IRAN. IL BOIA LAVORA A PIENO REGIME…

Non hai notato con quanta crudeltà le tue guardie picchiano
le donne? Forse sei terrorizzato dalle madri iraniane.
Sono gli dei che creano persone come me. Tu sei il nemico
dell’umanità e io sono il tuo nemico (Toomaj Salehi).

Corruzione sulla Terra, sedizione, propaganda contro il sistema, incitamento alle rivolte: queste le accuse che il sadico e misogino regime iraniano ha scagliato contro il rapper Toomaj Salehi per chiudere definitivamente i conti con lui e, soprattutto, per intimidire i giovani iraniani, in primis le ragazze, che negli ultimi anni lo hanno eletto a loro rappresentante ed eroe.

«Nel 2021 era stato arrestato per i testi delle sue canzoni. Nel 2022, perché ha partecipato alle proteste antigovernative per Mahsa Amini. Nel luglio 2023 è stato condannato a sei anni e tre mesi di prigione, salvato in extremis da una sentenza di morte “grazie” alla Corte suprema. Ma a gennaio il tribunale rivoluzionario ha aggiunto alla piramide di accuse altre accuse» (Il Corriere della Sera). Si tratta di un segnale di forza o di debolezza che lancia, “oggettivamente”, il regime degli ayatollah? Su questa domanda gli analisti che conoscono bene la società iraniana sono divisi, anche se la maggior parte di loro pensa che si tratti di un ennesimo segnale di estrema debolezza, tanto più se si pensa che la popolazione iraniana appare tutt’altro che entusiasta dei “memorabili successi” che la Repubblica Islamica dice di star conseguendo in politica estera, in primo luogo nei confronti degli Stati Uniti e di Israele, del Grande e del Piccolo Satana. L’attivismo imperialista di Teheran non sembra più in grado di accendere nelle masse iraniane quel sentimento di acceso nazionalismo a sfondo antiamericano e antisionista (inculcato nella testa degli iraniani fin dalla più tenera età) che in passato il regime riusciva a incassare. Staremo a vedere.

C’è da dire che la pena di morte è diventata in Iran non l’eccezione ma la regola nella gestione delle contraddizioni sociali. «Il boia non si ferma più. Le prigioni dell’Iran stanno diventando “centri di uccisioni di massa”. La denuncia arriva da Amnesty International che ha registrato una drammatica impennata delle condanne a morte eseguite dal Paese nel 2023: 853, oltre la metà dei quali, almeno 481, per reati di droga. Le letali politiche antidroga stanno contribuendo a un ciclo di povertà e d’ingiustizia sistematica e rafforzano ulteriormente la discriminazione nei confronti delle comunità marginalizzate, in particolare della minoranza oppressa dei baluci. Il numero delle esecuzioni registrato nel 2023 è il più alto dal 2015 e segna un aumento del 48 per cento rispetto al 2022 e del 172 per cento rispetto al 2021. La carneficina sta proseguendo nel 2024, con almeno 95 condanne a morte eseguite alla data del 20 marzo» (Avvenire).

Chiudo questa breve nota riconfermando, per quel che vale (e per me comunque vale), il mio disgusto nei confronti di quei sinistrorsi e di quelle sinistrorse che per non indebolire il campo imperialista che hanno scelto di appoggiare (Cina, Russia, Iran) non esprimono alcuna solidarietà nei confronti del movimento di opposizione iraniano, guidato dalle donne e dalle minoranze etniche, che lotta contro il violento e oppressivo regime degli ayatollah. Personalmente non condivido neanche un po’ le idee politiche di gran lunga prevalenti in quel movimento, e che lo portano ad esempio a chiedere il sostegno dell’imperialismo occidentale nell’opera di regime change a cui si sente impegnato; ma questo non mi impedisce di guardare con molta simpatia, ma senza un briciolo di illusione, la lotta delle donne iraniane vessate dagli aguzzini che difendono la mortifera morale di regime (*), la lotta dei lavoratori iraniani che rivendicano in primo luogo il diritto di organizzarsi in sindacati indipendenti, la lotta delle minoranze etniche che rivendicano un trattamento non discriminatorio (sul piano dei diritti e dei trattamenti economici) da parte di Teheran. Questo significa all’avviso di chi scrive esercitare l’autonomia politica sul terreno dell’anticapitalismo e dell’internazionalismo, contro l’intero campo imperialista e contro tutte le forme politico-istituzionali nelle quali trova espressione nei diversi Paesi del mondo (dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Iran a Israele, dalla Russia all’Italia) la dittatura dei rapporti sociali capitalistici. Ogni riferimento al 25 Aprile è ovviamente del tutto casuale…

(*) «Il loro crimine è danzare con i capelli al vento. Il coraggio è stato il loro crimine. Il coraggio di denunciare i vostri 44 anni di governo» (Toomaj Salehi). Come ho scritto altrove, esercitando la più rigida e violenta sorveglianza sul corpo e sui pensieri delle donne, il regime iraniano ha inteso controllare capillarmente, fin nelle sue più intime realtà (la famiglia) il corpo sociale del Paese, a cominciare dalle giovani generazioni che ai suoi occhi sembrano le più esposte alle sataniche influenze dei valori occidentali. Su questo terreno Khamenei e Putin parlano lo stesso linguaggio.

IRAN. FESTA DEL FUOCO, MANIFESTAZIONI ANTIREGIME, REPRESSIONE E MARINE SECURITY BELT 2024

IL PUNTO SULL’IRAN

INFERNO IRANIANO

LA SUPERCAZZOLA DELLA GUIDA SUPREMA

 SULLA “RIVOLUZIONE” IRANIANA

SI FA PIÙ FEROCE LA GUERRA DEL REGIME IRANIANO CONTRO I MANIFESTANTI

IRAN. LA LOTTA CONTRO IL REGIME NON SI ARRESTA

CON I RIBELLI IRANIANI! CONTRO IL REGIME OMICIDA DEGLI AYATOLLAH!

CADE ANCORA UNA VOLTA IL VELO DEL REGIME SANGUINARIO

IRAN. OGGI E IERI

SUL – CONTROVERSO – CONCETTO DI “RIVOLUZIONE”

IL “PIANO MATTEI” E LA “GRANDEUR” FRANCESE

La Francia non ha preso bene, per usare un eufemismo, la decisione italiana di mantenere la sua piccola (ma politicamente molto significativa) presenza militare in Niger anche dopo il golpe dello scorso 26 luglio capeggiato dal generale Abdouahamane Tchiani e appoggiato dalla Wagner di Evgenij Prigozhin. Dopo il Mali, il Ciad e il Burkina Faso, anche il Niger ha rotto bruscamente i ponti con la Francia e ha spalancato porte e finestre alla Russia, la quale espande la propria influenza geopolitica in vaste aree del continente africano. Dopo il lunghissimo periodo di sfruttamento coloniale e di saccheggio imperialistico da parte delle potenze occidentali, adesso è dunque arrivato il turno della Russia e della Cina. «L’imperialismo neocoloniale russo prospera da tempo neppure fingere – come avevano fatto Bismarck, Napoleone III e gli inglesi un secolo e mezzo fa – di agire in nome della “mission civilisatrice”, come i francesi chiamarono la spartizione dell’Africa. Oggi l’unica missione di Mosca è quella di agguantare terre, risorse, potere, senza più nemmeno il paravento ideologico che nei lontani anni brezneviani spingeva i volontari cubani ad affiancare i vari movimenti di liberazione in Angola, in Mozambico, nell’Ogaden, in Somalia, in Tanzania, nel Congo, in Sierra Leone» (G. Ferrari, Avvenire). Ferrari è molto critico nei confronti dell’Europa e delle «ricche nazioni occidentali», le quali avrebbero spianato il terreno a Russia e Cina praticando in Africa una politica «che ha relegato Paesi come il Niger, il Mali, la Mauritania nel ben custodito recinto delle nazioni africane da tenere a bada con compiacenti manutengoli e viceré, nell’eterna convinzione che i popoli africani siano bambini incapaci di darsi un futuro». Come si vede, si trova sempre qualcuno pronto a impartire lezioni di buona politica all’imperialismo occidentale. Ma forse ormai è troppo tardi.

Scrive Enrico Oliari: «Gli Usa sono riusciti, per il momento, a conservare in Niger un piccolo contingente di 600 uomini, ai quali è già stato chiesto di andarsene. Il Niger è tra gli ultimi paesi al mondo nell’indice di sviluppo umano e la metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, ma per decenni le potenze mondiali, in particolare la Francia, ne hanno abbondantemente saccheggiato le risorse, soprattutto l’uranio per il funzionamento delle centrali nucleari, senza che vi fossero ricadute positive sui 23 milioni di abitanti» (Notizie Geopolitiche). L’ estrema povertà e una corruzione politica in passato largamente sovvenzionata dai francesi ha fatto del Niger una facile preda per una galassia di bande armate che si contendono le risorse del Paese. Omicidi, estorsioni e furti di bestiame sono ancora all’ordine del giorno, e la popolazione vive costantemente nel terrore, anche perché da anni essa è vittima delle ricorrenti violenze jihadiste perpetrate da gruppi legati ad al-Qaeda e all’Isis.

Anche la Turchia sta cercando di approfittare della situazione di caotica transizione geopolitica per incunearsi negli spazi un tempo occupati da francesi e statunitensi. La stessa cosa sta cercando di fare l’Italia, per conseguire soprattutto due obiettivi: incamerare petrolio e gas, e cercare di controllare il crocevia dei flussi migratori che partono dal Sahel e dal Corno d’Africa.

In un’audizione davanti alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato dello scorso 11 aprile, Francesco Paolo Figliuolo, comandante del Comando operativo di vertice interforze, spiegava l’importanza che riveste l’area del Sahel, e in particolare il Niger, per il nostro Paese: «L’Italia ha una posizione di interlocutore privilegiato nel Paese, che continua ad essere il crocevia di tutti i flussi migratori sia dal Sahel sia dal Corno d’Africa. Il Niger è un’area di priorità e interesse nazionale, per tale motivo e nella considerazione che un’eventuale uscita delle nazioni occidentali dal Paese lascerebbe spazi di manovra all’allargamento della presenza di altri attori della regione anche malevoli, riteniamo di primaria importanza consolidare la nostra presenza con la missione bilaterale Misin. Complessivamente nel Sahel prevediamo di impiegare un contingente massimo di quasi 800 unità, un’unità navale e fino a 6 assetti tra aerei e elicotteri». Come sempre l’imperialismo italiano si muove sullo scacchiere internazionale in ottima fede, in primo luogo per il bene degli altri, e soprattutto rispettando la cultura e gli interessi dei suoi partners: «Noi italiani non abbiamo la spocchia e l’arroganza dei francesi!»

A questo proposito nella sua visita al Ghana del 4 aprile Mattarella è stato chiaro: «Insieme per il multilateralismo; il Piano Mattei è per una collaborazione paritaria. Il Ghana è stato il capofila dell’indipendenza contro il colonialismo e questo ha meritato la simpatia e la vicinanza dell’Italia. La scelta del nome di Mattei per il piano che il governo italiano ha lanciato non è casuale. Mattei è stato un amico del Ghana, dell’Africa occidentale e del continente africano contro ogni forma di sfruttamento coloniale, a favore di una collaborazione sul piano paritario e a tutela delle risorse locali, e questo è l’obiettivo del Piano Mattei, che vuole essere di collaborazione secondo le indicazioni, le esigenze e le proposte definite dai governi dei vari Paesi del continente africano. Il piano Mattei ricorda un protagonista dell’amicizia tra Africa ed Europa e per l’indipendenza dell’Africa». Pare che Giorgia Meloni abbia avuto un orgasmo di proporzioni cosmiche ascoltando le ispirate parole del Presidente Mattarella.

