RIFLESSIONI RIGOROSAMENTE ANTISOVRANISTE

OLYMPUS DIGITAL CAMERAScrive Enrico Grazzini: «In un mio articolo sul Manifesto a proposito dell’assalto di Telefonica a Telecom Italia principale azienda tecnologica nazionale, scrivevo tra l’altro che “Il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia”» (Se la sovranità è di sinistra, MicroMega, 26 marzo 2014). Al netto d’ogni altra considerazione sulla validità – e sulla stessa possibilità – di una politica economica protezionista made in Italy, c’è da dire che il patriottismo, di qualunque genere esso sia (economico, politico, culturale, ecc.), non può che avere un carattere ultrareazionario. Com’è noto, per Marx la cosa apparve chiara già nel 1871, quando la Comune parigina venne annegata nel sangue dagli sforzi congiunti delle classi dominanti di Francia e Prussia: «Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti» (Karl Marx, La guerra civile in Francia).

Parlare di Patria, di Patriottismo, di Nazione, di Popolo e di Democrazia ai tempi di Garibaldi, tanto per fare un esempio… patriottico, ha avuto un senso storicamente progressivo, perché allora quei concetti esprimevano la funzione antifeudale dei ceti borghesi in ascesa, soffocati anche dal giogo delle Potenze straniere; parlarne oggi, al tempo della sussunzione totalitaria dell’intero pianeta al Capitale, la cosa acquista un senso del tutto contrario. La guerra nazionale, economica o militare che sia (e senza dimenticare la geniale lezione di Clausewitz sulla dialettica fra politica e guerra), riafferma e rafforza, al contempo, la potenza delle classi dominanti e l’impotenza delle classi subalterne.

Scriveva Lenin contro i patrioti «Socialnazionalisti» del suo tempo: «Gli opportunisti travisano la verità trasferendo ciò che è giusto per l’epoca del capitalismo nascente all’epoca della fine del capitalismo. E a proposito di quest’epoca, dei compiti del proletariato nella lotta per l’abolizione non del feudalesimo, ma del capitalismo, il Manifesto comunista dice con chiarezza e precisione: “Gli operai non hanno patria”. […] L’ideologia nazionale, sorta in quel periodo, lasciò tracce profonde nelle masse della piccola borghesia e in una parte del proletariato. Di questo fatto si valgono oggi, in epoca assolutamente diversa, vale a dire nell’epoca dell’imperialismo, i sofisti della borghesia e i traditori del socialismo che si mettono al loro rimorchio per dividere gli operai e distoglierli dai loro obiettivi di classe e della lotta rivoluzionaria contro la borghesia. Le parole del Manifesto comunista: “Gli operai non hanno patria”, sono più vere che mai» (Lenin, da Situazione e compiti dell’internazionale, 1° novembre 1914, e da Conferenza delle Sezioni estere del POSDR, 19 febbraio 1915, Opere, XXI).

Com’è noto, la fine del capitalismo evocata da Lenin tarda a venire, e tuttavia egli aveva ragione sul punto decisivo dell’internazionalismo anticapitalista: nella guerra economica come in quella armata gli operai non hanno patria, non solo, ma la patria, ossia la dimensione nazionale del dominio capitalistico, è il loro nemico principale, il nemico che li inchioda direttamente e tutti i giorni a una esistenza che grida No! a ogni autentica dignità umana. Perché dove c’è il lavoro salariato, quello santificato nell’Art. 1 della «Costituzione più bella del mondo», non può esserci autentica umanità, e quindi vera libertà. Per questo anziché concentrarci sulla democrazia, discutere con animo inquieto sul suo «commissariamento» ad opera dei soliti poteri forti internazionali, e magari pensare, con Grazzino, che «senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia», dovremmo piuttosto riflettere sulla natura totalitaria del Capitale (tout court), della potenza sociale aggressiva, espansiva e selvaggia (in una sola parola: imperialista, in questa precisa accezione) che conosce una sola bronzea legge: quella del massimo profitto. Personalmente mi batto contro il feticcio democratico, il quale nasconde la natura necessariamente classista della democrazia (da sempre, già nella sua classica e ancora ingenua fase genetica), la quale presuppone appunto la divisione della società in classi sociali. Certo, i sudditi del regime democratico hanno il miserrimo privilegio di “scegliere” ogni tot anni il bastone a cui ubbidire.

