SULLA GUERRA CAPITALISTA

La Guerra capitalista di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli ha all’avviso di chi scrive il notevole merito di aver riportato al centro dell’attenzione di un vasto pubblico di lettori il concetto di imperialismo come chiave di interpretazione del processo sociale capitalistico considerato su scala planetaria e colto nella sua complessa e articolata totalità. Operazione ancor più meritevole di lode, sempre all’avviso di chi scrive, in quanto gli autori  collocano nel campo imperialista anche la Cina e la Russia, cosa tutt’altro che scontata nell’ambiente politico-ideologico (la “sinistra” genericamente intesa) di provenienza, se non sbaglio (e mi scuso se sbaglio), di Emiliano Brancaccio.

Si capisce dunque l’irritazione dei personaggi che a quel mondo appartengono nei confronti della tesi esposta nel libro che giustamente assimila la Cina al «capitalismo imperialista». Un solo esempio: «Brancaccio et al., quindi, rispetto al fenomeno più importante della realtà sociale, economica e geopolitica del secolo XXI [la Cina], finiscono con l’aderire alla propaganda anticomunista dei sicofanti neoclassici più rozzi, che proclamano incessantemente: “Il socialismo non può funzionare mai e da nessuna parte, e se per caso qualche volta funziona non è socialismo! Proletari di tutto il mondo, rassegnatevi alla vostra sorte e continuate eternamente a farvi sfruttare e umiliare dai vostri padroni, secondo la legge naturale, universale e immutabile dell’esistenza!” Un cedimento ideologico e analitico di questa portata non può che portare danni seri. Ed è così che il libro, malgrado il valore dei suoi risultati statistici e la correttezza della principale tesi di fondo (l’esistenza di una legge di movimento del capitalismo che porta a una crescente centralizzazione), finisce con il proporne una interpretazione meccanicistica e campata per aria, anche se infarcita di una sorta di gergo marxista che ricorda i fasti della Terza Internazionale – o della Quarta). Secondo gli autori, la legge ferrea della centralizzazione non è scevra di contraddizioni, e come risultato il mondo sarebbe alla mercé della lotta apocalittica tra due forme di capitalismo imperialista combattuta da due fazioni uguali e contrarie, quella dei “debitori”, guidati dagli USA, e quella dei “creditori”, capitanati proprio dalla Cina. Inutile dire che di fronte a questo scontro megagalattico i lavoratori e gli intellettuali progressisti non possono fare praticamente nulla… a meno che forse ci si attenda messianicamente una rivolta spontanea delle moltitudini informi, alla Negri e Hardt. Piuttosto deprimente» (Marx21). Come hanno accolto gli autori della Guerra capitalista questa severa quanto “marxisticamente fondata” critica? Spero con una ciclopica risata. Probabilmente si tratta di “contraddizioni in seno al popolo” – di “sinistra”. Insomma, le vicende della Russia stalinista pesano ancora come un macigno sulla concezione del “socialismo” e del “comunismo” di quel popolo, al quale chi scrive è sempre stato estraneo e radicalmente ostile. Ecco perché, ad esempio, personalmente metto mano alla metaforica pistola quando statalisti del calibro di un Giorgio Cremaschi scrivono, anche in riferimento al testo in questione, che «torna di attualità una parola scomparsa dal lessico politico del mondo progressista, degli oppressi e degli sfruttati: rivoluzione». La «pianificazione pubblica» e «il controllo democratico sulle forze economiche» (capitalistiche) la lascio volentieri ai nostalgici e agli eredi del “socialismo reale”, i quali oggi vedono nella Cina capitalista e imperialista un’occasione di rivincita dopo i noti fallimenti. Non a questi deprimenti personaggi ma alle classi subalterne l’anticapitalista deve sforzarsi di dimostrare che ciò che ha fatto fallimento non è stato il socialismo, più o meno “reale”, ma un reale capitalismo – più o meno statale e poco sviluppato. Com’è facile comprendere si tratta di uno sforzo politico e umano che definire titanico è ancora poco.  

