CONSIDERAZIONI – ABBASTANZA INATTUALI – SU ADORNO E SU ALTRO

chagall2La sofferenza incessante ha tanto
il diritto di esprimersi quanto il
martirizzato di urlare (T. W. Adorno).

Basterebbe allo spirito un piccolo
sforzo per liberarsi dal velo di
questa parvenza onnipotente e
pur nulla: ma questo sforzo
pare di tutti il più difficile
(M. Horkheimer, T. W. Adorno).

Attualità di Adorno: è questo il titolo che Sandro Dell’Orco ha voluto dare al suo interessante articolo scritto in occasione del «50° anniversario della pubblicazione di Dialettica negativa» (1966). Qui mi propongo di affrontare un solo aspetto, squisitamente storico-politico, dei problemi messi sul tappeto dall’autore, cioè a dire il rapporto tra Adorno (e la «teoria critica» in generale) e il cosiddetto «socialismo reale» (e la sinistra, più o meno “radicale”, in generale). Come il lettore può facilmente constatare, si tratta di temi che si sposano bene con il clima agostano, diciamo… Sul merito propriamente filosofico della Dialettica negativa mi piacerebbe scrivere qualcosa quanto prima. Si vedrà!

«Diciamolo subito», esordisce Dell’Orco, «Adorno è stato sostanzialmente dimenticato dalla cultura mondiale dall’anno della sua morte. Come il marxismo, a cui si ispirava, è stato spazzato via dai luoghi della cultura istituzionale e mediatica». A mio avviso, e provando a guardare la cosa anche dal punto di vista della «teoria critica» di Adorno e Horkheimer, il fatto denunciato da Dell’Orco per un verso mi appare scontato e necessario, e per altro verso mette a nudo una concezione, quella di Dell’Orco, che sembra avere poco a che fare con un pensiero autenticamente critico-radicale (“marxista” o “rivoluzionario” che dir si voglia), il quale vive, e può vivere, solo lontano «dai luoghi della cultura istituzionale e mediatica», ossia dai centri di elaborazione della cultura e dell’ideologia dominanti. Lontano e contro questi «luoghi». Il “marxismo positivo”, per parafrasare l’Hegel critico della «religione positiva» (ossia istituzionalizzata e canonizzata), equivale alla sclerotizzazione burocratica e alla morte del marxismo.

Mi rendo conto che l’intellettuale cresciuto sotto l’influenza dell’ideologia gramsciana debba pensarla diversamente da me. E infatti, il Nostro continua come segue: «Di fatto, a partire dagli anni ottanta e soprattutto dal 1989, il marxismo da teoria egemone nelle istituzioni culturali, politiche e sociali, diviene una teoria di nicchia, come ai suoi primordi; sociologicamente una sorta di riserva indiana in cui pochi e attempati superstiti o reduci, in attesa di scomparire, ripetono alla luna le loro verità». Ma non è sospetto un punto di vista che si presenta al mondo in guisa di prospettiva radicalmente rivoluzionaria e che poi si afferma come una «teoria egemone nelle istituzioni culturali, politiche e sociali» (borghesi)? La cosa appare quantomeno contraddittoria, almeno agli occhi di chi, come il sottoscritto, non ha mai dato alcun credito alla teoria gramsciana dell’egemonia, la quale ha ben servito il processo di distruzione dell’autonomia teorica e politica del movimento operaio, progressivamente neutralizzato e integrato nel “sistema”, per la felicità dei teorici della «democrazia progressiva» o «Terza via» che dir si voglia. Il fatto che una teoria rivoluzionaria (non solo a chiacchiere, com’è il caso di quelle teorie “radicali” che tanto piacciono agli intellettuali “radicali”) sia costretta a vivere in una dimensione «di nicchia», salvo rare eccezioni, è qualcosa che si spiega con la stessa natura di quella teoria, in considerazione del fatto, cioè, che l’ideologia dominante è quella che fa capo alle classi dominanti. È solo con il “marxismo” formato Seconda Internazionale e Terza Internazionale stalinizzata che si afferma nel cosiddetto Movimento operaio internazionale l’idea che la teoria e la parassi (Partito compreso) devono essere rigorosamente “di massa”, sempre e comunque, a prescindere cioè dal grado di maturazione politica delle mitizzate “masse”, dalla loro effettiva capacità antagonista, dal loro livello di autonomia nei confronti di tutte le fazioni capitalistiche (1). Un fondamentale problema, quello appena evocato (una teoria e una prassi rivoluzionarie possono sempre seguire una “linea di massa”?), che lo stalinismo internazionale avrà cura di rubricare come “sindrome settaria”; un’operazione ideologica, questa, tesa a denigrare e a calunniare i «falsi amici del proletariato» (cioè gli antistalinisti), e che ebbe nel partito “comunista” di Togliatti un esempio forse insuperato nel contesto dello stalinismo europeo.

Il paradosso narrato da Dell’Orco avrebbe un qualche senso qualora il mondo si fosse trovato, prima dei “maledetti” anni Ottanta (il decennio della “controrivoluzione neoliberista”), alle soglie della rivoluzione sociale, come peraltro egli sembra credere: «Adorno, marxista, si eclissa, come tutti gli altri autori marxisti (Lukács, Althusser, Gramsci, Lenin, ecc.) che risplendevano, magari offuscandosi a vicenda, all’orizzonte dell’imminente riscatto dell’umanità. Il neoliberismo non fa distinzioni, è totalitario, con un solo colpo di scopa spazza via Marx e tutti i marxismi. Non con la forza delle idee, naturalmente, ma con quella del denaro, con cui si compra governi, media e istituzioni culturali in ogni parte del pianeta». A un passo dall’Evento palingenetico, il totalitarismo neoliberista diede scacco matto a ogni forma di “marxismo”: Adorno perde e va in soffitta, Habermas vince e va al potere – nelle università, nei partiti “operai”, nei sindacati, nelle istituzioni “borghesi” genericamente intese. Che dire? Mi scuso con il lettore, ma io ho guardato un altro film, oppure mi son distratto un attimo, non saprei dire. Per tacere circa la congruità dell’accostamento che Dell’Orco propone tra Adorno e «gli altri autori marxisti (Lukács, Althusser, Gramsci, Lenin, ecc.)». Non nascondo anche una settaria curiosità sui nomi degli «altri autori marxisti» che l’autore incorpora nell’eccetera.

Insomma, io non ho visto alcuna rivoluzione sociale alle porte (soprattutto compulsando libri e riviste: non sono poi così vecchio!), e d’altra parte il riferimento di Dell’Orco al famigerato 1989 forse ci dice qualcosa sulla natura del presunto quanto «imminente riscatto dell’umanità» cui egli accenna. L’allusione è ovviamente alla crisi definitiva del cosiddetto «socialismo reale», almeno nella sua variante russa; modello politico-sociale che non solo non spaventava neanche un po’ l’«Occidente capitalista» (se non sul piano della competizione interimperialistica, ma questo è un altro discorso), ma piuttosto portava tantissima acqua al suo mulino propagandistico: «Proletari, vedete cosa vi aspetta nel tanto strombazzato socialismo? Il capitalismo non sarà forse il migliore dei mondi possibili, ma di certo il socialismo non vi offre una vita migliore». Beninteso, il falso socialismo di matrice stalinista/maoista di reale aveva soltanto la sua natura capitalistica, un fatto incomprensibile per chi assimila senz’altro il “socialismo” al capitalismo di Stato, un’idiozia dottrinaria che lo stesso Marx ebbe modo a suo tempo di criticare – bastonando ad esempio il «socialismo di Stato» di Lassalle. Ma su questo punto ritornerò tra poco.

