SUL POTERE SOCIALE DELLA SCIENZA E DELLA TECNOLOGIA (II)

kazimir-malevicAlcune riflessioni intorno alla natura storico-sociale della scienza e della tecnologia, sul concetto di uso capitalistico delle macchine, sul “neoluddismo” e sulla possibilità di una scienza e di una tecnica pienamente – o semplicemente – umane.

Prolungate, le linee conducono
all’intreccio sociale (T. W. Adorno).

1.
I nuovi sistemi digitali di controllo del lavoro, come quelli basati sulla tecnologia messa a punto dalla Motorola, permettono di calcolare in tempo reale, e con la precisione caratteristica delle nuove tecnologie “intelligenti”, la produttività oraria di ogni lavoratore. La singola ora di lavoro viene “virtualmente” dilatata attraverso un numero discreto di operazioni standardizzate e monitorate da un piccolo tablet che il lavoratore indossa come fosse un braccialetto elettronico. Secondo dopo secondo il lavoratore riceve ordini e informazioni dal tablet, e in ogni momento sa se sta rispettando – al secondo! – la tabella di marcia; egli soprattutto sa che in base ai risultati ottenuti gli verranno assegnati o tolti dei punti. Il cronometro di Frederick Taylor, al confronto, fa sorridere quanto a efficacia e a disumanità. Non mi sorprenderei se a fine giornata il lavoratore odiasse a morte la “macchina intelligente” che lo controlla e lo incalza secondo dopo secondo. «Concepito per un utilizzo continuativo, il tablet Wi-Fi ET1, è predisposto con un accesso protetto da password e può essere condiviso tra più lavoratori in modo immediato. Ogni lavoratore potrà accedere alle sole applicazioni abilitate, secondo il livello di responsabilità. Il manager potrà quindi controllare l’utilizzo e garantire che la produttività sul lavoro non sia compromessa. Grazie a una tecnologia delle comunicazioni innovativa e all’avanguardia, Motorola Solutions è un leader a livello globale in grado di offrire ai propri clienti soluzioni che consentano loro di agire al meglio nei momenti più cruciali» (Comunicato stampa Motorola). E per un’impresa capitalistica il momento cruciale per eccellenza è, come insegna Marx, quello dedicato alla creazione di plusvalore. Anche di questo controllo totale sulla prestazione lavorativa tiene conto il concetto di sussunzione totalitaria del lavoro da parte del Capitale – che scrivo con la C maiuscola non solo per un vezzo stilistico, ma soprattutto per sottolinearne la sostanza sociale di potenza astrattamente disumana: il rapporto sociale impersonale si fa cosa mostruosa avente un nome preciso: Capitale, appunto.

La tecnologia è ovviamente qualcosa che noi stessi creiamo con la nostra testa e con le nostre mani; tuttavia noi non controlliamo i presupposti sociali che la generano, che la rendono possibile nelle concrete configurazioni che sperimentiamo in ogni aspetto della nostra vita, né siamo in grado di determinare con la nostra cosiddetta libera volontà i “risvolti sociali” della sua applicazione. In altri e brutali termini, noi siamo, per l’essenziale, impotenti dinanzi a una nostra stessa creazione. Alla fine, ciò che davvero decide della questione è il legittimo interesse di chi finanzia il processo tecnologico e lo usa in vista del profitto e del controllo sociale. Naturalmente parlo di una legittimità che ai capitalisti deriva dalla vigente situazione storico-sociale, e non, o non solo, da un astratto diritto.

Il discorso di chi invoca maggiore “responsabilità sociale”, individuale e collettiva, nell’uso della tecnologia sorvola su questo decisivo aspetto del problema, e quindi esso ha il valore di una ideologia di vile conio che ha solo il merito, per così dire, di rendere manifesta l’impotenza sociale che come una maledizione colpisce l’intera umanità, sebbene in modi diversi in base alla classe sociale di appartenenza di ognuno di noi.

Per il filosofo di fama internazionale Remo Bodei, «Il mercato, come si può vedere, è da tempo diventato una potenza autonoma». Appunto, «da tempo», da moltissimo tempo, mi permetto di precisare, visto che Marx ne parlava già ai tempi dei suoi Manoscritti economico-filosofici. Quanto al «tramonto della democrazia rappresentativa», e al rischio di trovarci tra i piedi, dopo la stagione del “populismo”, «un tipetto come Goebbels», che Bodei paventa e denuncia, dal mio punto di vista occorre piuttosto, per un verso demistificare la natura di classe della «democrazia rappresentativa», la quale non ha scalfito, né avrebbe potuto farlo, la dittatura degli interessi che fanno capo alle classi dominanti, né poteva imbrigliare in qualche modo il carattere totalitario del Capitale; e per altro verso più che puntare i riflettori sui leader populisti e sui «tipetti» alla Goebbels pronti a scendere in campo, si tratta di illuminare criticamente la genesi sociale del materiale umano che rende possibile il successo di quei leader e di quei «tipetti». Sotto questo aspetto occorre dire che anche la «democrazia rappresentativa» (1) ha dato e continua a dare il suo grande contributo alla massificazione degli individui. È la prassi sociale nel suo complesso che atomizza e massifica gli individui, facendo di essi un gregge pronto a eseguire gli ordini impartiti dal Pastore di turno. È questo che accade quando gli uomini non controllano i processi decisivi che rendono possibile la loro stessa esistenza. Sotto questo riguardo non si può non rimarcare il fallimento cui è andato incontro il pensiero razionale, a cominciare da quello scientifico, il quale nel momento genetico della società borghese promise di liberare l’uomo una volta per sempre da ogni sorta di pregiudizio e di superstizione, dalla millenaria condizione di minorità intellettuale e psicologica nei confronti di un mondo che i più non riuscivano a comprendere. La fuoriuscita dell’uomo dalla condizione di minorità di cui egli stesso è l’artefice: in questo, secondo Kant, si compendia il significato ultimo dell’illuminismo. Ebbene, la dialettica sociale che ha reso possibile l’epoca dei lumi ha poi portato il pensiero razionale a servire quelle potenze sociali che fanno della libera volontà degli uomini una frase vuota, un simulacro che cela una condizione di “minorità antropologica” che per certi e fondamentali aspetti è ancora più gravosa di quanto non lo fosse quella vissuta dagli individui nelle società precapitalistiche.

