POVERA PATRIA EUROPEA…

Eurozone Debt Crisis - General ImageryNon c’è editoriale dedicato all’odierna tornata elettorale europea che non punti i riflettori sul seguente (apparente) paradosso: l’Europa è, «nonostante tutto», la prima potenza economica mondiale (in termini di produzione industriale, di espansione commerciale, di Pil, di capacità tecno-scientifiche, di reddito pro capite, ecc.), ma il suo peso geopolitico è pressoché irrilevante. E questa contraddizione appare tanto più evidente e grave oggi, quando 1) l’attivismo russo a Est rischia di far precipitare il mondo in una nuova “guerra fredda”, 2) la relazione strategica sempre più stretta tra Russia e Cina sposta la bilancia del potere mondiale verso l’Oriente «autoritario», 3) gli Stati Uniti sembrano invischiati in un isolazionismo che pretende dai partner europei una partecipazione all’Alleanza Atlantica «più adulta e attiva».

Il paradosso è solo apparente perché, come sanno benissimo gli editorialisti che oggi versano molte lacrime sull’«identità perduta del sogno europeista», non esiste l’Europa come coerente e unitario spazio geopolitico (non esistono, tanto per intenderci, gli Stati Uniti d’Europa oggi evocati da Roberto Napoletano sul Sole 24 Ore). . Giustamente Adriana Cerretelli (Il Sole 24 Ore) fa notare che oggi la contesa sistemica fra gli Stati si dà come confronto fra «colossi regionali», e che in questo contesto, per la verità non nuovo, la dimensione degli Stati nazionali europei è troppo piccola per reggere il confronto con i protagonisti della politica mondiale: solo unendosi essi possono realizzare quella massa critica idonea a togliere il Vecchio Continente dall’attuale condizione di irrilevanza geopolitica. Ma questa necessità deve fare i conti ancora una volta con la maledetta Questione Tedesca.

Come ho altre volte scritto, la genesi dell’Unione europea ha due fondamentali, e alla lunga contraddittori, centri propulsori: uno fa capo alla necessità di mettere sotto stretto controllo la potenza sistemica tedesca, progetto che ha trovato il suo maggiore sostegno nella Francia, nell’Inghilterra e negli Stati Uniti; l’altro va individuato appunto nella necessità avvertita soprattutto dai Paesi europei di maggior peso politico-militare (Francia e Inghilterra) di non scivolare definitivamente nella più completa inconsistenza geopolitica, almeno là dove residua il loro retaggio coloniale. Soprattutto la Francia ha cercato di usare la potenza economica della Germania in questa chiave, che ben si armonizza con la famigerata, e sempre più insipida e annacquata, grandeur cucinata a Parigi.

L’atteggiamento dei francesi nei confronti dei “cugini” tedeschi è sempre stato (almeno dal 1870 in poi) piuttosto ambivalente, e per certi versi si può persino parlare di una sorta di amore-odio, di un’attrazione fatale respinta con tanta più sdegnata retorica nazionalista quanto più essa si è fatta forte e a volte irresistibile.

Nel 1946 George Orwell notava con la consueta cruda ironia: «In questo momento, con la Francia nuovamente liberata e con la caccia alle streghe verso i collaborazionisti in pieno corso, siamo inclini a dimenticare che, nel 1940, vari osservatori sul posto stimarono che circa il quaranta per cento della popolazione francese era o attivamente a favore dei tedeschi o completamente apatica» (Arthur Koestler).

Scrivevo su un post del 2013 (Francia e Germania ai ferri corti): Come ha dimostrato Robert Paxton nel suo studio sul regime di Vichy (Vichy, 1940-1944. Il regime del disonore, Il Saggiatore), l’impresa tedesca degli anni Quaranta «ebbe l’appoggio delle masse e la partecipazione delle élite francesi», perché esse videro nella Germania dell’epoca, «per quanto fosse malvagio il suo spirito», una via d’uscita da quella «Francia chiacchierona» che nascondeva la sua profonda crisi di sistema dietro una grandeur che ormai mostrava tutta la sua inconsistenza strutturale. Ai sogni di gloria, molti francesi preferirono il semplice ma concreto programma di Pétain: Travail, Famille, Patrie.

Alla fine degli anni Ottanta Willy Brandt ricordava (soprattutto per giustificare la tiepida «epurazione antinazista» del dopoguerra messa in opera dal suo Paese), come al suo ritorno in patria il generale De Gaulle si stupisse della gran massa di antinazisti che vi incontrò: «se avesse contato i francesi che erano stati contro Pétain, sarebbero stati più di quanti cittadini avesse il paese» (W. Brandt, Non siamo nati eroi, Editori Riuniti). Evidentemente al generale salvatore della patria i conti non tornavano.

Questo solo per ribadire quanto stucchevole e ingannevole sia l’attuale piagnisteo intorno all’Europa «gigante economico e nano politico». Una credibile e sostenibile Unione europea non può non avere la Germania come suo asse centrale portante: è intorno a questo dato di fatto, che i critici europeisti dell’egemonia tedesca fanno finta di non vedere, che si gioca la guerra sistemica in corso in Europa.

Come sempre il processo storico non dipende dal “gioco democratico” che oggi celebra il suo momento più significativo (e ideologico, nell’accezione più pregnante del concetto), ma dai rapporti di forza e dagli interessi in gioco. Il rito elettorale è funzionale a un processo sociale di respiro nazionale e internazionale che annulla gli elettori come soggetti politici e, soprattutto, come uomini.

imagesDa Facebook (26 maggio)

La natura economica della supremazia tedesca nel Vecchio Continente

Scrive Hans Kundnani (Esporto, dunque sono. Il ritorno del nazionalismo tedesco, Limes, 26 maggio 2014):

I quotidiani greci hanno paragonato più volte il cancelliere Angela Merkel ad Adolf Hitler; quando Merkel ha visitato Atene, nell’ottobre 2012, manifestanti hanno bruciato bandiere tedesche con sopra la svastica, hanno indossato uniformi naziste e mostrato striscioni con lo slogan «Hitler, Merkel – stessa merda».

Sempre nel 2012 il Corriere della Sera ha dichiarato che «l’Italia non è più in Europa, ora fa parte del Quarto Reich». Nel 2013 anche un editoriale dello spagnolo El País ha equiparato Merkel al Führer. Molti studiosi parlano del riemergere della «questione tedesca»: vi è un intenso dibattito circa il vero o presunto esercizio da parte di Berlino di un’egemonia sul Vecchio Continente e alcuni, come George Soros o Martin Wolf, intravedono addirittura l’emergere di una sorta di «impero» tedesco dentro l’Europa. Persino Anthony Giddens scrive che «la Germania sembra aver raggiunto con mezzi pacifici quanto non era riuscita a ottenere mediante la conquista militare: il dominio dell’Europa».