A mio giudizio, chi sostiene che il «Socialismo reale» ha avuto almeno il grande merito di far pendere la bilancia dei rapporti di forza tra le classi a favore degli operai occidentali, mostra tutta la sua inconsistenza concettuale e politica, quantomeno come aspirante “rivoluzionario”. Se non si viene fuori dalla confortante – e reazionaria – mitologia del “Trentennio felice” (i tre decenni che seguirono la Seconda carneficina mondiale), la comprensione dell’attuale tragedia storico-sociale (rimanere sequestrati nella disumana dimensione del Dominio mentre la liberazione ci sorride da molto vicino) resta inaccessibile, se non per alcuni suoi aspetti superficiali e periferici, con quel che ne segue necessariamente – e “dialetticamente” – sul terreno dell’iniziativa politica.

Scrive Dell’Orco: «La generazione del sessantotto, che nel mondo occidentale s’infatuò di Adorno, se ne sbarazzò prestissimo – se non in senso fisico (come pure polemicamente suggeriva Beckett) certamente in senso intellettuale. I sessantottini desideravano agire immediatamente, passare all’azione, e chi li invitava a illuminare la propria prassi col pensiero, venne messo nella lista dei “nemici” e dimenticato. La fine che fece poi quella prassi cieca la si conosce, e Adorno che l’aveva ampiamente prevista e combattuta, invece di essere apprezzato, fu escluso dalla teoria rivoluzionaria della sinistra extraparlamentare ancor più radicalmente di quanto non lo fosse stato dalla cultura ufficiale. Insomma una sorta di cane morto che tutti respingevano. Da un lato come “revisionista” e dall’altro come “cattivo maestro”. Ricordo che già nei primi anni settanta il suo nome era impronunciabile nelle assemblee universitarie e nelle riunioni dei gruppi della sinistra radicale». Ma tutto questo non ci invita forse a mettere in discussione la natura “rivoluzionaria” della cosiddetta «teoria rivoluzionaria della sinistra extraparlamentare» e dei «gruppi della sinistra radicale» di allora? Inutile girarci intorno: dove dominano ideologie impregnate di stalinismo, di maoismo e di terzomondismo non è possibile la maturazione di un punto di vista autenticamente critico-rivoluzionario. Il disprezzo dei nipotini di Stalin e di Mao nei confronti di Adorno e Horkheimer si spiega dunque benissimo ed è perfettamente coerente con il loro modo di concepire il mondo. «Adorno, inflessibilmente, da illuminista tenace, non arretra di fronte alla paralizzante conclusione cui la teoria lo conduce. Non si lascia intimidire dalle accuse di disfattismo, di tradimento, di intellettualismo, che gli studenti – per non parlare dei partiti comunisti – gli lanciano. Né approda al riformismo, “che dal canto suo è complice nel favorire la continuazione della cattiva totalità” [Adorno, Parole chiave,]». La mia critica ai detrattori di Adorno va oltre, e sposa, per così dire, il motto secondo cui la miglior difesa consiste nell’attacco; essa, infatti, investe direttamente e alla radice la loro stessa natura politico-sociale, la quale, come già detto, non aveva nulla a che fare con il comunismo, né con quello “ideale” che si trova nei libri di Marx ed Engels, né con quello “reale” che sarebbe stato sperimentato in Russia e altrove, come invece sembra credere Dell’Orco.

Chagall67«Che fare? Qual è la prassi giusta per affrontare e cambiare tale assetto del mondo? La profondità a cui Adorno ha spinto l’analisi del capitalismo gli fa escludere il modello proposto dalle varie dittature del “socialismo reale” e dai partiti comunisti che vi si ispirano. Il problema infatti non è solo abolire il capitalismo, ma lo stesso comportamento istintuale egoistico, il bellum omnium contra omnes, che lo produce e da cui è continuamente riprodotto. L’abolizione meramente economica del capitalismo – come i paesi socialisti hanno dimostrato – non solo non produce automaticamente la fine della condizione di possibilità del dominio, ma è compatibile con la sua degenerazione più brutale e totalitaria». E qui ritorniamo alla vera natura sociale del cosiddetto «socialismo reale», la cui esistenza non dimostra affatto ciò che sostiene Dell’Orco, peraltro sulla scia di Adorno e della Scuola di Francoforte.

Scriveva G. D. H. Cole nel remoto anno di grazia 1961, in pieno boom economico postbellico: «La differenza fondamentale fra la civiltà occidentale moderna e tutte le altre civiltà che sono esistite in passato non è tanto che essa è dinamica mentre le altre erano statiche, perché la storia umana non è mai stata statica anche quando il ritmo delle trasformazioni tecnologiche era prossima a zero, quanto il fatto che le società industriali moderne hanno fatto del progresso, dell’ansia di cambiare, la loro seconda natura. […] L’uomo moderno è stato preso in un vortice immenso di sviluppo economico che finirà per inghiottirlo se egli non riuscirà a padroneggiare le forze che minacciano la società di distruzione» (2). Il concetto di società industriale moderna non coglie l’essenza della cosa: è il dominio sociale capitalistico, infatti, che ha fatto dello sviluppo economico un imperativo categorico e degli individui degli esseri sottoposti alla cieca brama di profitti.

«L’uomo moderno» non ha mai padroneggiato le forze sociali che pure lui realizza sempre di nuovo, soprattutto attraverso il lavoro, ma le ha piuttosto subite alla stregua di potenze estranee e ostili. L’individuo è già negato come uomo, e la società industriale moderna, ossia capitalistica, rappresenta questa negazione. Come altri intellettuali del suo tempo vittime del velo tecnologico che copre la natura di classe della merce, della tecno-scienza e del lavoro salariato, Cole usava il concetto di società industriale moderna per dar conto anche del processo sociale in atto nei Paesi cosiddetti socialisti, i quali, pur avendo «un sistema economico radicalmente diverso dal capitalismo», erano tuttavia segnati da contraddizioni sociali e da problemi esistenziali assai simili a quelli che si potevano osservare in Occidente, nei Paesi a capitalismo per così dire conclamato. Di qui, l’individuazione della causa di quelle contraddizioni e di quei problemi nel processo tecnico industriale, concepito in sé come “sviluppista”, alienante, reificante e via discorrendo. In realtà, e come già sostenuto, il «socialismo reale» (in Russia, in Cina, ovunque), lungi dall’essere «un sistema economico radicalmente diverso dal capitalismo» non era che un capitalismo di Stato (peraltro tutt’altro che “puro”!) a forte vocazione imperialistica, soprattutto sul versante “Sovietico”. Insisto su questo punto perché l’infondata interpretazione del «socialismo reale» è tutt’altro che estranea all’attuale impotenza sociale e politica delle classi dominate del pianeta, la cui speranza in un mondo a misura d’uomo è stata annichilita anche dalle diverse esperienze di “socialismo reale”.

Nel mio studio dedicato alla Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare) provo a chiarire le cause e la fenomenologia della controrivoluzione che annientò totalmente le ancora fragili, limitate e contraddittorie conquiste rivoluzionarie rese possibili dal «Grande Azzardo» architettato dal partito di Lenin.

