Scontri razziali in Sudafrica. MALEDETTO CAPRO ESPIATORIO!

south-africa-xenophobic-attacks-2orig_main«Gli operai sono in concorrenza tra loro come lo sono i borghesi. […] Questa concorrenza è l’aspetto più nefasto per gli operai nella società attuale, l’arma più affilata della borghesia contro il proletariato. Di qui deriva lo sforzo degli operai per sopprimere questa concorrenza mediante le associazioni» (Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra).

Come informa Enrico Oliari su Notizie Geopolitiche, «Non si ferma l’escalation di violenze xenofobiche in Sudafrica, un’emergenza iniziata un paio di settimane fa e che oggi ha costretto il presidente Jacob Zuma a cancellare la visita di stato programmata in Indonesia. Nel 2008 gli attacchi alle comunità di immigrati provocarono una sessantina di vittime. Il Sudafrica è oggi il paese più ricco del continente, per quanto ancora vi siano disuguaglianze nella ripartizione delle ricchezze con i bianchi. È quindi meta di migrazioni di chi cerca migliori condizioni di vita, cioè lavoratori e loro famigliari provenienti in particolare dallo Zimbabwe, dal Mozambico, dalla Somalia, dall’Etiopia, dal Malawi ed anche da Pakistan e Cina; gli immigrati nel paese rappresentano circa il 5% della popolazione cioè circa due milioni e mezzo di individui. Le tensioni sociali sono determinate dall’alto tasso di disoccupazione (25%), per cui gli immigrati vengono percepiti come una delle cause della povertà diffusa fra i ceti più bassi. Ad innescare l’attuale ondata di violenze sono state le parole di Goodwill Zwelithinidel, re (solo figurativo) del gruppo etnico zulu, il quale in un comizio ha affermato gli immigrati “dovrebbero fare le valigie e andarsene” e che “sporcano le nostre strade”. Immediatamente membri dell’etnia, alla quale appartengono il 22% dei sudafricani, si sono riversati nelle strade armati di bastoni, di coltelli e di machete, in particolare a Durban e a Johannesburg, e già vi sono 5 stranieri uccisi fra i quali un quattordicenne. Decine gli arresti, ma i manifestanti zulu inferociti hanno attaccato le comunità degli stranieri incendiando case e negozi e costringendo così migliaia di persone alla fuga, per cui ora l’emergenza riguarda i numerosi profughi allo sbando, per cui sono già state allestiti appositi campi».

Quella che a volte con affettata retorica chiamiamo “guerra fra i poveri” è davvero qualcosa che grida vendetta al cospetto dell’emancipazione universale, oggi sempre più “materialmente” possibile e tuttavia sempre più annichilita dalla potenza sociale capitalistica: «La smisurata dimensione del potere diventa l’unico ostacolo che proibisce la veduta della sua superfluità», scrisse una volta Max Horkheimer. Ma la notizia di cui sopra mi fa venire in mente un’altra frase di Horkheimer: «Di irrevocabile, nella storia, c’è solo il male: le possibilità non realizzate, la felicità mancata, gli assassinî con o senza procedura giuridica, e tutto ciò che il dominio arreca all’uomo» (Lo Stato autoritario). Pessimismo cosmico? Tutt’altro! Pessima, con una forte tendenza al peggioramento, se così posso esprimermi, è piuttosto la realtà. In Sudafrica, nel Canale di Sicilia, dove i pesci banchettano con la carne umana, e ovunque.

Certamente appare sorprendente – ma non inspiegabile – come delle persone che hanno conosciuto sulla propria pelle (è proprio il caso di dirlo) la bruciante esperienza della discriminazione e segregazione razziali non siano quantomeno diventati immuni al virus razzista. Il veleno razzista dell’apartheid non è riuscito dunque a vaccinare la massa delle persone “di colore”?