***

Tra l’altro, a mio parare, ciò avvalora la tesi secondo la quale l’Imperialismo moderno è innanzitutto un fenomeno la cui genesi è radicata profondamente e “strutturalmente” nell’economia capitalistica. La potenza economica degli Stati Uniti fu alla base del loro successo nelle due guerre mondiali del XX secolo e nella cosiddetta “guerra fredda”. La potenza economica tedesca ha permesso alla Germania di ricomporre il suo spazio nazionale, spezzato violentemente nel 1945, senza sparare un solo colpo di cannone. “Sparare” merci, invenzioni e tecnologie è alla base di quel successo tedesco che tanta invidia procura soprattutto ai “cugini” francesi.

La “pacifica” prassi economica attesta insomma la straordinaria forza dell’Imperialismo del XXI secolo – ovviamente sto parlando anche della Cina e della Russia.

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IL “VIZIO D’ORIGINE” DELL’UNIONE EUROPEA

Sui suoi colleghi di «sinistra» Ernesto Galli della Loggia ha almeno il merito di sforzarsi di approcciare la scottante questione europea da una prospettiva storica, e sebbene il suo punto di vista sulla società disti anni luce dal mio, e lo sforzo di cui sopra non è sempre coronato dal successo, mi sento di potergli concedere senz’altro quel merito. Tanto più quando lo confronto con la prospettiva ideologica, non storica, degli opinionisti di «sinistra», ad esempio di Guido Viale, il quale assume come punto cruciale della crisi del progetto europeo un dato “culturale”, ancor prima che politico. Un piccolo saggio: «La combinazione di tante manchevolezze nelle nostre classi dirigenti è riconducibile all’adesione, per molti esplicita e per gli altri sottintesa alla teoria liberista che affida il governo della società al mercato. Anzi, ai mercati». Come facevo notare ieri, un titanico scontro di interessi sistemici (economici, politici, istituzionali, sociali stricto sensu) fra nazioni e aree geopolitiche è rubricato a «manchevolezze», le quali farebbero capo a «una classe dirigente inetta, incolta, arrogante, asservita». Presto, dateci una classe dirigente attiva, colta, disponibile, con la schiene dritta: è la salvezza della Civiltà (capitalistica) Europea che lo esige! Quando si dice essere più realisti del re.

L’opinionista del Corriere della Sera ieri ha voluto mettere dentro il cono di luce il  “vizio d’origine” del progetto europeo: «La conclusione della II Guerra mondiale e il sequestro da parte dell’Unione Sovietica dell’intera parte orientale del continente furono l’elemento decisivo che portò a considerare Italia, Francia, Germania e Benelux come realtà omogeneamente “europee”. In verità esse lo erano solo per un motivo: perché tutte erano allora gravitanti nella sfera d’influenza degli Stati Uniti, non per altro» (Europa tedesca e mediterranea. Un’antica diversità). In realtà «il sequestro» dell’Europa da parte delle due maggiori potenze imperialistiche del pianeta prim’ancora che sul terreno fu deciso a tavolino, nei numerosi summit fra alleati nei quali inglesi e francesi non fecero mai mistero della loro “amarezza” sulla piega che andava assumendo la prospettiva geopolitica postbellica. In effetti, l’esito del secondo macello mondiale sancì anche, e forse soprattutto, la fine dell’Inghilterra e della Francia come potenze mondiali di primo rango, non tanto in virtù di una loro scarsa dotazione militare, bensì a ragione di una struttura capitalistica declinante ormai da decenni (mentre il Capitale americano, tedesco e giapponese ascendeva irresistibilmente), e comunque non più in grado di supportare il loro vecchio dominio coloniale-imperiale, in gran parte ceduto agli “amici” americani. Il famoso discorso di Churchill sulla «cortina di ferro», più che inaugurare la «guerra fredda», ebbe piuttosto il senso di una presa d’atto circa il ruolo dominante che Russia e Stati Uniti giocavano nel nuovo ordine mondiale.

Per un verso l’interesse geopolitico degli Stati Uniti nell’ambito della «guerra fredda», e per altro verso l’interesse di Francia e Inghilterra di controllare molto da vicino la Germania spiegano la nascita del cosiddetto «spirito europeista», prontamente recepito dalla Germania e dall’Italia, desiderose di non essere tagliate indefinitamente fuori dalla principale corrente capitalistica internazionale. È all’interno di questo quadro che si mise in moto quella complessa dialettica, fatta di interessi nazionali e sovranazionali a volte convergenti e a volte divergenti fra loro, e di spontanea dinamica capitalistica (il Capitale ha per sua intima vocazione la dimensione sovranazionale) che oggi ci si presenta dinanzi come crisi del progetto europeo. Il pensiero unico europeista, osserva della Loggia, ha nascosto un dato strutturale rimasto per l’essenziale inalterato nel corso dei decenni, nonostante il volontarismo dei «tecnocrati» basati a Bruxelles: il grande gap sistemico fra «Europa tedesca» e «Europa mediterranea», il quale, aggiungo io, ricorda assai da vicino quello secolare che insiste fra il Nord e il Mezzogiorno del Bel Paese. Ma ricorda anche il gap fra le regioni (o stati) che generò la violenta fine dell’ex Jugoslavia, nonché quello fra Germania occidentale e Germania cosiddetta dell’Est, che produsse invece un effetto contrario, per ragioni fin troppo evidenti.

A proposito delle due Germanie del secolo scorso: «Tutta l’area comunitaria s’identificava con il capitalismo, era interessata al suo sviluppo, si riconosceva nelle sue regole». Questo giudizio di Galli della Loggia accomuna i partigiani della «democrazia occidentale» e gli ex partigiani del «socialismo reale», i quali si servono dell’attuale crisi economica per dire che «se il socialismo è morto, pure il capitalismo non se la passa poi tanto bene, e anche di questo fatto dovremmo prendere atto nel momento in cui impera la legge del libero mercato». Colgo l’occasione per affermare per l’ennesima volta come il «socialismo realizzato» di reale avesse solo il Capitalismo di Stato, peraltro puntellato dalla cosiddetta «economia informale», un capitalismo privato e pulviscolare diffuso soprattutto nelle campagne della Russia. Bisogna guardare con molto sospetto le ricette economiche proposte da chi ancora porta evidenti i segni del noto muro crollato nell’anno di grazia 1989.