Sulla natura capitalista del Celeste Imperialismo, tanto sul piano della sua “struttura” quanto su quello della sua “sovrastruttura”,  rimando ai miei diversi scritti dedicati al tema. Idem per quanto riguarda la natura sociale dell’Unione Sovietica e il significato storico della controrivoluzione stalinista. Sul concetto di Impero di Negri e Hardt rinvio a un mio post dello scorso novembre: La guerra sistemica mondiale tra “ritorno degli imperi” e la continuità dell’imperialismo unitario. Mi scuso per la digressione e riprendo il filo del ragionamento.

Con piacere correggo dunque il mio giudizio sulla posizione di Brancaccio riguardante il conflitto armato russo-ucraino, parte di una guerra sistemica di dimensioni mondiali, espresso su un post dello scorso 5 novembre (Il capitalismo è guerra). Come diceva l’uomo con la barba, che citerò tra poco, l’autocritica è per il proletariato un esercizio inderogabile.

Pure di estremo interesse è la ripresa da parte degli autori di un fondamentale concetto marxiano, quello della centralizzazione capitalistica. Marx svolge questo tema nella Settima sezione (Il processo di accumulazione del capitale), Capitolo ventitreesimo (La legge generale dell’accumulazione capitalistica) del Primo libro del Capitale. Assai significativamente Marx invita a osservare dietro l’apparenza dei movimenti di denaro la realtà del processo di produzione delle merci colto nella sua complessa totalità (valorizzazione, circolazione, realizzazione, accumulazione). Sarebbe infatti sbagliato disancorare il fenomeno della centralizzazione capitalistica, che riguarda  «capitali già formati», dal fenomeno della concentrazione capitalistica, che attiene ai fattori della produzione e al comando sul lavoro vivo, e che è un altro modo di concettualizzare l’accumulazione capitalistica stricto sensu. La concentrazione nella sfera finanziaria di capitali monetari già formati, per Marx «non è che un’espressione diversa per indicare la riproduzione su scala allargata». «Con la produzione capitalistica si forma una potenza assolutamente nuova, il sistema del credito, divenuto ben presto un’arma nuova e terribile nella lotta della concorrenza e trasformandosi infine in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali» (1). La centralizzazione capitalistica come potentissimo strumento di espansione e accelerazione dell’accumulazione (con ciò che necessariamente ne deriva anche in termini di «rivolgimenti nella composizione tecnica del capitale»), e come fondamento per lo sviluppo del sistema creditizio e delle imprese monopolistiche.

Marx non “profetizza” il dominio del capitale finanziario su quello industriale e commerciale; sulla base del concetto stesso di capitale egli pone piuttosto le basi teoriche per comprendere il futuro sviluppo della società capitalistica considerata nella sua totalità. Su quel fondamento teorico, ad esempio, appaiono quantomeno limitate le concettualizzazioni della globalizzazione capitalistica centrate su una sua interpretazione economicista e/o geopoliticista: si tratta infatti di un fenomeno essenzialmente sociale che attesta la generalizzazione del rapporto sociale capitalistico di produzione, che, è sempre bene ricordarlo, è un rapporto di dominio e di sfruttamento (degli uomini e della natura), all’intero pianeta, all’intera sfera esistenziale degli individui – corpo e “anima” compresi. Anche la crisi pandemica mondiale da Coronavirus, crisi sociale capitalistica all’ennesima potenza, va interpretata a mio avviso alla luce di quanto appena scritto.

In questo peculiare e radicale significato il capitale diventa una potenza sociale globale (o totalitaria), in grado cioè di esercitare la sua disumana forza in ogni luogo, su ogni attività umana, anche in quelle che apparentemente nulla a che fare hanno con la prassi economica. Marx ed Engels colsero questa tendenza “imperialista” (espansiva, invasiva, refrattaria a ogni tipo di limite) del capitale già nella prima metà degli anni Quaranta del XIX secolo, quando solo pochi Paesi potevano vantare un regime economico-sociale pienamente capitalistico. Anche qui, non si trattò di una “profezia” ma di una profonda penetrazione concettuale nella natura del capitale in quanto appunto rapporto sociale peculiare dell’epoca storica segnata dal dominio di classe della borghesia.