L’ansia di cambiamento di cui parlava Cole è dunque in primo luogo l’ansia del capitale di intascare profitti, ed è precisamente questa brama che costringe la società capitalistica a continui e sempre più frequenti cambiamenti, non solo in economia, ma in ogni aspetto della prassi sociale, coinvolgendo in profondità la stessa sostanza psicosomatica degli individui. La dimensione del capitalismo oggi è il mondo e, insieme, il corpo stesso degli individui, una risorsa economica capitalisticamente davvero generosa, un mercato perfetto scandagliato e coltivato con ossessiva e maniacale cura dagli specialisti del marketing. La biopolitica pensata da Foucault si è col tempo radicalizzata proprio secondo le previsioni di A. Rüstow: «L’economia del corpo sociale organizzato secondo le regole dell’economia di mercato». La distinzione “ontologica” tra «corpo sociale» e corpo umano tende a evaporare sotto la pressione del “sociale”; ogni sogno notturno è una potenziale domanda rivolta al mercato, il quale è sempre pronto a soddisfare le richieste del cliente. «L’assurdità del capitalismo totalitario, la cui tecnica di soddisfazione dei bisogni rende quella soddisfazione impossibile, tende alla distruzione dell’umanità. […] Tutti questi sacrifici superflui sono necessari» (3).

Nell’ambito della Scuola di Francoforte, soprattutto Marcuse elaborò il concetto di «società industriale avanzata»; seguendo questa cattiva strada egli giun­se appunto ad assimilare il capitalismo occidentale con «le forme at­tuali di comunismo», dove l’errore evidentemente non stava in quella assimilazione, ma piuttosto nell’ac­creditamento “comunista” dei regimi “diversamente capitalisti” radicati in Russia, in Cina e altrove. Il concetto adorniano di «capitalismo totalitario», declinato in un’accezione squisitamente sociale, e non banalmente politologica (intesa cioè a cogliere solo la struttura sociale dei regimi totalitari: fascismo, nazismo, stalinismo), saturava completamente anche la realtà sociale dei Paesi cosiddetti socialisti. In ogni caso, oggi si può ben parlare di dominio totale e totalitario dei rapporti sociali capitalistici, anche in polemica con gli apologeti – attivi a “destra” come a “sinistra” – della «Civiltà occidentale», i cui “valori universali” per costoro sarebbero sottoposti agli attacchi di Paesi (come la Russia, la Cina e, in parte, la Turchia di Erdogan) e di entità politicamente “non convenzionali” (vedi il Califfato Nero) estranei al retaggio dello «Stato di diritto» e dei «diritti umani». Senza peraltro concedere nulla agli apologeti, altrettanto reazionari, dello Stato forte e sovranista, i quali hanno proprio nella Cina e nella Russia (e in generale nell’Asse antiamericano, come ai “bei tempi” della Guerra Fredda) il loro punto di riferimento geopolitico. Ma non divaghiamo!

Il rifiuto della prassi – o quantomeno la sua sospensione, in attesa di tempi più propizi – proclamato una volta da Adorno, va a mio avviso  considerato alla luce della tragedia sociale che lo vide protagonista, e che noi abbiamo ereditato. Solo così, penso, possiamo comprenderne il reale significato, coglierne l’autentica portata filosofica e politica, verificarne la vitalità/attualità. Per un verso la guerra mondiale, i campi di sterminio, il desiderio degli individui di lasciarsi rapidamente alle spalle le macerie materiali e “spirituali” della guerra, per ritornare quanto prima a «vivere normalmente», senza interrogarsi sulle profonde radici sociali che avevano generato quella catastrofe, e che promettevano di crearne altre, magari in un nuovo formato, in futuro. Per altro verso il cosiddetto “comunismo”, che non prometteva nulla di buono circa la liberazione dal Dominio: tutt’altro! Per quella che possiamo forse assimilare a una legittima difesa, Adorno e Horkheimer teorizzarono la sospensione della prassi nell’ambito della «teoria critica». Un errore concettuale, certo; ma quale «prassi» alternativa a quella democratico-riformista i due avevano allora dinanzi? È presto detto: quella ultrareazionaria dello stalinismo internazionale con le sue molteplici e spesso fantasiose variazioni nazionali. Prendendo congedo dalla «prassi» essi intesero dunque mettere al riparo la «teoria critica» dall’omologazione stalinista, e personalmente considero questa intenzione, questa sensibilità ideale e politica qualcosa di assai meritevole in sé e per sé, cosa che naturalmente non muta il giudizio che personalmente do alla loro interpretazione del «fenomeno-stalinismo», da Adorno e Horkheimer associato in qualche modo allo stesso pensiero marxiano.

Scriveva Adorno: «Per questa prassi – illiberale e antiumana – ha preso partito il materialismo arrivato al potere politico non meno del mondo che esso un tempo voleva mutare. Esso incatena ancora la coscienza invece di comprenderla e di mutarla a sua volta. Apparati terroristici dello stato si barricano, divenendo istituzioni stabili, dietro il potere frustro di una dittatura (ormai perdurante da cinquant’anni) del proletariato da tempo amministrato. […] Ciò che, nell’attesa della rivoluzione imminente, voleva liquidare la filosofia, era già allora rimasto dietro ad essa, impaziente con la sua pretesa. […] Il materialismo diventa ricaduta nella barbarie, che voleva impedire; lavorare contro questa tendenza è uno dei compiti meno indifferenti di una teoria critica» (4). Ora, nella misura in cui, per un verso il «materialismo storico» di Marx non aveva nulla a che spartire con il «materialismo dialettico» (il famigerato diamat) diventato l’ideologia di Stato dell’Unione Sovietica; e che per altro verso il cosiddetto «socialismo reale» era, e mi scuso se ripeto ossessivamente lo stesso concetto, un capitalismo (più o meno “di Stato”), quella posizione di Adorno ha un po’ il significato di gettare «il bagno col bambino dentro», per usare le sue stesse parole (vedi Minima moralia). Più esattamente: il bambino di Treviri non c’entrava niente con il bagno sporco della barbarie stalinista. Ecco perché il mio inveterato antistalinismo non mi ha mai indotto a prendere le distanze dagli aspetti ritenuti più scabrosi e insostenibili della teoria politica marxiana, come quelli, ad esempio, riguardanti la «rivoluzione sociale» e la «dittatura rivoluzionaria del proletariato», i quali certamente vanno riconsiderati alla luce del capitalismo mondiale del XXI secolo, ma senza farsi spiazzare da una cattiva (infondata) interpretazione del «socialismo reale». Non bisogna leggere Marx alla luce dell’interpretazione dominante (“mainstream”) del «socialismo reale»: è il modesto suggerimento che ho sempre dato a chi intende maturare, come chi scrive, un punto di vista critico-radicale su tutto ciò che si muove tra Terra e Cielo.

Allora (come oggi, del resto) non si trattava di sospendere la prassi, ma di elaborarne una coerente con la teoria che si poneva in assoluta contrapposizione con un mondo sempre più alienato e alienante, atomizzato e massificato, terrorizzante e terroristico (e qui siamo già in piena cronaca!), sussunto completamente sotto le imperiose leggi del calcolo economico. Una prassi all’altezza dei suoi presupposti teorici, certo, ma anche necessariamente adeguata al reale stato della “lotta di classe”. Più facile a dirsi che a farsi, non c’è dubbio. Tanto più per un intellettuale accusato dal “Movimento” di non voler sostenere la “causa del proletariato”: e meno male, dico io, considerato che in quella “causa” militavano i figli di Stalin (e poi i suoi nipotini, sotto forma di maoisti)! D’altre parte, io concepisco la prassi come una forma trasformata della teoria (e viceversa), come la continuazione della politica con altri mezzi – e viceversa. Dico questo per illuminare meglio la posizione di Adorno e Horkheimer a proposito della «prassi».