Inutile dire che Parigi guarda con crescente irritazione l’attivismo di Roma in un’area lungamente presidiata dall’imperialismo francese, il quale forse confida, concedendosi un eccesso di ottimismo dovuto alla disperazione, in un suo prossimo ritorno. Al G7 di Capri il ministro degli Esteri Tajani ha dichiarato che l’Italia agisce in Niger soprattutto per conto dell’Europa, per assicurare in quel Paese e in quell’area la presenza europea, ma il suo collega francese si è limitato a fare buon viso a cattivo gioco. Tempi duri per la grandeur dei cugini d’oltralpe!  Si tratta ora di vedere, anche alla luce di ciò che accade nel Mar Rosso e in Ucraina, come evolverà la convivenza in Niger tra il piccolo contingente militare italiano e il ben più robusto dispositivo militare russo.

STRISCIA DI GAZA E IMPERIALISMO A SEI ZAMPE

 QUEL CHE RESTA DELL’AFRICA “FRANCESE”

FRANCE À FRIC

TUTTE LE STRADE DELL’IMPERIALISMO PORTANO IN AFRICA

SUDAN. TANTA MISERIA E TANTI AFFARI IN GIOCO – SULLA PELLE DEGLI ULTIMI

ANCHE L’IMPERIALISMO ITALIANO, NEL “SUO PICCOLO”, HA QUALCOSA DA DIRE

SOVRANITÀ NAZIONALE/CONTINENTALE AFRICANA E AUTONOMIA DI CLASSE

L’AFRICA SOTTO IL CELESTE IMPERIALISMO

ASPETTANDO IL 25 APRILE

Le polemiche sullo slogan scelto per caratterizzare sul piano politico la manifestazione di regime del 25 aprile (Cessate il fuoco ovunque) gettano un po’ di luce anche sulla natura della cosiddetta Resistenza antifascista che prese corpo in Italia dopo la caduta del regime fascista (25 luglio 1943) causata dall’irresistibile iniziativa bellica dell’imperialismo angloamericano dentro i confini della nazione italiana.

La comunità ucraina ha ragione da vendere, a mio avviso, quando rimprovera agli organizzatori della manifestazione nazionale che si terrà come sempre a Milano che lo slogan da loro scelto tradisce il vero spirito della Resistenza: «Se avessimo chiesto ai partigiani o agli alleati il cessate il fuoco durante la Seconda guerra mondiale, oggi avremmo un’Italia diversa». Ora come allora: Resistenza! In effetti, la Resistenza ucraina contro gli invasori russi si inquadra perfettamente, mutatis mutandis, nella logica e nella prassi della Resistenza antifascista, la quale fu, sempre all’avviso di chi scrive, la continuazione della guerra imperialista (deflagrata com’è noto nel 1939) nella nuova situazione militare e politica determinata dai successi degli Alleati, i quali causarono quel “rocambolesco” cambio di alleanze dell’Italia a tutti noto – e che si è prestato benissimo come trama anche in molti film comici.

Anche la guerra di resistenza ucraina ha una natura imperialista, oltre che nazionale, soprattutto per due motivi: 1. le sue cause di fondo vanno ricercate nella contesa interimperialistica totale (o sistemica: economica, tecnologica, scientifica, geopolitica, militare, ideologica) tra le grandi potenze; 2. senza il sostegno politico, militare ed economico dell’imperialismo occidentale (americano ed europeo) l’Ucraina non avrebbe potuto opporre alla Russia una così lunga guerra di resistenza. «”Cessate il fuoco ovunque“ è uno slogan che non condividiamo assolutamente. È uno slogan che mette sullo stesso piano aggrediti e aggressori. Nel caso dell’Ucraina, si tratta di un’invasione da parte della Russia». Così ha dichiarato alla stampa Kateryna Sadilova, una rappresentante della comunità ucraina in Italia. Non c’è dubbio: la Russia ha invaso l’Ucraina (continuando l’impresa iniziata nel 2014); ma l’esistenza dell’Imperialismo Unitario, che fa delle nazioni (grandi, medie o piccole che siano) i nodi di una sola gigantesca rete di interessi, fa letteralmente impallidire la distinzione fra aggrediti e aggressori, distinzione che peraltro trovò una critica radicale da parte di Lenin e di tutti gli anticapitalisti europei già nel 1914. Figuriamoci se questa distinzione possa trovare un qualche appiglio nella coscienza degli anticapitalisti che si confrontano con la società capitalistica del XXI secolo! Analogo discorso vale per la cosiddetta autodecisione dei popoli e delle nazioni, un’autentica menzogna alla luce dell’odierna Società-Mondo – la stessa Russia rischia di venire inglobata nello spazio vitale del Celeste Imperialismo.

Il fatto che la comunità ucraina e quella parte della comunità ebraica italiana che critica lo slogan sul cessate il fuoco (ritenendo evidentemente in qualche modo giustificato il massacro dei civili palestinesi a Gaza per mano israeliana), abbiano deciso di festeggiare insieme il 25 Aprile, questo fatto la dice lunga  sulla natura dei conflitti in corso in Ucraina e a Gaza. Questo senza nulla togliere al fatto che, come ho scritto molto prima del famigerato 7 ottobre, Hamas rappresenta per i palestinesi parte del loro annoso problema, non certo della sua soluzione. L’appoggio indiscriminato, acritico, subalterno, “senza se e senza ma” al nazionalismo palestinese non può certo far parte del baglio politico dell’anticapitalista, il quale mette avanti in primo luogo l’autonomia politica del proletariato e la solidarietà tra i subalterni di tutto il mondo – classismo contro nazionalismo.

Per ciò che concerne la guerra russo-ucraina, possiamo dire che dal punto di vista dell’imperialismo russo si tratta dell’estremo tentativo di non perdere definitivamente l’influenza sull’Ucraina, forse il pezzo più pregiato dello spazio imperiale russo dai tempi degli zar, a favore della concorrenza occidentale. Intendo dire che se ragioniamo sul terreno degli interessi nazionali, troviamo “ragioni” e “torti” sia fra gli aggrediti sia fra gli aggressori, ragioni che l’anticapitalista respinge in blocco in quanto applica alla contesa fra le nazioni una logica radicalmente diversa da quella plasmata, appunto, da quegli interessi, che sono poi gli interessi che fanno capo alle classi dominanti, le quali hanno nello Stato (qualsiasi sia la sua forma politico-istituzionale: democratica, autocratica, totalitaria) il loro supremo cane da guardia.

Sul merito della parola d’ordine Cessate il fuoco ovunque, occorre dire che il suo contenuto politico-ideologico oggi è tale «da seminare soltanto illusioni e fare del proletariato un trastullo nelle mani della diplomazia segreta dei paesi belligeranti. È questo il destino della propaganda non accompagnata da un appello all’azione rivoluzionaria delle masse» (*). È vero che oggi non esistono le condizioni perché quel tipo di appello possa avere un minimo di seguito fra le masse; ma tali condizioni non maturano spontaneamente, o per il semplice aggravamento della crisi internazionale: per mettere radici esse hanno anche bisogno del lavoro politico della soggettività rivoluzionaria. Alla nascita di questa soggettività chi scrive si sforma di dare il suo modestissimo contributo. Il pacifismo borghese va combattuto sul piano squisitamente politico, non su quello meramente ideologico, semplicemente perché per un verso esso non è in grado di evitare le guerre, né di “umanizzarle”, e per altro verso ostacola l’iniziativa autonoma delle classi subalterne, la sola iniziativa che può creare un serio problema al militarismo e al bellicismo radicati in profondità nei rapporti sociali capitalistici oggi dominanti su scala planetaria

«Il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così». E chi se ne importa, mi permetto di aggiungere con una grossolanità di pensiero che di certo urterà la sensibilità del fine intellettuale, tanto più se di simpatie sinistrorse. Me ne farò una ragione! Poco sopra ho citato il testo del monologo, che definire insulso è già un complimento, di Antonio Scurati per il 25 Aprile che oggi trova spazio su tutti i quotidiani e ovunque sui “social” per la nota polemica di cui a chi scrive importa meno di zero. La citazione mi serve solo per ricordare che il fascismo nasce in Italia in primo luogo per schiacciare con la violenza i lavoratori delle fabbriche e della terra che nel Primo dopoguerra minacciarono gli interessi della classe dominante e che simpatizzarono con la Russia rivoluzionaria: Fare come in Russia! La carota giolittiana (fiaccare e dividere  il movimento operaio concedendo briciole e facendo promesse) e il manganello mussoliniano (uccidere le avanguardie proletarie e distruggere le organizzazioni di classe) messi al servizio della borghesia italiana – la cui fazione liberale si era illusa di poter usare la violenza fascista senza pagare un prezzo politico troppo caro: l’autonomizzazione politica del manganello non era stato previsto! Carota democratica e manganello fascista: due facce della stessa capitalistica e controrivoluzionaria medaglia. Ieri come oggi – e sempre mutatis mutandis, si capisce.

Di qui l’abissale differenza che corre tra l’antifascismo anticapitalista, che combatte le radici sociali (capitalistiche) del fascismo, e l’antifascismo che anticapitalista non è, quello che si riconosce nella Costituzione borghese di questo Paese – che non a caso esordisce santificando il lavoro (salariato) come fondamento della Repubblica. Scriveva Max Horkheimer negli anni Trenta del secolo scorso: «Chi non vuole parlare del capitalismo non deve parlare nemmeno del fascismo, il quale è la verità della società moderna colta dalla teoria fin dall’inizio. L’ordine totalitario non è altro che l’ordine precedente senza i suoi freni. Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto» (Gli ebrei e l’Europa).

(*) Lenin, Valutazione della parola d’ordine della “pace”, luglio-agosto 1915, Opere, XXI, Editori Riuniti, 1966.

Sul 25 aprile e sul fascismo:

CONTRO LA COSTITUZIONE. QUELLA DI IERI, DI OGGI E DI DOMANI

MITI ULTRAREAZIONARI E FESTE COMANDATE. SUL 25 APRILE

UN 25 APRILE DI GUERRA (IMPERIALISTA). ESATTAMENTE COME ALLORA!

LIBERARSI DAL MITO DELLA LIBERAZIONE

FASCISMO STORICO, FASCISMO ETERNO, FASCISMO DEL XXI SECOLO, FASCISMO IMMAGINARIO…

OGGI COME ALLORA. ADORNO E IL NUOVO RADICALISMO DI DESTRA

LA PERFETTA CONTINUITÀ DELLO STATO. OVVERO: LO STATO ETERNO

Sulla guerra russo-ucraina come parte del conflitto interimperialistico totale:

ESSERE PARTE DEL PROBLEMA O DELLA SUA SOLUZIONE?

SULLA GENESI DEL REGIME PUTINIANO

LA SCONFITTA DEL PROPRIO PAESE NELLA GUERRA IMPERIALISTICA

CANNONI CONTRO BURRO. A DUE ANNI DALL’INVASIONE RUSSA DELL’UCRAINA

SULLA COSIDDETTA AMBIGUITÀ STRATEGICA

MISERIA DELLA FILOSOFA

DALLA “NEUTRALITÀ BENEVOLA” ALLO “STATO DI BELLIGERANZA”. OVVIAMENTE CON LA COPERTURA DELL’ART. 11 DELLA COSTITUZIONE

Su Israele e Gaza:

CONTINUA LA GUERRA DI STERMINIO CONTRO I PALESTINESI

LA MACABRA FARSA SULLA PELLE DEI PALESTINESI – E NON SOLO

PRIMO LEVI CRITICO DI ISRAELE

LA DIALETTICA DELLO STERMINIO SECONDO HABERMAS

IL PUNTO SULLA CATASTROFE

OPERAZIONE CHIRURGICA…     

QUALCHE RIFLESSIONE SU HAMAS

LA QUESTIONE PALESTINESE DOPO IL 7 OTTOBRE

A GAZA COME IN UCRAINA E IN OGNI ALTRA PARTE DEL MONDO, LA GUERRA È TERRORISMO ORGANIZZATO E GENERALIZZATO

CONTRO LO STATO IMPERIALISTA ISRAELIANO E CONTRO HAMAS, PEDINA NELLO SCONTRO INTERIMPERIALISTICO

LA TEMPESTA E LA SPADA. LA GUERRA È SERVITA – DI NUOVO!

