HOLODOMOR. IL GENOCIDIO DIMENTICATO

HolomdorQuando i “comunisti” non mangiavano i bambini, ma si limitavano a farli morire di fame

Compulsando il sito dell’Istituto Bruno Leoni, forse la più agguerrita trincea dell’italico liberismo economico, mi sono imbattuto nella seguente informazione: il 27 aprile, a Milano, si terrà la presentazione del libro Il genocidio dimenticato 1932-1933 (Della Porta, 2015) scritto da Ettore Cinnella, indiscussa autorità negli studi storici dedicati all’Europa Orientale. «Tra l’autunno 1932 e la primavera 1933 sei milioni di contadini nell’Urss furono condannati a morire di fame: quasi i due terzi delle vittime erano ucraini. Quella carestia di proporzioni inaudite non fu dovuta ai capricci della natura, ma venne orchestrata da Stalin per punire i ribelli delle campagne che, in tutta l’Urss, si opponevano alla collettivizzazione imposta dall’alto. In Ucraina lo sterminio dei contadini, il cosiddetto holodomor, si intrecciò con la persecuzione dell’intellighenzia e con la guerra al sentimento patriottico di un popolo. Sulla base della documentazione emersa dopo il crollo dell’Urss, il libro ricostruisce quei drammatici avvenimenti e spiega le motivazioni che spinsero Stalin a prendere decisioni così spietate» (IBL). Così mi sono ricordato che sul «cosiddetto holodomor» (la morte indotta per fame) anch’io ho scritto una breve nota due anni fa, giusto per ricordare a me stesso che quella spaventosa tragedia va senz’altro attribuita al trionfante capitalismo di Stato russo, alla sua feroce necessità di bruciare i tempi dell’«accumulazione originaria» nella Russia capitalisticamente arretrata – anche per soddisfare, per mezzo dell’industria pesante, la tradizionale vocazione imperialista del gigantesco Paese dopo l’inatteso smacco subito nell’Ottobre 1917.

Si trattò di uno sterminio, pianificato nei dettagli, che senza dubbio rappresenta uno tra i capitoli più oscuri del metaforico libro nero del capitalismo mondiale, comprensibilmente sfruttato dai nemici dichiarati del comunismo per glorificare agli occhi del proletariato la superiorità economica, politica ed etica del capitalismo – al netto della “follia” nazista, si capisce. Anche la sezione italiana dello stalinismo internazionale (vedi il PCI di Togliatti e dei suoi eredi) fece di tutto per nascondere quell’immane catastrofe sociale; il temerario militante che osasse palesare qualche pur timido dubbio circa i metodi e la natura sociale della “grande epopea” chiamata collettivizzazione forzata delle campagne, finiva puntualmente etichettato come “oggettivo” nemico del – cosiddetto – socialismo, la cui costruzione, d’altra parte, non è certo assimilabile a un pranzo di gala. Magari all’inferno precipitato sulla Terra, sì, ma non certo a un pranzo di gala: siamo materialisti dialettici, per Stalin!

Scrive Alessandro Vitale, dell’Università degli di Studi di Milano, nemico delle «interpretazioni accademiche ideologiche a lungo imperanti in Occidente, diffuse dalle camarille universitarie dominanti»: «L’attenzione ai documenti, consente all’Autore di ricostruire i reali intenti dei padroni del Cremlino (tenendo conto anche della situazione internazionale dell’epoca) che nel 1932-33 scatenarono una guerra micidiale di annientamento contro i contadini ucraini e le loro terre fertilissime (le “terre nere”), devastate da pratiche parassitarie di Stato, violente e di rapina. La statalizzazione integrale dell’agricoltura e gli insopportabili obblighi di ammassi dei raccolti furono accompagnati dall’accerchiamento dei villaggi, sbarrando i confini occidentali ucraini per impedire la fuga degli affamati, bloccando i villaggi per impedire l’esodo nelle città, negando con la propaganda la realtà di quella brutale e sistematica violenza, impedendo i soccorsi organizzati da coloro che erano al corrente della situazione e accompagnando il tutto con deportazioni, fucilazioni, saccheggi ordinati da politici lontani, rozzi, ignoranti e incompetenti. Il quadro è quello di un’ecatombe, della discesa all’inferno per milioni di persone volutamente massacrate dopo essere state ridotte al cannibalismo e alla regressione allo stato ferino. Un “capolavoro” del sistema sovietico: la condanna alla morte per fame in alcune fra le più ricche regioni agricole d’Europa» (Memorial Italia). Hanno realizzato l’Inferno reale sulla terra e lo hanno chiamato «Socialismo in un solo Paese».

Ho letto da qualche parte che sarebbe sbagliato attribuire esclusivamente all’esperienza del falso “socialismo reale” la perdurante impotenza delle classi subalterne, la loro incapacità a immaginare una concreta alternativa al capitalismo. Non c’è dubbio. Le profondissime trasformazioni sociali determinate dall’espansione del rapporto sociale capitalistico su base planetaria certamente non hanno risparmiato il corpo (la “composizione di classe”) e la coscienza dei dominati. Sarebbe tuttavia altrettanto sbagliato, a mio avviso, sottovalutare il maligno retaggio del «socialismo reale», le cui profonde tracce si trovano, ad esempio, in tutti i libri dedicati al Postcapitalismo pubblicati in questi ultimi anni e ancora in questi mesi. Questi libri dimostrano, oltre ogni ragionevole dubbio*, che immaginare un’alternativa al capitalismo partendo dall’infondato presupposto della natura «comunque socialista» del capitalismo di Stato di matrice stalinista/maoista realizza un solo risultato, quello di architettare un “postcapitalismo” non solo chimerico, ma anche odioso agli occhi di chi non vuole semplicemente “umanizzare” e “democratizzare” il capitalismo (per mezzo delle mitologizzate e feticizzate  “tecnologie intelligenti”), ma desidera fortemente uscire dall’attuale dimensione classista della società e della storia. Ma su questo punto ritornerò, forse, un’altra volta.

* L’ultimo esempio in ordine di tempo mi è stato offerto dalla lettura del libro di Paul Mason, giornalista economico inglese di simpatie laburiste, Postcapitalismo. Una guida per il nostro futuro (Il Saggiatore, 2016), la cui prospettiva dottrinaria e politica è, appunto, interamente dominata dallo spettro del falso socialismo edificato in Russia ai tempi di Stalin; spettro che finisce per proiettare la sua nera ombra anche sull’opera politica del comunista di Treviri. «Noi non dobbiamo sconfiggere il capitalismo, dobbiamo cambiarlo. Perché l’alternativa al capitalismo non è il socialismo. Non più». Inutile dire che anche Mason confonde il socialismo, più o meno “reale”, con il capitalismo di Stato costruito a tappe forzate in Unione Sovietica a partire dal 1928: «Lo stato assumeva il controllo del mercato, lo gestiva in favore dei poveri invece che dei ricchi» (p. 16). Una concezione che definire ingenua, oltre che errata sul piano dottrinario e storico, è ancora troppo poco. «Per tradurlo in realtà [qui si parla del mondo “postcapitalista” che, a quanto pare, sorride all’umanità], dobbiamo far tesoro degli insegnamenti negativi offerti dalla transizione fallita in Unione Sovietica. Dopo il 1928, l’Unione Sovietica cercò di forzare l’avanzamento verso il socialismo ricorrendo alla pianificazione centralizzata. Il risultato fu qualcosa di peggio del capitalismo, ma nella sinistra moderna c’è una forte avversione a discuterne» (p. 180). Avversione che probabilmente si spiega con la natura essenzialmente stalinista delle radici storiche della «sinistra moderna» di cui parla Mason e della quale chi scrive non ha mai fatto parte – probabilmente per mero accidente, sia chiaro, non certo per qualche innata predisposizione intellettuale o “genetica”. Anche sull’interessante libro di Mason penso di ritornare quanto prima.

LA SINDROME DI MONACO

russiForse mai come nel caso di specie un accordo di pace, o di tregua, ha ricevuto un’accoglienza tanto fredda da parte di quasi tutti gli osservatori di politica internazionale. Se c’è stato un barlume di ottimismo, esso è durato davvero poco. Già venerdì i maggiori quotidiani europei e statunitensi mostravano di non avere dubbi nell’additare Putin come il vero vincitore del summit di Minsk. «Alla fine, è lui che vince», titolava Libération venerdì scorso. E non a torto. Sulla performance bielorussa di Angela Merkel i pareri dei commentatori sono invece discordi: alcuni la coinvolgono nel generale disastro della (inesistente) politica estera europea, altri all’opposto ne rimarcano l’accresciuta forza, anche a scapito dell’alleato statunitense. Ad esempio, Gian Enrico Rusconi, uno dei più quotati germanisti del nostro Paese, è disposto a concedere altro credito alla Cancelliera di Ferro: «L’Europa si trova esposta e in serie difficoltà lungo tutto il suo confine geopolitico orientale e sudorientale. Dall’Ucraina, alla Libia, passando per la Grecia. Tre crisi di natura e gravità molto diverse ma micidiali nel loro convergere. Mostrano impietosamente la fragilità politica dell’Unione europea nel farvi fronte. Forse che la Germania della Merkel può porvi qualche rimedio? Per fortuna dunque c’è la Germania della cancelliera Merkel?» (La Stampa, 15 febbraio 2015). La risposta di Rusconi è problematicamente positiva.

Detto en passant, l’opinionista della Stampa fa molto bene a mettere insieme quelle tre crisi, non solo perché esse in qualche modo convergono su un identico punto di caduta, mettendo alla prova l’hegeliana legge dialettica della quantità che, superato il punto critico, determina nella cosa un salto qualitativo; ma soprattutto perché quelle crisi sorgono sulla base di un sistema sociale che ormai abbraccia l’intero pianeta e che è attraversato da contraddizioni e conflitti sempre più intensi e profondi. Basti pensare alla genesi recente della crisi libica: i raid aerei francesi contro il regime di Gheddafi nel marzo 2011. Oggi Romano Prodi inveisce contro la «sconsiderata» iniziativa di Sarkozy, appoggiata obtorto collo anche dal riluttante Berlusconi, ma allora dal fronte antiberlusconiano fu tutto un fiorire di commenti sarcastici su un Cavaliere Nero azzoppato anche sul fronte geopolitico. Adesso, la minaccia dello Stato Islamico portata al cuore dell’«Occidente Crociato» offre al Belpaese l’occasione per riprendersi dallo scacco subito dai cugini d’Oltralpe e difendere in modo più attivo (militare) i suoi vitali interessi economici e geopolitici.