Una volta Lenin disse che i marxisti avrebbero fatto bene a costruire «una sorta di associazione di amici materialisti della dialettica hegeliana», intendendo con ciò significare che solo i marxisti potevano scoprire il lato fecondo di quella dialettica, e avvantaggiarsene sul piano politico. Riformulo la perorazione leniniana a beneficio del pensiero critico di Adorno e Horkheimer, il quale, con tutti i limiti che sono lungi dal misconoscere (ma chi non ha limiti scagli la prima frottola!), ritengo possa essere fecondo nello sforzo teorico e pratico cui accenno in questo articolo. Ad esempio, la loro critica del «tardo capitalismo», a partire dalla cosiddetta «industria culturale» e dalla dimensione sempre più totalitaria del “sociale”, offre molti spunti di riflessione utili a comprendere meglio la Società-Mondo del XXI secolo.

«La fine del dominio ha bisogno di un atto consapevole e volontario (spontaneo, autonomo) di uomini che sappiano tenere testa al proprio naturale impulso egoistico, prima che a quello degli altri. Solo uomini siffatti, che abbiano saldato i conti col proprio egoismo, e che abbiano esperito nella loro vita rapporti umani così gioiosamente amorevoli, delicati, gratuiti e solidali, da esserne legati più che a qualunque altra soddisfazione, – solo uomini siffatti potrebbero essere i soggetti credibili di una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio. Ma dove sono uomini così? E come pretendere che tutti gli uomini siano così? Perché tutti gli uomini debbono esserlo affinché il bellum omnium non ricominci. Queste domande ci avvicinano moltissimo ai famosi concetti di “dialettica bloccata” o di “rifiuto della prassi” di Adorno». Ebbene, visti dalla prospettiva storica e politica che ho cercato di tratteggiare, i problemi posti da Dell’Orco assumono un aspetto diverso da quello che emerge dalla sua impostazione. Non so dire come si porrà un domani «il problema di una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio», e nei miei modesti lavori mi limito a descrivere e a denunciare, contro i sacerdoti del “male minore”, il carattere necessariamente disumano – e sempre più disumano: «il peggio è adesso e non smette di peggiorare!» – del vigente regime sociale mondiale, e a prospettare la possibilità dell’auspicata emancipazione universale, avendo peraltro cura di chiarire che tale possibilità oggi è sul punto di esalare l’ultimo respiro. Insomma, l’”ottimismo della rivoluzione” – o della volontà – lo lascio volentieri a chi ha bisogno di rassicuranti certezze, mentre oggi si tratterebbe piuttosto di dare voce alla tragedia, di testimoniare la pessima condizione umana, di denunciare il carattere nichilista dei nostri tempi. Scriveva Max Horkheimer negli anni Trenta: «L’ottimismo dei proclami politici proviene oggi dalla disperazione» (5); condivido. Allora l’intellettuale tedesco considerò «prevedibile» anche «una fine innaturale» della tragedia, ossia un «salto nella libertà»; oggi una simile fine mi appare assai meno prevedibile, per non dire altro.

Quel che però so con certezza (e sono pochissime le certezze che posso esibire, purtroppo!) è che il cosiddetto «socialismo reale» non solo non depone contro «una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio», ma anzi ci parla della sua necessità, proprio perché questa miserabile esperienza si colloca tutta dentro il processo sociale capitalistico, essa è, come mi piace dire, un capitolo particolarmente ignobile del Libro nero del Capitalismo mondiale.

marc-chagall 1(1) Naturalmente il vero problema consiste nell’esistenza stessa di una massa, ossia nelle condizioni sociali che rendono possibile la trasformazione (meglio: la creazione, già in tenera età) degli individui in atomi sociali facilmente massificabili. L’identificazione con l’uomo forte da parte dei singoli «presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza dei singoli […] L’identificazione, sia con il collettivo, sia con la figura strapotente del capo, offre all’individuo un surrogato psicologico per quel che gli manca nella realtà» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, in Lezioni di sociologia, p. 96, Einaudi, 2001). Come mi capita spesso di dire, nella misura in cui non padroneggiamo con le mani e con la testa le fonti essenziali della nostra esistenza (a partire dalla creazione e distribuzione dei prodotti che ci tengono in vita), siamo degni della metafora nietzschiana del gregge. «La folla è un gregge docile incapace di vivere senza un padrone. È talmente desiderosa di obbedire che si sottomette istintivamente a colui che le si pone a capo. […] Il gregge esiste anche se manca un pastore» (S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’Io, p. 111, Newton, 1991). Trovo quest’ultimo passo di una profondità davvero notevole, tale da far venire i brividi a chi lo colga in tutta la sua potente estensione concettuale. Posto il gregge, cioè a dire i rapporti sociali che lo rendono possibile sempre di nuovo, il Pastore è sempre dietro l’angolo, pronto a decifrare ogni variazione nella tonalità dei belati. «Pastore sarai tu il mio Signore!». «La regressione delle masse, oggi, è l’incapacità di udire con le proprie orecchie qualcosa che non sia stato ancora udito, di toccare con le proprie mani qualcosa che non sia stato ancora toccato» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 44, Einaudi, 1996). Inutile ricordare, per l’ennesima volta, il maligno ruolo che lo stalinismo internazionale ha avuto nel processo di «regressione delle masse». Però intanto l’ho fatto!
(2) G. D. H. Cole, Storia economica del mondo moderno, pp. 176-177, Garzanti, 1961.
(3) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo.
(4) T. W. Adorno, Dialettica negativa, p. 254, Einaudi 1970.
(5) M. Horkheimer, Gli ebre e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 59, Savelli, 1978.

COME DARE COSCIENZA ALLA SPERANZA?

Il mio ultimo articolo sulla «Primavera Araba» (Teoria e Prassi della “Rivoluzione” ) ha suscitato in alcuni lettori l’idea di una mia indifferenza, e per alcuni di essi persino una mia franca ostilità (perché mai, poi?), nei confronti delle sommosse popolari che da un anno investono il Mondo Arabo. L’obiezione, ancorché del tutto infondata, suona al mio orecchio particolarmente bene, perché mi permette di chiarire il mio punto di vista su una questione cruciale. Lo faccio in modo stringato, e quindi necessariamente insufficiente, cosa che darà la stura ad altre obiezioni e a relativi «chiarimenti» e aggiustamenti di tiro: non chiedo altro!

Quanto poco indifferente sono rispetto al «processo sociale allargato» (il quale include la politica, l’ideologia, la psicologia, le angosce, le speranze e quant’altro ha a che fare con la prassi sociale: ossia tutto!) che sta scuotendo i Paesi Arabi, e il Mondo Islamico in generale (a partire dall’Iran, paese-chiave per molti rispetti), lo dimostrano i diversi articoli che ho dedicato alla questione. Nulla è più lontano da me dell’atteggiamento di indifferenza verso la prassi sociale in generale, e verso i movimenti sociali in particolare, per almeno due buoni motivi, uno “personale”, l’altro politicamente e teoricamente più fondato.

In primo luogo, caratterialmente inclino al caos sociale, al «casino», e nulla m‘intristisce di più del quieto vivere, sotto ogni rispetto.  In secondo luogo, e più seriamente, perché so bene che dalle crisi sociali può venire qualcosa di buono nel senso da me auspicato, ossia la produzione di coscienza e di organizzazioni «di classe». Ma appunto, e questo è un elemento d’analisi molto importante, può.

Nel ’79 avevo 17 anni, e dinanzi alla «Rivoluzione Iraniana» mi entusiasmai enormemente, e ciò mi appare ancora oggi, e al netto dell’autoindulgenza, come una feconda risposta agli eventi che seguivo attraverso la televisione e i media cartacei. Con gli strumenti “teorici” e politici che allora informavano il mio giudizio, quell’atteggiamento mi pare tutto sommato giustificato e foriero di feconde riflessioni, anche critiche e autocritiche, che di fatti arrivarono già alla fine di quello stesso anno.