Che la globalizzazione capitalistica degli ultimi decenni avrebbe eliminato l’antagonismo sistemico fra i maggiori Paesi capitalistici del mondo post Guerra Fredda, il quale sarebbe dovuto entrare nella pacifica dimensione della «fine della storia», ebbene a questa sciocchezza potevano dar credito solo degli apologeti del capitalismo particolarmente sciocchi e imbevuti di ideologia. Allo stesso modo non mostra una grande comprensione del meccanismo capitalistico chi oggi teorizza la fine della globalizzazione: ha termine piuttosto un determinato periodo storico della competizione capitalistica mondiale, quello che giornalisticamente è stato chiamato “globalizzazione”, e un altro inizia a farsi strada: qualcuno ha parlato di Friend Shoring , altri di globalizzazione a macchie di leopardo o ad arcipelago. La globalizzazione capitalistica rettamente intesa può finire solo con la fine del rapporto sociale capitalistico. D’altra parte è tipico del pensiero antidialettico e privo di radicalità critica contrapporre fenomeni economico-sociali (statalismo versus liberismo, mercato versus pianificazione, monopolio versus concorrenza, protezionismo versus libero commercio, e così via) che rappresentano il modo di apparire contingente, contraddittorio e sempre cangiante della stessa realtà. Il monopolio capitalistico, ad esempio, non ha significato la fine della concorrenza capitalistica, ma un salto di qualità di quest’ultima che ha finito per coinvolgere nella zuffa capitalistica per la spartizione del bottino (plusvalore, capitali, mercati, materie prime, capacità lavorative ecc.) anche gli Stati. Di qui, il moderno imperialismo. Analogo discorso vale quando si considera la fenomenologia politico-istituzionale del dominio capitalistico: democrazia (capitalistica) versus autoritarismo: due facce della stessa medaglia che possiamo fondatamente chiamare totalitarismo sociale – economico, politico, tecno-scientifico, ideologico, culturale, psicologico. È a partire da questa prospettiva che a mio avviso ha un senso politico, e non meramente ideologico (tanto che si tratti degli apologeti dichiarati del “modello occidentale”, quanto dei suoi detrattori tifosi del modello “asiatico”), riflettere sulla cosiddetta crisi della democrazia – magari per cogliere  «il legame tra centralizzazione capitalistica e assedio alla democrazia», come si legge nell’Introduzione del libro qui segnalato. Ma non divaghiamo troppo!

Che la tendenza del capitale mondiale a una sua sempre più spinta centralizzazione sia una “legge di sviluppo” operante come e più che ai tempi di Marx, che l’ha messa appunto in luce per primo e che l’ha concettualizzata nel suo reale significato storico-sociale in modo ancor oggi insuperato, chi scrive non ha dunque alcun dubbio e in merito ha pure scritto qualcosa nel 2012. Non si tratta di questo. Si tratta appunto della sua applicazione ai fatti reali, soprattutto per spiegare le cause ultime delle guerre moderne, che andrebbero ricercate, secondo gli autori del libro in questione, nell’antagonismo sistemico fra Paesi creditori (Cina in primis, ma anche la Russia e altri Paesi) e Paesi debitori (Stati Uniti e Unione Europea). Ora, mettere nello stesso cesto Russia e Cina a partire da una riflessione sulla centralizzazione capitalistica e sul rapporto antagonistico che lega Paesi creditori e Paesi debitori mi sembra quantomeno una forzatura concettuale e reale. Dice Brancaccio: «Questa svolta protezionista occidentale è uno dei fattori chiave della svolta militare russa, implicitamente avallata dai cinesi. L’obiettivo è lanciare un avvertimento a ovest: se continuate con il protezionismo, noi ci faremo strada con le armi. Non è la prima volta che accade, nella storia del capitalismo» (Huffington Post). Ma questo vale per la Cina, che per molti versi ha subito l’iniziativa russa, non per la Russia. Da decenni la Cina ha interesse a mantenere fluidi e liberi gli scambi commerciali e finanziari con il resto del mondo, rivendicando apertamente il ruolo di campione della globalizzazione, mentre l’imperialismo statunitense è stato costretto a implementare politiche economiche sempre più aggressive per difendere le sue posizioni di prima potenza capitalistica mondiale minacciate ormai da molto vicino dal Dragone. Per la Russia occorre invece fare un altro ragionamento.

