Qualche giorno fa Niccolò Locatelli registrava con entusiasmo il ritorno della diplomazia italiana nella capitale della nostra ex colonia africana, e spiegava bene la posta in gioco per l’imperialismo made in Italy in Libia: «La visita del ministro dell’Interno italiano Marco Minniti ieri a Tripoli è venuta con un annuncio importante: oggi l’ambasciatore Giuseppe Perrone presenterà le sue credenziali al governo di Faiez Serraj e l’ambasciata d’Italia aprirà i battenti con tanto di servizi consolari. È un colpo importante per la diplomazia tricolore, sotto diversi aspetti. In primo luogo, a Tripoli non è presente neanche l’Onu, per non parlare degli altri paesi occidentali che, a parte una presenza britannica informale, sono del tutto assenti; l’apertura delle loro ambasciate è improbabile a breve termine. […] In secondo luogo, l’apertura dell’ambasciata è un segnale agli altri paesi coinvolti nella crisi, in primis l’Egitto e la Russia che sempre più apertamente sostengono il “governo” rivale del generale Haftar: per Roma il governo legittimo è quello che sta a Tripoli, semmai si tratta di negoziare l’entrata di Haftar in quello schema. A tale scopo, la presenza dell’Italia nel Consiglio di sicurezza Onu potrebbe rivelarsi un asset: se Roma sarà in grado di fare le alleanze giuste, potrà mantenere in piedi l’impalcatura di risoluzioni Onu approvate sotto Obama che danno la golden share non solo della politica ma soprattutto delle transazioni economiche e petrolifere alle strutture basate a Tripoli» (Limes). E infatti come sempre la politica estera (strumento militare incluso) è chiamata in primo luogo a supportare gli interessi economici che fanno capo a imprese pubbliche e private. Questa, e non altra, è l’essenza dell’Imperialismo.
L’entusiasmo del governo Gentiloni si è forse un po’ raffreddato dopo la reazione a dir poco preoccupante del generale Khalifa Haftar, ex uomo di fiducia degli americani quando si trattò di dare il benservito a Gheddafi nel 2011, e che a più riprese ha minacciato di usare i profughi libici e i migranti africani come materiale bellico “umano” («inonderemo le coste italiane di gente povera»), e questo nell’intento di ottenere dall’Italia armi, denaro e consenso politico. Oggi Haftar denuncia «una nuova occupazione militare» da parte dell’Italia. Non c’è da star sereni, diciamo.
Gli interessi strategici italiani in Libia sono minacciati da più parti, come ha chiaramente dimostrato l’«intervento umanitario» del 2011 voluto soprattutto dalla Francia, dall’Inghilterra e dall’Arabia Saudita. Ma in questo momento è soprattutto l’attivismo russo che desta più di una preoccupazione a Roma. «La Russia è già riuscita a mettere il piede in Egitto, altro alleato di Tobruk, dopo che l’amministrazione di Barack Obama ha sostenuto i Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi contro l’attuale governo di Abdel Fatah al-Sisi, per cui ad Alessandria sorgerà una base navale russa. Haftar, in cambio del sostegno, ha in questi giorni stretto un’intesa con i russi per la costruzione di una base in Cirenaica e, a quanto riportano i media arabi, starebbe cercando di assicurarsi il controllo delle basi aeree situate nella parte sud-orientale del paese. Lì si avvallerebbe del supporto delle milizie delle tribù fedeli all’ancien régime, cioè al defunto colonnello Muammar Gheddafi, le quali preferirebbero sostenere Tobruk piuttosto che Tripoli» (E. Oliari, Notizie Geopolitiche).
Secondo il generale Carlo Jean (Quotidiano Nazionale) l’attivismo politico-militare della Russia di Putin in Libia avrebbe più che altro un respiro tattico, e non strategico, perché secondo lui quel Paese non avrebbe le risorse finanziarie adeguate per esporsi a lungo termine in più fronti nello scenario Mediorientale e in Nord-Africa, e lo stesso Presidente russo farebbe piuttosto bene a non sottovalutare il malessere sociale che cresce in Russia. In effetti, non si campa solo di orgoglio nazionale e di spirito di rivincita verso un Occidente che intendeva fare della Grande Russia una Potenza di rango regionale, come sostenne una volta l’odiato Obama. Come reagirà il neo Presidente Trump all’aggressiva politica estera dell’amico Vladimir? Quanto durerà la “luna di miele” tra i due “amici”? Lo scopriremo presto.
Intanto siamo qui a denunciare, per quel che vale, l’attivismo politico-diplomatico del governo italiano in Libia (e altrove: vedi la Diga di Mosul in Iraq), attivismo che fra l’altro ci espone ancor di più al rischio di diventare degli “obiettivi sensibili” nel contesto dell’attuale «Terza guerra mondiale combattuta a pezzetti».