LENIN, KEYNES E LE CONSEGUENZE DELLA “PACE”

Il mio dovere, il dovere di un rappresentante del
proletariato rivoluzionario, è quello di preparare
la rivoluzione proletaria mondiale quale unica
salvezza dagli orrori della guerra mondiale. Io
debbo ragionare non dal punto di vista del “mio
paese”, ma dal punto di vista di chi lavora per
affrettare la rivoluzione proletaria mondiale.
(Lenin, Il rinnegato Kautsky 1918).

Ogni guerra e ogni armistizio è politica (Lenin, 1919).

Scrive Maurizio Sgroi su Econopoly (Il Sole 24 Ore) del 18 aprile scorso: «Quanto costa la pace? Ci si domanda dopo aver terminato l’ultimo libro di Emiliano Brancaccio, docente di politica economica all’università del Sannio. I lettori di Econopoly, che ha ospitato anche l’appello per la pace sottoscritto da Brancaccio e altri intellettuali, conoscono bene il pensiero di questo autore. Ma chi non avesse avuto prima questa opportunità, può farsene un’idea esauriente leggendo “Le condizioni economiche per la pace” (Mimesis, 2024) (1), che strizza l’occhio al noto “Le conseguenza economiche della pace “ di Keynes, da una parte, ma soprattutto, alla lunga tradizione di origine marxista secondo la quale le “condizioni materiali”, come le chiama l’autore – leggi gli interessi economici – siano una potente lente esplicativa della realtà, e in particolare dei conflitti che stiamo vivendo in questi anni tormentati. […] Le condizioni economiche della pace, per dirla con l’autore, potrebbero essere costruite semplicemente ricordando che lo scopo non è semplicemente sfuggire alla guerra di oggi, ma soprattutto evitare quelle di domani. Ricordando, dati alla mano, che siamo tutti sulla stessa barca. In fondo il libro di Brancaccio parla di questo».

Detto che sulla «lunga tradizione di origine marxista» di cui scrive Sgroi occorre nutrire più di un dubbio, visto che gli scritti di Brancaccio sono generalmente riconducibili a quella scuola di pensiero (che ha in Keynes forse il suo esponente più illustre e teoricamente dotato) che intende salvare il capitalismo (ormai da oltre un secolo nella sua “fase” imperialista) dalle sue stesse molteplici contraddizioni attraverso una più oculata, saggia e razionale iniziativa degli Stati più potenti del pianeta; precisato questo per pura pignoleria, debbo anche dire che l’articolo qui citato si presta a qualche non banale riflessione, che tuttavia non farò. La sua lettura mi ha suggerito un rimando storico che forse ai lettori potrà risultare interessante. Si tratta del Rapporto sulla situazione internazionale e sui compiti fondamentali dell’internazionale comunista che Lenin presentò al secondo congresso dell’Internazionale comunista che si tenne, prima a Pietrogrado e poi a Mosca, dal 19 luglio al 7 agosto del 1920. Siamo in un momento in cui tutti i comunisti del mondo pensavano che «il rovesciamento del giogo del capitalismo in tutti i paesi del mondo» fosse più che mai imminente, e certamente all’ordine del giorno, in primo luogo a causa del completo dissesto dell’economia capitalistica mondiale. Purtroppo non andò così e siamo ancora qui a discorrere di capitalismo, di imperialismo, di militarismo e di guerre. Qui di seguito riporto la parte del Rapporto leniniano che prende in considerazione, con la solita pungente ironia del capo bolscevico, il libro di J. M. Keynes pubblicato a Londra nel 1919 con il titolo The economic consequences of the peace. Buona lettura!

***

Prendete i debiti statali. Sappiamo che i debiti dei principali Stati europei sono aumentati di almeno sette volte tra il 1914 e il 1920. Voglio citare un’altra fonte economica, che assume particolare rilievo, intendo riferirmi al diplomatico inglese Keynes, autore del libro: Le conseguenze economiche della pace. Keynes, per incarico del suo governo, ha partecipato ai negoziati di pace di Versailles, ne ha seguito direttamente lo svolgimento da un punto di vista puramente borghese, ha studiato passo passo, in tutti i particolari, e, come economista, ha preso parte alle riunioni. Keynes è pervenuto a conclusioni che sono più forti, più lampanti, più istruttive di qualsiasi conclusione alla quale potrebbe giungere un rivoluzionario comunista, perché sono le conclusioni di un borghese genuino, avversario implacabile del bolscevismo, che egli, da filisteo inglese, concepisce come qualcosa di feroce, di mostruoso, di barbaro. Keynes è pervenuto alla conclusione che con la pace di Versailles l’Europa e il mondo intero stanno marciando verso la bancarotta. Keynes ha rassegnato le dimissioni, ha gettato in faccia al governo il suo libro e ha detto: “State facendo una pazzia”. […] Soltanto gli Stati Uniti si trovano oggi in una situazione finanziaria assolutamente indipendente. Prima della guerra essi erano debitori, oggi esclusivamente creditori. Tutte le altre potenze del mondo sono indebitate.  […] Naturalmente il governo rivoluzionario russo si rifiuta di pagare i debiti. Qualsiasi altro si rifiuterebbe di pagare, perché questi debiti rappresentano gli interessi usurari di ciò che è già stato pagato venti volte, e il borghese Keynes, che non nutre alcuna simpatia per il movimento rivoluzionario russo, afferma : “È chiaro che non si può tenere conto di questi debiti”.

La Francia, il paese che i francesi stessi chiamavano l’usuraio del mondo, perché il suo “risparmio” era colossale, perché il saccheggio coloniale e finanziario, procurando alla Francia capitali ingenti, le permetteva di dare in prestito miliardi e miliardi soprattutto alla Russia. da questi prestiti la Francia traeva interessi giganteschi. Ma, nonostante ciò, a dispetto della vittoria, anche la Francia è oggi indebitata. Una fonte borghese americana, citata dal compagno Braun, comunista, nel suo libro: Chi deve pagare i debiti di guerra? (Lipsia, 1920), determina il rapporto tra i debiti nazionali e il patrimonio nazionale come segue: nei paesi vincitori, in Inghilterra e in Francia , i debiti ammontano a più del 50% dell’intero patrimonio nazionale. in italia la cifra corrispondente è del 60-70% e in russia del 90%, ma, come voi sapete, questi debiti non ci preoccupano, perché, un po’ prima che uscisse il libretto di Keynes, noi avevamo seguíto il suo ottimo consiglio e annullato tutti i debiti.  E qui Keynes rivela soltanto la solita bizzarria del filisteo: nel suggerire l’annullamento di tutti i debiti, egli dice che, naturalmente, solo la Francia ci guadagnerà, che, naturalmente, l’Inghilterra non perderà poi molto, perché dalla Russia non si sarebbe recuperato niente lo stesso. L’America, è vero, subirà una perdita cospicua, ma Keynes fa assegnamento sulla “generosità” americana! A questo proposito non condividiamo l’opinione di Keynes e degli altri pacifisti piccolo-borghesi. Pensiamo che essi, riguardo all’annullamento dei debiti, dovranno attendere qualcos’altro, senza contare sulla “generosità” dei signori capitalisti.

Dalle poche cifre riportate risulta che la guerra imperialistica ha creato una situazione impossibile anche per i paesi vincitori. Lo attesta anche il gravissimo squilibrio tra i salari e l’aumento dei prezzi. Il Consiglio economico supremo, che è un ente incaricato di difendere in tutto il mondo l’ordine borghese dalla rivoluzione in ascesa, ha approvato l’8 marzo scorso una risoluzione che si conclude con un appello all’ordine, al lavoro, al risparmio, a condizione, beninteso, che gli operai rimangano gli schiavi del capitale. […] È chiaro che in questa situazione la crescente indignazione degli operai, lo sviluppo dello spirito rivoluzionario e delle idee rivoluzionarie. L’intensificazione degli scioperi spontanei di massa sono inevitabili. La condizione degli operai si fa infatti insopportabile. contro lo squilibrio tra i prezzi e i salari i capitalisti non possono fare niente, e gli operai non possono vivere. Contro questa sventura non si può lottare con i vecchi metodi: nessuno sciopero parziale, nessuna battaglia parlamentare, nessuna votazione può servire a qualche cosa. […]

Il “meccanismo” dell’economia capitalistica mondiale è completamente dissestato. […] Avviene così che la stessa America, cioè il paese più ricco a cui sono subordinati tutti gli altri, non può né comprare né vendere. E lo stesso Keynes, che pur ha percosso i tortuosi meandri dei negoziati di Versailles, è costretto a riconoscere questa impossibilità, nonostante la sua incrollabile decisione di difendere il capitalismo e nonostante tutto il suo odio per il bolscevismo. Mi vien fatto di dire che, secondo me, nessun appello comunista, o rivoluzionario in genere, può reggere il confronto, quanto a efficacia, con le pagine in cui Keynes dipinge Wilson e i “wilsonismo” nella pratica. Wilson è stato l’idolo dei piccoli borghesi e dei pacifisti (2), come Keynes e come molti eroi della II Internazionale (e persino dell’Internazionale “due e mezzo”), che invocavano i “quattordici punti” e scrivevano persino dei lavori “scientifici” sulle “radici” della politica wilsoniana, sperando che Wilson avrebbe salvato la “pace sociale”, riconciliato gli sfruttatori e gli sfruttati. […]

Così, il borghese Keynes afferma che per salvare se stessi e la propria economia gli inglesi devono promuovere la ripresa di libere relazioni commerciali tra la Germania e la Russia! Ma come raggiungere questo obiettivo? Mediante l’annullamento di tutti i debiti, così propone Keynes! Né si tratta di un’idea esclusiva del dotto economista Keynes, perché quest’idea viene e sarà sempre più accolta da  milioni di uomini. Milioni di uomini sentono dire dagli economisti borghesi che l’unica soluzione consiste nell’annullamento dei debiti, e quindi “siano maledetti i bolscevichi” (che hanno annullato i debiti), ci si rivolga alla “generosità” dell’America!! Credo che a questi economisti, trasformati in agitatori bolscevichi, il congresso dell’Internazionale comunista dovrebbe inviare un messaggio di ringraziamento (3).

(1) Ne ho scritto qualcosa anch’io su un post del 19/2/2023: L’asse del male è sempre più forte e minaccioso.
(2) «Quando si conclude una guerra e, per di più con le caratteristiche sanguinose del Secondo conflitto mondiale, il tema che si pone è “fare la pace” e, subito dopo, dar vita a un sistema di sicurezza collettiva efficace. Avvenne così nel 1918 quando, sulla spinta del Presidente degli Stati Uniti, Wilson, e dei suoi 14 punti, si diede vita alla Società delle Nazioni, nell’aspirazione di superare il principio secondo il quale l’espressione all’estero della sovranità di uno Stato si esprimeva con l’uso della forza nei rapporti internazionali». Questo lo ha detto il presidente Sergio Mattarella lo scorso 15 aprile parlando al Comando delle Unità Mobili e Specializzate Carabinieri Palidoro. Ecco cosa invece scriveva su Wilson Il Soviet, Organo delle sezioni del Partito socialista italiano nella Provincia di Napoli (Organo della frazione comunista astensionista dal 20 ottobre 1919), il primo gennaio 1919: «Wilson è l’uomo del giorno. Nel campo socialista non pochi simpatizzano per l’uomo e per il programma. […] Noi socialisti dobbiamo non plaudire, ma a viso aperto combattere Wilson. E ricordare, mentre egli percorre in trionfo le vie delle nostre città, le migliaia di compagni imprigionati e perseguitati dal Governo borghese ch’egli rappresenta. Filippo Turati scorge un dilemma: Wilson o Lenin. È il dilemma che vediamo anche noi: capitalismo o socialismo. Turati si è dunque finalmente persuaso che tra i due termini di esso non vi è via di conciliazione? E si deciderà a scegliere? Noi restiamo con Lenin, per il socialismo». In realtà la sua controrivoluzionaria scelta Turati l’aveva già fatta da tempo.
(2) Lenin, Rapporto sulla situazione internazionale e sui compiti fondamentali dell’internazionale comunista, Opere, XXXI, pp. 208-214, Editori Riuniti, 1967.