Su quanto sta accadendo in Sudafrica tornerò (forse) a scrivere un’altra volta, magari per cercare di capire insieme al lettore perché in quel Paese non sono state realizzate nemmeno quelle timide “riforme strutturali” (come la riforma agraria) che avrebbero reso meno insopportabili le condizioni di lavoro e di vita della gran parte del proletariato. Qui intendo consegnare una riflessione di carattere generale che anticipo con la citazione che segue: «Anch’io constato con apprensione come la borghesia musulmana stia abbandonando il Medio Oriente, perché so che, in genere, il proletariato è attratto dai governi dispotici. È un’affermazione molto dura basata sui precedenti storici. Hitler ha potuto alimentare la sua ideologia autoritaria con l’odio verso le conquiste altrui, cavalcando il sentimento di ingiustizia diffuso tra i tedeschi. Lo stesso fanno, oggi, i nuovi fascismi, rappresentati dai diversi fondamentalismi religiosi» (Avvenire, 10 aprile 2015). A parlare è Hassan bin Talal, zio di re Abdallah II di Giordania. Nei passi citati c’è a mio avviso un elemento di verità, rubricabile come ricerca del capro espiatorio, che interroga chi approccia il processo sociale capitalistico dal punto di vista delle classi subalterne. Naturalmente avendo cura di filtrare la cosa attraverso le maglie critiche del mutatis mutandis.

In un post del 2010 dedicato ai sanguinosi fatti di Rosarno, mi chiedevo perché sono soprattutto i dominati che subiscono il fascino dei razzisti. Riprendo una parte di quel post per tenere calda una questione che merita di essere approfondita e per stabilire un link ideale tra Nord e Sud del mondo.

bbborig_main[…] Chi pensa che il prendere corpo di movimenti autoritari e xenofobi in tutti i Paesi del Vecchio Continente abbia il senso di un «ritorno al passato» sbaglia di grosso. La crisi sociale (economica, politica, culturale, psicologica) che ha infranto i sogni europeisti ha solo messo a nudo una maligna radice che non è mai seccata. Si chiama Dominio capitalistico. Non è il passato che ritorna, è la società capitalistica che continua a vivere a spese dell’umano. Chi intende lottare contro i movimenti razzisti d’ogni tipo e favorire l’unione dei dominati di tutti i colori deve tenere bene in mente quanto appena detto, per non ripetere sempre di nuovo le prassi (ad esempio quelle ispirate dall’ideologia del male minore) che puntualmente finiscono per rafforzare il Dominio. I noti eventi di Rosarno offrono l’occasione per una riflessione sulla società italiana auspicabilmente non banale, non luogocomunista e, soprattutto, non irretita negli interessi e nella prospettiva delle classi dominanti di questo Paese.

[…] In questa brutta vicenda il razzismo e il coinvolgimento della mafia locale sono le ultime cose che dobbiamo prendere in considerazione. Si badi bene, non perché l’uno e l’altro non abbiano avuto alcun ruolo nello svolgersi dei fatti, o perché in generale non abbiano una loro reale consistenza, bensì perché porli al centro della riflessione non spiega un bel nulla e non ci aiuta a capire. E invece abbiamo un gran bisogno di capire, perché Rosarno è solo un sintomo di qualcosa di ben più grave. No, non si tratta affatto di una malattia, si tratta piuttosto della fisiologia della società basata sul profitto; si tratta di una micidiale normalità che si dà in modo differente nelle diverse aree del Paese e del mondo. Chi ragiona in termini di patologia sociale nasconde a sé e agli altri la «banalità del male», anzi la sua radicalità.

