Quando i “comunisti” non mangiavano i bambini, ma si limitavano a farli morire di fame
Compulsando il sito dell’Istituto Bruno Leoni, forse la più agguerrita trincea dell’italico liberismo economico, mi sono imbattuto nella seguente informazione: il 27 aprile, a Milano, si terrà la presentazione del libro Il genocidio dimenticato 1932-1933 (Della Porta, 2015) scritto da Ettore Cinnella, indiscussa autorità negli studi storici dedicati all’Europa Orientale. «Tra l’autunno 1932 e la primavera 1933 sei milioni di contadini nell’Urss furono condannati a morire di fame: quasi i due terzi delle vittime erano ucraini. Quella carestia di proporzioni inaudite non fu dovuta ai capricci della natura, ma venne orchestrata da Stalin per punire i ribelli delle campagne che, in tutta l’Urss, si opponevano alla collettivizzazione imposta dall’alto. In Ucraina lo sterminio dei contadini, il cosiddetto holodomor, si intrecciò con la persecuzione dell’intellighenzia e con la guerra al sentimento patriottico di un popolo. Sulla base della documentazione emersa dopo il crollo dell’Urss, il libro ricostruisce quei drammatici avvenimenti e spiega le motivazioni che spinsero Stalin a prendere decisioni così spietate» (IBL). Così mi sono ricordato che sul «cosiddetto holodomor» (la morte indotta per fame) anch’io ho scritto una breve nota due anni fa, giusto per ricordare a me stesso che quella spaventosa tragedia va senz’altro attribuita al trionfante capitalismo di Stato russo, alla sua feroce necessità di bruciare i tempi dell’«accumulazione originaria» nella Russia capitalisticamente arretrata – anche per soddisfare, per mezzo dell’industria pesante, la tradizionale vocazione imperialista del gigantesco Paese dopo l’inatteso smacco subito nell’Ottobre 1917.
Si trattò di uno sterminio, pianificato nei dettagli, che senza dubbio rappresenta uno tra i capitoli più oscuri del metaforico libro nero del capitalismo mondiale, comprensibilmente sfruttato dai nemici dichiarati del comunismo per glorificare agli occhi del proletariato la superiorità economica, politica ed etica del capitalismo – al netto della “follia” nazista, si capisce. Anche la sezione italiana dello stalinismo internazionale (vedi il PCI di Togliatti e dei suoi eredi) fece di tutto per nascondere quell’immane catastrofe sociale; il temerario militante che osasse palesare qualche pur timido dubbio circa i metodi e la natura sociale della “grande epopea” chiamata collettivizzazione forzata delle campagne, finiva puntualmente etichettato come “oggettivo” nemico del – cosiddetto – socialismo, la cui costruzione, d’altra parte, non è certo assimilabile a un pranzo di gala. Magari all’inferno precipitato sulla Terra, sì, ma non certo a un pranzo di gala: siamo materialisti dialettici, per Stalin!
Scrive Alessandro Vitale, dell’Università degli di Studi di Milano, nemico delle «interpretazioni accademiche ideologiche a lungo imperanti in Occidente, diffuse dalle camarille universitarie dominanti»: «L’attenzione ai documenti, consente all’Autore di ricostruire i reali intenti dei padroni del Cremlino (tenendo conto anche della situazione internazionale dell’epoca) che nel 1932-33 scatenarono una guerra micidiale di annientamento contro i contadini ucraini e le loro terre fertilissime (le “terre nere”), devastate da pratiche parassitarie di Stato, violente e di rapina. La statalizzazione integrale dell’agricoltura e gli insopportabili obblighi di ammassi dei raccolti furono accompagnati dall’accerchiamento dei villaggi, sbarrando i confini occidentali ucraini per impedire la fuga degli affamati, bloccando i villaggi per impedire l’esodo nelle città, negando con la propaganda la realtà di quella brutale e sistematica violenza, impedendo i soccorsi organizzati da coloro che erano al corrente della situazione e accompagnando il tutto con deportazioni, fucilazioni, saccheggi ordinati da politici lontani, rozzi, ignoranti e incompetenti. Il quadro è quello di un’ecatombe, della discesa all’inferno per milioni di persone volutamente massacrate dopo essere state ridotte al cannibalismo e alla regressione allo stato ferino. Un “capolavoro” del sistema sovietico: la condanna alla morte per fame in alcune fra le più ricche regioni agricole d’Europa» (Memorial Italia). Hanno realizzato l’Inferno reale sulla terra e lo hanno chiamato «Socialismo in un solo Paese».