Su questo punto dirimente non posso che ribadire quanto ho scritto martedì scorso: «Ma davvero oggi “La democrazia repubblicana è in pericolo”, come recita il titolo del post di apertura del blog di Beppe Grillo? Davvero essa, strangolata dai famigerati mercati e dagli gnomi del liberismo più cinico e selvaggio, ha bisogno del soccorso popolare? Personalmente non la penso così. Solo chi in passato si è fatto delle illusioni intorno al “libero gioco democratico” oggi può credere, sbagliando, che il voto dei cittadini non conta più, mentre ieri invece esso contava, eccome, nelle decisioni politiche dei governi. Uno dei più celebri professionisti della “deriva autoritaria”, Stefano Rodotà , già agli inizi degli anni Ottanta lamentava la trasformazione del Parlamento in un “votificio”. La crisi economica e politica che ha investito l’Italia e l’Europa ha semplicemente reso evidente una verità prima celata sotto uno spesso velo ideologico: la democrazia sancisce l’impotenza sociale delle classi dominate, chiamate ogni tot anni a “scegliere” i funzionari del Leviatano messo a guardia degli odierni rapporti sociali. Il tanto discusso “commissariamento” della politica è la continuazione della democrazia con altri mezzi, così come, mutatis mutandis, la Repubblica nata dalla Resistenza si è data come la continuazione del Fascismo con altri mezzi, in un contesto nazionale e internazionale mutato dalla Seconda carneficina mondiale» (I professionisti della “deriva autoritaria”).

20120417_portugal-troikaOra, non so dire se «La sovranità nazionale è di sinistra», come sostengono in molti (ne cominciò a parlare Bertinotti alla fine degli anni Novanta in opposizione al progetto secessionista della Lega), piuttosto che di “destra”; posso però sostenere con una certa convinzione, corroborata da una lunga serie di eventi passati e presenti, di portata nazionale e sovranazionale, che tale sovranità ha necessariamente una natura ostile a tutto ciò che odora di umanità. Questo semplicemente perché essa è radicata sui vigenti rapporti sociali capitalistici, rapporti sociali di dominio e di sfruttamento che non mutano di segno se a governarci, nell’accezione più ampia del concetto, è il sistema democratico oppure il sistema autoritario, se le leve del comando sono nelle mani di un partito di “sinistra” piuttosto che di “destra”. Sempre ammesso che queste categorie politologiche conservino ancora un significato, anche solo residuale. Non dal mio punto di vista, si badi bene, ma da quello di chi li adopera credendo ipso facto di poter dividere il mondo in buoni e cattivi. Su questo punto (soprattutto a proposito della «deriva manettara della sinistra») Piero Sansonetti ha scritto cose intelligenti.

Nella misura in cui “sinistra” e “destra” non mettono in questione, neanche alla lontana, il vigente status quo sociale, sinistri e destri per me pari sono. Sto sostenendo un punto di vista “qualunquista”? Penso proprio di no. Penso di affermare piuttosto un punto di vista classista, il quale discrimina le forze politiche sulla scorta della loro adesione o avversione allo status quo di cui sopra. Ad esempio: chi afferma la necessità di «contrastare la globalizzazione selvaggia» magari sarà di “sinistra”, ma certamente non è un anticapitalista, perché la globalizzazione, «selvaggia» o meno, è una processo sociale immanente al concetto stesso di Capitale, come il vecchio ubriacone di Treviri non mancò di osservare nell’infinitamente remoto XIX secolo. E noi ancora a cavillare su capitalismi “selvaggi”, “liberisti”, “neoliberisti”, “turbo”, “ben temperati”, “sostenibili” e insulsaggini di ugual conio teoretico.