2.
Trovo tracce di questa pessima condizione anche nell’articolo di John Jost, co-Director del Center for Social and Political Behavior della New York University, pubblicato dal Sole 24 Ore del 14 gennaio e intitolato, assai significativamente, Cervelli di destra e di sinistra. La tesi esposta nell’articolo è, nella sua stupidità, abbastanza semplice: la distinzione politologica tra destra e sinistra può avere anche una spiegazione di natura neurologica: «Molti si sorprendono che possano esistere anche correlati neurofisiologici dell’ideologia politica. In un esperimento che abbiamo condotto con i miei colleghi, sono stati collocati degli elettrodi di registrazione sul capo di soggetti politicamente di destra o di sinistra, in modo da potere registrare specifiche onde cerebrali (Event-Related Potentials) mentre questi eseguivano un compito al computer, specificamente studiato per indurli a sviluppare uno schema di risposta dominante (vale a dire, abituale)». L’esperimento ha evidenziato, secondo lo scienziato sociale, l’esistenza di «differenze nel pattern di attivazione cerebrale e queste differenze erano localizzate nella corteccia cingolata anteriore, una parte del cervello preposta a cogliere e risolvere conflitti cognitivi. Nel loro insieme, questi risultati suggeriscono la stuzzicante possibilità che le differenze fra le ideologie destra-sinistra sono, tra altre cose, anche manifestazioni di processi psicologici (e neuronali) fondamentali che appartengono all’ambito dell’elaborazione dell’incertezza. […] Potrebbe darsi sia che le differenze osservate nell’attività e nelle strutture cerebrali contribuiscano all’emergere di ideologie diverse ma anche che sia l’adottare una specifica ideologia a produrre, nel tempo, tali differenze di struttura e funzione cerebrali. Nelle neuroscienze politiche questo è ancora una specie di dilemma dell’uovo e della gallina». In ogni caso, conclude Jost, l’aspetto neurologico dell’orientamento ideologico non va sottovalutato da chi intende reagire «alle minacce al buon funzionamento dei sistemi democratici che derivano dalla natura umana». Per quanto stupida possa apparire, non va nemmeno sottovalutata la tentazione delle neuroscienze a spiegare tutto (dalla religione al libero arbitrio, dall’amore all’odio, dall’arte alla filosofia, dall’infelicità alla felicità, dalla politica alla… lotta di classe?) in termini di processi biochimici e di scambi di informazioni fra neuroni.

La natura totalitaria del “sociale” in questa epoca storica si coglie anche nel tentativo praticato dalla scienza di ricondurre ogni manifestazione della vita umana alla sua base organica, al suo sostrato biologico, in modo da trovare un rimedio farmacologico praticamente per tutte le “problematiche” esistenziali. La mitica pillola della felicità pare sia dietro l’angolo, bisogna solo aver pazienza, e nel frattempo sopravvivere come meglio si può. Pure di prossima produzione sembra essere la pillola che cancella i cattivi ricordi, sviluppata in ambito militare dai soliti americani, preoccupati dai contraccolpi emotivi che le loro guerre «umanitarie» hanno sul morale degli ex soldati. La chimica ci salverà! Ovvero: chi ci salverà dalla chimica? Già sento l’obiezione dello Spettro di Treviri: «Ma il problema è poi la chimica?».

Ecco un altro esempio di come l’impotenza sociale e concettuale di cui parlo può esprimersi ai più alti livelli della nostra cultura: «La scienza», sosteneva il Nobel per la fisica Richard Feynman, «non ha uno scopo, diversamente dalla ricerca ingegneristica. I nostri maggiori progressi si devono a scienziati che non puntavano all’utilità ma al divertimento, alla curiosità, al desiderio di capire» (2). Tutte umanissime aspirazioni che il Capitale ha imparato a sfruttare al meglio. Come disse una volta Adorno, «prolungate, le linee conducono all’intreccio sociale», e «l’intreccio sociale» diventa sempre più ostile all’uomo, o meglio, a ciò che ne residua.

