Ripeto: la Bielorussia è russa, l’Ucraina è russa.
Quei popoli vogliono far parte della Russia.
(Vladimir Žirinovskij 1994).
Putin è un miracolo di Dio.
(Patriarca di Mosca Kirill, 2012).
Nel 1993 la nota rivista di geopolitica Limes pubblicò un articolo dello storico Charles Urjewicz dedicato alla fine delle illusioni che erano sbocciate rigogliosamente nella Russia della cosiddetta perestrojka, e l’inizio in quel Paese di una stagione socialmente e politicamente molto oscura, problematica, che sarà segnata da una grave crisi economica che durerà, tra alti e bassi, fino al 2001. L’articolo (dal titolo abbastanza suggestivo: Lo sguardo oscillante della Russia) è parere di chi scrive molto interessante perché offre al lettore di oggi una visuale prospettica utile a comprendere meglio le ragioni che hanno portato l’imperialismo russo a regolare i conti con l’Ucraina negli ultimi dieci anni: prima (2014) con l’annessione della Crimea, e poi (febbraio 2022) invadendo in profondità quel Paese nel tentativo, non riuscito (finora), di azzerarne l’autonomia “esistenziale” ottenuta alla fine del 1991 – proclamazione d’indipendenza 24 agosto 1991, referendum sull’indipendenza 1̊ dicembre dello stesso anno: il 91% per cento degli ucraini votò per la fine della tutela di Mosca. Anche le regioni russofone dell’Ucraina orientale si pronunciarono a favore della rottura con la “grande Russia. Un discorso a parte merita la Crimea.
È forse bene ricordare che per arginare i tentativi di secessione alimentati dalla popolazione russofona della Crimea, l’Ucraina approvò il 29 aprile 1992 una legge che concedeva alla penisola ampi margini di autonomia, mano tesa che tuttavia in un primo momento il parlamento della Crimea rifiutò di stringere, dicendosi anzi favorevole all’indipendenza della Crimea da ratificare con un referendum fissato per il 2 agosto del ‘92, salvo poi fare marcia indietro quando Kiev gridò forte in faccia a Simferopol’ (affinché il messaggio arrivasse forte e chiaro fino a Mosca, già molto impegnata a gettare molta benzina nazionalistica sul fuoco) che l’Ucraina non avrebbe consentito alcuna violazione della propria integrità territoriale. Naturalmente la flotta del Mar Nero concentrata a Sebastopoli e gli armamenti nucleari ancora in dotazione all’Ucraina costituivano in quel momento i due punti più caldi della contesa russo-ucraina. Il 18 maggio la Crimea si piegò ufficialmente al diktat ucraino, anche perché l’attivismo russo fece sorgere fra la stessa popolazione russofona della penisola la paura di una sanguinosa guerra fratricida fra i due Paesi. Il parlamento russo approvò invece in gran fretta un documento nel quale si definiva illegale il trasferimento della Crimea all’Ucraina nel 1954 (un leitmotiv usato spesso da Putin), e si chiedeva a Kiev di ridiscutere lo status della penisola ormai apertamente contesa. L’ambasciatore ucraino a Mosca, kryžanovskij, rigettò nel modo più categorico l’idea del negoziato, anche perché sarebbe stato «come aprire un vaso di Pandora che potrebbe dare il via a una nuova guerra mondiale». In quel momento la Russia era impegnata in una lotta per la sua sopravvivenza economica e non poteva certo rompere con l’Occidente, né affrontare un’impegnativa avventura bellica (o Operazione militare speciale che dir si voglia…), e così El’cin si vide costretto a prendere le distanze dal pronunciamento del parlamento russo e ad archiviare per il momento il dossier Crimea. E qui veniamo all’articolo di Charles Urjewicz vecchio ormai di tre decenni – e proprio per questo illuminante per gli “analisti” di oggi.