Approfondendo criticamente quella che passerà alla storia come «Rivoluzione Khomeinista», ebbi modo di andare al di là dell’apparenza scenografica (era tale per me che quella «rivoluzione» guardavo dagli schermi televisivi, sia chiaro) delle violentissime sommosse e delle marce oceaniche, per coglierne le salienti radici sociali, i reali interessi che si scontravano, il significato della lotta ideologica tra islamisti e laici. Insomma, ed è questo che voglio “significare”, mi sforzai di passare dall’entusiasmo acritico a un punto di vista informato da una «analisi di classe» di quel violento processo sociale, sempre nei limiti di un’intelligenza politica e “dottrinaria” che non è mai stata granché: pazienza!

Mi resi conto, per farla breve, che in quel processo, interessante per molti aspetti, le «masse diseredate» stavano recitando il ruolo di massa d’urto delle varie fazioni politiche e sociali che si contendevano il potere: chi per raffreddare le «riforme economiche» varate dal Pavone di Teheran (anche sotto la pressione degli Stati Uniti e del Fondo Monetario Internazionale), le quali avevano generato un drastico peggioramento nelle condizioni di vita e di lavoro del proletariato; chi per sabotarle del tutto, puntando esclusivamente sulla rendita petrolifera, e chi, infine, per portare il Paese rapidamente e definitivamente su un sentiero di sviluppo sociale «all’occidentale». Sappiamo tutti com’è andata a finire. Naturalmente in quel processo sociale ebbero modo di svilupparsi anche tendenze promettenti dal mio punto di vista, ad esempio l’organizzazione di sindacati e organizzazioni proletarie di vario genere e più o meno indipendenti dall’Islamismo e dallo Stalinismo (molto presente nell’Iran dall’ora); ma in generale mi apparve chiaro come le «masse diseredate» iraniane, peraltro ben disposte alla lotta più cruenta, non fossero scese in campo con un proprio autonomo programma sociale e politico, cosa che aveva impedito loro di diventare una classe sociale cosciente della propria forza e della propria «funzione storica», per dirla con il barbuto di Treviri.

Questo per dire che, in generale, l’entusiasmo che sempre sostiene il desiderio del cambiamento non deve mai far premio sull’analisi critica della situazione, pena il rovesciamento della teoria critica in ideologia pseudo rivoluzionaria, disposta a vedere «Rivoluzioni», «nuovi soggetti sociali rivoluzionari» e «cambiamenti di fase» almeno ogni cinque anni.

In secondo luogo, e cosa assai più importante, io m’interesso della «Primavera Araba» e simili, non per parlare alle «masse diseredate» di quella parte di mondo (il mio narcisismo e il mio velleitarismo, ancorché obesi, non mi sollevano a simili vette di ingenua imbecillità), ma per comunicare a quei pochi interlocutori che hanno la bontà di “leggermi” questo fondamentale concetto: cerchiamo di non investire troppo sul coraggio e sulla disperazione degli altri. Per dirla con una battuta comica, «è facile fare la “Rivoluzione”, con la pelle degli altri!» Dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Occidente sterile di Eventi Catastrofici, ha cercato ovunque nel mondo quelle «rivoluzioni» che non ha saputo partorire dal proprio ventre obeso di merci e di illusioni d’ogni genere (a partire dalla madre di tutte le feticistiche illusioni: quella secondo la quale in regime democratico «il Popolo è Sovrano»).

Quando nelle piazze italiane e sui Social Network si urla che Berlusconi deve fare la fine di Mubarak, e quando persino una persona intelligente come Žižek propone l’insostenibile e risibile analogia tra il Cavaliere Nero di Arcore e Ahmadinejad, e sostiene che «Evo Morales si sta avvicinando ad una forma contemporanea di “dittatura del proletariato”»  (e un occhio di riguardo egli non lo nega nemmeno a Hugo Chávez),   ecco che personalmente avverto forte il bisogno di mettere in guardia il pensiero che aspira a un punto di vista critico-radicale a non lasciarsi ingannare da suggestioni e da sirene di vario tipo. E ciò oggi mi appare tanto più importante, non appena rifletto sulla guerra mondiale in corso, la cui natura essenzialmente economica, peraltro, svela il reale contenuto sociale dell’Imperialismo e dei due precedenti conflitti bellici di respiro mondiale.

L’insopportabile arroganza dei mangiapatate! È ora di regolare qualche conto in sospeso!

La scorsa settimana i Rifondatori dello Statalismo (Ferreo e company) hanno protestato sotto l’ambasciata tedesca a Roma per rivendicare la Sovranità dell’Italica Nazione contro l’ingerenza germanica e dei soliti «Poteri Forti della Finanza Mondiale» (un tempo le BR parlavano di Stato Imperialista delle Multinazionali, ruminando gli stessi rancidi concetti degli odierni «comunisti»). Oggi Sallusti scrive sul Giornale che contro l’arroganza antidemocratica della Merkel, forse non basta più un’elezione che ripristini la Sovranità politica del nostro Paese, ma occorrerebbe «una rivoluzione».  Nientemeno! Le classi dominanti hanno sempre saputo civettare bene con la «Rivoluzione», non dimentichiamolo; di qui, a mio avviso, l’esigenza di assumere un punto di vista critico nei confronti di ciò che appare scontato sulla scorta dell’opinione corrente nazionale e internazionale, del tipo: Berlusconi è il Male Assoluto, in Egitto sta andando in onda il secondo tempo della «Rivoluzione», bisogna allearsi anche con il Demonio per farla pagare agli ebrei, pardon: agli speculatori finanziari, e via di seguito. Tutte le volte che le classi dominanti hanno bisogno del «Popolo Sovrano», per smungerne lacrime e sangue, c’è sempre una «Rivoluzione», un «Nuovo Risorgimento» o una «Guerra di liberazione» da fare.

Se la cifra dei tempi è questa, e senz’altro lo è, il pensiero critico-radicale, come prima misura d’emergenza, per così dire, deve cercare di spingere la riflessione politica della gente umanamente più sensibile oltre le lusinghe dell’apparenza, oltre i luoghi comuni proposti dai politicanti di «Destra» e di «Sinistra» (nonché dall’industria massmediatica che vende come il pane catastrofi, apocalissi prossime venture e, naturalmente «Rivoluzioni»), oltre le facili scappatoie politiche e psicologiche. Mi sembra il minimo sindacale per quel tipo di pensiero, e comunque il presupposto d’ogni altro possibile avanzamento teorico e pratico. Un altro discorso è se chi scrive è capace di farlo!

LA TEOLOGIA POLITICA DEL PASTORE TEDESCO E IL PUNTO DI VISTA DELL’ANGELO NERO

«L’uomo deve agire, operare, decidere da sé, non lasciare che altri agiscano per lui, se non è semplicemente una macchina» (Hegel, Scritti teologici giovanili).

Mentre la creativa opposizione politica del Bel Paese si trastulla cercando improbabili «Papa neri» da contrapporre al Satrapo di Arcore, Benedetto XVI a Berlino indossa una comoda sottana verde. Alludo ovviamente al suo importante discorso pronunciato dinanzi al Bundenstag lo scorso 22 settembre. «La comparsa del movimento ecologista nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare» (Discorso del Sommo Pontefice Benedetto XVI, Reichstag di Berlino, giovedì 22 settembre, Libreria Editrice Vaticana, 2011). La perorazione ecologista del Pastore Tedesco è stata così forte e convincente, da suggerirgli un’immediata precisazione: «È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico». Insomma, il Sommo Pontefice ci risparmierà l’abominio estetico di una sua t-shirt con tanto di sole che ride. E questa è già una bella notizia, di questi cupi e relativistici tempi. Dopo l’evaporazione del Papà non avrei sopportato anche l’evaporazione del Papa. Sono a corto di punti fermi, di centri di gravità permanenti, di chiodi che mi tengano saldamente attaccato alla croce del principio di realtà.