I cosiddetti “neoluddisti” accusano le persone che usano acriticamente e con entusiasmo le “tecnologie intelligenti” di essere «schiavi della tecnologia», ricevendone in cambio l’accusa di essere «dei perdenti» che non riescono a tenere il passo delle innovazioni; in realtà siamo tutti schiavi del rapporto sociale capitalistico, schiavi dell’economia orientata con assoluta – vitale – necessità al profitto, e in questo senso siamo tutti, “passatisti” e “servi sciocchi” della tecnologia, dei perdenti. Approcciare il problema in termini di “uso e consumo responsabile delle tecnologie” versus “cretinismo tecnologico” non ci fa compiere un solo passo nella giusta direzione. Dirimente è, sotto questo aspetto, cogliere la sostanza sociale della tecnoscienza, il suo essere Capitale all’ennesima potenza, e non qualcosa che quest’ultimo domina giungendo dall’esterno, impedendole una libertà di iniziativa che altrimenti essa avrebbe. Nulla è esterno al Moloch, nemmeno il corpo (soma, mente e psiche) ad alta composizione organica degli individui che hanno la ventura di vivere in questi tecnologici tempi. Come scrive Thomas L. Friedman nel suo ultimo e “rassicurante” saggio (Thank you for being late), «I tempi di reazione dell’umanità sono più rapidi: ci vogliono ora solo 10-15 anni per abituarci al tipo di cambiamenti tecnologici che un tempo venivano assorbiti nel corso di un paio di generazioni». Cosa deve avvenire nel corpo umano, sempre concepito nella sua totalità psicosomatica, per rendere possibile questa accelerazione nel processo di adattamento ai mutamenti tecnologici? E poi, chi non dovesse farcela ad adattarsi? Qui corre in aiuto Darwin: «Sono affari suoi!». Ovvero: «È la selezione sociale per adattamento, bellezza!». Comunque sia, Friedman scrive che in futuro «tutto andrà meglio»; peccato che lo dicesse anche nel 1999, nel suo peraltro interessante libro Le radici del futuro, salvo esternare pentimenti e autocritiche dopo il fatidico 2008, non appena la Grande Crisi iniziò a lasciare sul terreno morti e feriti chiudendo la stagione della “globalizzazione felice” – per i vincenti . Ma il celebre giornalista del New York Times è un inguaribile ottimista, nonostante «Le tre forze più potenti in atto nel pianeta – il mercato, Madre Natura, e la Legge di Moore (3) – stanno aumentando tutte, davvero in fretta, e tutte contemporaneamente». Sarebbe inutile spiegargli che la forza più potente in atto nel pianeta si chiama Capitale. D’altra parte chi scrive non è in grado di convincere chicchessia, figuriamoci un luminare della Scienza Sociale!

Scriveva Antoine E. Buret nel suo Corso di economia politica del 1842: «La miseria viene non tanto dagli uomini, quanto dalla potenza delle cose». Marx poi “scoprì” che la «potenza delle cose» non è in realtà che la potenza del Capitale. Insomma, più che sull’Internet delle cose sarebbe più interessante, e certamente assai più rivoluzionario, riflettere intorno all’uomo ridotto e trattato come cosa, come preziosa risorsa economica tanto sul versante della produzione (uomo-lavoratore, «capitale umano»), quanto da quello del consumo (uomo-consumatore).

Per il Capitale il mondo non è rotondo, come pensavano molti anticapitalisti del XIX secolo e della prima metà del XX, i quali confidavano nella fine del capitalismo una volta che esso si fosse impadronito dell’intero pianeta (4); per il Moloch che ci domina il mondo ha la forma e le dimensioni della sua inappagabile sete di profitti. Il Capitale produce continuamente, sempre di nuovo, il suo mondo, un mondo dai contorni potenzialmente illimitati, e i cui confini non vanno considerati in termini fisico-spaziali, ma squisitamente sociali (direi esistenziali, anche per civettare con la filosofia); e qui alludo anche ai meccanismi che informano il processo di accumulazione, i quali determinano, in ultima analisi, i periodi di espansione e i periodi di crisi, con ciò che ne segue sul terreno delle contraddizioni sociali. La tecnoscienza, che all’occhio comune appare socialmente neutra (salvo quando espelle capacità lavorativa dalle imprese e dagli uffici), è lo strumento che più di ogni altro rende possibile la creazione di “nuovo mondo”, ossia dello spazio di profittabilità per l’investimento capitalistico.

È cosa arcinota: più un’impresa di qualsiasi genere o un Paese investono in ricerca scientifica (teorica e applicata), e più essi si avvantaggiano nella competizione capitalistica con le altre imprese o con gli altri Paesi. Come già detto, in questo senso preciso è fondato parlare oggi di una scienza capitalistica: tutte le scoperte scientifiche e tutte le applicazioni tecnologiche di esse 1. sono rese possibili dal vigente regime sociale e 2. lo rafforzano sul piano economico, politico, militare e ideologico. Tutto questo, ovviamente e come abbiamo visto nel caso di Richard Feynman, alle spalle della coscienza che i singoli scienziati hanno della loro funzione sociale: è chiaro che essi credono, in ottima fede, di lavorare «per il bene dell’umanità». La tesi che sostiene il carattere essenzialmente neutrale, sul terreno del conflitto di classe, della ricerca scientifica è una mistificazione ideologica che la teoria critica della società ha sempre cercato di mettere a nudo.

Scrive Marco Minghetti sul Sole 24 Ore: «I tecnoentusiasti rivoluzionari sono il contraltare dei neoluddisti reazionari. Fra i due tipi umani tuttavia ritengo i secondi di gran lunga più pericolosi, perché unicamente regressivi e distruttivi, oltreché espressione di un establishment ultraconservatore: i primi al massimo sono ingenui, anche se non va mai dimenticato che i confini fra utopia immaginata e distopia reale sono spesso labili. Ed è proprio qui che i neoluddisti sono abilissimi: nel dare vita ai fantasmi collegati a minacce (che, sia chiaro, lo ripeto, certamente hanno un fondamento) di un futuro distopico in cui Internet diviene di volta in volta il contraltare contemporaneo del Grande Fratello orwelliano; del Vaso di Pandora fonte di calamità e catastrofi; del Peccato Capitale e di tutti i Vizi e le Perversioni;  di ogni genere di Follia, dalla Depressione alla Schizofrenia passando per le forme più smodate di Narcisismo». A mio modesto avviso, il «Peccato Capitale» si chiama Capitale, e non è affatto un Peccato, né la fonte «di tutti i Vizi e le Perversioni»: si tratta piuttosto di un “semplice” rapporto sociale, il quale sta a fondamento della situazione calamitosa e catastrofica che ci tocca vivere. Ma questa è un mia personalissima opinione, che naturalmente non può trovare alcun consenso da parte di chi propugna l’idea – l’ideologia – di un Capitalismo economicamente ed eticamente sostenibile/responsabile.