«Alla fine degli anni Ottanta, bisogna arrendersi all’evidenza: la versione leninista del socialismo ha fallito». Una breve interruzione/digressione per chiarire quanto segue: ciò che fallì in Russia nella sua configurazione politico-istituzionale “sovietica” non fu «la versione leninista del socialismo», inesistente già ai tempi dello stesso Lenin, ma la versione stalinista del capitalismo. Lo stalinismo (come la sua variante cinese: il maoismo) non fu l’espressione del “comunismo realizzato”, secondo la famigerata quanto menzognera vulgata, ma piuttosto la negazione più radicale dell’autentico comunismo. «C’è chi accusa l’Ottobre 1917 di avere deviato e snaturato il corso naturale della storia russa con idee fondamentalmente estranee alla tradizione russa»: qui invece Urjewicz dice il giusto, essendo stato l’Ottobre ’17 la punta più avanzata di un movimento rivoluzionario proletario di portata internazionale. Di qui il legittimo odio del fascio-stalinista Putin nei confronti di Lenin, acerrimo nemico del «nazionalismo grande-russo» e sostenitore, fra l’altro, del «diritto all’autodecisione dell’Ucraina fino alla sua completa separazione dalla Russia». Rimando chi legge ai miei diversi scritti sui temi qui toccati e riprendo la citazione.
«La Russia che abbiamo perso è stato visto da decine di milioni di russi, di volta in volta incantati dalle immagini dei tempi passati, “quando la russia nutriva il mondo”. […] Due anni prima, il cineasta Stanislav Govuchin, autore peraltro di una lunga intervista televisiva all’autore di Arcipelago Gulag, gettava uno sguardo diverso sull’Occidente. aveva già colpito il pubblico sovietico con un film dal titolo esplosivo, Non si può vivere così, visione nera, tragica, disperata della Russia in piena perestrojka: povertà, alcolismo, disperazione accompagnano le immagini che traumatizzano decine di milioni di spettatori che credevano di sapere già tutto sulle depravazioni che Gorbačëv e i suoi amici avevano cominciato a correggere. L’Occidente non era allora considerato responsabile delle disgrazie della Russia. Al contrario. Umano, civile, opulento, era, per una sorta d’inversione radicale del linguaggio sovietico, strumentalizzato fino al ridicolo, diventando lo specchio nel quale l’homo sovieticus era invitato a guardarsi per distinguervi i tratti della propria miseria materiale e morale. […] Come tutti i grandi movimenti che hanno tentato di riformare la Russia, la perestrojka ha accarezzato il sogno europeo, recuperando una tradizione che risale alla fine del XVII secolo, ma anche tentando di salvare l’eredità degli ultimi settant’anni. La “casa comune europea”, cara a Michail Gorbačëv, era nata dall’immaginazione dei consiglieri diplomatici di Leonid Brežnev. […] Da circa due secoli, la Russia è ossessionata dai fantasmi della sua storia. La questione delle origini del primo Stato russo [altra fissazione di Vladimir Putin nella sua versione “storiografica”], le conseguenze delle invasioni mongole, l’eredità di Pietro il Grande», la riflessione sul destino imperiale della Russia, il suo carattere “europeo” o “asiatico”, continuano a dividere una società alla ricerca di un’identità nazionale, e che non ha ancora trovato i suoi luoghi di memoria e i suoi miti unificatori. È la perestrojka a sconvolgere un quadro secolare, a sconvolgere una situazione che sembrava bloccata per sempre. Durante il 1989, in pochi mesi, i russi assistono al ritiro dall’Afghanistan, al disimpegno della potenza russo-sovietica dai quattro continenti, alla distruzione del Muro di Berlino e al crollo dell’”area socialista”. ormai bisogna passare dall’egemonismo alla cooperazione. L’Urss lancia appelli all’aiuto umanitario per nutrire la popolazione. […] L’indipendenza delle repubbliche europee dell’Urss, Estonia, Lettonia, Lituania, ma anche il fulmine a ciel sereno rappresentato dalla presa di distanza della “sorellina slava” della Russia, l’Ucraina, costringe presto Mosca a rivedere la sua politica estera. […]
Il 22 gennaio 1992, quando la flotta del Mar Nero è diventata un vero pomo della discordia fra la Russia e l’Ucraina, la Komsomolskaya Pravda pubblica un documento interno al Soviet supremo russo che esprime il profondo sconforto di una Russia che vede, con il distacco dell’Ucraina, allontanarsi ancora di più il suo orizzonte europeo: Vladimir Lukin, il presidente della commissione per le Relazioni estere al parlamento russo, in una lettera indirizzata al presidente dell’assemblea, Ruslan Khasbulatov, scrive: “Lo scopo principale della direzione ucraina è di spezzare le relazioni particolari con la Russia, compresa la sfera politico-militare. Proclamando la sua neutralità, l’Ucraina vuole andare verso l’Europa senza di noi, prendendo la stessa strada dell’Europa dell’Est”. Lukin pensa alle maniere forti per ridurre Kiev a più miti consigli, proponendo un piano d’azione che permetta alla Russia di riprendere l’iniziativa sia per la Crimea che su problema della flotta. […] Mentre le nuove relazioni economiche con il mondo occidentale sono più che mai “ineguali” (materie prime contro manufatti), lo spazio sovietico, trascurato per un certo tempo dalla Russia, ritrova rapidamente la sua importanza. La grande potenza di ieri mantiene interessi strategici nel Caucaso, in Asia centrale e non dimentica più la presenza di una diaspora che conta 25 milioni di uomini e donne [un “capitale umano” da usare come strumento di pressione, di destabilizzazione del nemico e di penetrazione imperialista].