Ma il Teologo di Marktl non è una persona banale, e questo gli ha impedito di scivolare sui luogocomunismi ecologisti oggi tanto alla moda: «Vorrei affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere». Già solo per aver posto, di fatto, il tema circa l’esistenza di una peculiare natura umana (da rispettare o da creare?), e intorno alla necessità di una comunità sociale umanamente sostenibile; solo per questo il pensiero di Ratzinger mostra una profondità e una radicalità di prospettiva, che i suoi avversari progressisti, quelli, ad esempio, che lo hanno boicottato nel nome della «laicità dello Stato», neanche si sognano. (Personalmente odio il Leviatano in ogni sua fenomenologia politico-ideologica: che sia confessionale, laico o ateo il mio giudizio sullo Stato – capitalistico –, per l’essenziale, non muta di un microbo).

Naturalmente Benedetto XVI declina la natura umana come può farlo un credente e un teologo, ossia nei termini di un prezioso e misericordioso dono offerto dal Padre alla sua Creatura prediletta, e muovendo da questa Sacra prospettiva egli giustamente bastona la «ragione positivista» (a partire da quella che ispirò il Diritto di Hans Kelsen, l’avversario di Carl Schmidt), rea di aver espulso Dio da ogni tipo di visione scientifica del mondo. La mia tesi è che a essere stato espulso dalla «concezione scientifica del mondo» è stato piuttosto l’uomo, giacché la prassi sociale della nostra epoca è, in radice e necessariamente, disumana. Il problema non è che l’uomo manipola se stesso, credendosi Dio: il fatto dirimente da capire è che il Dominio sociale capitalistico manipola cose e individui in vista della sua continuità e della sua espansione – due lati della stessa medaglia. Questa prassi manipolatrice non ci fa essere uomini.

Il ruolo di Dio non è stato usurpato dall’uomo – il quale oggi si dà, al contempo, come abissale vuoto e come immensa possibilità – ma dal Denaro, che non è lo «sterco del Demonio», come credono gli indignati di mezzo mondo (compresi quelli che stanno organizzando sit-in di protesta a Wall Street), ma l’espressione più genuina di un Dominio che si radica nello sfruttamento razionale (tecnologico, scientifico) di uomini e cose. Se l’uomo non esiste, tutto il male è possibile, anche lo sterminio di inermi individui per mezzo di gas, denutrizione, pallottole, bombardamenti aerei democratici a base di tritolo, fosforo, uranio, plutonio e quanto di meglio – pardon: di peggio – la scienza moderna può metterci a disposizione. Prim’ancora che nella testa dell’intellettuale progressista, il «relativismo etico» tanto deprecato dai Sacri Palazzi alligna nell’oggettività delle cose: relativo – molto relativo – è il valore dell’individuo nella società basata sui valori di scambio.

Ecco perché quando Benedetto XVI invita a «tornare a spalancare le finestre», perché «dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra, ed imparare a usare tutto questo in modo giusto», dice cose belle, impreziosite da tanta ingenuità teologica, ma del tutto false. Infatti, quando l’uomo ha potuto spalancare quelle metaforiche finestre? Mai! Nella società sussunta sotto l’imperio del Dominio (economico, politico, ideologico, psicologico), come sono state tutte quelle che si sono succedute fino ai nostri giorni (compresa la nostra, ovviamente), non c’è ossigeno in grado di far respirare la natura umana. Se umanità significa, come egli sostiene giustamente, «realizzare la vera libertà umana», possono esservi libertà e umanità (due qualità fra loro intimamente e inscindibilmente intrecciate) all’interno di una dimensione esistenziale sottoposta al cieco e spietato imperio delle necessità economico-sociali? Mi sento di escluderlo.

Gli antichi greci associavano il lavoro (anche quello «intellettuale») alla schiavitù: chi è schiavo delle necessità materiali che ci rendono simili agli animali, non è un uomo. Essi speravano di emanciparsi dall’imperio di quelle «basse» necessità riducendo altri individui al rango di bestie – o macchine – da lavoro: su questa base è sorta quella splendida Civiltà che tanto piace al Teologo Tedesco. Mutatis mutandis, siamo ancora immersi in quella dimensione sociale che ci rende schiavi delle necessità economiche, e che quindi non ci permette di vivere come uomini, nonostante la stessa materialità che oggi subiamo con sofferenza offre la possibilità di liberarci da ogni tipo di coazione esterna. È la tragedia dei nostri tempi, la quale, a differenza di quella «classica», non prevede l’apparizione di un deus ex machina. La logica della delega è inscritta nella grammatica del Dominio: l’Angelo Nero non si stanca di ammonirci a tal riguardo.

Scriveva Hannah Arendt: «Col sorgere della società di massa la sfera sociale è giunta finalmente, dopo diversi secoli di sviluppo, ad abbracciare e controllare tutti i membri di una data comunità in maniera uniforme e con la stessa forza» (Vita Activa). Potrebbe sopravvivere l’uomo in queste condizioni? Anzi: è semplicemente concepibile la sua esistenza nella società di massa, la quale non lascia agli individui che un miserabile privato, tanto più idealizzato e reclamizzato quanto più la prassi lo nega e lo riduce a mero residuo.
Dove c’è il denaro e la merce (che non sono cose inscritte nel «patrimonio genetico» della società umana, ma espressioni di peculiari rapporti sociali), non può esserci posto né per la libertà né per l’umanità, e viceversa, beninteso. O ci sono gli attuali rapporti sociali basati sulla manipolazione di uomini e cose, o c’è l’uomo in quanto uomo: non c’è miracolo o abracadabra che possano sciogliere con un compromesso questo tragico Aut-Aut. «Amico mio! Quello Che ti ho già detto tante volte, te lo ripeto, anzi te lo grido: o questo, o quello, aut-aut!»(S. Kierkegaard, Aut-Aut).

Analogo discorso possiamo fare a proposito della «sfera politica»: dove insiste il Diritto, è preclusa alla radice la possibilità dell’uomo. O c’è il Diritto, o c’è l’Uomo, ed per questo che la locuzione «diritti umani» sostanzia un orribile ossimoro concettuale e pratico. Basta indagare in modo critico la storia della millenaria prassi sociale degli individui per capire la genesi e la reale natura del Diritto, al netto delle ideologie pattizie (più o meno progressiste) che ne celano l’intima essenza, la profonda e maligna radice sociale. Ecco perché rivendicare, come fa il Papa, il «vero diritto», il quale storicamente ha preso consistenza attraverso il consolidamento delle società classiste, equivale, di fatto, a sostenere il vero Dominio sociale. I concetti di «Giustizia» e di «Pace» che Benedetto XVI ha fatto risuonare nell’edificio del Reichstag, così pregno ed evocativo di significati storici, hanno la loro scaturigine in quella società classista che sempre di nuovo ha negato e nega ogni «anelito di Giustizia e di Pace». Non possono esserci né l’una né l’altra nella società basata su una prassi che ogni giorno che Dio manda in Terra – con rispetto parlando, si capisce! – dichiara guerra agli individui, li incalza, li stana, li assedia, li sbaraglia, li ferisce e li cura, e, soprattutto, ne pretende la resa condizionata. E il cosiddetto uomo puntualmente alza le mani: cos’altro potrebbe fare dinanzi allo strapotere sociale che lo minaccia da ogni parte? Altro che biblico Moloch!