Leggo su un quotidiano (Il Tirreno): «Le lamentele sui computer e la tecnologia in genere oggi sono molto comuni, il che naturalmente non è lo stesso di una resistenza politica organizzata. A organizzarsi in qualche caso sono intellettuali ed esperti, però. Come Noam Chomsky, Steve Wozniak e Stephen Hawking, firmatari di una recente lettera sui pericoli dell’intelligenza artificiale. Neo-luddismo? Quando pensatori di formazione così diversa concordano faremmo bene ad ascoltarli. Credo che ci siano reali preoccupazioni nel lungo termine, e ciò che chiedono è che ci sia una partecipazione meditata e un consenso sociale sui nostri valori collettivi, di esseri umani. Si giunge così a uno dei miei punti: la tecnologia non è una qualche forza malevola esterna a noi stessi, a cui dobbiamo cedere responsabilità e controllo. È ciò che ne facciamo, ed è modellata dalle istituzioni e dalle relazioni di potere che noi creiamo. Ciò di cui abbiamo bisogno è più responsabilità, più partecipazione, più processi decisionali etici – non “meno tecnologia”». Per me si tratta invece di riflettere non solo sull’uso (capitalistico) della tecnologia, ma sulla sua stessa natura sociale, e ciò in intimo rapporto con le «relazioni di potere che noi creiamo».

In diversi scritti dedicati alla concezione feticistica della tecnologia ho cercato di affermare, seguendo come mi è possibile le buone orme di Marx, che quando analizziamo le più recenti rivoluzioni tecno-scientifiche non dobbiamo mai dimenticare la natura capitalistica di tali rivoluzioni: è infatti il Capitale che le rende possibili per soddisfare una sua vitale necessità (creare plusvalore), e dunque esso le promuove con cieca determinazione, senza cioè badare in anticipo ai possibili “risvolti negativi”. So bene che esprimendomi in questo modo mi espongo alla critica di chi potrebbe individuare nelle mie parole una personalizzazione (il Capitale che agisce secondo sue esigenze e secondo una sua razionalità, una sua intelligenza) di relazioni sociali impersonali e di una serie quasi infinita di prassi economiche; in realtà cerco solo di sintetizzare una lunga “filiera” di concetti che non afferiscono al solo momento economico. In ogni caso la metafora del Moloch, della Cosa (di questo mondo!), della marxiana potenza sociale che domina uomini e cose, va considerata, a mio avviso, più che adeguata a esprimere il risultato finale (che nessuno ha il potere di predeterminare razionalmente) di una complessa dialettica sociale. Chiamo Capitale le «relazioni di potere che noi creiamo».

Ebbene, criticando le insulse fantasticherie di chi paventa il dominio dell’Intelligenza Artificiale sull’uomo, come se essa non fosse Capitale alla più alta «composizione organica», Capitale all’ennesima potenza, ho inteso dire che non sono le macchine intelligenti che ci hanno dichiarato guerra (che ci rendono più produttivi, che ci rendono obsoleti, che ci controllano ovunque e comunque, ecc.), ma che sono piuttosto i rapporti sociali capitalistici che ormai da due secoli (anno più, anno meno) hanno dichiarato guerra all’umanità e alla natura.

Insomma, ai miei occhi «tecnoentusiasti rivoluzionari», «neoluddisti reazionari» e «progressisti responsabili e pragmatici» esprimono in modo diverso un’identica impotenza sociale e concettuale, proprio perché non afferrano con il pensiero la sostanza storico-sociale dei problemi posti all’umanità dalla tecnoscienza del XXI secolo.

3.
Fin qui ci siamo mossi sul terreno concettuale rubricabile come uso capitalistico delle macchine; si tratta adesso di fare un passo in avanti e di chiederci se ha senso parlare di un uso umano della tecnologia. La mia risposta è positiva; si tratta allora di capire di quale tecnologia si tratta: intendo forse alludere a un uso umano della tecnologia prodotta in regime capitalistico?

Intanto chiariamo cosa intendo per uso umano della tecnologia, e in generale della tecnoscienza. A mio avviso, e come ho già sostenuto nella prima parte di questo scritto, è umana, in un’accezione non banale e iperinflazionata dell’aggettivo, la Comunità che non conosce nessuna forma di divisione classista degli individui, nessuna divisione sociale del lavoro (almeno nella forma conosciuta nelle società classiste che si sono fin qui succedute), nessuna forma di coazione – economica, politica, ideologica, psicologica. Naturalmente sto parlando di una società che si è lasciata abbondantemente alle spalle il Capitale in ogni sua espressione economico-sociale: denaro, merce, mercato, lavoro salariato. Ebbene, solo nel contesto di una simile dimensione esistenziale tutte le attività degli uomini acquistano una natura autenticamente umana, né potrebbe essere diversamente, perché così come non si dà vera vita umana nella falsa, per mutuare Adorno, non sono neanche concepibili prassi disumane in una Comunità che fosse realmente umana. L’umanizzazione dell’intera esistenza umana, a partire dalle attività che rendono possibile la stessa esistenza “materiale” – peraltro inscindibile da quella “spirituale” – degli individui, conferisce ovviamente piena essenza umana anche alla scienza e alla tecnica.  Ma di quale scienza e di quale tecnica sto parlando? Su questa domanda ritornerò tra un attimo.

Continua qui.