Anche il civettare di Tsipras con la Russia e con la Cina in funzione antitedesca legittima, a mio avviso, la trinità critica (Ucraina, Libia e Grecia) proposta da Rusconi. Si tratta, infatti, di un civettare che trasuda mistificazione e violenza da tutti i pori. Checché ne dicano i tifosi italioti del nuovo governo greco.

In generale, il processo sociale capitalistico scuote tutto il pianeta, mettendo in crisi i vecchi equilibri sistemici sia nelle aree più sviluppate, sia in quelle meno sviluppate: vedi le cosiddette “Primavere Arabe”. Si entra in crisi sia per “troppo capitalismo”, sia per “troppo poco capitalismo”, secondo la legge dell’ineguale sviluppo del Capitalismo che qui è sufficiente evocare. Ma ritorniamo al summit di Minsk.

Alla fine, l’«irresponsabile» politica del fatto compiuto praticata dal Presidente russo avrebbe prevalso sulle indecisioni e sulle divisioni che minano il fronte occidentale, il quale dopo una debole resistenza diplomatica si sarebbe acconciato a un compromesso al ribasso a spese di Kiev – e, in prospettiva, di Varsavia e delle capitali baltiche. E questo, per pavidità, per opportunismo e per mancanza di una vera strategia unitaria. Anziché tenere duro e mostrare i muscoli, il solo linguaggio che lo Zar di Mosca sarebbe in grado di comprendere, l’Occidente avrebbe ancora una volta tradito i suoi valori nella vana illusione che una politica di appeasement con il nemico possa indurre questo a più miti consigli. Ma l’arrendevolezza eccita l’orso, anziché placarlo, e la fame, com’è noto, «vien mangiando»: quanto è grande la fame di “spazio vitale” di Vladimir?

conferenza-monaco1938Ecco insomma riappare per l’ennesima volta nel dibattito politico internazionale lo «spirito di Monaco», con allusione fin troppo scoperta alla Conferenza che nel 1938 si tenne nella città tedesca con piena soddisfazione degli appetiti territoriali del Führer. A fare le spese dell’aggressività dei tedeschi e dell’arrendevolezza di francesi e inglesi fu allora la Cecoslovacchia, che dovette cedere al Terzo Reich una parte del suo territorio abitato da persone di etnia tedesca. La rivendicazione tedesca dei Sudeti apparve a Mussolini, Chamberlain e Daladier comprensibile e tutto sommato accettabile, soprattutto alla luce dell’imperativo categorico riconosciuto da tutte le parti in causa: il mantenimento della pace in un’Europa ancora segnata dalle cicatrici della Grande guerra. La pace ha vinto, proclamò il pomposo Duce degli italiani, allora ai vertici della popolarità; la cessione dei Sudeti soddisfa completamente le rivendicazioni della Germania, proclamò Hitler. Chamberlain e Daladier pensarono di aver acquistato quantomeno tempo, utile a preparare le rispettive nazioni all’urto bellico che appariva comunque incombente. Un mese dopo il Führer dava l’ordine di «inglobare tutta la Cecoslovacchia», e siccome la fame vien mangiando, nel marzo del ‘39 la Wermacht occupa il territorio di Memel in Lituania mentre Hitler rivolge alla Polonia rivendicazioni territoriali che Varsavia respinge prontamente al mittente. Il 27 agosto dello stesso anno Germania a Unione Sovietica firmano un accordo di non aggressione, con annesso protocollo segreto che definisce le reciproche sfere di interessi nell’Europa orientale. Il seguito della storia è noto.

Minsk 2015 come Monaco 1938? Donetsk e Lugansk come i Sudeti? Hitler come Putin? Merkel e Hollande come Chamberlain e Daladier? Molti la pensano così, e già un anno fa l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton dichiarava quanto segue: «L’operato di Vladimir Putin in Crimea ricorda quello di Hitler prima della Seconda Guerra Mondiale. Quello che sta accadendo in Ucraina ha qualcosa di familiare. È quello che Hitler fece negli Anni Trenta. A tutti i tedeschi “etnici”, i tedeschi di ascendenza che vivevano in Cecoslovacchia, in Romania e in altri luoghi, Hitler continuava a dire che non erano trattati bene. Diceva: “devo andare a proteggere il mio popolo”. La missione di Putin appare quella di voler ripristinare la grandezza russa, riaffermando in particolare il controllo sui Paesi dell’ex Unione Sovietica. Quando guarda l’Ucraina, Putin vede un luogo che crede essere, per sua natura, parte integrante della “Madre Russia”». L’ultima parte del ragionamento potrebbe essere sottoscritto dal Presidente russo, il quale non ha mai fatto mistero di voler in qualche modo ripristinare lo spazio vitale che la Russia ha perso in seguito al crollo dell’Unione Sovietica: le forme politico-ideologiche dell’Imperialismo passano, la sostanza di quell’Imperialismo rimane, e rivendica i suoi diritti. Contro altri diritti, egualmente legittimi sulla base della vigente struttura sociale del pianeta.

Qui mi permetto la solita (antipatica?) autocitazione: «Quando Putin dichiarò, all’inizio della crisi in Crimea, che Mosca avrebbe difeso con ogni mezzo la vita e gli interessi dei cittadini russi ovunque essi vivano, a molti osservatori di politica internazionale e a molti storici balenò subito alla mente la Germania di Hitler affamata di “spazio vitale”. Una sorta di riflesso condizionato che a mio avviso ha un suo fondamento, naturalmente cambiando quel che c’è da cambiare, come è sempre giusto fare quando si mettono a confronto differenti eventi storici. Ciò che tuttavia rende legittimo, almeno ai miei occhi, l’accostamento azzardato dalla Clinton è la natura imperialistica dei due fatti storici. Natura che ovviamente accomuna tutti i protagonisti di ieri e di oggi, compresi gli Stati Uniti d’America, i quali dalla Prima guerra mondiale in poi hanno indossato i panni dei paladini della democrazia e della civiltà occidentale» (Due parole sulla Crimea, 16 marzo 2014).

Scriveva Charles Urjewicz nel 1994: «Venticinque milioni di russi vivono fuori della Russia e, da un giorno all’altro, si sono trovati ad essere quasi degli stranieri; vivono nel cosiddetto “estero vicino” [11 milioni in Ucraina secondo il censimento del 1981], formando una sorta di diaspora nelle province della Russia […] La Russia non possiede i mezzi per accogliere, e ancora meno per integrare, questi immigrati sui generis» (Il gigante senza volto, Limes, 1/94). Nel frattempo la Russia è diventata più forte, grazie soprattutto agli alti prezzi delle materie prime, petrolio e gas in primo luogo, che abbondano nel suo sottosuolo, e questo ha notevolmente accresciuto la sua forza di attrazione verso l’Estero Vicino, a cominciare dall’Ucraina, sottoposta appena due anni dopo la proclamazione d’indipendenza (24 agosto 1991) a forti tensioni sociali (crisi dell’industria pesante e del complesso industriale militare di matrice sovietica) ed etniche (Galizia e altre regioni occidentali versus Crimea* e altre regioni orientali). Nonostante l’esito univoco, a favore di un’Ucraina «indipendente, pluralista e democratica», del referendum sull’indipendenza del dicembre 1991, la tenuta dell’unità nazionale del Paese è stata sempre appesa a un filo, che adesso si è spezzato nel peggiore dei modi. La rapida discesa dei prezzi delle materie prime degli ultimi mesi ha d’altra parte riproposto la debolezza strutturale dell’imperialismo russo, la cui capacità attrattiva deve necessariamente evolversi qualitativamente attraverso una profonda ristrutturazione di tutta l’economia russa. Più facile a dirsi che a farsi, come sa bene l’energico Vladimir.

* Carmela Giglio offre una interessante lettura della decisione presa da Khruščëv nel 1954 di “regalare” la Crimea all’Ucraina: «Tra le possibili spiegazioni della mossa del Cremlino, spicca quella che Mosca abbia usato la Crimea per aizzare i popoli musulmani contro Kiev, ennesima versione del comandamento divide et impera. Fino alla deportazione voluta da Stalin nel ’44, la penisola era stata la terra d’origine e d’elezione dei tartari di Crimea. Mosca ha così buon gioco a fomentare un “imperialismo” ucraino cedendo alla repubblica una regione che per diritto spetterebbe ai tartari. Inoltre, considerando la particolare animosità spesa contro la Turchia nella campagna propagandistica per la “riunione” di mosca e Kiev, la cessione della Crimea può rientrare nei piani russi di esercitare pressioni su Ankara servendosi dell’Ucraina. Gli ucraini, dal canto loro, pagano a caro prezzo questo regalo di Mosca, fornendo larga parte della manodopera necessaria per colonizzare le terre vergini della Siberia e del Kazakhstan. Sono gli anni in cui la russificazione e la slavizzazione delle estreme regioni sovietiche, già iniziata nel ’41, raggiunse la punta massima. […] La politica dei nuovi insediamenti favorì le popolazioni slave contro quelle non slave dell’Unione Sovietica. Di questo complesso gioco la Crimea è una delle pedine» (La fatal Crimea, Limes, 1/94). Il regime sovietico seppe muovere con estrema perizia la leva nazionale ed etnica per indebolire le spinte centrifughe sempre latenti e incombenti e rafforzare il potere centrale.  Inutile dire che tale perizia fu causa di oppressione, di sfruttamento e di milioni di morti, fatti passare sotto silenzio anche dai moltissimi stalinisti made in Italy.