[…] Conviene partire proprio dall’epifenomeno, dal «razzismo del popolo di Rosarno», e chiederci come mai il razzismo si fa strada soprattutto fra gli strati inferiori del corpo sociale, e questo naturalmente non solo nell’amena cittadina calabrese, ma un po’ in tutto il Paese e in tutti i paesi del mondo. […]  La risposta è tutt’altro che difficile, è anzi alla portata di tutti e infatti tutti la conoscono, ma solo pochissimi ne colgono il reale significato e la reale portata sociale, e non per l’ignoranza delle masse o per la malafede delle classi dominanti, ma in grazia dell’interesse (declinato in tutti i modi possibili e immaginabili), il più forte consigliere della storia. Non è difficile capire che chi sta ai piani alti dell’edificio sociale può permettersi il lusso dell’umana comprensione, della tolleranza, del cosmopolitismo e della filantropia (la forma borghese della vecchia carità cristiana), anche perché tali eccellenti disposizioni d’animo sono altrettanto olio lubrificante cosparso sui duri ingranaggi del meccanismo sociale, rappresentano il balsamo spalmato su un corpo sociale sempre più brutalizzato dagli interessi economici. Dove c’è un soldato che squarta, che brucia e che violenta, deve esserci pure qualcuno che si occupi dei morti e dei feriti; e insieme, Caino e Abele, la bestia assetata di sangue e la crocerossina devota a chi ha avuto la peggio nel duello, costituiscono il sistema della guerra. Insieme e da sempre lupo e agnello mandano avanti, ognuno a modo suo, la comune impresa.

[…] Chi vive nei piani bassi, invece, è più esposto al veleno del pregiudizio, perché lì la darwinistica lotta per la sopravvivenza si presenta tutti i giorni con i caratteri ultimativi della sopravvivenza fisica e morale. La famigerata «lotta tra i poveri», della quale il Santo Padre si lamenta, non dispone gli animi ai buoni sentimenti, e chi vive giornalmente con l’angoscia di perdere anche le briciole coltiva una suscettibilità nei confronti dei pericoli, reali e immaginari, tutt’affatto particolare. Non ci vuole un corso accelerato di sociologia o di psicoanalisi per comprendere questo meccanismo, e certo lo hanno compreso i dittatori e i populisti d’ogni tempo. Le classi dominanti hanno imparato a tenere caldo il risentimento dei dominati, per volgerlo al momento opportuno contro i suoi nemici, o contro il capro espiatorio di turno: l’ebreo, il negro, l’arabo, l’albanese, il rumeno, il cinese: chi sarà il capro espiatorio di domani? Mutatis mutandis, la storia si ripete sempre di nuovo, non a causa di tare antropologiche, di corsi e ricorsi vichiani o di altre più moderne e meno sofisticate cianfrusaglie concettuali, ma a ragione del fatto che le radici del male sono ancora intonse e sempre più profonde.

[…] La recente crisi economica ha reso ancora più risibile la balla raccontata dagli uomini di buna volontà per dare una copertura politico-ideologica al supersfruttamento degli extracomunitari: infatti, non pochi meridionali disoccupati oggi accettano gli anoressici salari pagati ai lavoratori stranieri. La crisi ha insomma risospinto i «bianchi» verso il nuovo mercato del lavoro precipitato al giusto livello competitivo grazie ai «neri», ai «gialli» e via di seguito. In prospettiva questo processo è destinato a creare non poche tensioni nel seno della classe dominata, soprattutto nei suoi strati più deboli e marginali (uno “status”, questo, in continua fluttuazione), sempre più potenzialmente ricettivi nei confronti di qualsiasi discorso che promettesse una soluzione definitiva («finale»…) dei loro problemi. La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma non è affatto detto che la farsa di domani sarà meno violenta e sanguinosa della tragedia di ieri.

Come riemergere dall’abisso dentro il quale è precipitata l’intera umanità? Inutile coltivare facili illusioni, anche perché abbiamo imparato a sopravvivere in quell’abisso, al punto che non lo esperiamo più come tale. Abbiamo imparato a dare del «tu» persino all’orrore. Non ci sono soluzioni facili, purtroppo. Solo per non continuare a precipitare, per resistere a ulteriori sprofondamenti, i lavoratori d’ogni colore, sesso, religione e quant’altro dovrebbero coalizzarsi in nuovi organismi del tutto autonomi rispetto agli attuali sindacati nazionali, veri e propri strumenti di dominio nelle mani del capitale e dello Stato. E dovrebbero dichiarare subito guerra alla politica delle compatibilità. Si tratta di scegliere tra il “sacro” interesse nazionale – che da sempre esprime l’interesse delle classi dominanti – e il più profano interesse delle classi dominate, le cui condizioni di lavoro e di vita peggiorano sempre di nuovo, compromesso dopo compromesso, «senso di responsabilità» dopo «senso di responsabilità», «compatibilità» dopo «compatibilità», avendo come loro limite inferiore l’esistenza dei «negri» e dei «gialli». E questo non a causa della cattiva volontà politica di qualcuno, come ci dicono i progressisti di tutto il mondo da circa un secolo a questa parte, ma a motivo dell’intima natura del dominio sociale vigente.