SULLA GUERRA CAPITALISTA

NON ABBANDONATE QUELLA VIA!

SOVRANISMO ECONOMICO E PROTEZIONISMO: LA GUERRA È SERVITA!

LA QUERELA E LO STUDIO DELLA STORIA

«Sono anziano, ma la testa mi funziona. La storia non si querela, si studia» (Luciano Canfora). Condivido in pieno! Io, ad esempio, studiando (non a scuola, non nelle libere e democratiche università di questo Paese) la storia del Novecento ho capito che fascismo e stalinismo (che tanto piace al nostro professorone) sono due facce della stessa capitalistica medaglia, due momenti della stessa controrivoluzione antiproletaria i cui devastanti effetti sulle classi subalterne sono lungi dall’essersi esauriti. Il problema, per chi scrive, non è avere una testa funzionante, ma avere una testa cosciente – nell’accezione marxiana del concetto. Quella coscienza (“di classe”) che mi permette di non schierarmi mai dalla parte degli organi repressivi dello Stato – magistratura compresa, la quale dovrà giudicare se quanto detto da Canfora a proposito di Giorgia Meloni ha i caratteri di una «diffamazione aggravata».  

L’appello al «diritto costituzionalmente garantito alla libertà di pensiero e di opinione» lo lascio volentieri ai feticisti della Costituzione (borghese) “più bella del mondo”.

ESSERE NEONAZISTI E STALINISTI DENTRO, NELL’ANIMA…

ESSERE PARTE DEL PROBLEMA O DELLA SUA SOLUZIONE?

Non possiamo essere neutrali!

Per Sebastiano Maffettone nelle guerre, passate, presenti e future, «non possiamo essere neutrali e dobbiamo schierarci». Condivido pienamente questa idea antineutralista! Si tratta naturalmente di “declinarne” il significato politico: schierarsi con chi e contro chi? Ancora Maffettone: «Parlare di guerra in punta di teoria mentre la gente muore sul campo, è complicato e può sembrare inopportuno. Tuttavia, lasciare andare le cose senza riflettere mi sembra anche peggio». E anche su questo punto non ci piove, come si dice con indulgenza poetica. Essendo un sostenitore della «liberal-democrazia», considerata «il migliore dei regimi politici possibili» (e certamente la società capitalistica il migliore dei mondi possibili), il Nostro si schiera, ad esempio, per l’Ucraina contro la Russia, per Israele contro l’Iran, per Taiwan contro la Cina, e così via secondo lo schema liberal-democrazie versus autocrazie e dittature di vario conio politico-ideologico. Questo per il presente. Guardando al passato egli ovviamente difende la scelta delle «liberal-democrazie» di allearsi con l’Unione Sovietica (che liberal-democratica com’è noto non era) al fine di sconfiggere il nazifascismo. Qui Maffettone si concede una “debolezza” di stampo realista, anche in considerazione del fatto che «alcuni aspetti del realismo politico sono necessari in ogni valutazione seria della guerra».

Quello che egli non condivide della “concezione realista del mondo” è la sua indifferenza per ciò che riguarda la natura politico-istituzionale degli Stati, che i realisti prendono in considerazione solo in quanto centri di potere e di interessi in grado di pesare più o meno sulla bilancia del potere mondiale. «Quale è il limite più evidente del realismo? È in sostanza quello che non ci spiega perché dovremmo – ammesso che dovremmo – stare da una parte o dall’altra di un eventuale conflitto. “Questo e quello per me pari sono”, potrebbe essere il suo motto. Ma un indifferentismo del genere non aiuta a pensare la guerra. Tra Hitler e i suoi avversari non si poteva e doveva essere neutrali. I limiti del realismo fanno capire anche quelli del pacifismo assoluto. Perché se è vero che tutte le persone mentalmente sane sono a favore della pace, non è vero che tutte le guerre sono eguali tra loro. Alcune guerre possono essere “giuste”».

Tra Hitler e i suoi avversari (ed ex alleati: vedi Stalin!) non si poteva e doveva essere neutrali? Personalmente condivido la posizione di coloro che allora decisero di combattere tanto Hitler quanto i suoi avversari, considerati due facce della stessa disumana (capitalista/imperialista) moneta. Questi militanti politici (1), che respinsero qualsiasi forma di neutralismo e che negarono alla Russia cosiddetta Sovietica qualsiasi diversità di stampo “socialista” (e facendo questo si esposero a una triplice ritorsione: fascista, stalinista e liberaldemocratica!), considerarono giusta solo la guerra di classe intesa ad abbattere il regime sociale capitalistico in vista della costruzione di una società senza classi sociali, e quindi senza Stato, senza confini, senza eserciti, senza patrie da difendere: si tratta del solo pacifismo che essi riuscivano a concepire come giusto e possibile, ben sapendo che la cosiddetta pace nella società classista è solo una menzogna che serve a occultare il dominio di classe e a preservare la “pace sociale”.

«Bene o male», scrive il Nostro liberal-democratico, «ho passato la vita a occuparmi di filosofia e di teoria politica, e in tutto questo periodo sono sempre partito da due punti fermi: considerare la liberal-democrazia il migliore dei regimi politici che avevo conosciuto e auspicare l’affermarsi progressivo di quella che Kant chiamava una “pace perpetua”». E anche il povero Kant è sistemato! Anche perché leggere «pace perpetua», nel contesto del mortifero regime sociale mondiale, mi fa venire in mente la morte. Pace eterna!

Maffettone, a cui ovviamente sfugge la natura socialmente totalitaria dei rapporti sociali capitalistici (realtà che fa impallidire e che rende ridicola, oltre che miserabile, ogni illusione “liberal-democratica”), chiude il suo articolo pubblicato oggi sul Riformista ribadendo il concetto che segue: «Nel malaugurato caso di conflitto, noi non possiamo e dobbiamo essere neutrali». Giustissimo! Il disfattismo rivoluzionario praticato e predicato dagli anticapitalisti nelle guerre imperialiste è infatti l’esatto opposto del neutralismo. Al passo appena citato, che naturalmente invita l’opinione pubblica a schierarsi dalla parte dei Paesi «liberal-democratici», mi limito ad aggiungere che noi siamo già dentro un conflitto di dimensioni mondiali (2).

Essere parte del problema o della sua soluzione?

Se nel corso di una guerra interimperialista dici che si tratta di discriminare fra aggressori e aggrediti, fra buoni e cattivi, quello che a questo punto ti rimane da confessare è da quale parte del campo imperialista ti schieri. Se ti poni il problema di capire quale degli Stati imperialisti in competizione per il potere sistemico regionale o mondiale ha iniziato le ostilità, ha sparato il primo colpo, ha violato per primo i confini di un altro Stato, allora stai accettando di fatto la logica della contesa interimperialistica, la quale si spiega solo chiamando in causa gli interessi delle classi dominanti di tutti i Paesi, di tutti gli Stati, di tutte le nazioni. Si tratta di interessi (economici, geopolitici ecc.) che sono radicalmente ostili ai reali bisogni dell’umanità, in generale, e delle classi subalterne in particolare. Se non comprendi questo, o semplicemente accetti la logica del “male minore” (di quello che ti appare come tale), per l’anticapitalismo sei parte del problema, non della sua soluzione.

 

(1) Alludo alla sinistra comunista antistalinista italiana ed europea.

(2) «Chi paventa il rischio di una Terza guerra mondiale forse non si rende del tutto conto che siamo già dentro una guerra di dimensioni mondiali che ha nel conflitto armato solo uno, certamente il più distruttivo e sanguinoso, dei suoi molteplici aspetti. Si tratta piuttosto di capire in quale modo e in che tempi questa guerra sistemica per il potere totale (economico, tecnoscientifico, ideologico, geopolitico) evolverà, quali nuovi aspetti assumerà la competizione interimperialistica nel prossimo futuro. Se assumiamo questo punto di vista, la vecchia distinzione fra crisi regionali (locali) e crisi internazionali (globali) perde di significato: troppo intrecciati e ingarbugliati sono infatti gli interessi di varia natura che fanno capo alle classi dominanti dei diversi Paesi del mondo; interessi che in qualsiasi momento possono entrare in reciproco contrasto e scatenare conflitti di qualche genere (qui viene in soccorso anche il concetto di “guerra ibrida”) al centro come alla periferia del sistema capitalistico mondiale. D’altra parte, la stessa guerra in Europa non è affatto una novità di questi ultimi anni: è sufficiente ricordare la guerra balcanica degli anni Novanta che fece più di 200mila morti e che ebbe nella dissoluzione della Jugoslavia il suo risultato più eclatante. Allora la Federazione Russa, alleata della Serbia ma corrosa da una gravissima crisi economica, non fu in grado di reagire prontamente contro l’attivismo occidentale. Ma di certo una parte della società russa non rimase indifferente: “In Russia, la questione serba è già diventata un problema interno. Le delegazioni di nazionalpatrioti che si susseguono in Serbia per stringere la mano a Milošević non si accontentano di uno scambio di esperienze con i loro compagni serbi; l’esempio di un regime che non esclude la possibilità di una guerra negli Stati vicini in nome della difesa dei serbi può essere contagioso” (L. Telen’, Le lezioni delle sanzioni, Moskovskie Novosti, n. 48, 29/12/1992). Diciamo pure che per Putin l’esempio serbo non è stato insignificante, tutt’altro (Sulla genesi del regime putiniano).

LA SCONFITTA DEL PROPRIO PAESE NELLA GUERRA IMPERIALISTICA

CANNONI CONTRO BURRO. A DUE ANNI DALL’INVASIONE RUSSA DELL’UCRAINA

SULLA COSIDDETTA AMBIGUITÀ STRATEGICA

MISERIA DELLA FILOSOFA

DALLA “NEUTRALITÀ BENEVOLA” ALLO “STATO DI BELLIGERANZA”. OVVIAMENTE CON LA COPERTURA DELL’ART. 11 DELLA COSTITUZIONE

 


 

CHE FINE HA FATTO L’EQUIPAGGIO DELLA NAVE SEQUESTRATA DALL’IRAN?

Mentre Iran e Israele si dicono molto soddisfatti per come sta procedendo il confronto politico-militare che li vede protagonisti assoluti e che ha come posta in palio l’egemonia nell’aria mediorientale; mentre tutta l’attenzione della cosiddetta opinione pubblica internazionale è concentrata sulle prossime mosse di Israele (si accontenterà del successo difensivo ottenuto anche grazie all’alleanza politico-militare messa in piedi dal Grande Satana, oppure Tel Aviv approfitterà della ghiotta occasione per cercare di chiudere definitivamente i conti con l’Iran degli ayatollah?); e mentre le opposte tifoserie (filo-occidentali versus anti-occidentali) danno luogo in Italia alla solita escrementizia recita mediatica: ecco, mentre accade tutto questo pare che della sorte dei marittimi finiti l’altro ieri nelle grinfie dell’imperialismo iraniano non importi niente a nessuno. Ma forse mi sbaglio, ed è anche possibile che in queste ore la vicenda si sia risolta positivamente a mia insaputa.  

Naturalmente sto parlando dell’equipaggio della portacontainer Msc Aires (di proprietà di Zodiac Group, società con sede nel Regno Unito controllata dall’israeliano Eyal Ofer), composto a quanto pare da 25 lavoratori di diversa nazionalità – secondo Adrienne Watson, portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana, «l’equipaggio è composto da cittadini indiani, filippini, pakistani, russi ed estoni». La nave è stata sequestrata l’altro ieri dalle famigerate “Guardie della Rivoluzione” in acque internazionali mentre attraversava lo stretto di Hormuz, sempre come rappresaglia per l’attacco israeliano al consolato iraniano in Siria, avvenuto all’inizio di questo mese. Il ministro degli Esteri Tajani si è subito premurato di precisare che non ci sono italiani a bordo della nave, una precisazione che naturalmente non dice nulla a chi non è abituato a valutare (pesare) l’importanza delle persone in base alla loro nazionalità. Si dirà che si tratta di un episodio tutto sommato marginale, trascurabile nel contesto di un conflitto di così vasta portata geopolitica e che potrebbe saldarsi con quello russo-ucraino con gli effetti che tutti possono immaginare; personalmente non condivido questa lettura minimalista del caso qui posto all’attenzione, e comunque, e sempre per quel che vale, esprimo tutta la mia solidarietà ai marittimi rimasti vittime del conflitto imperialistico in corso in quell’area. Scrivendo questo intendo dire che non attribuisco la responsabilità dell’accaduto solo all’Iran.