LA TAIGA DELL’ORSO

putin-bear2L’orso russo perde il pelo ma non il vizio. E soprattutto la bestia impellicciata è molto arrabbiata, e ci tiene a farlo sapere alla concorrenza. Fuor di metafora, sono due, in ordine di tempo, gli esempi che illustrano bene l’umore della Russia di Vladimir Putin dopo le “inique sanzioni” occidentali sulla questione ucraina e la flessione del prezzo del petrolio*.

  1. Il trionfo di Putin a Belgrado. «La grande parata organizzata, praticamente in suo onore, a Belgrado il 16 ottobre scorso in occasione dei 70 anni dalla liberazione dai tedeschi della capitale serba da parte dell’Armata Rossa. […] Il calore riservato a Putin e la minuziosità con cui è stato preparato l’evento chiariscono il messaggio che il Cremlino ha voluto lanciare: “la Nato può anche arrivare fino ai nostri confini e minacciare di superarli, ma noi siamo saldamente presenti – politicamente, militarmente ed economicamente – nel cuore dell’Europa, anzi lì dove da sempre l’Europa è più turbolenta e scoppiano le grandi crisi, nei Balcani”» (A. Sansoni, Limes, 21 ottobre 2014).

Lanciato nel centenario della Grande Guerra, il messaggio non suona esattamente come un buon auspicio.

  1. L’annuale tre giorni di discussioni organizzata a Sochi dal Valdai club e conclusasi il 24 ottobre. In un discorso durato 40 minuti, il virile Presidente russo ha espresso tutto il suo disaccordo in merito alla posizione dell’Occidente sulla Russia. A un certo punto Putin ha citato un proverbio latino: «Quello che è concesso a Giove, non è concesso al bove». «Non possiamo essere d’accordo con queste definizioni», ha detto Putin. E ha concluso: «Forse non è ammissibile per un bue, ma devo dire che un orso russo non chiede il permesso a nessuno. L’Orso russo è il padrone della Taiga e non rinuncia a niente».

La Taiga ovviamente è il cortile di casa, o estero-vicino, della Russia.

Dalle parti di Washington e Varsavia** non l’hanno presa bene. Berlino*** e Roma pensano invece ai loro affari con la Russia, che adesso vanno male, e non vedono l’ora di sedersi al tavolo della pace con l’orso russo. Perché morire per la Taiga dell’orso? Il Times di Londra l’atro ieri ha scritto che «a Putin dev’essere ricordato che l’Ucraina è uno Stato sovrano, non il territorio di caccia dell’orso russo». Per Le monde, dopo quello che è successo e che continua ad accadere nell’Ucraina orientale, e alla luce del persistente attivismo diplomatico e militare della Russia putiniana «il peggio non è da escludere». Come si vede, altre parole volte a rassicurare l’opinione pubblica internazionale. Diciamo.

Ma non preoccupatevi: non ci sarà una nuova Guerra Fredda, nonostante l’evocazione di orsi e di foreste siberiane. «E una guerra Calda?». Per la risposta il lettore deve rivolgersi alla cartomanzia: qui al più si “divinizza” il passato – meglio se remoto…

«Secondo Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, nello scontro tra il multipolarismo e l’unipolarismo statunitense Putin sta tentando di resistere agli Stati Uniti. Questo grazie al rafforzamento di una serie di legami politici e culturali fuori e dentro i propri confini nazionali spesso esprimenti sistemi valoriali tra loro diversi. Il presidente russo è certamente consapevole dei rischi che potrebbero comportare queste alleanze. Una politica di de-escalation della crisi in corso con Mosca è nell’interesse di ogni democratico europeo; altrimenti Putin potrebbe continuare a dare spazio a chi – come Salvini e Le Pen – nel Vecchio Continente si sta muovendo per spaccare l’Unione monetaria europea» (D. Flores, Limes, 4 novembre 2014).

Ma sono molti in Europa anche gli “antimperialisti” di provata fede “marxista” (leggi stalinista, più o meno 2.0) che sognano la formazione di un grande polo imperialista, con al centro la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping, da contrapporre al polo egemonizzato dagli Stati Uniti. È nell’interesse di ogni autentico anticapitalista (europeo, americano, russo, cinese, ecc.) opporsi all’imperialismo unitario (ma non unico né unito: tutt’altro!) e alla sua guerra sistemica, qualsiasi forma essa assuma: “fredda”, “calda”, politica, militare, economica, tecnologica, ideologica e via di seguito.

con-naryshkin* «Per Mosca l’Ucraina è solo un effetto scatenante che si somma ad altre incertezze politiche interne russe, finora rimaste in ombra come la fuga di capitali, le difficoltà dei Paesi emergenti colpiti dal tapering della Fed e dal calo dei prezzi delle materie prime che stanno facendo venire a galla squilibri di parte corrente o di deficit pubblici, fragilità finora restati fuori dall’attenzione dei mercati. […] Ieri la divisa russa ha raggiunto un nuovo minimo storico a 49,4 per euro e il minimo da cinque anni sul dollaro a 36. La svalutazione del rublo infatti ha l’effetto di ridurre le spese interne, ad esempio il pagamento delle pensioni, in relazione alle entrate fiscale generate dei prezzi del petrolio sul mercati internazionali, espressi in dollari. Sarà ma i mercati vedono anche rischi di inflazione, e fuga dei capitali» (Vittorio Da Rold, Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2014).

** Scrive la Newsweek Polska di Varsavia (16 ottobre 2014): «Nei Balcani la situazione è ancora peggiore. Una gran parte della popolazione si identifica con i russi, e non solo per ragioni storiche. Per Krastev i bulgari si considerano i grandi perdenti dei cambiamenti avvenuti in Europa e ritengono che la posizione del loro paese si sia ulteriormente degradata negli ultimi 25 anni, sull’esempio di quella russa. Inoltre non si sentono legati agli ucraini. La Slovenia e la Croazia non hanno nulla contro Putin e le sanzioni contro Mosca non piacciono loro. A sua volta la Serbia, che un giorno vorrebbe entrare nell’Ue, si identifica pienamente con la Russia. Solo i rumeni non si sentono attirati da Mosca e rappresentano l’eccezione nei Balcani – così come la Polonia nel gruppo di Visegrád. Angela Merkel ha già troppi problemi con i suoi connazionali, la cui maggioranza è contraria alle sanzioni, per cercare di far cambiare idea ad altri paesi. In secondo luogo l’Europa centrale, che in passato era molto filoamericana, adesso non sembra più dare fiducia agli americani. In ultima analisi si può affermare che le simpatie per Putin sono in gran parte un effetto secondario della crisi dell’Unione europea e del ritiro degli Stati Uniti dall’Europa».

*** Le sanzioni contro Putin affondano l’export della Germania.

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ucrainaContinua il bagno di sangue in Ucraina. «Fonti mediche della città di Donetsk, in Ucraina, hanno riportato che ammonterebbe almeno ad una trentina il numero dei morti degli scontri di ieri fra i miliziani filo-russi e i militari di Kiev, cosa riscontrabile dai cadaveri presenti all’obitorio. […] I miliziani filo-russi sono sempre più isolati dal Cremlino, al quale palesemente interessa solo mantenere il controllo sull’annessa Crimea, dove ha la potente base militare della Flotta del Mar Nero, anche come risarcimento per i debiti non pagati di Kiev: le truppe russe ai confini sono state ritirate e ieri il ministro degli Esteri Serghei Lavrov ha detto di essere pronto al dialogo con il neo-eletto presidente ucraino Petro Poroshenko, “ma senza mediatori”» (Notizie Geopolitiche, 27 maggio 2014).

Si tratta dell’«ennesima vergogna euro-americana», come sostengono i tifosi italiani di Putin? Non c’è dubbio, se vogliamo rimanere sul terreno dell’indignazione etica.

Peccato che essi non vedano l’altra faccia dell’escrementizia medaglia: l’attivismo dell’Imperialismo russo, il suo decisivo ruolo nella maledetta vicenda. Chi giustifica, di fatto, la Russia con l’argomento che essa, «in fondo», si muove dentro il suo cortile di casa, dentro il suo storico «spazio vitale», si piega nel modo più «vergognoso» alla sanguinosa logica degli interessi nazionali (quelli che, ad esempio, motivano la controffensiva di Kiev nell’Est del Paese) e imperialistici (vedi la contesa globale tra Cina, Russia, Stati Uniti, Europa, Giappone, ecc.).

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2Con ritardo mi sono imbattuto nell’interessante articolo di Andrea Ferrario dedicato alla «deriva di una parte della sinistra riguardo all’Ucraina». Ai miei occhi l’artico appare interessante soprattutto perché l’autore si riconosce pienamente nella «sinistra anticapitalista» italiana, quella che, per intenderci, fa dell’antifascismo militante il punto politico (e identitario) dirimente e discriminate più importante. Chi scrive, invece, non ha mai aderito all’antifascismo mainstream di matrice resistenzialista, e l’ha anzi sempre combattuto ritenendolo una forma particolarmente odiosa di ideologia al servizio dello status quo sociale.

A mio parere la lamentata «pericolosa deriva di settori del movimento» sulla questione ucraina (o su quella siriana) non è dovuta a «scivoloni», come crede Ferrario, ma a una griglia concettuale di stampo stalinista (e, per estensione, maoista e terzomondista) che nei fatti e sottotraccia non ha mai cessato di informare la teoria e la prassi di gran parte della «sinistra anticapitalista» italiana ed europea.

GORBACHEV-CHIESA_PressConference2006Da Facebook (20 maggio):

DALLA RUSSIA CON AMORE

Scrive Fosco Giannini (Marx XXI) a proposito della cosiddetta «manifestazione antimperialista e antifascista» di sabato 17:

«In piazza vi sono le televisioni nazionali russe: sono intervistati, e rispondono in lingua russa, Giulietto Chiesa e Luigi Marino. Ma molti sono i compagni della piazza cercati dai giornalisti russi». Nella mia enorme ingenuità non so spiegare il motivo di cotanto interesse dei massmedia basati nell’Imperialismo Russo per la manifestazione di gente che si dichiara «antimperialista». Misteri della fede (geopolitica).