Alla fine della Seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica stabilisce con i suo “satelliti” dell’Europa Centro-Orientale un regime egemonico estremamente oppressivo, che include l’invasione militare dei Paesi che minacciano di allontanarsi dal centro gravitazionale moscovita, non perché è forte, ma perché è debole sul piano economico, e quindi non riesce a stabilire con i suoi “alleati” forti relazioni economiche che non contemplino una mera spoliazione economica. Di fronte alla forza attrattiva del capitalismo/imperialismo occidentale, l’Unione Sovietica, ancora alle prese con un capitalismo complessivamente arretrato, è costretta a mettere in campo il solo strumento in grado di attestare la propria superiorità nei confronti dei “Paesi fratelli”: quello militare, appunto. Mosca dedica moltissime risorse finanziarie, economiche e intellettuali (tecno-scientifiche) per rafforzare quello strumento, cercando di surrogare con la potenza militare la sua palese inferiorità sistemica nei confronti del cosiddetto “mondo libero”. Questo orientamento delle energie sociali in direzione del settore industriale-militare alla fine contribuirà in modo decisivo al collasso della Russia nella sua configurazione “sovietica”, Paese in crisi economica già dalla fine degli anni Settanta, e poi dissanguato dalla guerra in Afghanistan e dalla rincorsa al progetto statunitense, “mostruosamente” costoso, delle Guerre Stellari. La crisi di Chernobyl si abbatté con estrema violenza su un corpo già estremamente debilitato e assai traballante.

Gli Stati Uniti hanno vinto la Guerra Fredda non perché fossero meglio armati dell’Unione Sovietica (e certamente lo erano, soprattutto sul piano qualitativo, tecnologico), ma perché erano capitalisticamente parlando assai più forti dei sovietici. La Germania, in effetti la vera vincitrice della Guerra Fredda, ha ottenuto la riunificazione del Paese nei suoi vecchi confini senza sparare un solo colpo di fucile, ma in virtù della sua potenza sistemica. Ha stravinto insomma il “modello capitalistico occidentale” sul modello capitalistico sovietico, a dimostrazione della natura radicalmente economica del fenomeno imperialista. Per mutuare un personaggio che forse non dispiace al professor Brancaccio, il potere di una nazione sta in primo luogo sulla ciminiera di una fabbrica, non sulla canna di un fucile.

Mutatis mutandis, la storia continua. Mosca nel 2013 ha capito di non poter più trattenere “con le buone” nella sua orbita imperialista (non più semplicemente imperiale) Kiev, attratta irresistibilmente dall’Unione Europea, non tanto e non solo dall’ombrello atomico della Nato. Vedremo alla fine del conflitto se il Cremlino ha fatto male i suoi calcoli sopravvalutando la forza economica, politica e militare della Russia e la stessa crisi dell’Occidente (spesso l’ideologia acceca anche chi la fabbrica), e se ha invece gravemente sottovalutato (come peraltro è successo anche dalle nostre parti subito dopo il 24 marzo del 2022) il nazionalismo ucraino, la sua capacità di resistenza, che intanto ha trovato in questa guerra l’occasione per irrobustirsi ulteriormente.

Chi mette in primo piano la capacità espansiva della Nato come causa principale dell’aggressione russa dell’Ucraina sottovaluta il ruolo della potenza economica nella politica imperialistica delle nazioni. Il regime moscovita ha sperato nel blitzkrieg, che avrebbe dovuto risolversi nel giro di qualche settimana in un colpo di Stato militare guidato dai generali ucraini che si sono formati a Mosca, non confidando sulla forza della Russia, ma a ragione, e mi scuso per la ripetizione del concetto, della debolezza sistemica di questo Paese.