Come si ricorderà, lo scorso 6 marzo tre marinai filippini furono uccisi, mentre altri sei rimasero feriti, in un attacco missilistico Houthi contro una nave portarinfuse vicino al porto meridionale di Aden, nello Yemen. Anche di quella vicenda si è parlato pochissimo, per non dire niente, tutti presi dalla paura di dover pagare un prezzo più caro per le merci che viaggiano via mare.

Leggo da qualche parte: «In Iran la mobilitazione contro il nemico esterno è, ancora una volta, l’occasione migliore per silenziare il dissenso interno». Non c’è dubbio. Ma questo vale, mutatis mutandis, anche per Israele, la cui società non è affatto unita per ciò che riguarda l’iniziativa stragista praticata ormai da mesi dal governo israeliano a Gaza. La politica estera non è che la continuazione della politica interna. Adesso, per concludere, una brevissima rassegna stampa dedicata all’Iran.  

«La Guida suprema Ali Khamenei l’aveva annunciato venerdì, durante la preghiera della fine di Ramadan. “Colpiremo il nemico esterno e il nemico interno”. Aveva detto proprio così il massimo esponente del clero sciita, chiamando alle armi pasdaran e ciechi sostenitori del regime sul duplice fronte, la rappresaglia contro Israele da una parte e dall’altra l’offensiva contro l’opposizione più pericolosa, quella delle donne che da quasi due anni, inossidabili alla violenza, sfidano a capo scoperto la polizia religiosa e l’intero impianto ideologico della Repubblica islamica. Svelandosi, le donne iraniane hanno messo a nudo il regime che ora può soltanto colpire, fuori, dentro, alla cieca» (La Stampa).

«Subito dopo l’attacco, i sindacati dei lavoratori hanno scritto un comunicato molto chiaro: “Con questo bombardamento, la Repubblica islamica ha iniziato una guerra che farà male a 90 milioni di persone, questo regime sta per compiere la sua ultima missione per distruggere una volta per tutte l’Iran”» (Il Corriere della Sera).

«A Teheran caroselli di fedelissimi in festa rendono omaggio ai generali e agli ayatollah. Dal Libano degli Hezbollah allo Yemen degli Houti, il cosiddetto asse della Resistenza plaude all’operazione “Vera promessa”: l’onta dell’attacco israeliano al consolato in Siria è lavata. In Parlamento gli ultraconservatori celebrano il “grande schiaffo” a Israele, ma in coda ai distributori di benzina c’è l’altro Iran, la maggioranza, terrorizzata dalla prospettiva di una guerra nella regione e oltre» (La Repubblica).

L’ANIMA CAPITALISTA DEL VIETNAM…

Definendo sul Corriere della Sera di oggi Truong My Lan, una delle donne più ricche del Vietnam condannata ieri a morte per frode aggravata e continuata,  «un’icona del nuovo Vietnam comunista ma dall’anima capitalista», Paolo Salom ha avuto il merito di avermi strappato un sorriso, nonostante il contenuto della notizia sia tutt’altro che spassoso, come sanno bene gli altri 84 «complici» dell’ex miliardaria che sono ancora sotto processo, almeno dieci dei quali rischiano una condanna a morte.

D’altra parte è davvero impossibile non ridere leggendo il passo citato se non hai mai creduto nel “comunismo” vietnamita – e ovviamente in quello russo, cinese e robaccia capitalistica dello stesso genere spacciata appunto per decenni come “comunismo” o “socialismo realizzato”. In Vietnam si è realizzato piuttosto un capitalismo particolarmente dinamico, aggressivo e corrotto che solo oggi “scopre” le malefatta della signora Truong, la quale «come tanti nuovi ricchi, era partita dal nulla. Negli anni Ottanta del secolo scorso, vendeva cosmetici in un baracchino al mercato centrale di Ho Chi Minh (l’ex Saigon), insieme alla madre. Piano piano era stata in grado di acquistare terre e proprietà. Alla fine degli anni Novanta era la padrona di hotel e ristoranti. Poi il salto di qualità. Grazie a un sistema di prestanomi e scatole societarie, la donna di fatto era arrivata a controllare la Saigon Commercial Bank con oltre il 90% delle azioni, mentre le regole statali non consentono a un soggetto privato di possedere più del 5% di un istituto di credito. Dunque, era lei a nominare direttori e manager. Quando qualcuno poneva un ostacolo, erano pronte le mazzette milionarie e le pratiche tornavano a correre. Alla fine di un periodo di impunità “inspiegabile” – tutti a Saigon sapevano della vita parallela della miliardaria – il gioco è stato scoperto e sono scattate le manette» (P. Salom). Che bel quadretto capitalistico!

Un quadretto che peraltro ricorda molto la Cina, anche per ciò che concerne l’uso tutto politico della cosiddetta guerra alla corruzione, strumento ben affilato per regolamenti di conti interni al regime. Sul fronte della lotta alla corruzione in Cina, secondo Xi Jinping ci sono ancora «tigri da abbattere», «mosche da schiacciare» e «volpi da stanare». Auguri dunque al Partito Capitalista Cinese! Vedremo come si svilupperà la Blazing Furnaces, la campagna anti-corruzione minacciata dal regime vietnamita, campagna che secondo alcuni profondi conoscitori della società vietnamita rappresenterebbe «un tentativo del Partito di riaffermare il suo controllo sul Sud del Paese, una zona storicamente più incline a pratiche di libero mercato» (Il Messaggero).

La giuria, pronunciando la sentenza in quello che i media vietnamiti hanno definito «il processo del secolo», ha dichiarato che «le azioni di Truong hanno eroso la fiducia della gente nella leadership del Partito Comunista e dello Stato». E per oggi ho fatto il pieno di risatine – grazie all’anima capitalista del Vietnam: nientedimeno!

COME METTERE LE BRACHE ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Nippon Telegraph and Telephone, la più grande società di telecomunicazioni del Giappone, e Yomiuri Shimbun Group Holdings (con una tiratura mattutina di circa sei milioni di copie, lo Yomiuri Shimbun è il giornale più letto del Giappone) hanno elaborato un manifesto sull’Intelligenza Artificiale orientato a chiedere al governo nipponico una limitazione per legge dell’uso di questa tecnologia. Com’è noto, analoghi manifesti sono già stati diffusi in Europa e negli Stati Uniti, centri capitalistici molto preoccupati del vantaggio competitivo che la Cina sembra poter strappare alla concorrenza sul decisivo terreno della cosiddetta Intelligenza Artificiale. Scriveva il Quotidiano del Popolo Online dello scorso 11 marzo: «Secondo il Ministero dell’Industria e della Tecnologia dell’Informazione (MIIT), saranno accelerati gli sforzi per fornire tecnologie all’avanguardia e di uso comune, coltivare imprese leader e migliorare l’ecosistema industriale cinese. Per le industrie future, l’attenzione sarà posta nel gettare le basi in settori chiave come l’intelligenza artificiale per uso generale, i robot umanoidi e le interfacce cervello-computer». Non posso negare che leggendo di «robot umanoidi» e di «interfacce cervello-computer» m’inquieto un po’, forse perché ho letto e visto troppi libri e film a tema “distopico”. Ammetto anche tutta la mia obsolescenza esistenziale!  

Ma ritorniamo al Giappone. «Il manifesto delle aziende giapponesi, pur sottolineando i potenziali vantaggi dell’IA generativa nel migliorare la produttività, ha una visione generalmente scettica della tecnologia. Senza fornire dettagli, afferma che gli strumenti di IA hanno già iniziato a danneggiare la dignità umana, perché, a volte, sono progettati per catturare l’attenzione degli utenti senza tener conto della morale o dell’accuratezza. Se non si pone un freno all’IA, scrivono, “nel peggiore dei casi, la democrazia e l’ordine sociale potrebbero collassare, provocando guerre”» (The Wall Street Journal).

Nel prossimo futuro la maledetta Intelligenza Artificiale potrebbe essere usata anche come comodo capro espiatorio in caso di “incidenti” bellici: vedi Israele e il suo sistema di intelligenza artificiale Lavender usato, secondo il Guardian, per individuare il più rapidamente possibile nemici da eliminare e calcolare i relativi “danni collaterali”. Secondo il quotidiano britannico, «Almeno 37.000 obiettivi sono stati inseriti dalla macchina tecnologica nel suo database». Naturalmente Tel Aviv nega tutto. Fatto sta che dopo l’”incidente” del primo aprile a Deir el-Balah (con sette volontari dell’organizzazione non governativa World Central Kitchen che distribuivano cibo nella Striscia di Gaza fulminati da tre missili lanciati da un drone israeliano), il Premier israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso la sua «profonda tristezza» e le sue «scuse sincere per la tragica morte dei volontari», dovuta probabilmente, egli è sembrato suggerire, a un uso poco intelligente dell’Intelligenza Artificiale. Che dire? Non mi resta a questo punto che rimandare chi legge al mio ultimo post dedicato al tema: Intelligenza capitale.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE CON CARATTERISTICHE CINESI

QUANTI MORTI HA FATTO OGGI IL MOLOCH?

Signore ad un tempo barbaro e grandioso, il capitale
trascina con sé nell’abisso i cadaveri dei suoi schiavi,
intere ecatombi di operai (K. Marx).

Leggendo i quotidiani di oggi, quantomeno quelli più quotati sul mercato dell’informazione stampata su carta (Il Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa), si nota una certa stanchezza, un senso di rassegnazione e quasi una ritrosia nel commentare l’ennesima strage sul lavoro senza cadere nei soliti luoghi comuni centrati sull’indignazione del giorno dopo. Luoghi comuni ripetuti mille volte con più o meno abilità narrativa e ricchezza di particolari, e con pochissime variazioni sul tema. È come se i mitici, o famigerati, “giornaloni” avessero raggiunto all’improvviso l’insuperabile tasso di saturazione in materia, appunto, di indignazione e di speranza, puntualmente delusa, in un “futuro migliore”, meno funestato da “incidenti sul lavoro”, da guerre e accidenti di analoga pessima fattura. Fatti “incresciosi” che fanno sempre più somigliare il “nuovo mondo”, quello caratterizzato dal dominio della cosiddetta intelligenza artificiale, a quello “vecchio”: il passato non vuole passare e ripropone nel presente, come in una eterna coazione a ripetere, le stesse contraddizioni, gli stessi problemi, gli stessi eventi sanguinosi e catastrofici del “secolo breve”. In realtà si tratta della maledetta coazione a ripetere esistenziale (cioè sociale tout court) radicata nel rapporto sociale capitalistico. Il “simpatico” Maurizio Landini ha detto ieri che in Italia c’è un «modello di sviluppo sbagliato e malato»; ovviamente non si tratta di questo, ma del sistema capitalistico in quanto tale, verità che non può certo venir fuori dalla bocca dei funzionari e dei collaboratori del Capitale.

E qui mi fermo, per mancanza di tempo e, soprattutto, per non ripetere anch’io le stesse cose anticapitalistiche di sempre!

GUARDATI DAL LUPO CATTIVO. E DAL TRENO!

SULLA GENESI DEL REGIME PUTINIANO

Ripeto: la Bielorussia è russa, l’Ucraina è russa.
Quei popoli vogliono far parte della Russia.
(Vladimir Žirinovskij 1994).

Putin è un miracolo di Dio.
(Patriarca di Mosca Kirill, 2012).