La crisi, continua l’editorialista del Corriere, ha avuto almeno il merito di aver fatto luce sull’equivoco troppo a lungo tenuto nascosto dalle classi dirigenti europee: hic Rhodus hic salta.  L’interesse statunitense a mantenere coesa la propria area di egemonia politico-militare, ma anche quello di non favorire la nascita di un’area economica integrata capace di battere definitivamente il Capitale americano sul mercato mondiale. L’interesse della Francia – e nel passato dell’Inghilterra – a utilizzare la potenza economica tedesca in chiave politica (la mai morta, e sempre più ridicola ed evanescente, grandeur francese), e l’interesse dalla Germania a usare il potenziale politico (e militare) di Francia e Stati Uniti in chiave di espansione economica, presupposto di una futura espansione politica. L’interesse dei paesi mediterranei, e in parte della stessa Francia, a scommettere sull’Unione Europea per tenere insieme due esigenze contrastanti: prendere il treno per una loro più rapida «modernizzazione» e alimentare con la ricchezza creata altrove (in Germania, ad esempio) una struttura sociale largamente improduttiva e viziata, ai fini del controllo sociale, da una spesa pubblica sempre più obesa e distruttiva di capitali potenzialmente produttivi attraverso il drenaggio fiscale.

Insomma, troppe parti in commedia, troppi interessi e in gran parte troppo contraddittori gli uni nei rispetti degli altri. Chi, in passato, osava fare il punto sulle debolezze dell’«ambizioso progetto federalista» veniva tacciato di abietto euroscetticismo. In Italia  gli «euroscettici» abitavano soprattutto a «destra», nella Lega e nel partito di Berlusconi. Oggi l’«euroscetticismo» dilaga in ogni dove, mentre cresce la corrente Social Sovranista. La crisi economica ha fatto venire al pettine magagne fin troppo vecchie, nascoste in modo fin troppo maldestro dai governi nazionali dell’Unione a copertura di un gioco che sembrava poter accontentare le «legittime esigenze» di tutti i paesi.

«E così oggi riprendono il sopravvento la geografia, la politica e con esse la storia. Sulla finta capitale Bruxelles riprendono il sopravvento le capitali vere del continente: Berlino, Parigi, Madrid, Roma. E torna a prevalere una diversità antica». In effetti la storia, e il processo sociale che le dà sostanza e direzione, non ha smesso un solo secondo di produrre effetti, a dispetto dei teorici del postmoderno e del post-tutto, marxiana «legge del valore» compresa – la sola, detto en passant, in grado di cogliere il profondo nesso fra esigenze dell’accumulazione capitalistica e spending review. Gli europeisti che oggi piangono sulla crisi del progetto europeo, e che gettano la croce addosso vuoi alle «insulse, incapaci e impotenti» classi dirigenti europee, vuoi alle demoniache forze del mercato, cieche e ciniche dinanzi ai valori che si sottraggono al mero calcolo economico, ovvero alla solita maligna volontà di potenza teutonica, evidentemente sono talmente narcotizzati dall’ideologia progressista da continuare a non vedere il dato gigantesco ricordato da della Loggia nel suo articolo e, assai più modestamente, da chi scrive in molti post dedicati alla guerra europea.

ECONOMIA E POTENZA DEGLI STATI

Nel post dello scorso giovedì, criticando la colossale fandonia di Barbara Spinelli sulla Germania (la ricerca della primazia economica come prerogativa dei soli tedeschi), facevo notare come la dimensione economica si collochi sempre più, e in misura sempre più imperativa e totalitaria, al cuore della prassi sociale, fino a penetrare la sostanza più intima degli individui, ridotti al rango di lavoratori (più o meno “manuali”, più o meno “intellettuali”), funzionari a diverso titolo del capitale, consumatori, clienti, contribuenti e, vista la stagione, comandati alle «sudate e meritate» ferie. Se, per riprendere la famosa tesi del materialismo volgare, l’uomo è ciò che mangia, non c’è dubbio che nel XXI secolo egli a malapena si distingue da una merce o da un codice fiscale.

Il Capitale ha una natura imperialista in questo senso peculiare, che per sopravvivere esso deve necessariamente sussumere sotto il suo Diritto, che si compendia nella bronzea legge del profitto, l’intero spazio esistenziale degli individui: non solo la produzione, non solo il mercato, non solo i luoghi del consumo, ma anche i corpi e le anime degli individui. Inutile dire che è nel denaro, nel demoniaco «equivalente universale», che questa natura espansiva e totalitaria trova la sua massima espressione, fino al punto da generare  la feticistica impressione di una sua “ontologica” autonomia esistenziale: per un verso esso appare alla stregua di cosa naturale, e per altro verso come mero strumento tecnico al servizio della società. La sua esistenza reale in quanto espressione del lavoro sociale mondiale, e quindi di peculiari rapporti sociali, è un “filosofema” che la prassi quotidiana sembra negare nel modo più evidente. Di qui, appunto, la sua dimensione feticistica, oggetto più consono alla cura dello psicoanalista e del teologo, che allo studio del rigoroso “scienziato sociale”.

La cosiddetta guerra fredda (molto “calda” ai confini dell’Impero) tenne celato il sordo conflitto economico che ebbe come protagonisti indiscussi i partener dell’Alleanza centrata sugli Stati Uniti. Venuto meno uno dei due poli dell’antagonismo (il Patto di Varsavia), il cemento politico-ideologico che aveva tenuto insieme il fronte del «Capitalismo liberale» si è progressivamente indebolito, lasciando venire a galla il fondale. Sotto questo aspetto si può senz’altro dire che gli americani avevano lo stesso interesse dei russi al mantenimento dello status quo interimperialistico generato dalla seconda guerra mondiale, tanto più  che i primi avevano potuto lucrare cospicui vantaggi economici in virtù della loro funzione di leader politici riconosciuti. Basti pensare alla svalutazione del dollaro agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso e agli accordi del Plaza del settembre 1985, entrambi aventi peraltro come maggiore obiettivo il Giappone. Ma fare i conti senza l’oste, ossia senza tenere nella giusta considerazione il fondamento di ogni potenza passata, presente e futura, è una prassi che alla fine mostra tutti i suoi limiti.