La Russia si ripiega su se stessa, cerca nuove strade senza tuttavia rompere con le scelte fatte all’inizio degli anni Novanta. Un intenso dibattito geopolitico attraversa gli ambienti intellettuali. L’“eurasismo” suscita un ritorno d’interesse. Nel momento in cui la nostalgia dell’Unione Sovietica è forte, l’idea imperiale osa esprimersi di nuovo, anche nelle pagine della stampa democratica. Certo, pochi condividono l’isteria antioccidentale delle “forze patriottiche” che, come il metropolita Iohan di Pietroburgo, agitano lo spauracchio del complotto permanente ordito dagli occidentali con l’aiuto dei massoni e degli ebrei, per distruggere la Russia. ma anche fra i più “occidentalisti” molti partono alla scoperta delle radici della cultura russa, ne affermano il carattere originale: la Russia è “il legame fra Oriente e Occidente. […] L’avvenire della Russia resta problematico. Il suo rapporto con l’”occidente” rimane un elemento fondamentale degli equilibri europei. Non vi potrebbe essere niente di peggio di un ribaltamento geopolitico brutale che trascinasse il “gigante dai piedi d’argilla” in un nuovo isolazionismo propizio a ogni avventura» (1).
Alla luce dello scritto di Urjewicz mi sembra che possiamo dire senza troppo sbagliare che l’aggressione russa dell’Ucraina è parte di una tendenza storica che nel regime putiniano ha trovato un primo importante punto di caduta, tutt’altro che definitivo. Si tratta peraltro di una tendenza oggettiva tutt’altro che lineare e deterministicamente prevedibile, considerato che essa si è affermata come la risultante di spinte e controspinte riconducibili ai diversi interessi che fanno capo alla tutt’altro che omogenea classe dominante russa, e che hanno trovato un puntuale riscontro nella lotta politica, spesso condotta con metodi violenti, interna alla classe dirigente del Paese.
Un punto di svolta nella costruzione del regime putiniano possiamo probabilmente individuarlo nella crisi economica internazionale del 2008, che chiuse il periodo di robusta crescita dell’economia russa (con una media annua del 6,6%) iniziato nel 2000 e caratterizzato dagli alti prezzi del petrolio (oltre 100 dollari il barile, con il picco di 147 dollari registrato proprio nel 2008) e delle altre materie prime esportate dalla Russia (2). In quel periodo i salari conobbero una crescita annua di circa il 15%, mentre il mercato di consumo russo si rivelò fra i più dinamici del mondo, insieme a quelli di Cina e India. Fu allora che si consolidò il “patto” non scritto tra Putin e la classe media del Paese (analogo a quello sottoscritto con i famigerati “oligarchi”): benessere (con Turchia ed Egitto come mete turistiche preferite) in cambio di pace sociale; prosperità (spesso esibita in modo assai pacchiano, soprattutto dagli “oligarchi”) in cambio di disimpegno politico. Un “contratto sociale” di stampo cinese finanziato soprattutto con la rendita petrolifera, e destinato a saltare in aria non appena i prezzi del greggio (e del gas) avessero imboccato un sentiero declinante. Cosa che accadde puntualmente dopo il 2008. Nel 2011 il Pil russo cade del 4% e Putin inizia a sudare freddo osservando lo sviluppo della cosiddetta “rivoluzione della neve” che ebbe come protagonista proprio la classe media (allora il 20% dei 144 milioni di abitanti), la quale evidentemente si sentì tradita dall’uomo forte del Cremlino, anche perché la pratica dei brogli elettorali a suo favore si fece fin troppo sfacciata. Fin quando le cose vanno bene, si può anche chiudere un occhio e financo “perdonare”, ma quando si rischia di perdere lo status economico-sociale a cui ci si è abituati, le cose iniziano ad apparire sotto una luce molto diversa. Il patriarca di Mosca Kirill nel 2012 definì i manifestanti antiputiniani «Una minoranza attratta dal consumismo occidentale», mentre Putin gli appariva «Un miracolo di Dio».