Nel 1993 la nota rivista di geopolitica Limes pubblicò un articolo dello storico Charles Urjewicz dedicato alla fine delle illusioni che erano sbocciate rigogliosamente nella Russia della cosiddetta perestrojka, e l’inizio in quel Paese di una stagione socialmente e politicamente molto oscura, problematica, che sarà segnata da una grave crisi economica che durerà, tra alti e bassi, fino al 2001. L’articolo (dal titolo abbastanza suggestivo: Lo sguardo oscillante della Russia) è parere di chi scrive molto interessante perché offre al lettore di oggi una visuale prospettica utile a comprendere meglio le ragioni che hanno portato l’imperialismo russo a regolare i conti con l’Ucraina negli ultimi dieci anni: prima (2014) con l’annessione della Crimea, e poi (febbraio 2022) invadendo in profondità quel Paese nel tentativo, non riuscito (finora), di azzerarne l’autonomia “esistenziale” ottenuta alla fine del 1991 – proclamazione d’indipendenza 24 agosto 1991, referendum sull’indipendenza 1̊ dicembre dello stesso anno: il 91% per cento degli ucraini votò per la fine della tutela di Mosca. Anche le regioni russofone dell’Ucraina orientale si pronunciarono a favore della rottura con la “grande Russia. Un discorso a parte merita la Crimea.

È forse bene ricordare che per arginare i tentativi di secessione alimentati dalla popolazione russofona della Crimea, l’Ucraina approvò il 29 aprile 1992 una legge che concedeva alla penisola ampi margini di autonomia, mano tesa che tuttavia in un primo momento il parlamento della Crimea rifiutò di stringere, dicendosi anzi favorevole all’indipendenza della Crimea da ratificare con un referendum fissato per il 2 agosto del ‘92, salvo poi fare marcia indietro quando Kiev gridò forte in faccia a Simferopol’ (affinché il messaggio arrivasse forte e chiaro fino a Mosca, già molto impegnata a gettare molta benzina nazionalistica sul fuoco) che l’Ucraina non avrebbe consentito alcuna violazione della propria integrità territoriale. Naturalmente la flotta del Mar Nero concentrata a Sebastopoli e gli armamenti nucleari ancora in dotazione all’Ucraina costituivano in quel momento i due punti più caldi della contesa russo-ucraina. Il 18 maggio la Crimea si piegò ufficialmente al diktat ucraino, anche perché l’attivismo russo fece sorgere fra la stessa popolazione russofona della penisola la paura di una sanguinosa guerra fratricida fra i due Paesi. Il parlamento russo approvò invece in gran fretta un documento nel quale si definiva illegale il trasferimento della Crimea all’Ucraina nel 1954 (un leitmotiv usato spesso da Putin), e si chiedeva a Kiev di ridiscutere lo status della penisola ormai apertamente contesa. L’ambasciatore ucraino a Mosca, kryžanovskij, rigettò nel modo più categorico l’idea del negoziato, anche perché sarebbe stato «come aprire un vaso di Pandora che potrebbe dare il via a una nuova guerra mondiale». In quel momento la Russia era impegnata in una lotta per la sua sopravvivenza economica e non poteva certo rompere con l’Occidente, né affrontare un’impegnativa avventura bellica (o Operazione militare speciale che dir si voglia…), e così El’cin si vide costretto a prendere le distanze dal pronunciamento del parlamento russo e ad archiviare per il momento il dossier Crimea.  E qui veniamo all’articolo di Charles Urjewicz vecchio ormai di tre decenni – e proprio per questo illuminante per gli “analisti” di oggi.

«Alla fine degli anni Ottanta, bisogna arrendersi all’evidenza: la versione leninista del socialismo ha fallito». Una breve interruzione/digressione per chiarire quanto segue: ciò che fallì in Russia nella sua configurazione politico-istituzionale “sovietica” non fu «la versione leninista del socialismo», inesistente già ai tempi dello stesso Lenin, ma la versione stalinista del capitalismo. Lo stalinismo (come la sua variante cinese: il maoismo) non fu l’espressione del “comunismo realizzato”, secondo la famigerata quanto menzognera vulgata, ma piuttosto la negazione più radicale dell’autentico comunismo. «C’è chi accusa l’Ottobre 1917 di avere deviato e snaturato il corso naturale della storia russa con idee fondamentalmente estranee alla tradizione russa»: qui invece Urjewicz dice il giusto, essendo stato l’Ottobre ’17 la punta più avanzata di un movimento rivoluzionario proletario di portata internazionale. Di qui il legittimo odio del fascio-stalinista Putin nei confronti di Lenin, acerrimo nemico del «nazionalismo grande-russo» e sostenitore, fra l’altro, del «diritto all’autodecisione dell’Ucraina fino alla sua completa separazione dalla Russia». Rimando chi legge ai miei diversi scritti sui temi qui toccati e riprendo la citazione.

«La Russia che abbiamo perso è stato visto da decine di milioni di russi, di volta in volta incantati dalle immagini dei tempi passati, “quando la russia nutriva il mondo”. […] Due anni prima, il cineasta Stanislav Govuchin, autore peraltro di una lunga intervista televisiva all’autore di Arcipelago Gulag, gettava uno sguardo diverso sull’Occidente. aveva già colpito il pubblico sovietico con un film dal titolo esplosivo, Non si può vivere così, visione nera, tragica, disperata della Russia in piena perestrojka: povertà, alcolismo, disperazione accompagnano le immagini che traumatizzano decine di milioni di spettatori che credevano di sapere già tutto sulle depravazioni che Gorbačëv e i suoi amici avevano cominciato a correggere. L’Occidente non era allora considerato responsabile delle disgrazie della Russia. Al contrario. Umano, civile, opulento, era, per una sorta d’inversione radicale del linguaggio sovietico, strumentalizzato fino al ridicolo, diventando lo specchio nel quale l’homo sovieticus era invitato a guardarsi per distinguervi i tratti della propria miseria materiale e morale. […] Come tutti i grandi movimenti che hanno tentato di riformare la Russia, la perestrojka  ha accarezzato il sogno europeo, recuperando una tradizione che risale alla fine del XVII secolo, ma anche tentando di salvare l’eredità degli ultimi settant’anni. La “casa comune europea”, cara a Michail Gorbačëv, era nata dall’immaginazione dei consiglieri diplomatici di Leonid Brežnev. […] Da circa due secoli, la Russia è ossessionata dai fantasmi della sua storia. La questione delle origini del primo Stato russo [altra fissazione di Vladimir Putin nella sua versione “storiografica”], le conseguenze delle invasioni mongole, l’eredità di Pietro il Grande», la riflessione sul destino imperiale della Russia, il suo carattere “europeo” o “asiatico”, continuano a dividere una società alla ricerca di un’identità nazionale, e che non ha ancora trovato i suoi luoghi di memoria e i suoi miti unificatori. È la perestrojka a sconvolgere un quadro secolare, a sconvolgere una situazione che sembrava bloccata per sempre. Durante il 1989, in pochi mesi, i russi assistono al ritiro dall’Afghanistan, al disimpegno della potenza russo-sovietica dai quattro continenti, alla distruzione del Muro di Berlino e al crollo dell’”area socialista”. ormai bisogna passare dall’egemonismo alla cooperazione. L’Urss lancia appelli all’aiuto umanitario per nutrire la popolazione. […] L’indipendenza delle repubbliche europee dell’Urss, Estonia, Lettonia, Lituania, ma anche il fulmine a ciel sereno rappresentato dalla presa di distanza della “sorellina slava” della Russia, l’Ucraina, costringe presto Mosca a rivedere la sua politica estera. […]

Il 22 gennaio 1992, quando la flotta del Mar Nero è diventata un vero pomo della discordia fra la Russia e l’Ucraina, la Komsomolskaya Pravda pubblica un documento interno al Soviet supremo russo che esprime il profondo sconforto di una Russia che vede, con il distacco dell’Ucraina, allontanarsi ancora di più il suo orizzonte europeo: Vladimir Lukin, il presidente della commissione per le Relazioni estere al parlamento russo, in una lettera indirizzata al presidente dell’assemblea, Ruslan Khasbulatov, scrive: “Lo scopo principale della direzione ucraina è di spezzare le relazioni particolari con la Russia, compresa la sfera politico-militare. Proclamando la sua neutralità, l’Ucraina vuole andare verso l’Europa senza di noi, prendendo la stessa strada dell’Europa dell’Est”.  Lukin pensa alle maniere forti per ridurre Kiev a più miti consigli, proponendo un piano d’azione che permetta alla Russia di riprendere l’iniziativa sia per la Crimea che su problema della flotta. […] Mentre le nuove relazioni economiche con il mondo occidentale sono più che mai “ineguali” (materie prime contro manufatti), lo spazio sovietico, trascurato per un certo tempo dalla Russia, ritrova rapidamente la sua importanza. La grande potenza di ieri mantiene interessi strategici nel Caucaso, in Asia centrale e non dimentica più la presenza di una diaspora che conta 25 milioni di uomini e donne [un “capitale umano” da usare come strumento di pressione, di destabilizzazione del nemico e di penetrazione imperialista].

La Russia si ripiega su se stessa, cerca nuove strade senza tuttavia rompere con le scelte fatte all’inizio degli anni Novanta. Un intenso dibattito geopolitico attraversa gli ambienti intellettuali. L’“eurasismo” suscita un ritorno d’interesse. Nel momento in cui la nostalgia dell’Unione Sovietica è forte, l’idea imperiale osa esprimersi di nuovo, anche nelle pagine della stampa democratica. Certo, pochi condividono l’isteria antioccidentale delle “forze patriottiche” che, come il metropolita Iohan di Pietroburgo, agitano lo spauracchio del complotto permanente ordito dagli occidentali con l’aiuto dei massoni e degli ebrei, per distruggere la Russia. ma anche fra i più “occidentalisti” molti partono alla scoperta delle radici della cultura russa, ne affermano il carattere originale: la Russia è “il legame fra Oriente e Occidente. […] L’avvenire della Russia resta problematico. Il suo rapporto con l’”occidente” rimane un elemento fondamentale degli equilibri europei. Non vi potrebbe essere niente di peggio di un ribaltamento geopolitico brutale che trascinasse il “gigante dai piedi d’argilla” in un nuovo isolazionismo propizio a ogni avventura» (1).

Alla luce dello scritto di Urjewicz mi sembra che possiamo dire senza troppo sbagliare che l’aggressione russa dell’Ucraina è parte di una tendenza storica che nel regime putiniano ha trovato un primo importante punto di caduta, tutt’altro che definitivo. Si tratta peraltro di una tendenza oggettiva tutt’altro che lineare e deterministicamente prevedibile, considerato che essa si è affermata come la risultante di spinte e controspinte riconducibili ai diversi interessi che fanno capo alla tutt’altro che omogenea classe dominante russa, e che hanno trovato un puntuale riscontro nella lotta politica, spesso condotta con metodi violenti, interna alla classe dirigente del Paese.

Un punto di svolta nella costruzione del regime putiniano possiamo probabilmente individuarlo nella crisi economica internazionale del 2008, che chiuse il periodo di robusta crescita dell’economia russa (con una media annua del 6,6%) iniziato nel 2000 e caratterizzato dagli alti prezzi del petrolio (oltre 100 dollari il barile, con il picco di 147 dollari registrato proprio nel 2008) e delle altre materie prime esportate dalla Russia (2). In quel periodo i salari conobbero una crescita annua di circa il 15%, mentre il mercato di consumo russo si rivelò fra i più dinamici del mondo, insieme a quelli di Cina e India. Fu allora che si consolidò il “patto” non scritto tra Putin e la classe media del Paese (analogo a quello sottoscritto con i famigerati “oligarchi”): benessere (con Turchia ed Egitto come mete turistiche preferite) in cambio di pace sociale; prosperità (spesso esibita in modo assai pacchiano, soprattutto dagli “oligarchi”) in cambio di disimpegno politico. Un “contratto sociale” di stampo cinese finanziato soprattutto con la rendita petrolifera, e destinato a saltare in aria non appena i prezzi del greggio (e del gas) avessero imboccato un sentiero declinante. Cosa che accadde puntualmente dopo il 2008. Nel 2011 il Pil russo cade del 4% e Putin inizia a sudare freddo osservando lo sviluppo della cosiddetta “rivoluzione della neve” che ebbe come protagonista proprio la classe media (allora il 20% dei 144 milioni di abitanti), la quale evidentemente si sentì tradita dall’uomo forte del Cremlino, anche perché la pratica dei brogli elettorali a suo favore si fece fin troppo sfacciata. Fin quando le cose vanno bene, si può anche chiudere un occhio e financo “perdonare”, ma quando si rischia di perdere lo status economico-sociale a cui ci si è abituati, le cose iniziano ad apparire sotto una luce molto diversa. Il patriarca di Mosca Kirill nel 2012 definì i manifestanti antiputiniani «Una minoranza attratta dal consumismo occidentale», mentre Putin gli appariva «Un miracolo di Dio».