pigs_vs_troika_bisSotto questo peculiare aspetto, tendo a dar credito ai “destri” come Giorgia Meloni e Marine Le Pen quando affermano che «Essere contro questa Europa non è di destra o di sinistra, ma è solo volontà di non arrendersi. Noi siamo per un grande movimento patriottico». Ecco, il «movimento patriottico», comunque declinato, alle mie internazionalistiche orecchie suona alquanto sinistramente, diciamo. Non perché io voglia aderire dogmaticamente e astrattamente alla prescrizione marxiana sopra ricordata, ma piuttosto perché in quanto proletario provvisto di un minimo sindacale di «coscienza di classe» (una volta si chiamava così) non voglio impiccarmi né all’albero dei “liberisti-selvaggi” né a quello degli statalisti (sinistrorsi o destrorsi che siano, inclusi i teorici del fantomatico Comune come “terza via” tra pubblico e privato); né all’albero dell’europeismo (compreso quello pasticciato dai teorici dell’Altra Europa possibile) né a quello del sovranismo («La Polonia ha rimandato l’ingresso nell’eurozona. Una forma felice di nazionalismo!»).

Grazzini ha ragione quando sostiene che «il marxista Matteo Bartocci non si accorge neppure che all’interno dell’Europa gli stati competono già ferocemente»; personalmente ormai da diversi anni parlo della crisi che scuote l’Unione Europea nei termini di una vera e propria guerra capitalistica per l’egemonia nel Vecchio Continente che al momento vede vincente la Germania, che fa valere la sua indiscussa e da sempre temuta superiorità sistemica. Ma la critica all’europeismo senza se e senza ma di chi nega la realtà per non rinunciare al «sogno» degli Stati uniti d’Europa non mi spinge certo a schierarmi con questo o quel competitore.

Naturalmente non pretendo di convincere chi si indigna per la «svendita delle maggiori aziende nazionali, soprattutto nel campo delle tecnologie e del risparmio», e si batte caparbiamente contro una politica interna asservita (indovinate un po’) alla famigerata Troika e prona ai diktat (indovinate un po’) dei tedeschi che «condannerà l’Italia al sottosviluppo e alla dipendenza». Beninteso, i destini del Capitalismo tricolore mi interessano, eccome, ma in una guisa che il sincero patriota potrebbe a ragione qualificare come disfattismo, magari foraggiato dai poteri forti internazionali che vogliono mettere le loro avide mani sui nostri gioielli nazionali: Signori, qui si tradisce la Patria! Ecco, infatti. Su questo punto sono abbastanza sereno. Ma non… Serenissimo… *

OLYMPUS DIGITAL CAMERA* Ogni riferimento ai recenti fatti politico-giudiziari sui patrioti veneti è puramente voluto. Anche con funzioni scaramantiche: il carcere al momento preferirei risparmiarmelo.

MORIRE PER L’EURO O PER LA DRACMA?

Il pratico è un uomo abituato alla quotidianità, al modo in cui le cose funzionano di solito. Ma quando le cose non vanno, allora c’è bisogno del pensatore, dell’uomo che possiede una qualche dottrina sul perché le cose solitamente funzionano. È ingiusto suonare il violino mentre Roma brucia, ma è del tutto legittimo studiare la teoria dell’idraulica, mentre Roma brucia (Chesterton, Sull’ideale, cit. tratta da Jacob Taubes, In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt).

Oggi in Grecia la Moltitudine è chiamata a decidere se desidera versare lacrime e sangue per conto della famigerata Troika transnazionale piuttosto che per la miserabile classe dirigente nazionale; se vuole continuare a sopravvivere sotto l’Euro o sotto la Dracma, se è preferibile il dominio sociale capitalistico espresso in una moneta sovranazionale piuttosto che in una nazionale, se le conviene nuotare nel mare agitato di un Capitalismo competitivo (modello tedesco o modello anglosassone: scegliere, prego!), ovvero galleggiare in un Capitalismo assistito dal Leviatano – che poi presenta i conti dei pasti ritenuti, a torto, gratuiti. Ecco in che cosa si risolve la prassi democratica: i dominanti chiedono ai dominati in quale forma essi desiderano venir sfruttati, comandati e, a volte, mandati al macello. Oggi la lana, domani la carne.

Per mettere in riga gli ellenici la teologia politica tedesca ricorda che «Se c’è una punizione deve esserci anche una colpa». Vero. Si tratta di dare un nome a questa Colpa.