Alla fine degli anni Ottanta, ossia alla vigilia dell’ennesima accelerazione nel processo di globalizzazione capitalistica, il quadro della contesa sistemica mondiale presentava questa situazione: la potenza “sovietica” perdente su tutti i fronti (da quello economico a quello tecnologico-scientifico, da quello politico-ideologico a quello militare) e in paurosa crisi; la potenza americana vincente ma in declino, il Giappone vincente e in poderosa ascesa in tutti i quadranti del globo (dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dal Sud-Est asiatico al Canada è un fiorire di imprese economiche attivate dal Capitale nipponico), la Germania trionfante, la Cina alle soglie di quel «grande balzo in avanti» che la proietterà al vertice del Capitalismo mondiale. Lungi dall’essersi dileguato, o indebolito, come avevano teorizzato gli apologeti della «buona e sostenibile globalizzazione», assai numerosi nel Vecchio Continente, il fondamento materiale dell’Imperialismo (il concetto più adeguato al termine globalizzazione) si è piuttosto rafforzato in una misura che, ad esempio, ha reso possibile eventi che un tempo postulavano dichiarazioni di guerra e movimento di eserciti: vedi, appunto, la miserabile dissoluzione del Patto di Varsavia e l’unificazione tedesca. La pressione dell’economia ha avuto ragione di ogni volontà politica, non secondo un processo deterministico, bensì sulla scorta di quella che potremmo chiamare dialettica della necessità: poste alcune importanti premesse le conseguenze insistono in un campo di possibilità piuttosto ristretto, e comunque ben definito sul piano storico-sociale. In questo senso, ad esempio, ho parlato della Germania come «Potenza fatale», ossia per rimarcare i fattori oggettivi della sua forza sistemica e, quindi, della sua necessaria funzione storica, soprattutto nel contesto europeo.

Scrive Christian Harbulot: «Le teorie economiche dominanti in Occidente non colgono il cambio di paradigma in corso: la conquista dei mercati come fattore di sviluppo e di potenza degli stati, l’economia come arma» (L’economia come arma, Limes 3-2012). Non vorrei passare per quello che la sa più lunga degli altri, ma non posso esimermi dal formulare l’antipatica domanda: ma dove sta «il cambio di paradigma»? Alcuni scoprono solo oggi ciò che l’ultrasecolare prassi capitalistica ha mostrato in ogni luogo del pianeta, e anziché rallegrarsi per la tardiva, quanto feconda, acquisizione sentono l’irresistibile bisogno di teorizzare «cambi di paradigma» che esistono solo nelle loro teste. Dopo aver giustamente criticato gli intellettuali europei, soprattutto quelli francesi, «riluttanti a riconoscere il peso riacquisto dai conflitti economici nelle relazioni internazionali», Harbulot scrive: «L’accrescimento di potenza attraverso l’espansione economica è il motore del dinamismo della Cina, dell’India e del Brasile». Non c’è dubbio. Ma ciò non prova affatto un «cambio di paradigma», piuttosto conferma la natura eminentemente economica di un “vecchio” fenomeno sociale: l’Imperialismo, che alcuni teorici dell’Impero avevano trattato come un cane morto sulla scorta di una filosofia della storia fin troppo “postmoderna”. Tutti i dati forniti dal francese e tutti i fatti da lui accuratamente descritti, a cominciare dalla strategia del controllo preventivo dei mercati e delle materie prime, rientrano naturalmente nella rubrica dell’Imperialismo, e per rendersene conto basta compulsare anche solo rapidamente il classico libro di John Atkinson Hobson del 1902.

Con ciò voglio forse sostenere che il “nuovo” Imperialismo è identico a quello “vecchio”? Nemmeno per idea. Infatti, al confronto col primo il secondo impallidisce come un bambino che avesse visto l’Uomo Nero. Un secolo e passa di sviluppo capitalistico non è trascorso invano, e oggi l’Imperialismo ha quella natura esistenziale cui ho fatto cenno all’inizio. Ma il paradigma è sempre lo stesso: il Capitale come rapporto sociale di dominio e di sfruttamento di ogni cosa esistente, a partire dagli individui. È la vitale ricerca del profitto che lo porta a inglobare nel proprio spazio tutti i momenti della totalità sociale: individui, materie prime, mercati, stati, nazioni, continenti: tutto.

Proprio per rispondere al «dinamismo della Cina, dell’India e del Brasile», ma io aggiungo, in una prospettiva storica che guarda anche al passato, degli Stati Uniti e del Giappone, i paesi del Vecchio Continente hanno cercato nel corso di parecchi decenni di costruire un’area economica integrata, ma la crisi economica per un verso ha fatto esplodere le vecchie contraddizioni immanenti al progetto europeista (progetto imperialista al cento per cento), e per altro verso ha posto l’aut-aut che terrorizza tutte le nazioni europee, a cominciare dalla sovranista Francia: o si passa al livello successivo, ossia politico, del gioco, oppure il gioco finisce, con quali conseguenze è ancora da capire. I processi economici devono necessariamente avere delle conseguenze sul piano squisitamente politico, e l’attuale crisi del progetto europeista si colloca al centro di questa dirompente dialettica, la quale ha nella Germania il suo centro di irradiamento fondamentale.

Infatti, il passaggio al livello successivo, ossia politico, nella costruzione dell’Unione Europea presuppone un travaso di potenza fra le nazioni coinvolte nel progetto che deve necessariamente spostare l’asse geopolitico del continente verso la potenza sistemica più forte, ossia verso la Germania. Ancora una volta viene avanti l’economia «come fattore di sviluppo e di potenza degli stati». Ma anche come il più potente fattore di ristrutturazione (o rivoluzionamento) della società. Infatti, il processo di violenta “riforma sociale” che sta attraversando i paesi meno forti dell’eurozona (pensiamo alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna e all’Italia), certamente va nella direzione della “convergenza europea”, e quindi si muove lungo le linee di forza generate dalla Germania; ma nella misura in cui tende a rendere più produttivo e flessibile il lavoro e a ridurre la spesa pubblica improduttiva essa va nella direzione voluta da ogni Capitale nazionale. In questo senso Monti ha ragione quando dice che ciò che va bene per l’integrazione europea va bene anche per il Paese, ossia per l’accumulazione capitalistica nazionale. Inutile dire che in questa “dialettica oggettiva”, che abbraccia tanto la dimensione sovranazionale quanto quella nazionale, a farne le spese sono soprattutto le classi subalterne, costrette a “scegliere” tra la brace europeista e la padella sovranista.