«Ossessionato dalle rivoluzioni colorate che in altri Stati dello spazio postsovietico avevano portato all’uscita di scena di regimi filorussi, Putin si convince che le richieste di riforme e modernizzazione minacciano il suo sistema di governo, imperniato sul clientelismo, la corruzione e l’accentramento del potere. Rifonda così il patto con i russi: sostituisce il consenso con la cultura militaresca e lancia una guerra contro la parte liberale della società. […] La propaganda dei valori tradizionali contribuisce a preparare l’opinione pubblica ad accettare senza resistenza l’invasione dell’Ucraina, perché è il pretesto con cui stringere la vite della repressione di ogni dissenso interno» (3). Dal 2012 assistiamo in effetti a un crescendo di misure repressive nei confronti degli oppositori e di attivismo sul terreno militarista come su quello ideologico – con la ripresa della vecchia mitologia grande-russa fatta di falsi richiami storici e di complottismo a sfondo vittimista: l’Occidente brutto e cattivo vuole annientare la stessa anima russa! Nel famoso discorso del 18 marzo 2014 Putin scolpisce, per così dire, due concetti: 1. «La Crimea è nostra», 2. chi non sostiene la politica ufficiale della Russia va considerato come quinta colonna dell’Occidente – concepito forse per la prima volta in blocco, come un’entità collettiva e ostile. Il regime moscovita capisce che si erano venute a create tutte le condizioni per una fuoriuscita definitiva dell’Ucraina dallo spazio imperiale russo: bisognava dunque reagire prontamente. La dialettica tra dimensione imperiale e moderna pratica imperialista rimane per la Russia un nodo problematico ancora da sciogliere – come dimostra il ruolo di vassallaggio (“junior partner) che in questo momento la lega alla Cina.

«Liberalismo, secolarismo, pacifismo, omosessualità e femminismo sono presi di mira oggi in Russia con leggi e campagne persecutorie, nel contesto di un sistema che si fa sempre più autoritario. Una crociata contro il mondo esterno, ma più spesso contro quello interno, per zittire qualsiasi tipo di opposizione» (4). Una crociata che, com’è noto, trova entusiastici consensi tanto nella “sinistra” assetata di rivincite politiche dopo i durissimi colpi ricevuti nell’89’ quanto nella “destra” affascinata dall’uomo forte desideroso di ripristinare i vecchi e cari valori della tradizione cristiana. Giorgia Meloni e Matteo Salvini ne sanno qualcosa, anche se oggi sono costretti per i motivi che sappiamo a girare le spalle al difensore dei valori cari agli amanti dell’ordine, della disciplina, della “famiglia tradizionale” e via dicendo.

Scrivevo su un post del marzo 2014: «C’è una componente erotica, intesa freudianamente come investimento libidico, nel fascino che il virile Vladimir Putin esercita anche su tante persone che vivono in Occidente? A me pare che un’interpretazione in chiave psicoanalitica di quel fenomeno sia plausibile e perfino necessaria, e io stesso appiccicando spesso nei miei post al nome del “nuovo Zar” l’aggettivo virile non intendo alludere ad altro. D’altra parte, il personaggio ama a tal segno affettare pose machiste, e si fa portatore di istanze politiche “machisticamente” orientate con tale esibita (muscolare) sfrontatezza, da lasciare supporre che egli sia del tutto cosciente circa la componente libidica del suo successo in larghe fasce dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Scriveva Il Giornale dell’amico Silvio nel 2011: “Il pubblico maschile russo, secondo i sociologi, ancora sogna una mano forte, lo zar insomma. Nel 2012 a salire al Cremlino sarà un macho o un sex symbol?”. Sappiamo com’è andata a finire. […] Per dirla sempre con Freud, “Il padre è ciò che si vorrebbe essere” (Psicologia collettiva e analisi dell’Io).  Forse non pochi sostenitori delle ragioni geopolitiche della Russia, ad esempio a proposito della Siria e dell’Ucraina, vorrebbero essere non come Putin, ma proprio Putin in persona, con tanto di padronanza nelle arti marziali, oltre che nella conduzione della contesa interimperialistica» (Essere Vladimir Putin).

Per il super atlantista Giuliano Ferrara «Trattare ora con Putin significherebbe solo una cosa: la rivincita russa sull’’89. Il rovesciamento dei rapporti di forza sarebbe spettacolare, Europa e Nato riceverebbero un colpo dal quale sarebbe difficilissimo risollevarsi. Si realizzerebbe il sogno del Cremlino sedimentato in due decenni e oltre di potere assoluto e di escalation militari» (Il Foglio, 6/4/2024). Le legittime (dal suo punto di vista) preoccupazioni di Ferrara (a suo tempo “comunista” di rigida osservanza togliattiana, e quindi particolarmente sensibile alla “questione russa”) mettono in bella mostra l’eccezionale portata della posta in gioco nel conflitto russo-ucraino, la cui natura imperialista (da entrambi i fronti in guerra) e la cui dimensione internazionale (5) sono state chiare fin dall’inizio.

(1) Limes, 4/93, pp. 89-94.
(2) «Ieri Putin ha dichiarato che se il prezzo del petrolio si stabilizzasse intorno agli 80 dollari il barile per un lungo periodo l’economia mondiale certamente collasserebbe. Affermando questo il virile leader russo ha inteso esprimere le preoccupazioni che in questi giorni travagliano il suo regime, la cui proiezione esterna e la cui stabilità politica interna hanno molto a che fare con il prezzo delle materie prime: in primis petrolio, gas e carbone. In effetti, la soglia minima del prezzo del greggio sotto la quale salta il cosiddetto equilibrio di bilancio è fissata in Russia intorno ai 104 dollari/barile. Oggi il petrolio russo si vende sul mercato mondiale a 92 dollari/barile. Il bilancio statale russo per il 2014 è stato redatto prevedendo un ricavo medio di 117 dollari il barile. Il bilancio del 2015 prevede ricavi medi di 100 dollari al barile» (Oro nero bollente).
(3) M. Allevato, La Russia moralizzatrice. La crociata del Cremlino per i valori tradizionali, Piemme, 2024.
(4) Ivi.
(5) Chi paventa il rischio di una Terza guerra mondiale forse non si rende del tutto conto che siamo già dentro una guerra di dimensioni  mondiali che ha nel conflitto armato solo uno, certamente il più distruttivo e sanguinoso, dei suoi molteplici aspetti. Si tratta piuttosto di capire in quale modo e in che tempi questa guerra sistemica per il potere totale (economico, tecnoscientifico, ideologico, geopolitico) evolverà, quali nuovi aspetti assumerà la competizione interimperialistica nel prossimo futuro. Se assumiamo questo punto di vista, la vecchia distinzione fra crisi regionali (locali) e crisi internazionali (globali) perde di significato: troppo intrecciati e ingarbugliati sono infatti gli interessi di varia natura che fanno capo alle classi dominanti dei diversi Paesi del mondo; interessi che in qualsiasi momento possono entrare in reciproco contrasto e scatenare conflitti di qualche genere (qui viene in soccorso anche il concetto di “guerra ibrida”) al centro come alla periferia del sistema capitalistico mondiale. D’altra parte, la stessa guerra in Europa non è affatto una novità di questi ultimi anni: è sufficiente ricordare la guerra balcanica degli anni Novanta che fece più di 200mila morti e che ebbe nella dissoluzione della Jugoslavia il suo risultato più eclatante. Allora la Federazione Russa, alleata della Serbia ma corrosa da una gravissima crisi economica, non fu in grado di reagire prontamente contro l’attivismo occidentale. Ma di certo una parte della società russa non rimase indifferente: «In Russia, la questione serba è già diventata un problema interno. Le delegazioni di nazionalpatrioti che si susseguono in Serbia per stringere la mano a Milošević non si accontentano di uno scambio di esperienze con i loro compagni serbi; l’esempio di un regime che non esclude la possibilità di una guerra negli Stati vicini in nome della difesa dei serbi può essere contagioso» (L. Telen’, Le lezioni delle sanzioni, Moskovskie Novosti, n. 48, 29/12/1992). Diciamo pure che per Putin l’esempio serbo non è stato insignificante, tutt’altro.

LA SCONFITTA DEL PROPRIO PAESE NELLA GUERRA IMPERIALISTICA

CANNONI CONTRO BURRO. A DUE ANNI DALL’INVASIONE RUSSA DELL’UCRAINA

SULLA COSIDDETTA AMBIGUITÀ STRATEGICA

MISERIA DELLA FILOSOFA

DALLA “NEUTRALITÀ BENEVOLA” ALLO “STATO DI BELLIGERANZA”. OVVIAMENTE CON LA COPERTURA DELL’ART. 11 DELLA COSTITUZIONE

Nella lotta contro la guerra il pacifismo italiano si ostina a puntare le sue carte migliori sul mitico Art. 11 della Costituzione Italiana, e con ciò stesso questo movimento politico rivela la sua natura di classe: borghese – aggettivo che va sempre “declinato” in termini storici e sociali, e non volgarmente sociologici. Sia chiaro, il problema qui affrontato è di carattere squisitamente politico, e non astrattamente dottrinario. Del resto, è tipico del pensiero borghese non cogliere il nesso strettissimo che stringe la prassi politica alla teoria.

Intanto dobbiamo dire, come premesse a ogni discorso, che stiamo parlando non di un’astratta Carta Costituzionale ma di una Costituzione borghese, capitalistica, e non a caso all’Art. 1 di essa compare il lavoro (salariato, e quindi sfruttato, mercificato, alienato, reificato, disumanizzato) come fondamento della Repubblica sorta sulle ceneri del regime fascista sconfitto negli anni Quaranta del secolo scorso dall’imperialismo anglo-americano – con la cosiddetta Resistenza come suo utile supporto politico-militare. L’Art. 11 registra appunto la situazione storica determinatasi nel corso della Seconda guerra imperialistica mondiale: l’Italia è una nazione vinta che è costretta a dichiarare di ripudiare la guerra di aggressione, e di mettersi al servizio della potenza dominante (gli Stati Uniti d’America) e del sistema geopolitico internazionale scaturito dal conflitto (vedi in primo luogo l’Organizzazione delle Nazioni Unite).  È per questo che l’Italia non è un Paese neutrale come la Svizzera o come l’Austria, tanto per fare un esempio a noi geograficamente vicino.

Non si tratta dunque per l’Italia di un ripudio di principio, di una scelta etica, com’è naturale che sia nell’ambito del capitalismo mondiale, ma di un’accettazione del ruolo che le ha assegnato il sistema imperialistico mondiale in quanto potenza sconfitta. Analoghi articoli “pacifisti” si trovano non a caso nelle Costituzioni di Germania (Art. 26) e Giappone (Art. 9), le potenze sconfitte dichiarate aggressive dalle potenze vincitrici: com’è noto, la storia è scritta dai vincenti, i quali da che mondo è mondo amano farsi chiamare liberatori dai perdenti. È questo il fondamento storico di quelle che il filosofo del Diritto Mario Giuseppe Losano definì, con scarso senso storico e politico, «Le tre Costituzioni pacifiste».

Dopo la prima missione militare all’estero in Libano (1982-84), l’Italia «ha continuato a partecipare ad operazioni militari internazionali, inviando propri contingenti. I profili giuridici ed economici della partecipazione dei militari italiani a tali missioni sono stati disciplinati prioritariamente attraverso il ricorso a decreti legge, motivati dalla necessità ed urgenza degli interventi stessi. Con tali atti, generalmente collegati dalla dottrina costituzionale all’articolo 11 della Costituzione, nella parte che prevede che l’Italia “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali” rivolte allo scopo di assicurare la pace fra le Nazioni, si risponde all’esigenza di garantire, in attuazione di impegni assunti a livello internazionale, la partecipazione italiana ad operazioni per il mantenimento della pace e dell’ordine pubblico in aree caratterizzate da fenomeni di instabilità e di crisi» (1). Dal 1982 è andato crescendo il richiamo dei Governi agli obblighi internazionali dell’Italia come copertura “costituzionale” alla crescente proiezione internazionale dell’imperialismo italiano.

