certo non troverà in chi scrive un’opposizione di principio.

Vediamo adesso in che termini il nostro fervente estimatore del «georgiano Soso», vittima di un’odiosa «damnatio memoriae da parte dei membri del partito a lui più vicini, gli stessi che lo avevano seguito con incrollabile zelo fino alla fine, senza mai accorgersi di alcun crimine» (per non parlare dei tanti “comunisti” occidentali scopertisi “antistalinisti” solo a babbo morto, o quando il noto Muro gli precipitò in testa); vediamo, dicevo, come Petrosillo perora la causa del mitico (o famigerato, fate un po’ voi) Baffone: «Politici e filosofi liberali, a noi contemporanei, vengono presi dal panico appena lo sentono nominare. Che nessuno provi a riabilitare l’aguzzino comunista, il persecutore di dissidenti, il carnefice dei gulag, il despota della steppa, l’uomo che osò opporsi alla civiltà capitalistica e all’egemonia americana costruendo una grande potenza militare ed economica (che, pur tuttavia, non era la terra del socialismo benché così si facesse chiamare), oltre che all’avanzata del nazismo, mentre tutti in Europa cercavano ancora un compromesso con Hitler, o fuggivano a gambe levate, oppure si sottomettevano alla croce uncinata» (G. Petrosillo, Koba il Terribile, Conflitti e strategie, 8 novembre 2013). E il Patto Ribbentrop-Molotov del ’39 come si spiega in questo – apologetico – contesto? Com’è noto furono i compagni-camerati nazisti a tradire la fiducia di Stalin, il quale fino all’ultimo non volle credere alla possibilità di un’imminente invasione tedesca del sacro suolo russo.

Se Hitler non avesse rischiato il grande azzardo del dominio totale ed esclusivo sul Vecchio Continente, il «patto di non aggressione» del ’39 avrebbe dato i suoi frutti, con grande soddisfazione per la «Patria Socialista». Probabilmente a Ovest di Varsavia gli uomini avrebbero portato i baffetti alla Adolf, e a Est della capitale – o ex capitale – polacca i baffoni alla Joseph. Di là tutti “camerati”, dall’altra parte tutti “compagni”. Probabilmente. Ai tempi di Brest-Litovsk Lenin, per la disperazione dei suoi compagni, non si fece certo commuovere dai richiami patriottici, e perorò come un «dannato disfattista» la causa dell’uscita immediata dalla guerra imperialista, anche a costo di cedere milioni di metri quadrati di sacro suolo patrio alla Germania. Perdere spazio per conquistare tempo alla rivoluzione, in Russia e in Europa: fu la strategia di Lenin, il rivoluzionario. Affogare nel sangue dei contadini e dei proletari russi le armate tedesche per non perdere un solo millimetro di terreno della «Santa madre Russia»: fu la strategia di Stalin, il controrivoluzionario. (Naturalmente faccio riferimento alla figura di Stalin come espressione di una tendenza storica oggettiva, non certo in quanto espressione di una volontà attribuibile a una singola persona. Chi fosse interessato alla mia interpretazione dello stalinismo può compulsare Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre – 1917-1924).

160479471-586x314E qui veniamo a un punto assai scabroso della faccenda: «I morti sovietici nella seconda guerra mondiale sono stati 23 milioni, quelli americani appena 400.000, eppure, non fanno altro che ripeterci, dalle scuole dell’obbligo, che dobbiamo ringraziare gli statunitensi per la nostra libertà. Ormai abbiamo perso la posizione eretta a forza di tutti questi inchini ingiustificati». Più che la posizione eretta degli italiani, cosa che non può certo solleticare l’orgoglio di un anti-sovranista “senza se e senza ma” com’è chi scrive, ho a cuore la posizione eretta della coscienza (di classe), e questo spiega perché il cinico conteggio dei caduti ricordato dall’apologeta del Dominio mi fa dire, con il Marx della Miseria della filosofia (e, mi permetto di aggiungere, della geopolitica apologetica): «Il cinismo è nelle cose e non nelle parole che esprimono le cose». I realisti geopolitici, soprattutto quelli che possono vantare un «radicale percorso di ripensamento del marxismo», sono particolarmente adatti ad esprimere il maligno (disumano) cinismo delle cose, e questo li rende almeno più credibili sul piano delle analisi dei movimenti geopolitici rispetto ai loro colleghi “idealisti”, quasi tutti appartenenti al progressismo internazionale.