La forma giuridica (mercato nazionale o mercato sovranazionale) deve alla fine adeguarsi alla realtà economica (l’internalizzazione del Capitale e l’interdipendenza economica dei paesi e dei continenti), e questo adeguamento deve necessariamente generare conseguenze politico-istituzionali di più vasta e generale portata. La forbice temporale che si è aperta fra l’economia, sempre più veloce, e la politica, relativamente assai più lenta, ha creato quella tensione storico-sociale che stiamo avvertendo come crisi sistemica epocale. Non la sola Germania, come sostiene Barbara Spinelli, ma tutti i paesi europei sono stati posti dal processo sociale mondiale dinanzi a un drammatico bivio, foriero di gravi contraddizioni e di inquietanti (per le classi dominanti, beninteso) conflitti sociali. Ciò che nei secoli passati giocò a favore dell’Europa, ossia l’aggressiva competizione sistemica (economica, politica, scientifica, culturale, religiosa) fra tante e relativamente piccole aree geosociali contigue e, poi, fra tante rissose entità nazionali, nel XXI secolo si mostra come potente fattore di debolezza e di degenerazione. Nella Società-mondo della nostra epoca piccolo non è più – posto che lo sia mai stato – sinonimo di bello.

Nel 2000 Robert Gilpin scriveva che «Un nuovo ordine politico ed economico si sta stabilendo in Europa; quale sarà la sua natura, non è ancora dato sapere» (Le insidie del capitalismo mondiale, Università Bocconi Editore). Dodici anni dopo questo «nuovo ordine» sembra assumere contorni meno evanescenti. Azzardare previsioni intorno agli esiti di quella che non pochi analisti politici ed economici definiscono guerra civile europea non mi sembra un esercizio particolarmente sensato. Ciò che conta non è scommettere su questa o quella soluzione (e, almeno per chi scrive, prendere parte a questo o a quel partito: quello federalista e quello sovranista), ma capire la natura della dialettica in corso. Certamente possiamo dire che, comunque vada, la natura del «nuovo ordine» avrà il marchio del Capitalismo e dell’Imperialismo, e che, come scriveva sempre Gilpin, «la Germania rimane l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea». Già sento le imprecazioni dei sovranisti…

SLAVOJ ŽIŽEK E LA SINDROME DELLA MOSCA COCCHIERA

L’incipit dell’intervento di Slavoj Žižekalla convention di Syriza pubblicato dal Manifesto è, come spesso capita alle produzioni del filosofo sloveno, brillante e accattivante: «Al termine della sua vita Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fece la famosa domanda “che cosa vuole una donna?”, ammettendo la perplessità di fronte all’enigma della sessualità femminile. Una simile perplessità sorge oggi: “Che cosa vuole l’Europa?” Questa è la domanda che voi, il popolo greco, state rivolgendo all’Europa. Ma l’Europa non sa quello che vuole» (Alla fine la Grecia ci salverà, Il Manifesto, 8 giugno 2012). Tuttavia, usare la citazione freudiana come metafora in grado di illuminare la problematica “sessualità” della Vecchia Europa, se può suonare in qualche modo suggestivo, rischia di mettere subito su una falsa pista il pensiero non pago delle riflessioni mainstream – di “destra” o di “sinistra” che siano – intorno alla scottante questione europea. Ma forse è proprio il pensiero del filosofo sloveno a essere  completamente sconnesso dal reale processo storico-sociale.

Innanzitutto l’Europa posta nei termini in cui li ha messi Žižek semplicemente non esiste, mentre esiste uno spazio geosociale chiamato Europa nel cui seno si “dialettizzano” capitali e sistemi-paese da sempre concorrenti fra loro. Ripeto: da sempre. La crisi economica ha semplicemente reso evidente ciò che tutti i più seri analisti politici ed economici (chissà perché quasi tutti “conservatori”) del mondo hanno detto e scritto nel corso dell’ultimo mezzo secolo, in barba alle elitarie e pasticciate chimere vendute al mercato delle ideologie dai federalisti europei «senza se e senza ma».

Ancora fino al 2008 il politico europeo (in Italia quasi sempre leghista o berlusconiano) che osava denunciare tutte le contraddizioni insite nella costruzione dell’Unione Europea e, soprattutto, dell’Eurozona, veniva subito zittito con una valanga di insulti politicamente corretti (cioè rigorosamente europeisti). «Lei è un euroscettico, s’informi!»: ecco la sanguinosa accusa. Il dogma tecnocratico di Jacques Delors (la moneta unica europea come base dell’edificio politico-istituzionale europeo) era il paradigma del buon politico europeo. Ma già nel corso della crisi finanziaria del 1992 si rese evidente come la Germania rimanesse «l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea» (Robert Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, p. 206, Università Bocconi Editori, 2000). L’integrazione economica dei diversi paesi dell’Unione non poteva non porre la questione della Sovranità Nazionale, la quale nei dibattiti fra le persone colte del Vecchio Continente veniva trattata alla stregua di un cane morto. Salvo poi scoprire che il Leviatano nazionale non ne vuole sapere di tirare le cuoia, per lasciare il posto al Moloch Sovranazionale in grado di competere ad armi pari con le altre creature mostruose che devastano l’umanità: Stati Uniti, Cina, India e via di seguito.

Come ho scritto altre volte, nel «sogno europeista» storicamente convergono (si “scaricano”) diverse e contrastanti esigenze. In primis quella di controllare da vicino la Germania: «Naturalmente, le “ambizioni egemoniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (Robert Kagan, Paradiso e potere, p. 62, Mondadori, 2003). La stessa Germania, immersa peraltro in un senso di colpa alimentato ad arte dalle potenze vittoriose, ha accettato di buon grado la camicia di forza “europeista”, e le ragioni, di assai facile comprensione, si compendiano in due date: 1918 e 1945. Due catastrofi epocali nell’arco di un tempo così breve avrebbero spezzato la volontà competitiva (un tempo chiamata «volontà di potenza») di qualsiasi nazione. Ma la Germania, se può essere contingentemente spezzata e ridotta al rango di Paese reietto, non può venir privata della sua storia e del suo corpo sociale, ossia di quella che chiamo Potenza sistemica. Tanto alla fine della Prima quanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per sostenere un’economia tedesca ridotta ai minimi tempi, e non l’hanno certo fatto per ragioni umanitarie, le quali nel contesto della competizione globale fra le Potenze mondiali si danno come mero strumento ideologico al servizio di obiettivi radicalmente disumani. Già Keynes, nel 1919 (Le conseguenze economiche della pace), sostenne che fiaccare la Germania significava mettere nelle condizioni l’Europa di produrre nuovi e più gravi disastri sociali.