(1) Nel corso di un’intervista rilasciata a un programma televisivo (La gabbia, 11 gennaio 2017), Ernesto Galli della Loggia ha sostenuto che a causa della globalizzazione, delle migrazioni di massa, dell’ascesa degli ex Paesi in via di sviluppo (Cina e India in primis) e della disoccupazione creata dalle nuove tecnologie “intelligenti” in ogni settore economico (basti pensare ai licenziamenti in corso da anni nel sistema bancario americano ed europeo), l’Occidente deve al più presto escogitare un nuovo modello di democrazia rappresentativa. Infatti, il vecchio modello, reso possibile dal fatto che le élites potevano comprare il consenso delle masse attraverso la spesa pubblica, non è più praticabile alla fine del lungo ciclo che ha visto i Paesi occidentali – e il Giappone – detenere la fetta di gran lunga più grossa della ricchezza mondiale. La distruzione e la proletarizzazione del ceto medio in atto in Occidente è forse l’aspetto più eclatante e minaccioso del fenomeno appena accennato: corriamo il rischio, conclude il Nostro, che l’ondata di miseria sociale che viene da fuori, soprattutto dall’Africa, possa saldarsi con l’ondata di povertà che si alza dentro i nostri confini, a causa di una sperequazione sociale sempre più evidente. «L’Occidente deve ripensare la democrazia». Qui voglio sottolineare un solo punto della dichiarazione del celebre editorialista del Corriere della Sera, il quale la dice lunga sulla natura sociale della nostra democrazia: una volta le élites potevano comprare il consenso delle masse attraverso la spesa pubblica. Soprattutto il Mezzogiorno italiano sa qualcosa di questo virtuoso scambio.
(2) R. Feynman, Le battute memorabili di Feynman, Adelphi, 2017.
(3) Come postulano Andrew McAfee e Erik Brynjolfsson nel loro libro The Second Machine Age, la Legge di Moore – la teoria secondo la quale velocità e potenza dei microchip raddoppiano ogni due anni – sta accrescendo la potenza di software, computer e robot con tale inesorabilità che ormai essi sostituiscono un numero crescente di posti di lavoro tradizionali da colletti bianchi e blu, producendone di continuo di nuovi, che richiedono tutti competenze sempre superiori. La rapida crescita dell’anidride carbonica nella nostra atmosfera, il degrado ambientale e la deforestazione provocati dall’aumento della popolazione sulla Terra — l’unica casa che abbiamo — stanno destabilizzando ancora più rapidamente gli ecosistemi di Madre Natura» (La Repubblica, 12 novembre 2014). Come si vede, le tre potenti forze di cui parla Friedman hanno una sola disumana sostanza: quella capitalistica.
(4) «Ma la terra è rotonda, il mondo degli uomini è limitato. Il riconoscimento di questo fatto, che quattro secoli fa ha accompagnato fin dall’inizio lo sviluppo del capitalismo, ora sta suggellando la sua prossima fine» (A. Pannekoek, I consigli operai, 1946, in Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, p. 116, Feltrinelli, 1970). La concezione che pensava nei termini di un limite fisico (la dimensione geoeconomica del mercato mondiale) la fine del Capitalismo è stata clamorosamente smentita dal processo reale dell’accumulazione capitalistica. Henrik Grossmann ha dato un importante contributo alla critica di quella concezione – vedi soprattutto il suo lavoro del 1928 Il crollo del capitalismo, Jaca Book, 1977.

ROBOTICA PROSSIMA VENTURA. LA TECNOSCIENZA DEL DOMINIO

Responsabile dello sviluppo fatale non è la razionalizzazione del mondo, ma l’irrazionalità di questa razionalizzazione. La tecnica possiede gli uomini non solo sul piano fisico, ma anche su quello spirituale. Come nella teoria economica si parla talvolta di un velo del denaro, così oggi si dovrebbe parlare del velo tecnico … Ma per rimediare a questo stato di cose non serve il ritorno alla cultura, che rimarrebbe comunque chimerico, bensì lo sforzo, sorretto dalla teoria, di porre la tecnica al servizio di fini realmente umani (Max Horkheimer, in Studi di filosofia della società).

alta composizione organicaRobert J. Gordon è da sempre un critico arcigno della New Economy, della quale ha messo in luce tutte le intrinseche debolezze ben prima che esplodessero le bolle speculative (vedi il crollo del Nasdaq nel 2000 e la successiva recessione) che si erano formate nel corso di quella prima ondata di «rivoluzione digitale» (1990-2000) che tanta euforia aveva generato soprattutto nel sistema finanziario statunitense, oltre che nella comunità scientifica anglosassone. L’economista della Northwestern University non solo mise in dubbio tutte le ottimistiche previsioni circa un illimitato e benefico progresso economico e sociale legato all’introduzione capillare della tecnologia digitale, ma attaccò il principale cavallo di battaglia della “filosofia” digitale: la crescita in progressione geometrica della produttività sistemica.

«Nel giugno 1999 Gordon pubblicò uno studio sugli aspetti specifici delle manipolazioni statistiche del governo [americano] dimostrando, cifre alla mano, che mentre l’industria stessa dei computer ha registrato un incremento di produttività notevole, “non c’è nessuna accelerazione della produttività nel 99% dell’economia al di fuori dei settori della produzione di hardware di computer”» (Solidarietà, anno VIII n. 2, giugno 2000). È quello che gli economisti critici della cosiddetta rivoluzione digitale chiamano il paradosso della produttività: «Gli effetti dell’epoca del computer si sentono dappertutto meno che nelle statistiche della produttività» (Robert Solov).