A me pare, riservandomi però di ritornarci sopra dopo una più accurata lettura del libro, che la tendenza alla centralizzazione capitalistica sia in esso assolutizzata e disancorata dal reale processo sociale capitalistico che procede per tendenze e controtendenze, crisi ed espansione, e che dissolve sempre di nuovo gli equilibri precari che vengono a instaurarsi per un certo periodo, più o meno lungo, nella sfera economica come in quella politica e geopolitica. La stessa dialettica tra capitale industriale/commerciale e capitale finanziario, che ha come centro gravitazionale la legge del valore, ossia la creazione del valore attraverso lo sfruttamento del lavoro vivo, muta continuamente in senso quantitativo e qualitativo, con ciò che “dialetticamente” ne segue anche sul terreno della competizione interimperialistica tra le nazioni (2). Quando si valutano le cause di fondo di una guerra occorre sempre considerare l’insieme del groviglio problematico. Viceversa, si corre il rischio di applicare in modo del tutto semplicistico e meccanicistico il fondamentale concetto di centralizzazione capitalistica alla guerra in generale e alla guerra in Ucraina in particolare. Ma, ripeto, conto di ritornare con maggiore approfondimento analitico e critico (e, se del caso, autocritico) sulla questione.

Per Brancaccio «Nella storia del capitalismo ci sono anche esempi virtuosi di riequilibrio, come l’accordo di Bretton Woods, che funzionò attraverso concertazione dei tassi di cambio e controllo dei movimenti di capitale. Il problema è che a quell’accordo si giunse sotto spinta della minaccia sovietica e solo dopo due guerre mondiali. La questione è capire se ci si possa arrivare prima che le guerre scoppino». Questi passi misurano l’abissale distanza che separa la concezione (progressista?) del mondo di Brancaccio da un punto di vista autenticamente anticapitalista – e quindi antimperialista. Com’è noto, nel luglio del 1944 gli Stati Uniti escono da Bretton Woods con l’affermazione della propria supremazia capitalistica (finanziaria, industriale, commerciale) sul mondo intero, così come avevano dimostrato la loro superiorità militare sui campi di battaglia di mezzo mondo. Augurarsi la nascita di un nuovo e pacifico ordine mondiale, non importa di che tipo (monopolare, bipolare, multipolare, ecc.), non è una prospettiva che possa allettare l’anticapitalista. Tutt’altro discorso vale per il progressista più o meno “radicale”, più o meno “rivoluzionario”.  

A proposito di rivoluzione, gli autori della Guerra capitalista si augurano la nascita di «movimenti più rivoluzionari» per scongiurare la fine del mondo: «Forse è ora di contemplare anche l’eventualità che la fine del mondo possa scaturire proprio dalla sopravvivenza del capitalismo». Sottoscrivo non una ma mille volte! Tuttavia ho il sospetto che il concetto di “rivoluzione” che ho in testa io non abbia molto a che fare con quello che hanno in testa Brancaccio, Giammetti e Lucarelli. Ma è solo un sospetto, beninteso.

(1) K. Marx, Il Capitale, I, p. 686, Editori Riuniti, 1980.

(2) Ad esempio, alla fine degli anni Venti del secolo scorso Henryk Grossmann notò come in Germania, Francia, Inghilterra e Stati Uniti il rapporto tra l’industria e il credito bancario si fosse rovesciato a favore del capitale industriale, sempre più orientato all’autofinanziamento. «In questi ultimi [Stati Uniti] è piuttosto l’industria che domina le banche. L’industria mantiene grandi somme presso le banche o si crea persino propri istituti bancari, il cui compito consiste e sempre più consisterà nel trovare un investimento fruttifero per questi capitali» (H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, 1929, p. 532, Jaca Book, 1977).

LA DIMENSIONE MONDIALE DEL CONFLITTO RUSSO-UCRAINO

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