Per Cesare Mirabelli, Presidente emerito della Consulta, «Quanto scritto nell’articolo 11 ha il carattere di un’enunciazione generale e va letto come il ripudio della guerra di aggressione o intesa come uno strumento di soluzione delle controversie internazionali. Ma per la Carta la guerra esiste. Può essere deliberata dal Parlamento e proclamata dal presidente della Repubblica. La Carta non nega la possibilità della guerra di difesa, ma indica la via maestra della diplomazia come soluzione dei conflitti internazionali» (Reseconto Senato). E chi decide del carattere, offensivo oppure aggressivo, di una guerra? Ovviamente la classe dirigente del Paese, la quale è al servizio della classe dominante, o anche solo della sua frazione contingentemente in grado di dettare la linea politica al governo pro tempore. Dal 1914 in poi, ogni nazione giura di essere dentro il conflitto armato non per aggredire altre nazioni, ci mancherebbe altro, ma per difendersi dalle nazioni nemiche: i cattivi, gli imperialisti, gli oscurantisti, i nemici della pace, della libertà e della Civiltà sono sempre gli altri.

L’Art. 11 non vieta dunque di muovere guerra contro i cattivi di turno, per andare in soccorso dei più deboli, per difendere il diritto internazionale, per ripristinare la pace, e altre giustificazioni propagandistiche di analogo significato. «Alla guerra del Kosovo abbiamo partecipato senza preoccuparci della copertura Onu. Si scatenò allora un balletto semantico che ci accompagna in ogni missione delicata. L’essenziale è non chiamare le cose con il loro nome. Mai dire guerra» (Limes, 3/2007). Si fa ma non si dice, un classico dell’italica moralità.

Scriveva qualche tempo fa Edoardo Frosini, ordinario di diritto costituzionale nell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, sul Sole 24 ore: «L’articolo 11 della Costituzione, non prevede un no generico alla guerra, la ripudia come offesa, e va letto insieme all’articolo 10, secondo il quale “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. L’Italia non è la Svizzera, e lo ha dimostrato in passato, inviando non solo armi ma uomini la cui vita era a rischio, in quelle che, in maniera molto soft, erano definite missioni di peacekeeping». Non si tratta di “manierismo” ma di normale propaganda intesa a mistificare il significato di un’azione politica. Tutto qui. Come sempre si tratta di punti di vista, ossia di interessi economici e strategici in gioco: ciò che per un Paese è una «missione di peacekeeping», per un altro Paese equivale invece a un’operazione bellica dall’evidente significato aggressivo, e schierarsi dalla parte dell’uno o dell’altro significa porsi dal punto di vista delle classi dominanti, significa assumere come propria la logica degli interessi nazionali, che per le classi subalterne è sempre e invariabilmente una logica mortifera, spesso non solo in senso metaforico.

C’è anche da dire che il concetto di male necessario, che parla anche alla sensibilità della Chiesa Cattolica, copre una vasta gamma di iniziative (inviare armi, inviare soldati, imporre obblighi e sanzioni, e così via) e viene opportunamente in soccorso delle classi dirigenti nei momenti politicamente più delicati. Si può ad esempio dire che inviare armi in Ucraina è certamente un male, perché sempre di strumenti di morte si tratta, per poi concludere sulla natura necessitata di quell’azione: «Bisogna aiutare l’aggredito a difendersi dall’aggressore». Si tratta di una “classica” tesi che personalmente non condivido per i motivi che ho cercato di chiarire in diversi scritti, ai quali rimando.

Definire dunque “pacifista” la Costituzione Italiana sulla scorta del mitico Art. 11, come fanno i pacifisti, significa non aver compreso la storia degli ultimi 79 anni, dalla fine del Secondo conflitto imperialista, che ha visto l’Italia nei panni di un  Paese sconfitto e integrato nell’alleanza imperialista a guida statunitense, a oggi. Impugnare quell’articolo per combattere il crescente militarismo e la preparazione della guerra significa impugnare un’inutile carta straccia, significa arrampicarsi sugli specchi della legalità borghese, significa manifestare la propria impotenza e la propria subalternità nei confronti della classe dominante di questo Paese e del sistema imperialistico di cui è parte – dall’Unione Europea alla Nato.  

Detto en passant, fu l’allora Presedente Cossiga a porre come una questione della massima urgenza il superamento delle ambiguità e dei limiti contenute nella Carta Costituzione circa i poteri spettanti ai diversi organi dello Stato in caso di stato di guerra. Nel nuovo “ordine mondiale” creato dal crollo dell’Unione Sovietica e dalla fine della Guerra Fredda, Cossiga avvertiva il bisogno di fare chiarezza su certi delicati “dossier” che sarebbe stato inopportuno continuare a trascurare come se nulla nel mondo fosse cambiato. «Con l’Art. 11 possiamo fare tutto e il contrario di tutto. E poi, chi comanda in caso di guerra?» Com’è noto, le scottanti questioni sollevate dal “picconatore” non riscossero molto successo presso la classe dirigente del Paese, la quale peraltro non nascondeva il proprio desiderio di potersi sbarazzare quanto prima di un personaggio diventato troppo ingombrante e ingestibile.

Come ricordava poco tempo fa l’ex Presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato, «È la stessa Costituzione che prevede, in altri articoli, che l’Italia possa trovarsi in stato di guerra». Non dobbiamo poi dimenticare che «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», come recita l’Art. 52 della Costituzione «più bella del mondo», la quale all’Art. 54 prescrive a «Tutti i cittadini il dovere di essere fedeli alla Repubblica». E come si realizza «la difesa della Patria» nei diversi contesti geopolitici e nelle differenti fasi del confronto interimperialistico è cosa che spetta precisare alla classe dirigente di un Paese. Difendere la Patria può anche significare difenderne gli interessi economici e strategici? Non c’è dubbio, e lo stiamo vedendo a proposito dell’intervento militare italiano nel Mar Rosso, che ha proprio nella difesa degli interessi economici e strategici dell’imperialismo italiano il suo dichiarato obiettivo. 

Secondo il Ministro degli Esteri Antonio Tajani, per l’Italia il Mar Rosso è di vitale importanza economica. E ha ragione: pensiamo alla relazione logistica che stringe lo Stretto di Suez ai porti di Genova, La Spezia, Trieste e Gioia Tauro. «Un “numero” su tutti è però da evidenziare: 154 miliardi di euro è l’ammontare dell’import export italiano che nel 2022 è passato per Suez, una cifra “monstre” che vale il 40% di tutto il nostro interscambio marittimo. È, quindi, immaginabile la dimensione del disagio che i nostri scali potrebbero subire in caso di persistenza del fenomeno» (Aspenia).

Tocca ai giuristi affaticarsi per mettere insieme acciarpature storiche e cavilli giuridici che possano in qualche modo giustificare e legittimare le decisioni assunte dai Paesi di cui sono servitori – cioè al servizio: lungi da chi scrive l’intenzione di offendere la scienza giuridica! Ecco un esempio di quanto appena scritto:

«Il superamento dell’imparzialità significa anche che gli stati sono oggi autorizzati a fornire armi o altro supporto all’Ucraina. Ciò non viola alcun obbligo legale di neutralità. Gli stati diventerebbero parti del conflitto armato internazionale tra Russia e Ucraina solo se ricorressero alla forza armata contro la Federazione russa. In effetti, semmai, fornire assistenza all’Ucraina potrebbe venire giustificato come aiuto per l’ordine legale internazionale consentendo all’Ucraina di difendersi da una guerra di aggressione. Quindi nel nostro caso si dovrebbe concludere che non esercitando la forza ma limitandoci all’invio di aiuti non si diviene parte (cobelligerante). L’Italia si troverebbe piuttosto in uno status di ‘non belligeranza’, situazione ibrida in cui si assiste una delle parti uscendo dalla neutralità, senza entrare nel conflitto. In tal senso il Paese sarebbe collocabile in una posizione intermedia fra neutralità e belligeranza. Si viene così a definire la non belligeranza come un terzo status, intermedio tra la neutralità e la belligeranza assunto dallo stato che, non partecipando direttamente al conflitto, decide di favorire una delle parti in guerra. Quindi occorre confermare che nel ripudio dell’articolo 11 non è incluso un obbligo rigido di neutralità ma soltanto un principio tradizionalmente vigente per il diritto internazionale recepito tramite l’articolo 10, sottoponibile a deroga di volta in volta dagli organi costituzionali secondo criteri di discrezionalità politica.  Nell’accogliere questa lettura dell’attuale stato della posizione italiana nel conflitto in corso non può che riprendersi la posizione della dottrina internazionalistica che ha fatto dubitare della netta alternativa tra stati belligeranti e stati neutrali individuando la categoria della non belligeranza come una forma di neutralità qualificata» (2).

Neutralità benevola o qualificata: non ci sono limiti di logica che si possono imporre all’intelligenza della scienza giuridica, la quale ne sa una più del Diavolo! Chi scrive non può mettere in campo alcun tipo di scienza sociale né di logica, e quindi non può che ripetere quanto sostenuto in altri scritti dedicati al tema: l’Italia è in guerra contro la Russia (e potenzialmente contro i suoi alleati) e contro gli Houthi (e potenzialmente contro i suoi alleati).  Il confine fra non belligeranza e belligeranza è stato ampiamente superato: si tratta di uno stato di belligeranza fattuale che sta conoscendo un’evoluzione interna, un susseguirsi di fasi, e il cui ulteriore sviluppo dipenderà dal maturare di eventi che oggi possiamo solo ipotizzare come possibili o addirittura inevitabili – salvo poi ricrederci. In ogni caso la risposta giusta, per l’anticapitalista, per l’internazionalista, per l’antimperialista, non si trova nella Costituzione Italiana, com’è ovvio, né nel pacifismo borghese, il quale non solo nasconde agli occhi della “gente comune” le cause reali dei conflitti armati, ma concorre grandemente a ostacolare l’emergere di una reale lotta alla militarizzazione della società (a cominciare dalle teste delle persone) e alla preparazione di una guerra ancora più estesa e micidiale di quella che già ci sta davanti.

Qui è il caso di precisare, per concludere e per evitare antipatici equivoci, che dichiararsi ostili nei confronti del pacifismo politico di matrice borghese (e piccolo-borghese) non significa in alcun modo disconoscere o, ancor meno, disprezzare i sentimenti di pace che spontaneamente si fanno strada nella coscienza delle masse, predestinate a diventare carne da macello in caso di conflitto armato e che comunque ne pagano il costo, anche economico, molto più degli altri. È anzi su questi sentimenti che occorre far leva per rendere possibile la nascita di un vasto movimento antibellico. Per chi si batte contro il militarismo in tutti i suoi aspetti, il nemico principale è rappresentato piuttosto dalla passività delle masse, una condizione ideale per chi intende radicalizzarle in chiave nazionalista e bellicista.

(1) L’Italia e le missioni internazionali, Servizio studi della Camera dei Deputati, 28/4/2006. (2) G. de Vergottini, professore emerito di diritto costituzionale, all’Università di Bologna, Ripudio della guerra e neutralità alla luce dell’articolo 11, Federalismi, Rivista di Diritto pubblico italiano, comparato, europeo, 13 marzo 2024, pp. 9-10.

LA SCONFITTA DEL PROPRIO PAESE NELLA GUERRA IMPERIALISTICA

CANNONI CONTRO BURRO. A DUE ANNI DALL’INVASIONE RUSSA DELL’UCRAINA

SULLA COSIDDETTA AMBIGUITÀ STRATEGICA

MISERIA DELLA FILOSOFA

 LA STRINGENTE LOGICA DI ANTONIO TAJANI