Ho letto da qualche parte che sarebbe sbagliato attribuire esclusivamente all’esperienza del falso “socialismo reale” la perdurante impotenza delle classi subalterne, la loro incapacità a immaginare una concreta alternativa al capitalismo. Non c’è dubbio. Le profondissime trasformazioni sociali determinate dall’espansione del rapporto sociale capitalistico su base planetaria certamente non hanno risparmiato il corpo (la “composizione di classe”) e la coscienza dei dominati. Sarebbe tuttavia altrettanto sbagliato, a mio avviso, sottovalutare il maligno retaggio del «socialismo reale», le cui profonde tracce si trovano, ad esempio, in tutti i libri dedicati al Postcapitalismo pubblicati in questi ultimi anni e ancora in questi mesi. Questi libri dimostrano, oltre ogni ragionevole dubbio*, che immaginare un’alternativa al capitalismo partendo dall’infondato presupposto della natura «comunque socialista» del capitalismo di Stato di matrice stalinista/maoista realizza un solo risultato, quello di architettare un “postcapitalismo” non solo chimerico, ma anche odioso agli occhi di chi non vuole semplicemente “umanizzare” e “democratizzare” il capitalismo (per mezzo delle mitologizzate e feticizzate “tecnologie intelligenti”), ma desidera fortemente uscire dall’attuale dimensione classista della società e della storia. Ma su questo punto ritornerò, forse, un’altra volta.
* L’ultimo esempio in ordine di tempo mi è stato offerto dalla lettura del libro di Paul Mason, giornalista economico inglese di simpatie laburiste, Postcapitalismo. Una guida per il nostro futuro (Il Saggiatore, 2016), la cui prospettiva dottrinaria e politica è, appunto, interamente dominata dallo spettro del falso socialismo edificato in Russia ai tempi di Stalin; spettro che finisce per proiettare la sua nera ombra anche sull’opera politica del comunista di Treviri. «Noi non dobbiamo sconfiggere il capitalismo, dobbiamo cambiarlo. Perché l’alternativa al capitalismo non è il socialismo. Non più». Inutile dire che anche Mason confonde il socialismo, più o meno “reale”, con il capitalismo di Stato costruito a tappe forzate in Unione Sovietica a partire dal 1928: «Lo stato assumeva il controllo del mercato, lo gestiva in favore dei poveri invece che dei ricchi» (p. 16). Una concezione che definire ingenua, oltre che errata sul piano dottrinario e storico, è ancora troppo poco. «Per tradurlo in realtà [qui si parla del mondo “postcapitalista” che, a quanto pare, sorride all’umanità], dobbiamo far tesoro degli insegnamenti negativi offerti dalla transizione fallita in Unione Sovietica. Dopo il 1928, l’Unione Sovietica cercò di forzare l’avanzamento verso il socialismo ricorrendo alla pianificazione centralizzata. Il risultato fu qualcosa di peggio del capitalismo, ma nella sinistra moderna c’è una forte avversione a discuterne» (p. 180). Avversione che probabilmente si spiega con la natura essenzialmente stalinista delle radici storiche della «sinistra moderna» di cui parla Mason e della quale chi scrive non ha mai fatto parte – probabilmente per mero accidente, sia chiaro, non certo per qualche innata predisposizione intellettuale o “genetica”. Anche sull’interessante libro di Mason penso di ritornare quanto prima.