Chiedo a Giulietto Chiesa: “Che ne pensi, com’è andata?”. “ È stata una grande cosa – risponde Chiesa –, specie in relazione al massiccio dispiegamento di forze politiche, culturali e mediatiche volte a deformare le notizie sull’Ucraina, a portare acqua al mulino dell’imperialismo”». Inutile dire che il simpatico Chiesa conosce un solo Imperialismo: quello di stampo occidentale centrato sugli Stati Uniti d’America. Per certi “antimperialisti” la Russia e la Cina rappresentano l’Asse del Bene. Certo, si fa fatica a crederlo, ma la realtà supera sempre, e di molto (oltre il parossismo, sovente) ogni più fervida (o contorta) immaginazione.

Ma ascoltiamo ancora il Chiesa-pensiero, e tratteniamo il respiro (o la sghignazzata): «Abbiamo bisogno di far capire agli antifascisti ucraini, ai compagni del Partito Comunista ucraino, al popolo e al governo russo e a tutto il mondo antimperialista che anche in Europa e in Italia in molti hanno capito e scendono in campo contro il nazifascismo. E oggi questo obiettivo è stato colto: le televisioni russe che sono qui in piazza Verdi già stasera, 17 maggio, manderanno in onda il servizio sul sit-in e a guardarlo saranno circa quaranta milioni di telespettatori russi». Qualcuno può dire all’uomo di Pandora TV che, se Marx vuole, la Russia di Stalin è morta e sepolta da qualche annetto a questa parte? Dite che lo sa? E che pure la Russia di Gorbaciov è andata a sgualdrine? Anche questo sa. A questo punto non so che dire. Diciamo.

«La manifestazione è forte e tranquilla», scrive con legittimo orgoglio antimperialista Giannini; «i compagni sono soddisfatti di come è andata, contenti dell’esito del duro lavoro fatto per farla riuscire». Mentre io mi esibisco in inutile chiacchiere, che si risolvono in un oggettivo fiancheggiamento dell’Imperialismo (quello solito: occidentale), «i compagni» agiscono e praticano l’antimperialismo. Di qui, la simpatia del governo russo e l’interesse dei media russi per «i compagni». A occhio, c’è qualcosa che non quadra. Ma cosa? Cosa?

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IL PUNTO SULLA “QUESTIONE UCRAINA”

È SCOPPIATA UNA NUOVA GUERRA FREDDA?

SULLA CRIMEA E SUL MONDO

DUE PAROLE SULLA CRIMEA

ESSERE VLADIMIR PUTIN

FANTAPOLITICA!

HOLOMODOR!

ULTIM’ORA DALL’UCRAINA!

KIEV. ANCORA SANGUE A PIAZZA MAIDAN

L’UCRAINA E I SINISTRI PROFETI DI CASA NOSTRA

L’IMPERIALISMO ENERGETICO DELLA RUSSIA

L’UCRAINA DA LENIN A LUCIO CARACCIOLO

QUANDO UNA STATUA DI LENIN (O DI MARX) CADE

INTRIGO UCRAINO

ODESSA E IL MONDO SEMPRE PIÙ FEROCE

1908321_813884558640004_2429129820417131050_nOdessa e il mondo «sempre più feroce»

«Corpi bruciati e accatastati l’uno sull’altro. Uomini, donne, bambini, cristallizzati nei loro ultimi momenti, mentre cercano una via di fuga dalle fiamme, ma non ce la fanno. Le immagini dei morti di Odessa, stipati come animali in gabbia nella casa dei Sindacati, fanno male agli occhi e al cuore» (Panorama.it).

«Non avevo previsto, per mancanza di coraggio intellettuale, che il mondo divenisse sempre più feroce» (William Butler Yeats).

Chi si sforza di cogliere la maligna essenza di questo mondo strutturato in classi sociali, per trovare il modo di archiviarlo, non può fare a meno di nutrirsi di questo «coraggio intellettuale». Per questo egli “prevede” con estrema facilità tutto il peggio possibile nella società che non conosce ancora l’uomo, ma solo «capitale umano» da mettere a valore.

Ai più questo “dono” appare quasi come un’affettazione cinica, magari di chi non riesce ad avere successo nel «mondo reale», e che per questo non vede che il male e s’inventa un mondo irreale di sua fantasia. Ma si tratta semplicemente di una coscienza che non vuole scendere a patti con il Dominio (in tutte le sue manifestazioni: economiche, politiche, geopolitiche, ecc.), e che sa che esso non è necessariamente e inevitabilmente l’ultima parola nella nostra storia.

D’altra parte, i fatti stessi si incaricano di ricordarci sempre di nuovo che «il mondo diviene sempre più pericoloso». Ma privi dell’irriducibile coscienza di cui sopra, facilmente ci abituiamo a sopravvivere «alla meno peggio» perfino nei campi di sterminio e nei «campi di rieducazione attraverso il lavoro». Per questo le sventure lontane non ci guastano l’appetito. Il «male agli occhi e al cuore» presto finisce. A cena esso sembra già del tutto assente.

trinceaDimmi con chi stai e ti dirò chi sei!

Molti stalinisti, più o meno dichiarati e più o meno “post ideologici”, sembrano vivere una seconda giovinezza. La crisi ucraina ha fatto questo cattivo miracolo. Ad esempio, mi è capitato di leggere su Facebook commenti di questo genere: «L’offensiva di Kiev fallirà senza bisogno dell’intervento dell’Armata Rossa». Capite? Armata «Rossa», non Russa. Lo so, qui siamo allo stadio più patologico dello stalinismo, ma non bisogna credere che quelli che applicano lo schema della Seconda guerra mondiale (quella «patriottica» e «antinazista»)* alla questione ucraina esibiscano un’eccellente stato di salute, quantomeno sul terreno dell’analisi politica e geopolitica. Per dirla con l’ubriacone di Treviri, la prima volta come tragedia, la seconda come malattia.

C’è gente talmente ideologicamente “malata”, che non capisce come essere contro tutti gli attori della crisi (filoeuropei, filorussi, filoamericani, nazionalisti, stalinisti, democratici, autoritari, ecc.) non equivale affatto ad assumere una posizione neutrale nel conflitto, ma come all’opposto questo atteggiamento sia il solo adeguato sul terreno dell’autentico anticapitalismo/antimperialismo. Non in un’astratta dimensione storica, ma nel 2014, nell’epoca della sussunzione totalitaria e mondiale del pianeta al Capitale. Se un “comunista” qualsiasi assimila l’autonomia di classe al neutralismo, vuol proprio dire che con lui perfino l’esorcista avrebbe vita difficile. Amen!

10262079_705833302796397_6196992169817477510_n* Scrivevo su un post pubblicato su Facebook il 25 aprile:

Un diffuso mito giustificazionista

Scrive Michele Nobile (Sinistrainrete, 10 aprile 2014):

«Un diffuso mito giustificazionista è quello basato sul ruolo dell’Armata rossa nella liberazione dell’Europa dal nazismo. A questo proposito, dovrebbe bastare ricordare che, se è vero che fu l’Unione sovietica a sopportare l’urto maggiore delle armate naziste dopo il giugno 1941 e poi a liberare da esse gran parte dell’Europa, tuttavia fu il patto tra Hitler e Stalin (per interposti ministri) nel 1939 che segnò l’inizio alla Seconda guerra mondiale: ad esso seguì immediatamente l’invasione e la spartizione della Polonia di comune accordo tra la Germania nazista e l’Unione sovietica. Se si vuol ragionare in modo geopoliticamente o strategicamente onesto, allora non dovrebbe essere difficile comprendere che l’alleanza di fatto fra i due totalitarismi fu quanto permise a Hitler di conquistare quasi tutta l’Europa continentale, essendosi assicurato il confine orientale e venendo pure rifornito di materie prime essenziali per la guerra dall’Unione sovietica, fino all’ultimissimo momento prima di rivolgersi contro di essa. La solidarietà con le atroci sofferenze dei popoli sovietici sotto il tallone nazista non può far passare in secondo piano il fatto che l’Armata rossa fosse strumento al servizio del totalitarismo sovietico e che esso si sia imposto con la forza nell’Europa centrale e orientale. Le rivolte dei lavoratori e le conseguenti repressioni in Germania orientale, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, sono lì a testimoniarlo. Questo è solo un esempio, ma storicamente e psicologicamente importante, per illustrare un concetto più generale: la politica estera sovietica e degli altri «socialismi» ha sempre avuto (ed ha) natura nazionalista e conservatrice».

Chissà perché queste considerazioni non suonano nuove alle mie orecchie. Forse perché è dalla fine degli anni Settanta che mi batto contro il «mito giustificazionista» e contro il mito resistenzialista, due facce della stessa ultrareazionaria medaglia. Intanto mi inchino con piacere al mito della Scampagnata!

Da Stalinismo di andata e di ritorno:

Per me lo stalinismo fu una dittatura capitalistica esattamente – mutatis mutandis sulla scorta del diverso retaggio storico – come lo furono, dittature al servizio del Capitale, il fascismo in Italia e il nazismo in Germania. Per certi versi quello russo (o «sovietico») fu un regime sociale ancora più oppressivo e miserabile di quello italiano e di quello tedesco. In più, ma dalla mia prospettiva sarebbe meglio dire ancora peggio, tale regime dittatoriale (capitalistico: questo elementare concetto va sempre ripetuto) si autoproclamava «socialista/comunista», gettando in tal modo nel discredito, con la zelante collaborazione degli stalinisti basati a Occidente, la stessa possibilità dell’emancipazione del proletariato internazionale e, dunque, dell’intera umanità. Basta insomma poco per comprendere perché lo stalinismo in tutte le sue varianti nazionali (togliattismo, maoismo, guevarismo, castrismo, ecc.) si sia subito imposto alla mia mente come il nemico principale su cui sparare a palle incatenate.