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SUL SUDAFRICA. E SUL MONDO

SUDAFRICA. IL COLORE DEL PROFITTO

SUL SUDAFRICA. E SUL MONDO

SudafricaContinua lo sciopero dei minatori sudafricani sfruttati come bestie nelle miniere della cin­tura del pla­tino a ridosso di Johan­ne­sburg.  Le miniere coinvolte ormai da parecchi mesi nelle agitazioni «selvagge» dei lavoratori sudafricani, in lotta per ottenere significativi aumenti salariali e migliori condizioni di vita e di lavoro, sono di proprietà dell’Anglo American Platinum, dell’Impala Platinum e della Lonmin, vale a dire dei tre maggiori produttori di platino al mondo. L’organizzazione sindacale National Union of Mineworkers (Num), vicina all’African National Congress, principale partito sudafricano al governo del Paese dal ’94 ad oggi senza interruzioni, si è dissociata dal movimento di lotta, la cui direzione è così interamente nelle mani dell’Association of Mineworkers and Construction Union (Amcu). Se consideriamo «che l’economia del Sudafrica, che possiede le maggiori riserve di platino al mondo, si basa sulle esportazioni di metallo per più della metà dei suoi guadagni in valuta estera» (Rita Plantera, Nena News, 29 gennaio 2014), ci rendiamo conto di quanto alta sia la posta in palio e di quanto forti siano le pressioni economiche e politiche con cui i minatori del platino hanno a che fare.

«Lo sciopero è il più imponente dopo quello fatale di Marikana del 2012 il cui tristissimo epilogo – 34 corpi di lavoratori sparsi per terra uccisi dal fuoco della polizia oltre a decine di feriti – rappresenta probabilmente la vergogna più grande o quella più inaspettata nel Sudafrica del post-apartheid» (Rita Plantera). Non saprei dire se il massacro di Marikana rappresenta davvero «la vergogna più grande» per il regime sudafricano venuto fuori dall’odioso sistema di apartheid, anche perché il peggio è nell’ordine delle cose, in Sudafrica come ovunque nel capitalistico mondo; posso però dire in tutta sincerità che quel sanguinoso episodio di lotta di classe non mi sorprese nemmeno un po’. Rimando al post Sudafrica. Il colore del profitto chi intende capire il senso delle mie parole.

«Ragioni di stato e del profitto che non si incontrano con quelle della sopravvivenza e a cui, a 20 anni dall’inizio dell’era democratica per il Sudafrica, né la classe dirigente al governo né le multinazionali che operano in diversi settori, da quello agricolo a quello minerario, pare non abbiano la volontà di prestare orecchio» (ivi). Qui viene da chiedersi: la forma politico-istituzionale democratica del potere sociale che fa capo alle classi dominanti è forse in contraddizione con le ragioni dello Stato (capitalistico!) e del profitto? Posso sbagliarmi, ma almeno due secoli di prassi sociale nei Paesi democratici suggeriscono una risposta negativa a questa domanda, peraltro formulata in modo assai suggestivo per indicare che è la realtà stessa che ci mette in bocca le parole che dànno sostanza alla verità. Si tratta di imparare a riconoscere la dura grammatica del Dominio, e a esprimerla senza edulcorarne il contenuto con zollette ideologiche (del tipo: tolleranza multirazziale, potere popolare, patto sociale, bene comune, ecc.) che confortano la nostra paura di dover compiere scelte che ci appaiono troppo azzardate. Ma se non conquistiamo quella capacità, ci esponiamo impotenti al diktat delle “scelte obbligate”.

