La fine dell’odioso regime di apartheid non ha significato il superamento della vecchia struttura economico-sociale del Sudafrica. E così, nel Paese forse più capitalisticamente sviluppato del continente africano i super sfruttati lavoratori delle miniere, dalla pelle rigorosamente nera, continuano a crepare sull’altare del Moloch-Profitto. Dall’apartheid alla democrazia multirazziale: la continuazione del dominio sociale capitalistico con altri mezzi. Ma con le stesse pallottole!
«La polizia di un paese che pensavamo democratico, con i liberatori dell’African National Congress al governo e mentre Nelson Mandela è ancora vivo, uccide operai in lotta. Un paese del quale abbiamo preferito dimenticarci, convinti che l’immane obiettivo della distruzione del sistema razzista dell’apartheid fosse sufficiente a garantire la costruzione di una società diversa e più eguale». Così piagnucolava Il Manifesto (17 agosto) a strage di operai ancora fresca. Come se la forma democratica del regime sociale capitalistico non contemplasse l’uso della più brutale violenza per difendere gli interessi della classe dominante! Come se la fine dell’apartheid su base razziale potesse significare la fine della natura di classe della società sudafricana. Ma questo i feticisti della democrazia e gli apologeti del capitalismo dal volto umano (magari nero, certamente «diverso e più uguale») non lo capiranno mai.
Ora c’è da sperare che la rabbia dei minatori e dei lavoratori sudafricani non prenda la disastrosa strada della lotta razziale, perché il problema non è il colore del padrone, né la sua nazionalità, ma la natura sociale dell’economia che domina su tutto il pianeta. La “vecchia” lotta di classe è la sola risposta giusta alla violenza sistemica della Società-Mondo del XXI secolo. Ovunque. Anche in Siria. Anche a Taranto.