Com’è noto, all’inizio dell’Operazione Barbarossa la superiorità militare della Wehrmacht sull’Armata Russa (altro che Rossa!) apparve subito schiacciante. Il keynesismo tedesco aveva prodotto la macchina bellica più potente al mondo, che sarà superata e annichilita solo in un secondo momento dalla creatura bellica generata dal keynesismo made in Usa. A quel punto, alla Russia non rimase che giocare la sua solita vecchia carta per tamponare la falla in attesa di tempi migliori: usare il proprio enorme e freddo corpo, che già aveva divorato l’esercito di Napoleone, e il corpo dei suoi sudditi. Milioni di proletari e di contadini letteralmente gettati contro le truppe motorizzate tedesche, confidando nel limite dei loro proiettili e del loro carburante. Sofisticati e potenti panzer contro una muraglia di corpi umani: la fanteria sovietica, coadiuvata da pochi T-34. Per alzare il morale della popolazione russa Stalin fece fucilare non pochi «seminatori di panico».

Vasily_ZaitsevIl nemico alle porte del regista Jean-Jacques Annaud rende bene l’atmosfera infernale della battaglia di Stalingrado.  Migliaia di uomini gettati come carbone nella fornace della caldaia bellica. «Fate presto con quel carbone!». Sotto una certa pressione, infatti, la macchina si arresta. «Più carbone, perdio, la pressione scende maledettamente!».

Ma allora, si dirà, la Russia si sarebbe dovuta arrendere all’invasore? Non ho detto questo. Che le classi dominanti, di qualsiasi Paese, usino le persone come materia prima industriale e bellica è un fatto che non ha bisogno della mia opinione, né, tanto meno, della mia approvazione. D’altra parte, come già detto chi scrive è, in “pace” come in guerra, disfattista nei confronti degli interessi nazionali, che poi sono sempre e necessariamente gli interessi delle classi dominanti, o delle fazioni vincenti di esse. «Stalin non è stato un santo ma chi, tra i condottieri che governano e guidano le nazioni e i popoli, lo è mai stato? Gli statisti non si riconoscono dalla loro umanità, dai buoni sentimenti e dalla bontà d’animo, ma dalle cose che fanno e dalle decisioni, anche tragiche, che assumono. Lo Stato non è un oratorio e mai potrà diventarlo». Non c’è dubbio. Ecco perché mi batto contro lo Stato capitalistico in vista di una Comunità umana nel cui seno il concetto di uomo possa finalmente corrisponda al suo nome. Come aveva capito il trincatore di Treviri*, la società che non conosce la divisione degli individui in classi sociali non ha alcun bisogno dello Stato, né della politica come la conosciamo dai tempi dell’antica Grecia, ossia come espressione degli antagonismi sociali e come strumento di lotta tra le classi e dentro le stesse classi. La politica estera delle nazioni non è che la continuazione della politica interna con altri mezzi e su una scala più vasta: l’obiettivo è in ogni caso il rafforzamento materiale, politico e ideologico del Dominio. Dico questo per mettere in chiaro la radicale differenza che corre tra il punto di vista geopolitico, più o meno apologetico, e il punto di vista critico-rivoluzionario.