Non la teoria critica – non solo – ma appunto la secolare prassi sociale dei Paesi occidentali capitalisticamente più avanzati ha dimostrato come la forma democratica del potere politico sia quella più rispondente agli interessi delle classi dominanti nel contesto di società altamente strutturate, stratificate e complesse. Solo in tempi eccezionali la difesa dello status quo può implicare la sospensione del cosiddetto gioco democratico, salvo ripristinarlo a crisi sociale superata, magari sostituendo il vecchio personale politico ormai inservibile con quello nuovo.

D’altra parte, l’alternanza di carota e bastone, di lusinghe e minacce, di violenza potenziale e violenza dispiegata da sempre caratterizza l’essenza della politica democratica. Decisivo nell’epoca della sussunzione totalitaria e planetaria degli individui al Capitale è il concetto di violenza sistemica, che ci tiene dentro la coazione a ripetere del Dominio senza l’ausilio di corposi strumenti coercitivi, ma piuttosto in virtù del “normale corso degli eventi”. Inutile dire che quando la situazione lo imponga, gli evocati corposi strumenti coercitivi fanno il loro macabro ingresso sulla scena, accompagnati dal piagnisteo progressista sulla “democrazia tradita”. «Un massacro da tempi di regime e da stato di polizia che ricorda tanto quello di Sharpeville del 1960», come scrive Plantera sempre a proposito dei fatti di Marikana, è insomma tutt’altro che inconcepibile in regime democratico. Marikana è un monito per il proletariato di tutto il mondo.

sudafrica1612Sono andato, come si dice, fuori tema? Può darsi. In realtà volevo solo esprimere tutto il mio disprezzo per le sirene democratiche che stanno cercando di convincere i minatori sudafricani a scendere a più miti consigli, a non mettersi su un terreno di scontro che potrebbe portare il Paese indietro di decenni, ad accettare la logica del compromesso per non compromettere le conquiste politiche e sociali ottenute negli ultimi vent’anni, a non dimenticare la grande lezione di Nelson Mandela – eroe della Patria «che è di tutti: neri e bianchi, poveri e ricchi», e non certo simbolo della lotta di classe anticapitalistica. Volevo solo solidarizzare con i combattivi lavoratori sudafricani, i quali hanno forse qualcosa da insegnare ai loro fratelli di sventura sfruttati nelle vecchie democrazie occidentali – e, beninteso, nelle meno avvizzite «democrazie popolari», magari «con caratteristiche cinesi».

Annunciando la propria candidatura per Democratic Alliance («il partito dei bianchi») alle presidenziali di aprile, Mamphela Ramphele, la compagna del fondatore del Black Consciousness Movement Steve Biko (massacrato in cella dalla polizia nel 1977), ha dichiarato: «Credo che questa decisione sia nell’interesse del Sudafrica, mentre ci dirigiamo in acque turbolente». Nell’interesse del Sudafrica, ossia degli interessi capitalistici nazionali e sovranazionali (il Capitale non ha nazione!), è cosa certa; rimane da capire in che senso il Paese africano si dirige in «acque turbolente». Aspettarsi un nuovo democratico e multirazziale massacro di lavoratori, per piegarne «l’irresponsabile e antipatriottica» combattività, non è certo fuori luogo.

Per Franco Arato, professore dell’Università di Torino, Mandela è stato il protagonista della democratizzazione del Sudafrica. Tuttavia, «Il malcontento della popolazione, in particolare dei giovani è molto forte. Per evitare il radicalizzarsi di tale sentimento le nuove generazioni dovranno continuare a seguire l’esempio senza tempo di Madiba» (Limes, 15 dicembre 2013). Io spero invece che il proletariato sudafricano archivi in fretta la pratica Mandela, tutta interna al tempo del dominio capitalistico, per aprirne una nuova, interamente dedicata alla lotta di classe contro il Capitale (nazionale, internazionale, “bianco”, “nero”, democratico, autoritario), la sola lotta che può generare, in Sudafrica e ovunque nel mondo, il tempo della liberazione. A ben considerare, è il rapporto sociale capitalistico il vero regime di apartheid che ci tiene segregati in una dimensione che si fa sempre più disumana.