Infatti, per me si è trattato di cogliere due obiettivi strettamente correlati l’uno all’altro: 1. svelare la natura capitalistica del falso socialismo/comunismo russo (e poi jugoslavo, cinese, cubano, vietnamita e chi più ne ha più ne metta), mostrando per questa via la miserabile funzione controrivoluzionaria espletata dal cosiddetto «movimento comunista internazionale» devoto a Mosca (e poi in parte anche a Pechino); 2. combattere la falsa idea secondo la quale l’esperimento «sovietico» dimostrerebbe quanto vana sia la ricerca di una società fondata su rapporti sociali umani: «Se il comunismo è questo, meglio tenerci il capitalismo!». Gli stalinisti di tutto il mondo hanno fatto di tutto per confermare al 100 per 100 il noto aforisma di Churchill.

Non ho mai pensato che questa battaglia fosse facile, tutt’altro; ma una volta impadronitomi di questo fondamentale punto di vista su un evento che ha segnato l’intero Novecento, e che proietta la sua maligna ombra anche sul nuovo secolo, per me non si è posta all’attenzione alcuna alternativa, né a dire il vero l’ho mai cercata. Per mutuare un noto statista americano, sono da sempre un antistalinista non perché sia facile esserlo, ma perché è vero (ancora oggi, anche dopo il crollo dei miserabili muri!) esattamente il contrario.

Naturalmente da questo giudizio sullo stalinismo (come espressione della sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre) discendono a cascata una serie di importanti tesi: sulla Seconda guerra mondiale (come guerra imperialistica analoga alla Prima), sulla Resistenza (come continuazione della guerra imperialistica con altri mezzi e nelle mutate circostanze), sulla «Repubblica nata dalla Resistenza» (come continuazione del regime sociale capitalistico con altri mezzi e nelle mutate circostanze, e quindi in assoluta continuità “strutturale” con il precedente regime fascista), e via di seguito. Sul piano teorico, l’antistalinismo mi ha permesso di approcciarmi a Marx e a Lenin senza la maligna mediazione dei “marxisti-stalinisti”, cosa che mi ha evitato un miserabile destino di statalista-riformista-nazionalista.

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QUANDO UNA STATUA DI LENIN (O DI MARX) CADE

INTRIGO UCRAINO

IL PUNTO SULLA “QUESTIONE UCRAINA”

Scontri a Kiev2014. Morire per l’Europa: è il sobrio, ma nient’affatto beneaugurante, titolo dell’articolo di Oxana Pachlovska pubblicato nell’interessante numero di Limes (20/2014) dedicato alla cosiddetta «Crisi Ucraina». Perché cosiddetta? Lo spiega la stessa Pachlovska: «Ciò che designiamo con l’espressione “crisi ucraina” non costituisce un conflitto locale, bensì uno scenario di proporzioni mondiali. Non si tratta di un conflitto tra Kiev e Sinferopoli, bensì uno scontro frontale e ormai senza infingimenti tra Russia ed Europa e tra Mosca e Washington, “nuova Cartagine” da distruggere nell’ottica euroasiatica. […] Nell’ottica russa un’Ucraina indipendente protesa verso l’Europa non può e non deve esistere». Quale sia l’interesse strategico della potenza russa è chiaro a tutti, anche se le potenze concorrenti sorvolano sul punto per evidenti ragioni di marketing geopolitico. Meno chiari e certamente più contraddittori appaiono invece gli interessi occidentali, per il semplice motivo che 1. non esiste una Europa in quanto organico e coerente spazio geopolitico, bensì una serie di Paesi europei i cui specifici interessi nazionali non sempre consentono una efficace “sintesi unitaria” , e 2. non sempre gli interessi delle due sponde dell’Occidente separate/unite dall’Atlantico collimano, e anzi dalla fine della cosiddetta Guerra Fredda le occasioni di una divaricazioni di interessi strategici tra almeno una parte dei Paesi europei (pensiamo a ciò che accadde durante l’invasione americana dell’Irak) e gli Stati Uniti si sono moltiplicate.

«La crisi ucraina e i conseguenti rapporti più o meno autenticamente burrascosi dell’Unione europea con la Russia stanno gettando le tracce di una nuova geopolitica del gas: per quanto sia difficile che realmente quanto sta accadendo nel paese di Kiev possa incrinare in modo duraturo i rapporti fra i due blocchi specialmente in tema di energia, certo è che la strategia delle minacce fa intravvedere nuovi e possibili scenari interessanti. E se c’è qualcuno che si preoccupa, qualcun altro si sfrega le mani» (Notizie Geopolitiche, 17 aprile 2014). Fra chi si «sfrega le mani» poteva mancare la Germania? Certo che no: «In soccorso di Kiev è arrivata la tedesca RWE: il colosso dell’energia elettrica con sede ad Essen, nella Renania Settentrionale (Vestfalia), ha infatti iniziato a vendere il proprio metano a Kiev, unica tra tutte le società europee a farlo dall’inizio delle ostilità con la Russia, tramite un gasdotto che attraversa la Polonia. Si tratta di un contratto firmato con l’ucraina Naftogaz per una fornitura annuale a pieno regime di 10mld di m3, al prezzo, com’è stato spiegato, “d’ingrosso europeo»”. Forse a qualche vecchio polacco l’attraversamento del gasdotto germanico lungo il suolo patrio fa balenare vecchi e brutti ricordi.

Scrive giustamente Lucio Caracciolo (in realtà è una sorta di intelligente mantra che egli ripete crisi geopolitica dopo crisi geopolitica): «Nelle crisi ci svegliamo per quel che siamo e non per quel che vorremmo essere. Vale anche per gli attori geopolitici» (Lo specchio ucraino, Limes 4/14). Il mio mantra dice: «È l’eccezione che svela la vera natura della regola *». L’eccezione è la crisi (economica, geopolitica, sociale, esistenziale); la regola è il Capitalismo/Imperialismo.

1397464947232_fotocolore_8_500Ma ritorniamo a Caracciolo: «Il test dell’Ucraina, al quale si sono sottoposti russi, americani ed europei, ha prodotto un esito negativo per Mosca, positivo per Washington, catastrofico per l’unione Europea. Bilancio molto provvisorio, da riverificare nel futuro prossimo. Eppure ineludibile, se vogliamo intendere il senso di una partita la cui prima posta è la ridefinizione della sempre mobile frontiera fra impero russo e spazio euroatlantico». Detto che all’anacronistico concetto di «impero russo» preferisco quello più storicamente adeguato (almeno dai tempi di Stalin in poi) di Imperialismo russo, almeno in parte condivido l’analisi di Caracciolo. In effetti, l’attivismo politico-militare di Mosca non riesce a nascondere un dato di fatto: l’Ucraina colta nella sua precedente configurazione nazionale ha opposto una inaspettata resistenza a una sua organica integrazione nello spazio egemonico russo. La Russia ha investito tantissimo, in termini economici (alcune stime parlano di 200 miliardi di euro spesi negli ultimi venti anni) e politici, su Kiev per scongiurare l’esito a cui stiamo assistendo, e certamente farà di tutto per non trovarsi la NATO alle sue frontiere. Sulla debolezza strutturale dell’Imperialismo energetico russo rimando qui.

Già che ci sono formulo la solita retorica e provocatoria (ma solo alle orecchie delle tante mosche cocchiere del Bel Paese che svolazzano allegramente sulla cacca della competizione interimperialistica) domanda: possono gli antimperialisti occidentali che lottano contro la NATO allearsi “tatticamente” con l’Imperialismo russo? La risposta mi sembra già contenuta nella suggestiva domanda. A ogni buon conto, rimando il lettore ai miei precedenti post “geopolitici”.

Anche Caracciolo mostra di prendere sul serio l’unione Europea, sebbene per mostrarne le magagne: le divisioni, le contraddizioni, gli “egoismi nazionali”. I maggiori analisti geopolitici del pianeta sanno bene che solo la Germania potrebbe conferire peso sistemico e direzione strategica a un’Unione Europea di nuovo conio (un Quarto Reich?), ma naturalmente cosa ciò significhi in termini di competizione tra le Potenze è a loro altrettanto evidente.

«La Germania», lamenta Ian Bremmer, «ha una visione economica e non geopolitica» (La Stampa, 15 aprile 2014). Diciamo piuttosto che la Germania “ha fatto” geopolitica attraverso l’economia, come ben dimostra la Riunificazione del Paese e la creazione di un’area del Marco che coincide con l’area capitalisticamente più forte e dinamica del Vecchio Continente. D’altra parte, Berlino sa bene che Parigi, Londra, Mosca, Washington ecc. amano così tanto la Germania, che ne vorrebbero almeno tre (visto che due non sono bastate…). Da questo punto di vista è vero che la potenza sistemica del capitalismo tedesco è fonte di inquietudine per la stessa classe dirigente tedesca, la quale ha paura di assecondare anche geopoliticamente la natura capacità espansiva del Made in Germany. Gestire una macchina potente non sempre è facile.

Secondo Gregor Gysi, capogruppo parlamentare della Linke, «Molti russi si sentono umiliati dal crollo dell’impero sovietico. Quello che Putin ha fatto in Georgia, in Siria e ora in Ucraina dà ai russi la sensazione di essere ancora importanti». Non c’è dubbio, e chi lotta contro l’Imperialismo mondiale (russo, americano, europeo, cinese, italiano, ecc.) deve mostrare alle classi dominate il contenuto ultrareazionario del sentimento patriottico alimentato sempre di nuovo dalla propaganda nazionalista. La tesi marxiana secondo la quale l’ideologia dominante è quella delle classi dominanti, ossia quella che sorge spontaneamente sulla base dei vigenti rapporti sociali, nell’epoca della sussunzione totalitaria del mondo al capitale è più vera che mai. Non solo non bisogna “cavalcare”, alimentare e carezzare i “sentimenti popolari”, come fanno coloro che lavorano per la difesa dello status quo sociale (e magari “tirare su” tanti bei voti), ma bisogna piuttosto bastonarli con la più intransigente e puntuale delle critiche *.