Non intendo qui entrare nel merito della questione, ma piuttosto introdurre questa riflessione di Paul Krugman: «Ci ho messo un po’ per elaborare l’ultimo e stimolante saggio di Bob Gordon dove si ipotizza che i giorni gloriosi della crescita economica sarebbero ormai alle nostre spalle. Non è molto diverso dalle cose che diceva prima, e in passato ho trovato molto convincenti le sue teorie. Oggi però mi sono convinto che il suo pessimismo tecnologico è sbagliato. (…) Gordon ipotizza poi che la terza rivoluzione industriale abbia ormai quasi del tutto esaurito la sua spinta propulsiva. È un bene che ci sia qualcuno che mette in discussione l’euforia tecnologica, ma ultimamente ho ragionato molto su questi argomenti e sono abbastanza convinto che Gordon si sbaglia: la rivoluzione tecnologica informatica ha appena cominciato a far sentire i suoi effetti» (Dai robot una nuova rivoluzione industriale, Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2013).

Krugman è convinto che la tesi del rendimento decrescente dei progressi tecnologici, di fatto sostenuta da Gordon, sia contraddetta dalla rivoluzione tecnologico-scientifica centrata sullo sviluppo di robot sempre più intelligenti, in grado di sostituire l’uomo in attività che oggi sono di suo esclusivo dominio. L’economista americano non esclude nemmeno esiti piuttosto infausti legati allo sviluppo di queste sempre più “intelligenti” tecnologie: «Alla fine la Skynet, quella di Terminator, deciderà di farci fuori tutti, ma questa è un’altra storia. In ogni caso sono argomenti di discussione interessanti». Talmente interessanti da indurmi a scrivere “di getto” la riflessione che segue, non più che appunti di lettura che riprendono temi che ho già trattato su questo blog e che mi piacerebbe riprendere e sviscerare meglio.

ninfa«”Risparmiate il braccio che fa girare la macina, o mugnaie e dormite tranquille! Che invano il gallo vi annunci il levarsi del giorno! Dao ha imposto alle ninfe il lavoro delle schiave ed ora eccole che saltellano allegramente sulla ruota ed ecco che l’asse messo in moto gira con i suoi raggi, facendo muovere la pesante pietra girevole. Viviamo la vita dei nostri padri ed oziosi godiamo dei doni che la dea ci concede”. Ahimé! gli ozi che il poeta pagano annunciava non sono venuti; la passione cieca, perversa ed omicida del lavoro trasforma la macchina lavoratrice in strumento di asservimento degli uomini liberi: la sua produttività li impoverisce» (Paul Lafargue, Il diritto alla pigrizia, 1883).

I modi di produzione precapitalistici erano tecnologicamente asfittici soprattutto perché i rapporti sociali fondati sullo sfruttamento del lavoro schiavistico e servile rendevano di fatto inutile l’impiego nel processo lavorativo di macchine in grado di aumentare la produttività del lavoro, magari attraverso un suo risparmio. Lo sfruttamento intensivo della forza-lavoro si dava quindi necessariamente come un suo sfruttamento assoluto, fino all’esaurimento fisiologico della stessa risorsa “umana”. Quando questa risorsa si faceva scarsa, e non era possibile aumentarla nel breve termine, ad esempio attraverso una nuova caccia agli schiavi in territori “vergini” o militarmente assoggettati, lo Stato si vedeva costretto a legiferare intorno al buon uso degli schiavi e dei servi da parte delle classi dominanti, in modo che la preziosa risorsa non fosse impiegata “irrazionalmente” fino al suo completo esaurimento, cosa che a lungo termine avrebbe pregiudicato la stabilità dell’ordine sociale.

D’altra parte, anche la prima legislazione borghese sul lavoro non ebbe un significato diverso: il soggetto preposto alla continuità del dominio (lo Stato) si rese conto che senza una qualche regolamentazione legislativa, il prezioso «capitale umano» sfruttato a tutto vapore (è il caso di dirlo!) nel corso della prima rivoluzione industriale correva il rischio di esaurirsi abbastanza rapidamente, alla stregua di un giacimento minerario super sfruttato. Come disse Marx, lasciato al proprio istinto predatorio, il Capitale avrebbe spremuto fino all’ultima goccia il limone salariato senza dargli la possibilità di riprodursi e così continuare la triste razza dei nullatenenti. Sotto questo aspetto lo sviluppo del sindacalismo operaio sotto l’egida del diritto borghese ebbe anche questo preciso significato sociale che ben si armonizzava con gli interessi generali del dominio capitalistico.

Storicamente, il lavoro schiavistico e servile, l’abbondanza di capacità lavorativa e il suo basso prezzo hanno frenato, naturalmente sempre in termini relativi, il progresso tecnologico, proprio perché nelle società classiste questo progresso ha avuto come reale scopo lo sfruttamento del lavoro e il rafforzamento del dominio sociale dell’uomo sull’uomo, e non certo il benessere, la felicità e la libertà degli individui.

A differenza dei modi di produzione che l’hanno preceduto, il Capitalismo ha nella scienza e nella tecnologia due fondamentali strumenti di dominio e di sfruttamento. Qui lo sfruttamento intensivo del lavoro è realizzato appunto attraverso l’uso di macchinari capaci di esaltare la produttività oraria della forza-lavoro, ottenendo a parità di giornata lavorativa o addirittura con una giornata lavorativa più corta un maggiore plusvalore. Marx chiamò relativo questo plusvalore per distinguerlo da quello che il Capitale otteneva attraverso un prolungamento assoluto della giornata lavorativa, avendo come unico limite la fisiologia del corpo umano. La tecnologia consente invece di espandere, a parità di giornata lavorativa, il tempo durante il quale la capacità lavorativa produce il plusprodotto, ossia lo stock di prodotto che non trova alcun corrispettivo nel salario che il Capitale paga al lavoratore in cambio della sua prestazione. Per dirla marxianamente, la macchina (pensiamo ai moderni robot) consente di comprimere il tempo di lavoro necessario al lavoratore per produrre virtualmente i mezzi di sussistenza di cui ha bisogno per vivere (in realtà questi mezzi sono prodotti in altre fabbriche), e di allargare continuamente il tempo di lavoro non pagato dal Capitale. Rimane inteso che questa distinzione temporale, così ricca di significati filosofici, storici e sociali, e così pregna di conseguenze politiche (almeno in potenza!), ha un senso solo per chi desidera comprendere la radice del dominio sociale capitalistico per poterlo criticare sul piano della prassi e negare su quello della prassi, mentre non ne ha alcuno né per il Capitale né per l’economia politica che esso esprime.