L’AFRICA SOTTO IL CELESTE IMPERIALISMO

china-africaChris Mathlako, «segretario delle Relazioni Internazionali del Partito Comunista Sudafricano», tenta l’impossibile: smentire la natura schiettamente imperialistica della penetrazione economica cinese nel continente africano. Possibile? Vedete voi: «L’impegno della Repubblica Popolare Cinese nel continente e con il continente non è “imperialista” né una minaccia agli interessi dell’Africa, al contrario di come invece alcuni commentatori dei media occidentali e di altre regioni [nonché alcuni prezzolati dall’Imperialismo occidentale come il sottoscritto] vogliono farci credere. Pensiamo che tale relazione si confronti con alcune contraddizioni, che possono essere superate [trattasi evidentemente di “contraddizioni in seno al popolo”, per dirla con il Grande Timoniere], o viste come elementi potenziali per realizzare l’aspirazione da tempo coltivata dall’Africa di restituire l’indipendenza autentica alla maggioranza della sua popolazione. E ciò potrebbe contribuire a far uscire il continente dall’abisso, attraverso una relazione mutuamente benefica, basata sul rispetto, su valori condivisi che derivano dai legami storici che legano i popoli di queste aree» (La Cina è l’alternativa all’imperialismo, Marx XXI, 21 luglio 2013).

Il “comunista” sudafricano prende molto sul serio la propaganda cinese, spacciata per «filosofia cinese delle relazioni internazionali»: «La Cina definisce la sua politica estera “di pace, sviluppo e cooperazione, una politica indipendente in grado di gestire correttamente le relazioni internazionali, che si sta trasformando in un fattore sempre più importante per il progresso dell’umanità”». Se lo dice Pechino, occorre fidarsi. Tanto più che nella stessa Cina il «progresso dell’umanità» è palese. Faccio dell’ironia? Eppure volevo essere semplicemente sarcastico.

PrintEcco cosa pensa il nostro amico del «socialismo con caratteristiche cinesi»: «La polemica che oppone il socialismo cinese all’affermazione che il paese ha imboccato la strada della transizione capitalista, attraverso il “socialismo di mercato”, non sarà risolta a breve. Ma ciò richiede anche che prestiamo attenzione alle condizioni materiali congiunturali e che ne cogliamo il senso, il che ci aiuterà a comprendere la fase complessa che sta attraversando la Cina e il suo interagire con l’esterno». A mio modesto avviso il Paese ha imboccato, dopo la morte di Mao, la strada della transizione da una struttura capitalistica di un certo tipo, la quale, sebbene tra mille limiti e contraddizioni, ha assicurato alla Cina l’indipendenza nazionale, anche nei confronti della sempre più invadente Unione Sovietica, la coesione nazionale da sempre minata da forti spinte centrifughe, e un certo grado – assai basso, per la verità – di modernizzazione sistemica (come si vede, obiettivi schiettamente borghesi); a una struttura capitalistica di un tipo diverso, in grado di superare la perdurante crisi economico-sociale che minava le conquiste politiche del Paese, a cominciare dalla sua autonomia nei confronti delle potenze mondiali, e di affrontare quindi in modo adeguato le nuove sfide interne e internazionali.

Nessuna transizione, dunque, dal socialismo «con caratteristiche maoiste» al «socialismo di mercato» inaugurato da Deng Xiaoping nel 1978, come cianciano i filocinesi di derivazione maoista e terzomondista.

Al netto di un’ideologia che mutuava in forma più o meno originale il repertorio “marxista” (soprattutto nella sua versione sovietica), il maoismo rappresentò la via cinese all’accumulazione capitalistica in un Paese socialmente arretrato che aveva vissuto una lunga e dolorosa esperienza di sfruttamento coloniale e imperialistico. Cambiando quel che c’è da cambiare, è corretto dire che Mao riprese e cercò di implementare il programma rivoluzionario borghese di Sun Yat-sen.