La questione europea è la questione tedesca, e chi, come Žižek, si muove all’interno della dimensione europeista, sebbene da una prospettiva “di sinistra radicale”, non può fare a meno di confrontarsi con questa realtà. È la dimensione del conflitto sistemico fra i paesi europei che va recuperata in tutta la sua radicalità sociale e storica, e mi mette un po’ in imbarazzo doverlo “ricordare” all’autore de «La violenza invisibile».

Syriza non rappresenta affatto «una nuova eresia», come crede il filosofo sloveno, quanto piuttosto una strada percorribile dalla classe dominante greca, o da alcune sue fazioni, nelle odierne critiche circostanze: è una delle diverse opzione in campo, tutte egualmente pregne di lacrime e sangue per le classi dominate, schiacciate nella falsa alternativa tra europeismo e sovranismo. «La nostra libertà di scelta in effetti funge da mero atto formale di consenso alla nostra oppressione e al nostro sfruttamento» (Slavoj Žižek, La violenza invisibile, p. 150, Rizzoli, 2008). Anche con Syriza, il KKE e tutti gli altri raggruppamenti ellenici di sinistra e di estrema sinistra ci troviamo al centro della dimensione totalitaria illuminata dallo sloveno; essi, infatti, basano la loro azione politica a partire dai «veri interessi del Paese», o del «Popolo», ossia, tradotto in concetti non ideologici e al netto di ogni rognosa fraseologia pseudomarxista (il KKE propone «il potere popolare, il disimpegno dall’Unione europea e la socializzazione dei mezzi di produzione»: il socialismo in un solo Paese?), sulla base degli «autentici interessi nazionali». E dove c’è Nazione c’è Capitale, più o meno «di Stato» o «liberista-selvaggio».

Nei 40 punti del Programma elettorale di Syriza spiccano quelli dedicati alle nazionalizzazioni: «delle banche, delle imprese ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie, aeroporti, poste, acqua), degli ospedali privati (Eliminare ogni partecipazione privata nel sistema pubblico sanitario)». Certo, chi associa la nazionalizzazione delle attività economiche al socialismo, o a qualcosa che gli somigli (secondo lo schema della «fase di transizione dal capitalismo al socialismo»), può pure gongolare dinanzi a una simile prospettiva – peraltro coltivata da non pochi partiti di estrema destra del Vecchio Continente: dal “socialismo” al nazionalsocialismo il passo può essere davvero breve… Come dimostra la storia del “secolo breve” (dallo stalinismo al fascismo, dal nazismo al keynesismo) nazionalizzare significa espande il potere di controllo sociale del Leviatano, magari in cambio di qualche briciola in più fatta cadere sulle masse proletarie: prima soddisfare i bisogni del corpo! È il triste «materialismo triviale» formato Diamat.

Può anche darsi che il nostro amico sloveno pensi di poter usare “tatticamente” Syriza per conseguire «più avanzati obiettivi», secondo quella che mi piace definire sindrome della mosca cocchiera. Purtroppo la mia indigenza in fatto di dialettica mi impedisce di cogliere il significato dell’ipotizzato “entrismo”, il quale a mio modesto avviso si risolve, puntualmente e necessariamente, in una politica al servizio di questo o quell’altro interesse capitalistico e/o nazionale: Grecia o Unione Europea, Euro o Dracma, Stato o Privato, Europa o America, Occidente o Oriente, e via di seguito. Quando si coltivano troppe illusioni, facilmente si corre il rischio di rimanere vittime dell’astuzia del Dominio.

Sic!

D’altra parte, cosa abbia in testa Žižek quando parla di rivoluzione lo si evince da quanto segue: «Permettetemi ora di finire con una nota personale. Odio la sinistra tradizionale, intellettuale, che ama la rivoluzione, ma la rivoluzione che avviene in qualche luogo lontano. Era così quando ero giovane: più lontano è, meglio è, Vietnam, Cuba, ancora oggi, Venezuela». Lasciamo stare, qui, il Vietnam e Cuba, anche per rispettare la speranzosa gioventù del filosofo; ma farsi ancora delle illusioni persino sul Venezuela di Chávez!

È proprio vero: per trasformare il mondo occorre prima capirlo. Ma anche: First as Tragedy, Then As Farce.

SCENARI PROSSIMI VENTURI

Che tristezza, Angelina! «È il socialismo reale, bellezza!»

Ipotesi politicamente scorretta. E se domani, e sottolineo se…

Si parla tanto della sempre più possibile, e addirittura imminente, uscita della Grecia dall’eurozona, o addirittura dall’Unione Europea. E se invece fosse la Germania a dare il ben servito ai partners? «Signori, togliamo il disturbo! Non vogliamo più essere i capri espiatori per governi inetti e corrotti, che non vogliono dire la verità ai loro cittadini. E la verità è che i sacrifici servono a quei paesi per recuperare la competitività perduta da molto tempo. Noi non vogliamo tirarci addosso l’odio dell’opinione pubblica europea, e passare per i soliti nazisti. I tedeschi non vogliono costringere la cicala a trasformarsi in  formica. Nessuno obbliga nessuno. Dunque, ogni Paese si regoli democraticamente come ritiene più conveniente e amici come prima. Anzi, meglio!»

Pensate che Angela Merkel non faccia balenare questa inquietante prospettiva nei suoi colloqui con i colleghi dell’UE? Ragionare su scenari che oggi appaiono inverosimili e bizzarri può forse aiutarci a capire meglio la dimensione della guerra sistemica in corso nel Vecchio Continente, con le sue necessarie implicazioni mondiali, mentre riflessioni basate su una sempre più risibile ideologia europeista (vedere l’editoriale di Barbara spinelli pubblicato ieri da Repubblica e l’editoriale di Marco D’Eramo sul Manifesto di oggi) ci offre un confuso quadro dominato da irrazionalità, cattiverie, inspiegabili «politiche suicide» e futilità concettuali di simile conio. La riflessione che non fa fino in fondo i conti con la dimensione del conflitto sistemico tra le nazioni (a partire dalla sfera economica) rimane sempre più spiazzata dal reale procedere della storia. L’ipotesi appena avanzata non ha la pretesa di anticipare i tempi, né di profetizzare alcunché; vuole piuttosto spingere il pensiero su un terreno non recintato da vecchi e nuovi luoghi comuni.