«Ossessionato dalle rivoluzioni colorate che in altri Stati dello spazio postsovietico avevano portato all’uscita di scena di regimi filorussi, Putin si convince che le richieste di riforme e modernizzazione minacciano il suo sistema di governo, imperniato sul clientelismo, la corruzione e l’accentramento del potere. Rifonda così il patto con i russi: sostituisce il consenso con la cultura militaresca e lancia una guerra contro la parte liberale della società. […] La propaganda dei valori tradizionali contribuisce a preparare l’opinione pubblica ad accettare senza resistenza l’invasione dell’Ucraina, perché è il pretesto con cui stringere la vite della repressione di ogni dissenso interno» (3). Dal 2012 assistiamo in effetti a un crescendo di misure repressive nei confronti degli oppositori e di attivismo sul terreno militarista come su quello ideologico – con la ripresa della vecchia mitologia grande-russa fatta di falsi richiami storici e di complottismo a sfondo vittimista: l’Occidente brutto e cattivo vuole annientare la stessa anima russa! Nel famoso discorso del 18 marzo 2014 Putin scolpisce, per così dire, due concetti: 1. «La Crimea è nostra», 2. chi non sostiene la politica ufficiale della Russia va considerato come quinta colonna dell’Occidente – concepito forse per la prima volta in blocco, come un’entità collettiva e ostile. Il regime moscovita capisce che si erano venute a create tutte le condizioni per una fuoriuscita definitiva dell’Ucraina dallo spazio imperiale russo: bisognava dunque reagire prontamente. La dialettica tra dimensione imperiale e moderna pratica imperialista rimane per la Russia un nodo problematico ancora da sciogliere – come dimostra il ruolo di vassallaggio (“junior partner”) che in questo momento la lega alla Cina.
«Liberalismo, secolarismo, pacifismo, omosessualità e femminismo sono presi di mira oggi in Russia con leggi e campagne persecutorie, nel contesto di un sistema che si fa sempre più autoritario. Una crociata contro il mondo esterno, ma più spesso contro quello interno, per zittire qualsiasi tipo di opposizione» (4). Una crociata che, com’è noto, trova entusiastici consensi tanto nella “sinistra” assetata di rivincite politiche dopo i durissimi colpi ricevuti nell’89’ quanto nella “destra” affascinata dall’uomo forte desideroso di ripristinare i vecchi e cari valori della tradizione cristiana. Giorgia Meloni e Matteo Salvini ne sanno qualcosa, anche se oggi sono costretti per i motivi che sappiamo a girare le spalle al difensore dei valori cari agli amanti dell’ordine, della disciplina, della “famiglia tradizionale” e via dicendo.
Scrivevo su un post del marzo 2014: «C’è una componente erotica, intesa freudianamente come investimento libidico, nel fascino che il virile Vladimir Putin esercita anche su tante persone che vivono in Occidente? A me pare che un’interpretazione in chiave psicoanalitica di quel fenomeno sia plausibile e perfino necessaria, e io stesso appiccicando spesso nei miei post al nome del “nuovo Zar” l’aggettivo virile non intendo alludere ad altro. D’altra parte, il personaggio ama a tal segno affettare pose machiste, e si fa portatore di istanze politiche “machisticamente” orientate con tale esibita (muscolare) sfrontatezza, da lasciare supporre che egli sia del tutto cosciente circa la componente libidica del suo successo in larghe fasce dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Scriveva Il Giornale dell’amico Silvio nel 2011: “Il pubblico maschile russo, secondo i sociologi, ancora sogna una mano forte, lo zar insomma. Nel 2012 a salire al Cremlino sarà un macho o un sex symbol?”. Sappiamo com’è andata a finire. […] Per dirla sempre con Freud, “Il padre è ciò che si vorrebbe essere” (Psicologia collettiva e analisi dell’Io). Forse non pochi sostenitori delle ragioni geopolitiche della Russia, ad esempio a proposito della Siria e dell’Ucraina, vorrebbero essere non come Putin, ma proprio Putin in persona, con tanto di padronanza nelle arti marziali, oltre che nella conduzione della contesa interimperialistica» (Essere Vladimir Putin).