Le sanguinose lotte tra “rossi” (maoisti) e “neri” (antimaoisti) che accompagnarono tutto il periodo maoista, e che nascevano sul terreno di interessi sociali e politici ben individuabili appena si fosse scrostata la – peraltro risibile – coloritura ideologica che li accompagnava, mostravano quanto difficile fosse il processo di sviluppo capitalistico, colto nella sua dimensione sistemica, nelle condizioni cinesi. D’altra parte, in nessuna parte del mondo quel processo ha avuto un andamento lineare, assolutamente prevedibile, privo di contraddizioni, senza parziali e contingenti arretramenti, e ciò tanto più in un mondo dominato da grandi potenze capitalistiche, com’era il mondo che ospitava la Cina di Mao e poi di Deng. I tragici eventi cinesi del giugno 1989 dimostrarono quanto complesso e costoso sul piano sociale fosse l’enorme processo di ristrutturazione capitalistica basato sulle «quattro modernizzazioni» di Deng.

Per questo personalmente non ho mai svolto una critica meramente ideologica del maoismo, il quale va appunto considerato, materialisticamente, come espressione di reali interessi di classe e di reali tendenze storiche e sociali di natura interna (accumulazione capitalistica, lotte interborghesi) e internazionale (collocazione geopolitica del Paese, contesa interimperialistica). Naturalmente non si può dimenticare di porre l’accento sulla stretta connessione “dialettica” tra questi due piani, testimoniata, ad esempio, nel momento in cui Mao ruppe con i “fratelli” russi, accusati di «socialimperialismo», con ciò che ne seguì in termini di furibonda lotta tra “rossi” (antisovietici) e “neri” (filosovietici).

Compreso tutto questo, bisogna lasciare agli azzeccagarbugli l’interpretazione autentica dei testi maoisti. Cosa che negli anni Sessanta e Settanta non compresero molti “marxisti” occidentali, i quali pensarono bene di opporre allo stalinismo, ormai infiacchito e in conclamata crisi di prestigio, il radicalismo borghese di Mao, il quale allora poteva ancora dire qualcosa di storicamente progressista (faccio riferimento sempre a compiti di natura borghese) ai popoli che lottavano per conquistare l’indipendenza nazionale e aspiravano alla modernizzazione capitalistica, l’unica via allora praticabile per uscire dal sottosviluppo e dalla fame più nera. Che molti Paesi del Terzo e Quarto mondo chiamassero «socialismo» quella modernizzazione, ebbene questo fa parte del maligno lascito dello stalinismo – e poi del maoismo.

Man walks past a poster promoting the upcoming China-Africa Summit in BeijingChi, come Mathlako, sostiene che «La Cina è un’alternativa di pace all’Imperialismo» mostra, tra l’altro, di non aver compreso la natura sociale dell’Imperialismo, il quale si radica in primo luogo sul terreno della “pacifica” contesa economica a tutto campo tra capitali per accaparrarsi mercati, materie prime, forza-lavoro a basso costo, occasioni profittevoli d’ogni genere.  Sotto questo aspetto, la penetrazione imperialistica (o semplicemente capitalistica) della Cina in Africa corrisponde al modello “ideale” di Imperialismo. E anche la modernizzazione capitalistica dell’Africa trainata dalla Cina non esce di un millimetro da quel modello, e piuttosto lo conferma in pieno, avendo il capitalismo cinese tutte le caratteristiche, anche storiche e geopolitiche, per svolgere con successo quella funzione. Naturalmente questo non può non preoccupare e irritare i capitalismi concorrenti, ad iniziare dagli Stati Uniti, che infatti hanno eletto la Cina come loro nemico strategico. Se si tiene conto che il giro commerciale cinese con l’Africa è pari a circa 170 miliardi di dollari, più del doppio di quello degli Stati Uniti, senza contare la fame di materie prime del colosso cinese, le preoccupazioni e le irritazioni degli imperialisti occidentali è ben giustificata.

Va da sé che quando francesi, inglesi e statunitensi accusano di «dumping etico» la Cina, la quale non rispetterebbe i «diritti inviolabili» dei lavoratori, degli individui e della natura, essi hanno la credibilità di Dracula quando denuncia di vampirismo le associazioni che lavorano per le “banche del sangue”.