Germania e Cina: formiche perfette

Come è riuscita a integrare la sua regione orientale in poco tempo e pagando un costo economico-sociale abbastanza contenuto, e in ogni caso sostenibile e coronato da un brillante successo, così oggi la Germania potrebbe chiamarsi fuori dall’Unione Europea affrontando sacrifici tutto sommato accettabili, certamente non disastrosi e alla lunga convenienti. Ripeto: potrebbe. Tuttavia, l’esistenza di questa possibilità, che non è affatto detto che si trasformi in un dato di fatto, almeno nel breve periodo, basta da sola a orientare la politica interna ed estera tedesca.

Le Monde dello scorso martedì ha giustamente fatto rilevare che oggi esistono in campo due opzioni con le quali i leaders europei – ma anche Obama – sono chiamati a confrontarsi: una si chiama Homerkel, e corrisponde al vecchio rapporto privilegiato franco-tedesco, quello che ha fin qui retto il “progetto europeo”; e l’altra porta il nome di Jamerkel, in riferimento alla sempre più intensa relazione commerciale sino-tedesca. Scriveva L’Occidentale il 4 febbraio: «Il corteggiamento reciproco tra Cina e Germania continua: intenso e spietato. Nel 2011 il volume commerciale tra i due paesi ha raggiunto la cifra record di 145 miliardi di euro. La Cina è diventato, così, il secondo mercato di esportazione (dopo gli Stati Uniti) per le imprese tedesche. Già nel 2010 l’export verso la Repubblica Popolare è aumentato del 40 per cento tanto che la crescita dell’export tedesco è, nel complesso, dipendente dal mercato cinese». Nel corso della cerimonia inaugurale del vertice di industria e commercio tra Cina e Germania (Hannover, 22 aprile 2012), il premier cinese Wen Jiabao non avrebbe potuto essere più esplicito: la relazione strategica sino-tedesca non può che rafforzarsi, tanto più che la crisi economica internazionale spinge i due paesi ad assumersi responsabilità economiche e politiche sempre crescenti, in vista – indovinate un po’  – della «prosperità e stabilità mondiali».

In effetti, la Germania è forse la sola nazione del Vecchio Continente che può avere una proiezione mondiale in quanto spazio sistemico (economico, tecnologico, scientifico, ideologico, politico e, domani, militare) autonomo, mentre tutti gli altri paesi continentali devono appoggiarsi necessariamente a essa per fare «massa critica» e sperare di contare qualcosa nell’agone della competizione globale internazionale. Il discorso è in parte diverso per l’Inghilterra, per via della sua «relazione speciale» con gli Stati Uniti d’America, ma solo in parte, perché la sua competitività globale è assai (diciamo ulteriormente) decaduta negli ultimi due decenni.

Senza contare che una volta fuori dall’UE la Germania potrebbe riprendere con rinnovato vigore la sua corsa egemonica nel proprio naturale bacino geopolitico. Scriveva il “revisionista” Ernst Nolte nel remotissimo 1993: «Se i cechi vendono la fabbrica Skoda ai tedeschi non lo fanno di certo per i loro occhi azzurri, ma semplicemente perché da questa vendita si ripromettono dei vantaggi. E questi poi vengono davvero, perché la potenza economica finisce con l’essere positiva anche per chi è esposto alla sua influenza, contrariamente a quanto accade al potere politico» (Intervista sulla questione tedesca, Laterza).  Come se la potenza politica non avesse come sua base necessaria di “ultima istanza” la potenza economica. Come se la pressione economica, con tutto quello che essa presuppone a tutti i livelli della prassi sociale di un Paese, non avesse delle necessarie “ricadute” politiche interne e internazionali, anche indipendentemente dalla volontà degli attori in campo. È con questo tipo di “dialettica oggettiva” tra economia e politica che oggi abbiamo a che fare, sia chiaro.

La vicina Cina

Ma è appunto la possibile proiezione mondiale della Germania che deve maggiormente inquietare i suoi “alleati”. «Gli interessi geopolitici ed economici della Repubblica Federale Tedesca sono rivolti all’Asia, tanto che si stima che nel 2015 il volume d’affare tra Pechino e Berlino raggiungerà i 200 miliardi di euro. Ora, considerata la crisi attuale dell’Euro, la necessità di rafforzare l’Unione Europea ed il ruolo di guida che ha la Germania in questa situazione di emergenza, si pone la questione se gli interessi economici della Germania coincidano con quelli dell’Unione Europea. Al momento sembra proprio che non sia così» (Ubaldo Villani Lubelli, L’Occidentale, 4 febbraio 2012). Già, sembra proprio di no.

IL PUNTO SULLA GUERRA IN EUROPA

Come scrive Barbara Spinelli, «I tempi bui sono sempre momenti di verità» (La Repubblica, 18 gennaio 2012). Si tratta di vedere come si declina questa verità, che significato attribuirle. Infatti, se la kantiana cosa in sé ha un assai dubbio significato nella sfera dei fenomeni naturali, in quella dei fenomeni sociali essa non può vantare alcuna pretesa di assoluta oggettività. La verità dipende dalla prospettiva dalla quale il soggetto la guarda. E cosa vede la Signora Federalista Europea dalla sua sofisticatissima prospettiva? Il fallimento del «sogno europeo», naturalmente. «La verità la vediamo: l’alternativa alla federazione è una confederazione, che esclude un governo politico europeo, che dà il primato a finti Stati sovrani e che sta franando penosamente».

La Spinelli è irritata soprattutto con Mario Monti, il quale ultimamente pare averla molto delusa. Dopo il Puttaniere di Arcore, euroscettico come può esserlo solo un mentecatto del Populismo, arriva il Sobrio Super Mario, europeista come nessun altro leader europeo, e che accade? Niente. Tutto come prima. Anzi peggio! «Non è del tutto chiaro come mai Monti, che tanto ha insistito sullo sguardo lungo e l’Europa, abbia deciso di frenare lo scatto iniziale. Per dire d’un tratto ai tedeschi, in un’intervista alla Welt dell’11 gennaio: “Gli Stati Uniti d’Europa non li avremo mai. Non foss’altro perché non ne abbiamo bisogno”». Il meccanismo è questo: ci si fa delle illusioni su cose, progetti e persone, e poi, quando i nodi della dura realtà vengono al pettine, ci si lamenta come bambini perché il giocattolo non è bello come lo si desiderava. La colpa non è mai delle proprie pie illusioni, ma dei fatti che puntualmente si incaricano di irriderle. Monti si è limitato a parlare il linguaggio della verità, il quale oggi si esprime soprattutto in tedesco.

Dopo Berlusconi, la bella politica. Finalmente!