«Dall’altra parte», continua Gysi, «Putin è prigioniero di un vecchio modo di pensare. Cerca – come gli Stati Uniti, del resto – di mantenere e consolidare la sua sfera d’influenza. Questo bisogna saperlo se si vuole convincere il governo di Mosca a non procedere verso l’escalation» (Intervista del Tagesspiegel, 8 aprile 2008). Peccato che quel «vecchio modo di pensare» sia radicato profondamente e necessariamente nella vigente dimensione del Dominio. Sono piuttosto le categorie di “vecchio” e di “nuovo”, declinate in modo ideologico, ossia tale da non consentire di afferrare la reale dinamica dei processi sociali, che bisogna dismettere una volta per sempre. Questo bisogna saperlo se non vogliamo farci arruolare anche solo “spiritualmente” in uno dei campi imperialistici in reciproca competizione.

images* «La trincea non è il non-luogo nel quale è sospesa la Legge della Civiltà, come suggerisce anche De Roberto, ma piuttosto l’eccezione che illumina a giorno la normalità (la Regola) di una dimensione esistenziale dominata da rapporti sociali che negano con tetragona necessità ogni autentica umanità» (1914-2014. La grande paura).

** «Per la popolarità Marx nutriva un sovrano disprezzo. […] La  folla era per lui il gregge senza idee, che riceveva pensieri e sentimenti dalla classe dominante. Finchè il socialismo non si è fatto spiritualmente strada tra le masse, per Marx il plauso della folla non può che andare a gente che si oppone al socialismo» (W. Liebknecht, Colloqui con Marx, p. 177, Einaudi, 1977).

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INTRIGO UCRAINO

SULLA QUESTIONE UCRAINA

Un contributo

kiev1_6401.Il principio di autodeterminazione dei popoli sotto l’egida dell’Imperialismo è stato da sempre una cinica menzogna, e lo è ancor di più oggi, nell’epoca della sussunzione totalitaria del pianeta al Capitale. Citare acriticamente le posizioni di Lenin o di Trotsky relative alla questione dell’autodecisione nazionale elaborate in un’altra fase storica, stavo per dire in un’altra era geologica (per rimarcare i tanti e profondi mutamenti intervenuti da allora nella struttura economica e geopolitica del capitalismo mondiale), significa, a mio parere, obliterare la sostanza del metodo storico-dialettico che informarono quelle posizioni.

2. Il nucleo vitale di esse va rintracciato nel principio secondo il quale i marxisti si approcciano ai problemi nazionali «non dal punto di vista dell’utopia piccolo-borghese del capitalismo pacifico, non per motivi di “giustizia”, ma dal punto di vista degli interessi della lotta rivoluzionaria del proletariato della nazione dominante, contro il capitalismo». Mentre gli «utopisti piccolo-borghesi sognano l’eguaglianza e la pace tra le nazioni in regime capitalista» (Lenin, Il proletariato e il diritto di autodecisione, 1915), i marxisti all’opposto approcciano anche la questione nazionale dal punto di vista della rivoluzione sociale anticapitalista. Non bisogna d’altra parte dimenticare che nella polemica che lo oppose ai sostenitori dell’indifferentismo in materia di rivendicazioni nazionali nel quadro geopolitico europeo (pensiamo a Rosa Luxemburg), Lenin considerava la questione dal punto di vista di un marxista russo, ossia di un anticapitalista nato in un Paese che opprimeva molte nazioni, etnie, culture, e che, fra l’atro, «non ha ancora compiuto la sua rivoluzione democratica borghese» (Lenin). Per questo egli può parlare senza opportunistici peli sulla lingua della democrazia borghese in Russia e negli altri paesi ritardatari in termini di sviluppo capitalistico (basti pensare alla Cina e all’India) come di un fatto storicamente progressivo.

3. Ciò che intendo dire è che la sostanza concettuale di molte delle parole che l’anticapitalista usa per descrivere e per cambiare il mondo, muta di significato e di funzione al mutare della struttura sociale. Di certo Marx non riscriverebbe allo stesso modo la parte programmatica del Manifesto del 1848, pensato in un’epoca in cui, ad esempio, la borghesia tedesca radicale aveva ancora molto da dire in termini di progresso storico.

4. Appoggiare l’iniziativa politica della Russia in materia di “autodecisione dei popoli” significa sostenere le ragioni dell’Imperialismo russo, così come appoggiare l’iniziativa politica di Kiev tesa a difendere l’integrità del territorio nazionale significa sostenere le ragioni della classe dominante ucraina filo-occidentale e quelle dell’Imperialismo occidentale (europeo e americano), il quale non smette di attrarre la periferia dell’ex “Impero Sovietico” verso la sua orbita. Nel caso ucraino si confrontano insomma interessi che non solo nulla hanno a che spartire con gli interessi delle classi subalterne di tutte le nazioni coinvolte direttamente e/o indirettamente nella contesa, ma la cui difesa rafforza ed espande l’oppressione materiale e spirituale di quelle classi. Compito di chi non vuole dare il proprio contributo a questa contesa interimperialistica e interborghese dovrebbe essere quello di demistificare il contenuto ultrareazionario del conflitto in atto, mostrando la reale posta in gioco celata (piuttosto malamente, peraltro) dietro le frasi circa il diritto all’autodecisione dei popoli, la difesa della democrazia referendaria e/o elettiva, la difesa della sovranità nazionale, la difesa del diritto internazionale e via di seguito.

C_4_articolo_2030075_upiImagepp5. In questo senso è corretto dire che i problemi nazionali che oggi investono l’Ucraina sono in sostanza problemi dell’Imperialismo unitario (russo, americano, europeo, cinese). Imperialismo unitario ma non unico né privo di dialettica interna. Sotto questo aspetto, è importante cogliere tanto la dinamica interna al blocco europeo, fra i diversi paesi del Vecchio Continente (Germania, Francia e Inghilterra in testa, ovviamente), quanto la tensione dialettica che non smette di crescere tra questo blocco imperialista che da decenni cerca di darsi una coerenza (e qui il ruolo della Germania è centrale) e quello statunitense. Stati Uniti e Russia sono tentati di riproporre lo schema della Guerra Fredda proprio per tenere sotto più stretto controllo l’Europa. Tuttavia, oggi sembrano non esserci le condizioni per riporre una Guerra Fredda 2.0.

6. L’Imperialismo è unitario in primo luogo sotto questo peculiare significato, che la sua struttura e la sua logica interna non possono in alcun modo incrociare positivamente la lotta anticapitalistica del proletariato ovunque questa lotta dovesse dispiegarsi. «Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti»: questa tesi marxiana è il minimo sindacale teorico e politico che possiamo pretendere da un comunista (possibilmente non solo di nome) attivo nella Società-Mondo del XXI secolo.

7. In altri termini, non esistono imperialismi più/meno imperialisti degli altri, secondo le vecchie teorie terzomondiste che di fatto individuavano nell’Imperialismo occidentale praticamente il solo Imperialismo attivo sulla scena mondiale, e in ogni caso il nemico numero uno dei popoli. Nel XXI secolo il nemico numero uno delle classi dominanti del pianeta e della possibilità emancipatrice dell’intera umanità è appunto l’Imperialismo (o Capitalismo) unitario. Ciò peraltro implica dialetticamente la mia lotta contro le basi NATO in Italia e contro l’Imperialismo italiano in quanto militante critico-radicale (non voglio scomodare abusivamente altre definizioni) basato nel Bel Paese.

8. Tanto per essere chiaro fino in fondo: non verserò una sola lacrima (figuriamoci se una sola goccia di sangue!) nel caso in cui il Veneto, o qualche altra regione italiana, dovesse decidere di separarsi dall’odierno Stato nazionale. Né d’altra parte mai mi batterei per sostenere «il diritto all’autodeterminazione» del popolo veneto piuttosto che di quello siciliano, e invece cercherei di orientare il disagio sociale dei lavoratori e dei proletari veneti e siciliani su un terreno schiettamente classista. Certamente oggi non sostengo l’opera di repressione condotta dallo Stato italiano contro i cosiddetti serenissimi, ma anzi mi servo dell’occasione repressiva per mostrare soprattutto ai proletari il vero volto del regime democratico, il quale all’occorrenza sa usare bene tanto la carota quanto il bastone.

9. Come ho detto altre volte, più si rafforza la tendenza del Capitale a mettere ogni cosa e ciascuno nel tritacarne del processo economico-sociale chiamato a generare profitti, e più si rafforzano le spinte identitarie d’ogni tipo: politiche, culturali, linguistiche, religiose, etniche, razziali, sessuali, e quant’altro. È questa maligna dialettica che bisogna comprendere per evitare di finire intruppati sotto questa o quella bandiera ultrareazionaria, in questa o quella tifoseria nazionale o/e imperialista. Una lotta, quella qui delineata a grandi linee, che non può avere altra sponda che non sia quella, oggi inesistente, del movimento operaio e proletario nazionale e internazionale. Non è sparando con i metaforici (?) fucili degli altri (ad esempio, da quelli offerti dal virile Vladimir Putin ai partigiani del «principio di autodeterminazione dei popoli», o da Xi Jinping ai tifosi del «socialismo con caratteristiche cinesi») che l’antimperialista può surrogare una potenza politica che oggi non ha. Prima di armare (sempre metaforicamente parlando, maresciallo!) la nostra mano, dovremmo armare la nostra testa.

10. Scrive Jacques Sapir: «Dal punto di vista del diritto internazionale sono in conflitto due principi, l’inviolabilità delle frontiere e il diritto dei popoli all’autodeterminazione» (Voci dall’estero, 17 marzo 2014). Ora, come il punto di vista del diritto interno alle nazioni è il punto di vista delle classi dominanti, almeno per chi non crede nell’ideologia borghese del Patto sociale, analogamente il diritto internazionale è il punto di vista dell’Imperialismo mondiale in generale, e delle Potenze imperialiste più forti, in particolare. Per questo russi, europei, americani e cinesi possono ad esempio usare la Crimea o il Kosovo secondo i loro interessi, affermando una tesi per poi magari smentirla con un’altra di segno contrario, e sempre rivendicando il diritto internazionale, che a quanto pare è di dubbia interpretazione. Diciamo così.