Altissima composizione organica. Se Freud vuole...Aumentare la produttività sociale del lavoro significa, tra l’altro (e fondamentalmente), produrre in meno tempo i mezzi di sussistenza di cui sopra, ciò che realizza una svalorizzazione della merce-lavoro e la dialettica temporale di cui sopra. Forse non è inutile ricordare quanto sia preziosa la produzione di merci a basso costo made in China, e negli altri paradisi del capitalismo mondiale, nel quadro appena sommariamente schizzato. Quando ci occupiamo del processo di valorizzazione del Capitale di una fabbrica specifica, in realtà stiamo prendendo in considerazione non solo l’intera società di un singolo Paese, ma l’intero mondo, e non a caso Marx introdusse il fondamentale concetto di lavoro sociale medio o astratto, che è la chiave che apre al pensiero la comprensione del profitto, del denaro e dei «fantasmagorici» fenomeni che prendono corpo sul mercato, il luogo mistico per eccellenza. Risparmiare lavoro significa, nel Capitalismo, produrre più plusvalore (valore che eccede quello investito nella produzione) con un numero di lavoratori uguale o minore di prima, e la tendenza storica va proprio in direzione di questo virtuoso – per il Capitale, beninteso – risparmio che corrisponde a un aumento di produttività del lavoro. Questa tendenza incontra tuttavia due limiti, uno relativo, l’altro assoluto. Di che si tratta?

Il primo limite, quello relativo, prende corpo come “risvolto dialettico” dello stesso circolo virtuoso della produttività visto sopra. Infatti, è vero che concentrando tecnologia avanzata nel processo produttivo cresce la massa di plusvalore smunta alla vacca sacra salariata; ma è altrettanto vero che non sempre questa crescita riesce a controbilanciare la tendenza a cadere del saggio del profitto in grazia di un investimento sempre più cospicuo in termini appunto di tecnologia e di ricerca e sviluppo. Il saggio di sfruttamento della capacità lavorativa (in termini di valore è il rapporto tra profitti e salari) cresce senz’altro al crescere della composizione tecnologica del Capitale, ossia del rapporto tra macchina e lavoro vivo; ma questo saggio deve armonizzarsi col rendimento del capitale totale investito nella produzione, il quale trova espressione nel saggio del profitto, ossia nel rapporto tra il profitto e il capitale investito sia in lavoro vivo sia in lavoro morto – macchinari, materie prime, e così via. Capita sempre di nuovo la circostanza per cui la pur accresciuta massa di plusvalore si traduce in un saggio di profitto troppo piccolo per giustificare l’interesse del Capitale a continuare a investire. Non solo, ma si dà la possibilità che il saggio di accumulazione cresca al punto da drenare nel processo produttivo tutto o quasi tutto lo stock di profitti accantonati in precedenza.

Il processo di valorizzazione del Capitale entra in uno stato di sofferenza, che i funzionari del capitale cercano di superare ripristinando condizioni favorevoli all’investimento attraverso azioni idonee a mutare i rapporti tra lavoro vivo e lavoro morto. Ecco le opzioni possibili: licenziare il personale, comprime il livello dei salari, introdurre nuove macchine, razionalizzare il processo produttivo, cambiare l’organizzazione del lavoro e via di seguito. Naturalmente non è affatto detto che queste misure vengano prese tutte insieme. In generale, si tratta di agire sulle leve in grado di cambiare gli equilibri interni al processo di valorizzazione, per consentire al Capitale di ritrovare lo stretto sentiero della profittabilità. Ci si muove per tentativi successivi, confidando nell’esperienza e nella… buona sorte.

Quanto al limite assoluto della tendenza storica a sostituire lavoro vivo con lavoro morto attraverso tecnologie laborsaving, mi riferisco alla natura sociale della valorizzazione capitalistica, ossia al fatto che solo il lavoro vivo crea plusvalore, mentre il lavoro morto (o passato, ossia il lavoro cristallizzato nelle macchine, nelle materie prime ecc. “agite” dal lavoratore) non crea alcun plus di valore, e per il Capitale rappresenta un puro costo. La fabbrica totalmente robotizzata, del tutto netta di lavoro vivo, è concepibile sul piano scientifico e tecnologico, ma non su quello dei vigenti rapporti sociali, appunto perché lo sfruttamento della viva capacità lavorativa è la conditio sine qua non del Capitale, ne rappresenta la vitale quanto incresciosa necessità, della quale esso cerca continuamente di sbarazzarsi (ad esempio fuggendo nella finanza, dove appare possibile la miracolosa moltiplicazione della ricchezza sociale attraverso la mera circolazione di valori cartacei o elettronici), senza tuttavia riuscirvi mai. Semplicemente non può, dal momento che dallo “sfruttamento” dei robot non vien fuori alcun plus, analogamente alla moltiplicazione dei valori virtuali cartacei o elettronici. Certo, chi crede che sia possibile appiccicare, semplicemente e arbitrariamente, un x di profitto al prezzo di costo della merce può cullare l’utopia capitalistica di un lavoro produttivo condotto da sole macchine.