La Germania non ne vuol sapere di subire come punto di forza ciò che rappresenta un assoluto requisito di debolezza, ossia la crisi strutturale di «cicale» come Grecia e Italia. Il potenziale default di questi Paesi non può costituire un’arma di ricatto per costringere la virtuosa Germania a delle insane concessioni dal lato della disciplina fiscale, e quando Monti, attraverso un’intervista sul Financial Times, ha ricordato alla Germania il debito che anch’essa ha contratto con l’Unione Europea, e ha paventato il rischio di un «populismo antitedesco», la Cancelliera di Ferro ha risposto con una diplomatica alzata di spalle. «L’Italia è forte abbastanza da farcela da sola». Nein, di qui non si passa! Questo è il legittimo punto di vista della Potenza oggi egemone in Europa.

Indovinate di chi parlano?

Abbastanza scopertamente Inghilterra e Francia stanno cercando di usare l’Italia in funzione antitedesca. Ma non bisogna credere che Monti reciti con l’usuale sobrio sorriso sulle labbra il ruolo dell’utile idiota o del servo sciocco. A proposito della teoria del «servo sciocco», molto in voga nei circoli di estrema sinistra ed estrema destra durante la «Prima Repubblica», la quale prospettava un’Italia eternamente supina ai diktat degli odiati Amerikani, c’è da dire che la storia, soprattutto quella moderna, non presenta mai un quadro geopolitico che non sia determinato dai rapporti di forza economici e politici (militari) tra i diversi Paesi che condividono una stessa Alleanza. All’interno di questo quadro anche i Paesi più deboli, magari perché sconfitti sul piano bellico (vedi Germania, Giappone e Italia dopo la seconda guerra mondiale), non si lasciano mai assorbire interamente dagli interessi che fanno capo alla Potenza egemone, ma facendo della necessità una virtù, cercano di trarre «un bene dal male» (ad esempio, investendo nella ricerca scientifica e nel sostegno alle imprese capitali pubblici altrimenti destinati a finanziare la costosa macchina militare), e non perdono l’occasione di smarcarsi, quando ciò è possibile e sempre nella misura imposta dai rapporti di forza, dall’amico-nemico di turno. Quando osserviamo la guerra europea in corso, è utile a mio avviso avere in mente questa complessa dialettica storico-sociale, per non cadere vittima del «teatrino della politica» internazionale che tanto spazio trova sui media.

Come il «falco conservatore» Robert Kagan ha capito (Paradiso e potere, Mondadori, 2003), e il progressista e politicamente corretto Jeremy Rifkin non ha capito (Il sogno europeo, Mondadori, 2005), il «progetto europeo» teneva insieme diversi e contraddittori interessi nazionali e sovranazionali. Raggiungere una massa critica continentale tale da poter competere con i maggiori blocchi capitalistici mondiali (USA-Canada-Messico, Cina, Tigri asiatiche); controllare e soffocare la Potenza sistemica della Germania, servirsi di questa stessa Potenza per dare sostanza materiale alle proprie velleità di grandezza (o di Grandeur, per essere più chiari), e così via. Ogni Nazione europea è stata “europeista” a misura dei suoi peculiari interessi economici e politici. Il tutto, confezionato con la luccicante ideologia europeista, peraltro fin dall’inizio inaridita da compromessi d’ogni sorta, a volte spinti fino al più ardito machiavellismo burocratico, o al più parossistico degli economicismi (vedi le freudiane dispute sulle misure dei cetrioli e sull’incurvatura delle banane).

Giustamente il Wall Street Journal Europe di ieri ridicolizzava la pretesa dei keynesiani secondo la quale la Germania dovrebbe essere meno industriosa e meno virtuosa sul piano fiscale, in modo da mettere gli altri Paesi europei nelle condizioni di recuperare il gap sistemico accumulato nei suoi confronti. Non si capisce perché la Germania dovrebbe essere così masochista. Forse nel nome della «Patria Europea»? Ma siamo seri! Allo stesso modo, non si capisce perché gli italiani del Nord dovrebbero a cuor leggero continuare a finanziare il Sistema che ha mantenuto il Sud del Paese nelle penose condizioni che sappiamo. Per amor di Patria? Leghismo e Forconismo sono le facce della stessa medaglia: la crisi del Sistema-Paese.

Quando Francia e Inghilterra hanno approfittato della situazione caotica creatasi in Nord‘Africa per mettere le mani sulla Libia, hanno forse chiesto il permesso all’Italia, pur sapendo di operare nel suo cortile di casa? Ovviamente no. Perché avrebbero dovuto farlo?

Barbara Spinelli conclude il suo articolo invocando, contro la conclamata crisi del «progetto europeo», un’«ondata di nuove istituzioni federali». La coazione a ripetere degli illusi è cosa risaputa, nel mondo della politica come in quello della psicoanalisi. «Pagare un po’ meno tasse agli Stati e un po’ più tasse all’Europa»: è il massimo che il progressismo italico riesce a immaginare.

Scrive Carlo Bastasin: «Fa parte di questa gabbia mentale la confusione – tragica, in filosofia politica – tra integrazione e identità. Integrare l’Europa non significa far diventare ogni Paese come la Germania. Un’area economica comune vive di zone, Stati o regioni, ognuno diversamente specializzato e che inevitabilmente hanno produttività diverse, tassi di sviluppo differenti e anche bilance dei pagamenti in squilibrio, proprio come il Mississippi e il Massachusetts. Anche l’unificazione tedesca non fu un’integrazione, ma un’identità. Ma quello che era difficile tra le due Germanie è impossibile tra 17 Paesi. (Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2012)». Di qui l’attuale crisi dell’Unione Europea. O si converge su Berlino, o si va dritti verso l’impasse o il definitivo fallimento del cosiddetto «Sogno europeo». Anche su questo terreno la «Terza Via» è roba per persone che amano il conforto dell’ideologia.

«L’Europa – scrive la Spinelli – serve per scongiurare insieme le sciagure: ieri la guerra, oggi la contrazione economica, la povertà, il clima, le possibili guerre civili. Compito nostro è evitare che naufraghi come la nave Concordia, con tutti i comandanti che fuggono per salvare solo se stessi, alla maniera del capitano Schettino, dopo aver condotto il bastimento alla rovina». Metafora azzeccata? Intanto è meglio munirsi di elmetto e di fucile, per portarci avanti col lavoro, per così dire. L’evocazione esorcistica della guerra civile dalle mie parti mette di ottimo umore. E già solo per questo leggere l’articolo della sconsolata Signora è stato un vero piacere.