Alla fine, per Petrosillo il merito più significativo di Baffone sembra essere stato quello di «opporsi alla civiltà capitalistica e all’egemonia americana». E questo, osserva il nostro, fa di Stalin uno spettro che continua a turbare i sogni di chi ha tutto l’interesse a prolungare «il nostro misero presente di infingimenti e di vigliaccherie globali». Tuttavia egli dice anche che la Russia stalinista «non era la terra del socialismo benché così si facesse chiamare», tesi che condivido e che ho sempre sostenuto, probabilmente anche quando lo stesso Petrosillo metteva entrambe le mani sul fuoco circa la natura schiettamente socialista dell’Unione Sovietica. È solo un’impressione, beninteso.

Lungi dall’opporsi alla «civiltà capitalistica» la Russia di Stalin ne fu piuttosto una variante russa, e per questo sostengo, come sa chi ha la bontà di seguirmi, che il cosiddetto «socialismo reale» fu una pagina particolarmente ignobile del Libro Nero del Capitalismo. Particolarmente ignobile proprio perché l’ideologia dello Stato Sovietico cianciava di «Socialismo» e di «dittatura del proletariato» nello stesso momento in cui nel «Paese dei Soviet» si edificava a tappe accelerate un Capitalismo di Stato basato sull’industria pesante idoneo a sostenere gli interessi imperialistici della Russia, in linea con la tradizionale politica estera di Grande Potenza della Russia zarista. Naturalmente a Petrosillo le mie riflessioni devono necessariamente suonare come delle quisquilie dottrinarie, giacché la sola cosa che ai suoi geopolitici occhi ha importanza è la costruzione di un fronte unico mondiale antiamericano: la mia auspicata rivoluzione sociale anticapitalistica mondiale non gli può importare di meno. Legittimamente, peraltro.

stak* Il cattivo retaggio del «socialismo reale» continua a pesare sull’interpretazione degli scritti marxiani, come dimostra anche la citazione che segue: «Ciò che di Marx oggi non è più possibile accettare non è certamente la critica dell’economia – che invece trova sempre più conferme – quanto l’antropologia e la filosofia della storia che ne consegue. In buona parte dell’opera di Marx c’è infatti un deficit profondissimo di analisi e comprensione della soggettività, che ha avuto conseguenze assai negative nelle storie dei movimenti operai e delle emancipazioni sociali che si sono richiamate al marxismo […] Da tale messa in valore dell’homo faber, dell’uomo della prassi, nasce lo schematismo riduzionistico del materialismo storico (con la semplicistica articolazione di struttura e sovrastruttura), e, in pari tempo, un’antropologia fabbrile fusionale e gruppale, in cui non v’è spazio alcuno per l’individuo e le sue differenze rispetto alla superiorità e all’organicità del collettivo» (R. Finelli, Karl Marx e il suo deficit originario, Consecutio Temporum, 22 ottobre 2013).
Non condivido affatto il giudizio sull’«antropologia e la filosofia della storia» che, secondo Finelli, dovrebbero conseguire dalla marxiana critica dell’economia. Un giudizio che, semmai, colpisce non Marx quanto piuttosto i suoi epigoni, soprattutto quelli in guisa stalinista e maoista. Separare poi il Marx “economico” da quello “antropologico-filosofico” significa, a mio avviso, non aver capito l’essenza del pensiero marxiano, avendolo forse appreso solo attraverso la lettura dei cosiddetti marxisti e, ancora peggio, alla luce della maligna mitologia del cosiddetto «socialismo reale». Ho provato ad argomentare questi miei concetti in Eutanasia del Dominio. Riflessioni critiche intorno all’attualità del Dominio e alla possibilità della liberazione. Da questo studio estrapolo la seguente citazione marxiana: «Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del mondo), a un potere del cosiddetto spirito che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista questo potere così smisurato per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo» (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 66, Ed. Riuniti, 1971). Di ogni singolo individuo.
Più che a Marx, «il deficit originario» dovrebbe essere attribuito all’autore dell’infondata critica.