Com’è noto, presi nella morsa di scioperi “selvaggi”, suicidi in massa dei propri operai e, soprattutto, di una preoccupante crisi di profitti, la multinazionale Foxconn basata in Cina ha annunciato a fine 2011 la volontà di un massiccio impiego di robot nell’assemblaggio di iPhone e iPad. Secondo un esperto della fabbrica «seguendo la continua crescita della tecnologia robotica, il costo del robot potrà essere inferiore alla forza lavoro manuale dopo il 2014» (da Daily, 12 dicembre 2012). Qui scompare ogni distinzione qualitativa tra lavoro morto e lavoro vivo. Normale amministrazione, per così dire, e piuttosto sarebbe stato degno di nota il caso contrario!

foxconn-suicidio-apple-126384«Il sogno del Capitale – L’anno scorso il Ceo della Foxconn Terry Gou ha presentato un piano secondo il quale il numero degli attuali robot – 300 mila – arriverà a un milione entro il 2014. Il sogno che si avvera degli industriali alla ricerca del profitto, o semplicemente un’idea troppo ambiziosa che non ha alcun contatto con la realtà. Secondo una recente analisi del 21st Century Business Herrald, nel 2014 il costo del lavoro artificiale (prodotto cioè da macchine) sarà più basso di quello umano. Ed è quindi presumibile pensare che le intelligenze artificiali sbatteranno fuori dalla porta quelle umane. (…) Alla Foxconn non hanno fatto i conti con un altro problema. E se anche i robot si ribellassero?» (Marta serafini, Corriere della Sera.it, 27 settembre 2012). Qui davvero il feticismo tecnologico tocca vertici inarrivabili, a partire dalla ribellione dei robot. Il problema della Foxconn, tanto nel breve quanto nel lungo termine, non è la rivolta delle macchine, ma il saggio del profitto, il quale chiama in causa non lo “sfruttamento” delle «intelligenze artificiali» bensì lo sfruttamento sempre più intensivo (tecnologicamente avanzato) delle capacità lavorative. La suggestiva, e ormai inflazionata, idea della ribellione delle macchine forse vuole esorcizzare scenari sociali di altro genere…

Nel Capitalismo anche quello che allude alla possibile – e sempre più possibile – emancipazione dell’umanità da ogni forma di miseria e di sfruttamento ha la maligna predisposizione a congiurare contro questa stessa splendida promessa. Un esempio a suo modo “classico” ed emblematico: «Non è difficile prevedere un futuro in cui beni e servizi di ogni tipo vengano prodotti in quantità sufficiente per soddisfare i bisogni di tutta l’umanità, usando solo una frazione della manodopera disponibile sul pianeta. Questa possibilità è già stata dimostrata nel settore agricolo: è un dato di fatto che, oggi, negli Stati uniti sia occupato in agricoltura meno del 2,5% della forza lavoro; ma il potenziale, anche tecnologico, della produzione agricola americana supera di gran lunga il fabbisogno interno. Sfortunatamente, non avendo trovato un modo equo ed efficace per distribuire i frutti del successo dell’economia, gli Stati Uniti, come molti altri paesi del mondo, pagano gli agricoltori per non coltivare la terra o distruggere i raccolti» (Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso, 2000, Mondadori). La politica agricola comunitaria europea risponde in larga parte a questa logica capitalistica di sostegno dei prezzi agricoli, ossia dei profitti. Il Leviatano sussidia la distruzione di materie prime alimentari per assecondare il Moloch capitalistico, che è poi la sfortuna di cui parla il bravo sociologo americano.

A ben considerare, i concetti di razionalità e irrazionalità, riferiti alla società in generale e alla prassi economica in particolare, acquistano un nuovo e più profondo significato solo se penetrati dal pensiero critico-radicale, il solo che fa valere in ogni discorso i diritti della possibilità della liberazione (da condizioni sociali disumane, e quindi intrinsecamente irrazionali) sull’attualità del dominio.

Guardando il mondo da questa prospettiva si comprende bene come il problema del rapporto tra mezzi tecnologici e fini sociali non si esaurisca nell’uso capitalistico della tecnologia, e quindi della scienza, ma come esso investa necessariamente e assai in profondità la stessa prassi scientifico-tecnologica, la quale non può non fare i conti con l’assetto disumano/umano della comunità. Per dirla volgarmente, non esiste una tecno-scienza buona per tutte le stagioni, salvo metterla al servizio di certi obiettivi sociali piuttosto che di altri. Il processo storico-sociale attesta come praticamente nulla è socialmente neutro, e men che meno possono esserlo, socialmente neutre, la tecnica e la scienza, ossia le due pietre miliari della prassi sociale umana. La stagione dell’uomo inaugurerà una nuova scienza e una nuova tecnologia. Sarebbe ozioso, oltre che teoricamente sbagliato, azzardare ipotesi “concrete” a tal proposito, col rischio di immaginare il possibile futuro proiettandovi sopra la cattiva contingenza; fondamentale è, piuttosto, afferrare la concretezza e la straordinaria e dirompente portata politica del discorso intorno all’assetto umano della comunità. In ogni caso, questa è la mia… Agenda!

640px-Terminator_004«La produttività del capitale consiste innanzi tutto nella coercizione al plusvalore» (K. Marx, Il Capitale, libro primo capitolo sesto inedito, Newton, 1976). A mio avviso, se non si prende in considerazione il fatto che la produzione capitalistica si dà in primo luogo 1. come produzione di valore di scambio (valore con incorporato plusvalore), e non di puri e semplici “prodotti e servizi”, e 2. come «produzione e riproduzione del rapporto di produzione specificamente capitalistico», si smarrisce il filo conduttore che può guidarci nella complessa trama dei fenomeni economico-sociali senza correre continuamente il rischio di scivolare nel feticismo della merce, del denaro e della tecnologia: vedi, ad esempio, «la Skynet, quella di Terminator» immaginata da Krugman.