11. Orientarsi sulla base del diritto internazionale significa per le classi dominate scegliere l’albero a cui impiccarsi, magari con l’illusione di partecipare a chissà quale progresso umano. Lo abbiamo visto soprattutto in occasione dei due primi macelli mondiali. E poi lo abbiamo rivisto tante altre volte: in Corea, in Vietnam, in Afghanistan, in Irak e via di seguito. Chi si illude di poter usare strumentalmente (tatticamente) il diritto internazionale in chiave antimperialista, mostra di muoversi nel mondo di oggi alla stregua di una mosca cocchiera.

sic12. Gianni Petrosillo se la prende con i media «russofobi» occidentali, e in particolare con Limes, la nota «rivista italiana di geopolitica», per aver riservato alle cadenti statue di Lenin in Ucraina una riflessione a dir poco insolente: «Limes, quantunque sia diretta da una persona competente come Lucio Caracciolo, ha pubblicato articoli di odio e razzismo russofobo, dove si potevano leggere frasi come questa: “Persino le statue di Lenin erano ancora al loro posto, prima di essere abbattute finalmente solo un paio di mesi fa”. Prendiamocela pure con i monumenti e col passato dato che non siamo all’altezza né dei grandi personaggi che hanno fatto la Storia europea del XX secolo né del futuro che ci attende (al varco)» (Conflitti e strategie, 8 aprile 2014). Lenin come un Garibaldi russo? Forse forzo l’interpretazione. Sia come sia, e ricordato che per me il nome Lenin evoca una straordinaria pagina di lotta di classe anticapitalista di respiro internazionale (e dunque che ci azzecca la statua di Lenin, non dico in Ucraina, ma su questo pianeta?), mi permetto di citarmi, giusto per dare un senso al luogo comune secondo il quale la vita è bella perché è varia.

«Quando una statua di Lenin – o di Marx – finisce miseramente a terra, la materia di cui essa è composta finisce virtualmente sulla testa e sulla coscienza di chi non ha fatto nulla durante i trascorsi decenni per spiegare alle classi dominate del pianeta che il famigerato «socialismo reale» non ha mai avuto niente a che fare con l’autentica prospettiva dell’emancipazione degli individui. Vedere il “padre della Rivoluzione d’Ottobre” ridotto a monumento ideologico eretto nel nome e per conto di un Capitalismo e di un Imperialismo mascherati da “Socialismo”, ancorché “reale” (sic!): è stata questa la pena che hanno dovuto patire gli autentici comunisti da quando la Rivoluzione d’Ottobre è caduta sotto i colpi dello stalinismo. Certo, preferirei che i monumenti di Lenin – e di Marx – fossero abbattuti da una moltitudine di proletari coscienti della storia e, soprattutto, delle urgenze del momento; ma ultimamente mi accontento di poco. Ad esempio, mi accontento di trasformare una notizia apparentemente insignificante per ribadire concetti che, a quanto pare, sono di assai difficile assimilazione. Non sono pessimista: pessima è la realtà, con o senza statue di Lenin – e di Marx. E tuttavia! (Quando una statua di Lenin – o di Marx – cade).

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STALINISMO DI ANDATA E DI RITORNO

1891015_1397452320523595_381073666_nLa foto qui sopra, ripresa da Facebook, è introdotta dal commento che segue:

«La foto di oggi arriva da Donetsk, capitale della regione orientale dell’Ucraina: la regione dei minatori.
Mobilitazione di classe, mobilitazione in difesa della sovranità nazionale, mobilitazione antifascista e antimperialista, protagonismo dei comunisti: tutto si tiene
».

Segue il mio lapidario commento: Con il maligno cemento dello STALINISMO (vetero, post, 2.0) tutto si tiene.

Fuori sacco, ecco una modesta riflessione sullo stalinismo da me scritta qualche tempo fa per soddisfare la curiosità di qualche lettore, e che a quanto pare mostra purtroppo di conservare un certo fondamento. Anche nel XXI secolo!

Della serie AI CONFINI DELL’IRREALTÀ? Purtroppo ben dentro questa cattiva realtà. Scompisciarsi dal ridere o piangere? Fate un po’ voi. Per quanto mi riguarda, vado a cambiare lo slip!

Della serie AI CONFINI DELL’IRREALTÀ? Purtroppo ben dentro questa cattiva realtà. Scompisciarsi dal ridere o piangere? Fate un po’ voi. Per quanto mi riguarda, vado a cambiare lo slip!

Per me lo stalinismo fu una dittatura capitalistica esattamente – mutatis mutandis sulla scorta del diverso retaggio storico – come lo furono, dittature al servizio del Capitale, il fascismo in Italia e il nazismo in Germania. Per certi versi quello russo (o «sovietico») fu un regime sociale ancora più oppressivo e miserabile di quello italiano e di quello tedesco. In più, ma dalla mia prospettiva sarebbe meglio dire ancora peggio, tale regime dittatoriale (capitalistico: questo elementare concetto va sempre ripetuto) si autoproclamava «socialista/comunista», gettando in tal modo nel discredito, con la zelante collaborazione degli stalinisti basati a Occidente, la stessa possibilità dell’emancipazione del proletariato internazionale e, dunque, dell’intera umanità. Basta insomma poco per comprendere perché lo stalinismo in tutte le sue varianti nazionali (togliattismo, maoismo, guevarismo, castrismo, ecc.) si sia subito imposto alla mia mente come il nemico principale su cui sparare a palle incatenate.

Infatti, per me si è trattato di cogliere due obiettivi strettamente correlati l’uno all’altro: 1. svelare la natura capitalistica del falso socialismo/comunismo russo (e poi jugoslavo, cinese, cubano, vietnamita e chi più ne ha più ne metta), mostrando per questa via la miserabile funzione controrivoluzionaria espletata dal cosiddetto «movimento comunista internazionale» devoto a Mosca (e poi in parte anche a Pechino); 2. combattere la falsa idea secondo la quale l’esperimento «sovietico» dimostrerebbe quanto vana sia la ricerca di una società fondata su rapporti sociali umani: «Se il comunismo è questo, meglio tenerci il capitalismo!». Gli stalinisti di tutto il mondo hanno fatto di tutto per confermare al 100 per 100 il noto aforisma di Churchill.

Non ho mai pensato che questa battaglia fosse facile, tutt’altro; ma una volta impadronitomi di questo fondamentale punto di vista su un evento che ha segnato l’intero Novecento, e che proietta la sua maligna ombra anche sul nuovo secolo, per me non si è posta all’attenzione alcuna alternativa, né a dire il vero l’ho mai cercata. Per mutuare un noto statista americano, sono da sempre un antistalinista non perché sia facile esserlo, ma perché è vero (ancora oggi, anche dopo il crollo dei miserabili muri!) esattamente il contrario.

Naturalmente da questo giudizio sullo stalinismo (come espressione della sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre) discendono a cascata una serie di importanti tesi: sulla Seconda guerra mondiale (come guerra imperialistica analoga alla Prima), sulla Resistenza (come continuazione della guerra imperialistica con altri mezzi e nelle mutate circostanze), sulla «Repubblica nata dalla Resistenza» (come continuazione del regime sociale capitalistico con altri mezzi e nelle mutate circostanze, e quindi in assoluta continuità “strutturale” con il precedente regime fascista), e via di seguito. Sul piano teorico, l’antistalinismo mi ha permesso di approcciarmi a Marx e a Lenin senza la maligna mediazione dei “marxisti-stalinisti”, cosa che mi ha evitato un miserabile destino di statalista-riformista-nazionalista.

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1794551_680001182046276_1771903772_n1. LETTERA DA (FIN TROPPO) LONTANO

Ricevo e volentieri pubblico l’appello che segue firmato dal compagno Lenin in persona (diciamo in spirito):

Appello urgente al proletariato ucraino e russo.

PROLETARI UCRAINI! PROLETARI RUSSI! NON ARMATEVI GLI UNI CONTRO GLI ALTRI PER SERVIRE GLI INTERESSI DI CHI VI SFRUTTA! LA DIFESA DELLA PATRIA È LA TOMBA DEI VOSTRI INTERESSI E DELLE VOSTRE SPERANZE DI EMANCIPAZIONE.

PROLETARI UCRAINI! PROLETARI RUSSI! DISERTATE LA GUERRA TRA LE OPPOSTE FAZIONI CAPITALISTICHE E LE OPPOSTE POTENZE IMPERIALISTE! PREPARATE PIUTTOSTO LA GUERRA DI CLASSE, SCIOPERO DOPO SCIOPERO! VIVA L’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO!

Il compagno Lenin fa anche sapere che è contento quando in Ucraina abbattono una “sua” statua: «Sapeste quanto odio essere associato agli imperialisti gran-russi!».

103812. IL NAZIONALISMO SECONDO MARX

«Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale; e oggi è dimostrato che questa è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono UNITI» (Karl Marx, La guerra civile in Francia).

Purtroppo questa chiara coscienza di classe è andata perduta molto tempo fa, anche a causa di quei “marxisti” che si sono convertiti al Socialnazionalismo.

1897839_680006082045786_1036039527_n3. TOLSTOJ E L’ASTRO MAESTOSO E STUPENDO

«Centinaia di corpi di uomini insanguinati di fresco, due ore prima pieni di varie speranze e desideri, grandi e piccoli, giacevano, con le membra irrigidite, sulla valle fiorita ricoperta di rugiada, che separava il bastione dalla trincea, e sul pavimento liscio della cappella dei morti a Sebastopoli; centinaia di uomini con maledizioni e preghiere sulle labbra secche strisciavano, si contorcevano e gemevano, alcuni in mezzo ai cadaveri nella vallata fiorita, altri sulle barelle, sulle brande e sul pavimento insanguinato del posto di medicazione; eppure, nonostante questo, come anche nei giorni precedenti, sul monte Sapun si accese un lampo in lontananza, le stelle tremolanti impallidirono, una nebbiolina bianca sopraggiunse dal mare scuro e roboante; l’alba, rosseggiando, si accese all’orizzonte, le lunghe nuvolette purpuree si dispersero nell’orizzonte azzurro chiaro; nonostante questo spuntò, come anche nei giorni precedenti, l’astro maestoso e stupendo del sole, promettendo a tutto il mondo che tornava la vita, la gioia, l’amore e la felicità» (L. N. Tolstoj, I racconti di Sebastopoli).