Per il super atlantista Giuliano Ferrara «Trattare ora con Putin significherebbe solo una cosa: la rivincita russa sull’’89. Il rovesciamento dei rapporti di forza sarebbe spettacolare, Europa e Nato riceverebbero un colpo dal quale sarebbe difficilissimo risollevarsi. Si realizzerebbe il sogno del Cremlino sedimentato in due decenni e oltre di potere assoluto e di escalation militari» (Il Foglio, 6/4/2024). Le legittime (dal suo punto di vista) preoccupazioni di Ferrara (a suo tempo “comunista” di rigida osservanza togliattiana, e quindi particolarmente sensibile alla “questione russa”) mettono in bella mostra l’eccezionale portata della posta in gioco nel conflitto russo-ucraino, la cui natura imperialista (da entrambi i fronti in guerra) e la cui dimensione internazionale (5) sono state chiare fin dall’inizio.
(1) Limes, 4/93, pp. 89-94.
(2) «Ieri Putin ha dichiarato che se il prezzo del petrolio si stabilizzasse intorno agli 80 dollari il barile per un lungo periodo l’economia mondiale certamente collasserebbe. Affermando questo il virile leader russo ha inteso esprimere le preoccupazioni che in questi giorni travagliano il suo regime, la cui proiezione esterna e la cui stabilità politica interna hanno molto a che fare con il prezzo delle materie prime: in primis petrolio, gas e carbone. In effetti, la soglia minima del prezzo del greggio sotto la quale salta il cosiddetto equilibrio di bilancio è fissata in Russia intorno ai 104 dollari/barile. Oggi il petrolio russo si vende sul mercato mondiale a 92 dollari/barile. Il bilancio statale russo per il 2014 è stato redatto prevedendo un ricavo medio di 117 dollari il barile. Il bilancio del 2015 prevede ricavi medi di 100 dollari al barile» (Oro nero bollente).
(3) M. Allevato, La Russia moralizzatrice. La crociata del Cremlino per i valori tradizionali, Piemme, 2024.
(4) Ivi.
(5) Chi paventa il rischio di una Terza guerra mondiale forse non si rende del tutto conto che siamo già dentro una guerra di dimensioni mondiali che ha nel conflitto armato solo uno, certamente il più distruttivo e sanguinoso, dei suoi molteplici aspetti. Si tratta piuttosto di capire in quale modo e in che tempi questa guerra sistemica per il potere totale (economico, tecnoscientifico, ideologico, geopolitico) evolverà, quali nuovi aspetti assumerà la competizione interimperialistica nel prossimo futuro. Se assumiamo questo punto di vista, la vecchia distinzione fra crisi regionali (locali) e crisi internazionali (globali) perde di significato: troppo intrecciati e ingarbugliati sono infatti gli interessi di varia natura che fanno capo alle classi dominanti dei diversi Paesi del mondo; interessi che in qualsiasi momento possono entrare in reciproco contrasto e scatenare conflitti di qualche genere (qui viene in soccorso anche il concetto di “guerra ibrida”) al centro come alla periferia del sistema capitalistico mondiale. D’altra parte, la stessa guerra in Europa non è affatto una novità di questi ultimi anni: è sufficiente ricordare la guerra balcanica degli anni Novanta che fece più di 200mila morti e che ebbe nella dissoluzione della Jugoslavia il suo risultato più eclatante. Allora la Federazione Russa, alleata della Serbia ma corrosa da una gravissima crisi economica, non fu in grado di reagire prontamente contro l’attivismo occidentale. Ma di certo una parte della società russa non rimase indifferente: «In Russia, la questione serba è già diventata un problema interno. Le delegazioni di nazionalpatrioti che si susseguono in Serbia per stringere la mano a Milošević non si accontentano di uno scambio di esperienze con i loro compagni serbi; l’esempio di un regime che non esclude la possibilità di una guerra negli Stati vicini in nome della difesa dei serbi può essere contagioso» (L. Telen’, Le lezioni delle sanzioni, Moskovskie Novosti, n. 48, 29/12/1992). Diciamo pure che per Putin l’esempio serbo non è stato insignificante, tutt’altro.
CANNONI CONTRO BURRO. A DUE ANNI DALL’INVASIONE RUSSA DELL’UCRAINA