«”Togli il diritto, e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino». Le cose però, Santissimo Padre, stanno così: il Diritto emana dalla potenza sociale (materiale, spirituale, psicologica, «antropologica») delle classi dominanti, le quali lo impongono alla comunità sotto forma di un contratto sociale liberamente sottoscritto da tutti i suoi membri. Chi non si piega al Diritto storicamente e socialmente stabilito, è con diritto dichiarato Nemico e trattato legittimamente come tale. Il Diritto è Potenza, è Forza, è Violenza: esso è la Giustizia del più forte imposta al più debole, come non si vergognavano di definirlo i filosofi del XVII e XVIII secolo. Poi il pensiero borghese fu costretto a rifugiarsi nell’ideologia.

I nazisti sono diventati una «banda di briganti molto ben organizzata», come ha detto il Tedesco Ratzinger, solo dopo essere stati sconfitti, mentre prima essi organizzarono con pieno Diritto gli interessi della Patria Tedesca come si vennero a configurare in quel peculiare frangente storico, o quantomeno quelli della fazione di classe dominante che allora risultò vincente. Stessa cosa si può dire per «i combattenti della resistenza [che] hanno agito contro il regime nazista»: essi incarnarono il Diritto all’interno delle mutate circostanze (certo, la continuazione del Diritto, e della guerra, con altri mezzi), e sotto quest’aspetto Benedetto XVI ha ragione a sostenere che essi «resero un servizio al diritto», mentre sbaglia quando aggiunge: «e all’umanità». Non fosse altro che per mancanza di materia prima, per dir così.

Il nazionalsocialismo, lungi dall’aver separato il Potere dal Diritto, come ha dichiarato il Papa ripetendo il giuridicamente corretto imposto dai vincenti ai vinti (gli angloamericani ai tedeschi, ai giapponesi e agli italiani, tanto per essere espliciti fino in fondo), rivelò la regola sotto forma di eccezione, rendendo evidente come il Male sia radicale, più che «banale». Ma solo dalla prospettiva dell’Angelo Nero la maligna dialettica del Dominio appare in tutta la sua evidenza solare, mentre la pur notevole Teologia Politica del Tedesco può solo rimarne abbagliato. E il Dominio, come il Sole, se la ride.

LO STATO DI DIRITTO NON GUARDA IN FACCIA NESSUNO! PER QUESTO AVREBBE BISOGNO DEL TRATTAMENTO EUTANASICO…

Cosa mi dice la vicenda che ha visto Strauss-Kahn, l’ex presidente di una tra le più importanti istituzioni mondiali, precipitare da un giorno all’altro nel baratro della catastrofe etica e politica? Molte cose. Tra le tante, ne voglio illuminare solo due.

In primo luogo lo squallido affaire mi dice che ancora una volta la Prima Potenza Mondiale del pianeta ha impartito una severa lezione agli altri paesi occidentali, dimostrando che là dove vige la piena libertà capitalistica (al netto delle tutt’altro che rare tentazioni protezionistiche!), il Potere Sovrano si prende la libertà di colpire con inusitata durezza chi mostra di non rigar diritto, come impone il regolo di Policleto – non a caso tanto tenuto in considerazione da J. Bodin, il teorico dell’assolutismo del XVI secolo. Chi sbaglia paga, senza alcun riguardo per le condizioni sociali e il prestigio del reo.

Chi associa questa prassi “egualitaria” al concetto di Giustizia, deve tenere in considerazione il fatto che questa Giustizia è radicata nel dominio sociale capitalistico, il quale stabilisce le regole del gioco in ogni sfera della prassi sociale. Strauss-Kahn è finito in manette per conto di quel dominio, che lo ha trattato come un suo funzionario andato a male (o a puttane, fate voi), non certo per conto di quell’astratta Giustizia che esiste solo nelle teste degli apologetici sostenitori dello Stato di Diritto.

Chi, invece, ha trovato gradevole il film televisivo che ha visto come suo protagonista assoluto l’ex potente di turno rotolato miseramente nella polvere come un disgraziato qualsiasi, dovrebbe piuttosto chiedersi quanto più inumanamente può atteggiarsi lo Stato di Diritto nei confronti di chi può permettersi solo l’avvocato d’ufficio. Da sempre l’invidia sociale è alleata del dominio.

Infine, chi vede nell’ex presidente del Fondo Monetario Internazionale solo una funzione non più funzionante, e non l’ennesimo povero cristo finito sulla croce a causa di una società che crea magagne a tutti i livelli e in ogni anfratto, mostra non tanto una scarsa “umanità”, ma piuttosto una grave indigenza di coscienza in merito alla radicalità del male che colpisce tutti gli individui – dimostrando la stessa cecità della Giustizia.

In secondo luogo, questa vicenda mostra fino a che punto gli eticamente corretti possano essere selettivi in materia di garantismo: per il quotidiano francese Libération Berlusconi è un puttaniere praticamente a prescindere, mentre per l’ex candidato della sinistra alle prossime elezioni presidenziali non fa mancare un supplemento di dubbio: non è possibile scorgere dietro il sospettato stupro la manina di Sarcozy? A dimostrazione che Miserabilandia non è affatto una questione di esclusiva pertinenza italiota.

IL PUNTO DI VISTA UMANO – Il Dominio e la Liberazione

Paul Klee, Angelus Novus

Premessa fondamentale contro la grande menzogna del XX secolo

Prima d’ogni altra cosa mi sta a cuore comunicarvi questa fondamentale acquisizione: in nessun luogo del mondo si è mai realizzato un solo atomo di «comunismo» o di «socialismo». Per conquistare il punto di vista umano e trasformarlo in una potente forza creativa dobbiamo liberarci una volta per sempre dalla gigantesca menzogna che per ottant’anni ha spacciato per «comunismo» il miserabile capitalismo di Stato di paesi come la Russia e la Cina. Questa enorme balla speculativa ha reso mute, sorde, cieche e impotenti le classi dominate e gli individui umanamente più sensibili dell’intero pianeta. Se riusciamo a venir fuori da questa menzogna, più facilmente conquistiamo un punto di vista nuovo e fecondo, una prospettiva aperta alla possibilità di un mondo veramente umano. Ho deciso di non usare la terminologia che una volta ha avuto un senso, ma che oggi non ne ha più perché indegnamente travisata, tradita, abusata, svilita, inflazionata. Più che fare sfoggio di «gloriose» parole mi interessa afferrare la sostanza dei concetti, e il primo concetto su cui vi invito a riflettere si chiama umanità.

Se questo è un uomo…

Amici, veniamo subito al sodo: non siamo ancora uomini!

Facciamoci pure tutte le illusioni di questo mondo, raccontiamoci tutte le storielle che vogliamo intorno alla nostra cosiddetta “libertà” e “felicità”, mentiamo spudoratamente a noi stessi tanto per darci coraggio, ma la sostanza delle cose non cambia minimamente. Non siamo ancora uomini. È un fatto. Certo, siamo lavoratori, imprenditori, studenti, disoccupati, consumatori, clienti, utenti, artisti, scienziati e chissà che altro ancora, ma non siamo uomini. E non possiamo diventarlo, se non prendiamo atto della situazione e non agiamo conseguentemente.

Ma cosa è un uomo?