2-final-bandeau-coltan-copieIl vero e proprio genocidio nell’Africa centro-occidentale provocato, in modo diretto e indiretto, dalla corsa delle multinazionali dell’elettronica europee e statunitensi per l’accaparramento delle cosiddette terre rare e dei semiconduttori, la dice lunga sulla buona coscienza della “civiltà occidentale”. È proprio vero: una telefonata allunga la vita. Quella del Capitalismo.

Ciò che allarma i Paesi concorrenti è soprattutto il cambio di strategia nel processo di penetrazione imperialistica implementato dalla Cina negli ultimi anni: «Accanto ai progetti di sfruttamento minerario ed energetico o di espansione dei collegamenti via terra per il trasporto di materie prime, ci sono anche centinaia di iniziative educative sanitarie e culturali realizzate nei vari Paesi con i capitali del Dragone. Tra questi, si possono ricordare: il finanziamento per un centro di prevenzione per la malaria in Liberia; la Scuola Nazionale di Arti Visive a Maputo, in Mozambico; la costruzione, non ancora ultimata, di un teatro dell’Opera con 1400 posti a sedere ad Algeri. Migliaia di insegnanti e medici cinesi sono stati inviati in Africa nel periodo coperto dalla ricerca. L’Africa è diventata uno dei principali laboratori dove la Cina mette all’opera il suo concetto di “soft power”» (E. Buzzetti, L’espansione del drago, Agi China 24). Siamo insomma dinanzi a una strategia di penetrazione capitalistica a tutto campo, che non lascia scoperta la sfera dell’egemonia “sovrastrutturale” – politica, ideologica, culturale, in una sola parola: sistemica. Una Potenza degna di questo nome, che ha visione strategica e ambizioni radicate in una reale capacità espansiva, non può basare la sua proiezione mondiale solo sulla forza della propria economia.

Mi vien da ridere quando leggo passi di questo tenore: «Secondo la leadership cinese, “nel secolo XXI, la Cina continuerà ad implementare la sua politica estera indipendente di pace con l’obiettivo di mantenere la pace mondiale e promuovere lo sviluppo comune e incoraggiare la cooperazione per costruire un mondo armonioso”». Non c’è dubbio, il Capitalismo mondiale del futuro sarà un mondo davvero «armonioso», e la Cina non potrà che esserne il centro, secondo una filosofia cinese vecchia di molti secoli. È ovvio che il “comunista” sudafricano rappresenta gli interessi del Capitale del suo Paese, e quelli della Cina, almeno in questa fase storica che vede questi due grandi Paesi in un’alleanza sinergica, per così dire, sul piano economico come su quello geopolitico. Domani si vedrà, e Chris Mathlako potrebbe scoprire nella Cina un «odioso Imperialismo, tale e quale a quello Occidentale». Dipende sempre dagli interessi capitalistici del Sudafrica, nella fattispecie. D’altra parte il nostro ammette che «Ci sono molti aspetti che si prestano a una relativa critica della presenza cinese in Africa», anche se aggiunge che tuttavia «gli aspetti positivi prevalgono nelle relazioni, in contrapposizione alle relazioni tra le metropoli occidentali e le loro ex colonie». Ma il futuro è incerto per definizione, tanto più nel «mondo armonioso» del Capitalismo.

Concludo citando un solo caso che si presta «a una relativa critica della presenza cinese in Africa». Giusto un anno fa i minatori di Collum, nello Zambia, scesi in sciopero per rivendicare salari meno miserabili e migliori condizioni di lavoro, scaraventarono un carrello da trasporto materiale contro il direttore dell’impianto, uccidendolo. Si trattava di un cinese. Qualche anno prima, sempre a Collum, guardiani cinesi al servizio del capitale del Celeste Capitalismo avevano aperto il fuoco contro gli scioperanti, ferendone alcuni. «Gli investimenti cinesi in Zambia, primo produttore mondiale di rame, sono stati pari a oltre un miliardo di dollari nel 2010. Nello stesso anno, due manager cinesi della stessa miniera erano stati indagati per tentato omicidio, per aver sparato contro i minatori che manifestavano, facendo 11 feriti (Il Mondo.it, 6 agosto 2012). Che Celeste Armonia!