Quando capiremo che «l’astro maestoso e stupendo» che deve spuntare siamo noi stessi?

SULL’UCRAINA E NON SOLO

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Il Segretario di Stato John Kerry ieri ha dichiarato in un’intervista alla CBS, ripresa oggi da La Stampa, che «Non si può agire con i metodi del XIX secolo nel XXI secolo, invadendo un altro Paese con motivi costruiti e pretestuosi». Affermata da un esponente di punta della prima potenza imperialista del pianeta, la quale ha portato manu militari «la democrazia e lo Stato di diritto» in mezzo mondo (è dagli anni Quaranta che lo fa), la tesi suona abbastanza poco credibile, diciamo così.

Come sanno molto bene anche i realisti geopolitici, i bistrattati «metodi del XIX secolo» sono sovrapponibili, almeno nelle linee essenziali, a quelli del XX e del XXI secolo: sono, infatti, i metodi di dominio e/o di egemonia basati sulla forza delle Potenze che stiamo vedendo all’opera in questi giorni e in queste ore anche – non solo – in Ucraina. Piuttosto si tratta di capire la natura e l’evoluzione “strutturale” di questa forza.

Nei rapporti tra gli Stati i “dati sensibili” che davvero contano sono gli interessi (tattici e soprattutto strategici, fondati anche sul retaggio storico) e la forza relativa di ogni competitore. Le anime belle del progressismo mondiale affettano di credere nella buona volontà politica degli statisti, i quali se solo volessero potrebbero inaugurare la mitica epoca kantiana della pace perpetua; ma non sono poi così stupidi da non comprendere le profonde ragioni della forza. E difatti, all’occorrenza, a gran parte di loro basta un solo minuto per gettare nella pattumiera la colomba di Picasso e afferrare la metaforica spada: «Anche la democrazia e lo Stato di diritto sanno essere forti!». A tal proposito non ho mai nutrito dubbi di alcun genere. Hitler, invece, sottovalutò alquanto, oltre tutto il resto, la capacità combattiva delle «degenerate democrazie occidentali»: l’ideologia fa di questi brutti scherzi, a “destra” come a “sinistra”.

Intanto, per la pace perpetua bisogna ancora andare nei cimiteri.

Nel moderno Capitalismo, la forza in questione si declina in primo luogo in termini economici: alta capacità produttiva, forte dinamismo tecnologico, alta competitività globale (sistemica, ossia economica, scientifica, tecnologica, istituzionale, culturale) di un Paese. Sotto questo essenziale aspetto, gravemente sottovalutato da chi rimane impigliato nella fenomenologia politico-militare della competizione interimperialistica, paesi come la Germania, il Giappone e la Cina incarnano meglio degli altri l’intima natura del moderno Imperialismo, la quale peraltro, presto o tardi, non può mancare di darsi un’adeguata proiezione politica. E quando parlo di politica naturalmente alludo anche al necessario momento militare.

L’Unione Sovietica perse la “guerra fredda” fondamentalmente sul terreno della competizione squisitamente capitalistica, cioè a dire a causa delle sue molte e gravi magagne strutturali, sintetizzabili nel tipo di capitalismo che venne a delinearsi a partire dalla fine degli anni Venti soprattutto per alimentare le ambizioni di potenza dell’«eterna Russia». Non poche di quelle magagne continuano a tormentare la struttura economica del grande Paese che il “falco” Richard Perle ha definito «Uno Stato fallito con molto petrolio».

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Su un post di qualche giorno fa scrivevo: «Intanto cresce l’attivismo tedesco nella scottante vicenda geopolitica, a ulteriore dimostrazione che non è concepibile un’Unione europea che non sia a trazione (leggi egemonia) tedesca. E i “cugini” francesi rosicano. Chi pensa che con l’Ucraina la Germania stia giocando una partita per conto degli Stati Uniti si sbaglia di grosso». Mi sembra che l’atteggiamento “conciliante” e “dialogante” della Merkel, che appare ancor più significativo se messo a confronto con quello “più assertivo” di Francia e Inghilterra, confermi quella lettura. Naturalmente la situazione rimane molto fluida e fare delle previsioni attendibili non è certo semplice, o quantomeno la cosa è fuori dalla mia portata. L’Italietta come sempre cerca di non scoprirsi troppo, ma i suoi interessi vanno decisamente nella direzione della Germania: il Bel Paese fa molti affari con l’amico Putin.

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A proposito dell’amico Putin! Oggi Vittorio Feltri è andato a sedersi fra i tifosi delle ragioni (imperialistiche) della Russia. «Il presidentissimo» Vladimir non è certo uno stinco di santo, ha scritto Feltri, ma non bisogna dimenticare cosa c’era prima di lui in Russia: «un regime comunista, la dittatura del proletariato». Nientedimeno! A mia insaputa, è proprio il caso di dirlo. Occorre dunque essere meno ipocriti e meno severi, ha concluso Feltri, nel giudicare la politica estera del nuovo Zar, anche perché il vizietto di esibire i muscoli non è certo di sua esclusiva competenza. Non c’è dubbio.

Come sempre, la contesa capitalistica mondiale non è un pranzo di gala. Per questo bisogna tenersi alla larga, molto alla larga, dalle opposte tifoserie dei fascisti e degli stalinisti, dei filoeuropei e dei filorussi. Denunciare il carattere ultrareazionario di queste opposte (ma convergenti, quanto a risultato valutato in termini classisti) tifoserie significa attenersi al minimo sindacale di una posizione dignitosamente critico-radicale. Il minimo sindacale, niente di più.

Un’ultima – maligna? – domanda: se al governo del Paese ci fosse stato l’odiato Cavaliere Nero, l’italico pacifismo sarebbe sceso in strada contro il «fascista Putin amico di Berlusconi»?

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INTRIGO UCRAINO

ULTIM’ORA DALL’UCRAINA!

ar_image_2562_lDa Repubblica.it: «Cresce la tensione nell’Ucraina orientale. Dopo le manifestazioni filorusse dei giorni scorsi, oggi un gruppo di uomini armati e in tuta mimetica ha assalito i palazzi del parlamento e del governo locali a Sinferopoli, capitale della Crimea. Alcune decine di persone armate hanno tolto dal pennone la bandiera ucraina e hanno issato il tricolore russo, che sventola insieme a quello della repubblica di Crimea».

Dall’ANSA:

1. Il ministro dell’interno ucraino ad interim, Arsen Avakov, ha messo in allerta le forze di polizia, comprese quelle speciali, dopo la presa del parlamento e del governo di Crimea da parte di un gruppo di filorussi.

2.«Qualsiasi movimento dei militari della flotta russa del Mar Nero in Crimea, fuori delle zone prestabilite dagli accordi bilaterali, sarà valutato come aggressione contro l’Ucraina»: lo ha detto alla Rada Aleksandr Turcinov, capo del parlamento ucraino e presidente ad interim.

3. L’aviazione russa sta pattugliando lo spazio aereo occidentale del Paese dopo lo stato di allerta deciso ieri dal presidente Putin, che è anche comandante delle forze armate. Lo scenario simulato è quello di un bombardamento dei bersagli nemici, in luoghi che saranno resi noti solo dopo l’esercitazione.

Il capogruppo del partito Patria di Iulia Timoshenko, Arseni Iatseniuk, e l’imprenditore nonché deputato Petro Poroshenko, i due esponenti politici più accreditati a rivestire la carica di premier nel governo ucraino di unità nazionale che dovrebbe essere varato domani, confermano la «storica amicizia» alla Russia ma al contempo chiamano «tutto il popolo ucraino» a essere pronto a difendere i sacri confini nazionali. Purtroppo una larga parte del «popolo ucraino» sembra pronto a sacrificarsi sui tre altari del Dominio oggi scintillanti in Ucraina: quello filoeuropeo, quello vetero nazionalista e quello filorusso (stavo per scrivere filosovietico!). Ce n’è per tutti i gusti! Salvo che per il “gusto” che piace a chi scrive: la lotta di classe contro tutte le fazioni capitalistiche e contro tutti gli imperialismi. Me ne faccio una ragione e mi tengo lontanissimo da chi crede di poter fare la “lotta di classe” appoggiando uno dei contendenti sulla scena: una concretezza tutta spesa sul terreno dello status quo sociale – da molti equivocato con lo status quo geopolitico.

660-0-20131023_163300_1A883D6FChe la situazione, in Ucraina in generale e in Crimea in particolare, sia gravissima lo conferma questa dichiarazione rilasciata dal Ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov: «Siamo preoccupati per la violazione dei diritti umani su larga scala» (Interfax). Com’è noto, quando una potenza imperialistica parla di «violazione dei diritti umani su larga scala» occorre fare gli scongiuri. Naturalmente il pensiero va agli Stati Uniti e alla Francia, due paesi campioni nella «difesa dei diritti umani». Come scrivevo su un post dedicato alle pressioni “umanitarie” onusiane sulla Corea del Nord, «Non di rado dopo la pioggia “umanitaria” che dà refrigerio alle angustiate coscienze dei buoni di spirito, segue la fioritura dei missili intelligenti, che dà la pace (eterna) ai cattivi di turno».

Attrazione fatale!

Attrazione fatale!

Intanto cresce l’attivismo tedesco nella scottante vicenda geopolitica, a ulteriore dimostrazione che non è concepibile un’Unione europea che non sia a trazione (leggi egemonia) tedesca. E i “cugini” francesi rosicano. Chi pensa che con l’Ucraina la Germania stia giocando una partita per conto degli Stati Uniti si sbaglia di grosso.

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