Io non so cosa sia un uomo, perché non ne ho ancora incontrato uno; ma nello sforzo di conquistare il punto di vista umano ho almeno capito (è la sola certezza che non mi vergogno di esibire!) cosa non può essere un uomo. Chi non padroneggia con le proprie mani e con la propria testa la sua intera esistenza non può essere un individuo umano, un uomo propriamente detto. Tutta la nostra decantata – e falsa – “libertà” non si risolve forse nelle diverse opzioni che le esigenze economiche e lo Stato graziosamente ci concedono? Una pubblicità recita: Tutto gira intorno a te, e un’altra ci assicura che quel certo prodotto è stato pensato proprio per noi, presi singolarmente, e siamo talmente bisognosi di “punti fermi” che fingiamo persino di crederci! Invece sappiamo benissimo che in realtà tutto gira intorno al profitto e al denaro, e siamo così disumani, così assuefatti a questa vita dominata da rapporti sociali ostili all’individuo umano, da recepire questo mostruoso fatto alla stregua della cosa più normale e naturale del mondo. Eppure il profitto e il denaro non crescono sugli alberi come frutti, non cadono dal cielo come la pioggia, non si moltiplicano come usano fare le piante o gli animali, mentre hanno molto a che fare con il nostro lavoro, con le merci che produciamo e consumiamo, con il mercato, insomma: con questa società.

Che cosa siamo in grado di controllare e di decidere veramente come singoli individui? Praticamente nulla di fondamentale. La nostra cosiddetta libertà di scelta si riduce a ben misera cosa; l’essenziale della nostra vita non sta nelle nostre mani e nelle nostre teste. Avere o non avere denaro stabilisce la differenza tra la vita e la morte. Noi possiamo solo “decidere” se stare al gioco, accettandone tutte le regole, oppure rifiutarlo sapendo di venir immediatamente scartati dal meccanismo sociale come articoli mal riusciti. Una gran bella scelta, non c’è che dire! Ma nessuno in realtà controlla veramente il meccanismo sociale, nemmeno chi ha nelle proprie mani le redini dell’economia e della politica: tutti sono in qualche modo al servizio di quel meccanismo, il quale domina ciecamente su tutto e su tutti, come un mostro senza testa e senza cuore. L’impotenza degli imprenditori, dei finanzieri, degli economisti e dei politici la vediamo soprattutto in tempi di crisi economica, quando il mostro chiamato capitalismo, senza chiedere il permesso a nessuno, vomita nella pattumiera sociale lavoratori, imprenditori, azionisti, macchine, merci, capitali, materie prime e quant’altro risulti non più conforme al calcolo economico. E a volte ci costringe persino a metterci l’elmetto e a impugnare il fucile, naturalmente in nome della «civiltà», della «patria», della «democrazia», del «progresso» e via di seguito. Il calcolo economico è incompatibile col calcolo umano.

E allora a cosa si riduce la nostra tanto reclamizzata – e negata – libertà?

A una menzogna, è chiaro, e dove non c’è vera libertà non può esserci vera umanità. Viviamo dentro a un gigantesco, globale, mondiale e soprattutto permanente Truman show esistenziale, e quelli di noi più intelligenti – in realtà solo più cinici, per autodifesa – si vantano pure di esserne pienamente coscienti!

L’individuo umano fa se stesso, realizza insieme agli altri uomini la propria esistenza e quella degli altri, giorno dopo giorno, in piena libertà; il non-ancora-uomo di oggi è dominato totalmente da condizioni sociali disumane che egli si vede costretto ad accettare e a nutrire se vuole nutrire se stesso. È proprio vero: siamo tutti sulla stessa barca. Bisogna affondarla! Non c’è altro da fare.

La società «a misura d’uomo» è dietro l’angolo!

Proprio dietro l’angolo? Certamente, ma per vederne la possibilità occorre conquistare il punto di vista umano, e guardare il passato, il presente e il futuro da questa nuova prospettiva. Gira e rigira il problema si risolve in queste due “semplici” domande: questa società è necessariamente disumana (e perciò illiberale, ostile alla vita felice degli individui, contraria al libero sviluppo di tutte le facoltà umane)? È possibile, oltre che auspicabile, la costruzione – in tempi non biblici! – della società umana, cioè della comunità organizzata per soddisfare pienamente i molteplici bisogni di ogni singolo individuo? Se rispondete positivamente a entrambe le domande siete già sul terreno della critica rivoluzionaria delle condizioni sociali esistenti. Siete militanti del punto di vista umano e avete conquistato il maggior grado di libertà a cui si possa realisticamente aspirare nella società illiberale.

In effetti, questa società è necessariamente disumana nel senso che la sua ostilità nei confronti di tutto ciò che odora di veramente umano non dipende dalla cattiveria di qualcuno, non ha a che fare con un malvagio complotto ordito da chissà quale potenza terrena o ultraterrena contro ognuno di noi. No, il carattere intimamente disumano di questa società è radicato in primo luogo nei rapporti sociali che dominano le nostre attività e le nostre relazioni. Se il capitale, il denaro, il salario, le merci, il mercato dominano le nostre esistenze, e più di quanto siamo disposti a credere per darci un contegno… “umano”; se le cose stanno così è evidente che non ci si deve aspettare da questa società altro che una crescente disumanizzazione di ogni nostra manifestazione vitale. Cosa è, oggi, il lavoro se non una merce come le altre? E abbiamo anche il coraggio di parlare di «capitale umano»… E l’arte, cos’è oggi l’arte? Una merce, si capisce. E la scienza? Una merce, nonché un potente strumento di dominio sociale. Praticamente oggi tutto è sul mercato, persino i cosiddetti «valori etici». La merce è il vero «paradigma» (stigma) di questa società.

Alcuni dicono: «meno male che almeno c’è lo Stato a difenderci!». Che abbaglio, che manifestazione di assoluta incoscienza! Ma lo Stato, amici, è il mostro politico posto a difesa del meccanismo sociale che fa di noi dei non-uomini. Lo Stato, questo vero e proprio Moloch sociale, questa formidabile escrescenza disumana, non difende il cosiddetto «bene comune», semplicemente perché non esiste alcun bene comune. Nascondendosi dietro l’ideologia del «bene comune» esso difende in realtà il potere sociale delle classi dominanti. Di più: esso è l’espressione più genuina e violenta di questo potere, che difende con gli strumenti della politica e della legge nei momenti di «pace sociale», e con gli strumenti della violenza poliziesca e militare in periodi appena appena più “turbolenti”. Il manganello non è che la continuazione della politica (magari «democratica» e «progressista») con altri mezzi!

La società umana è possibile, anzi sempre più possibile, nel senso che già oggi esistono le condizioni materiali che rendono concretamente realizzabile il superamento di questa preistoria dell’umanità. Ma immaginate, amici, cosa l’umanità potrebbe fare se usasse a scopi esclusivamente umani la tecnologia che già oggi conosciamo. Nella società del capitale, del profitto e delle merci ogni rivoluzione tecnologica si risolve immediatamente in un aumento della produttività del lavoro (leggi sfruttamento), in un aumento della disoccupazione e in una espansione dell’alienazione generale. Un progresso materiale si traduce in una tragedia sociale. Nella società dell’individuo umano, all’opposto, la tecnologia è assoggettata completamente ai bisogni umani, e ogni riduzione del tempo di lavoro si trasforma immediatamente in maggior tempo conquistato per l’arte, per lo studio, il divertimento, l’amore, il gioco, insomma: per la felicità di ogni singolo individuo. La società umana non ha bisogno di nessun genere di Stato proprio perché la vita degli individui è governata dal principio umano centrato sulla soddisfazione dei loro molteplici bisogni. Se elimini le classi sociali, e fai degli individui dei “semplici” uomini, hai eliminato le radici storiche dello Stato e della politica.

Oggi non possiamo immaginarci in che modo, concretamente, potrebbe essere organizzata la comunità umana, perché in nessun libro ne troveremo il modello, la ricetta; essa può solo venir costruita dagli uomini giorno dopo giorno, dopo che avranno consegnato alla storia – o preistoria – la società disumana. Però oggi possiamo conquistare il punto di vista umano, possiamo cioè capire che l’odierna società non è una inevitabile maledizione, e che la comunità degli uomini è molto più che una speranza, è una concreta possibilità.