GROSSI GUAI PER MISTER BIDEN

Manganelli, pallottole di gomma, gas lacrimogeni, spray urticanti, cannoni ad acqua, cariche della polizia sempre più violente e arresti (più di mille studenti, poi rilasciati): quando c’è da reprimere un movimento politico e sociale che crea «caos e disagi per i pacifici cittadini», il governo democratico e progressista degli Stati Uniti non è secondo a nessuno, non teme il confronto con altri regimi del mondo, compresi quelli di Russia e Cina. Raggiungere lo standard repressivo dell’Iran è invece più difficile, ma con un po’ di impegno e con la giusta motivazione anche l’imperialismo Usa è in grado di competere con i macellai del regime iraniano.

Nonostante la repressione e la criminalizzazione continuano le manifestazioni pro-palestinesi e anti-Israele che da diverse settimane impazzano in moltissime (più di cento) università statunitensi, pubbliche e private, alcune delle quali molto prestigiose: Harvard, Columbia, Berkeley. Le proteste degli studenti irritano il governo americano anche, se non soprattutto, perché i “ribelli” appartengono alla sinistra del Partito Democratico e rappresentano la futura classe dirigente del Paese: «Cosa è andato storto?», si chiedono oggi a Washington, come del resto se lo chiesero durante la guerra in Vietnam. Moltissimi militanti del movimento contro la guerra (Peace and Love!) di allora andarono a rivitalizzare una classe dirigente che non riusciva più a tenere il passo delle trasformazioni sociali. Vedremo che fine faranno i contestatori di oggi.

Dice il Presidente Biden: «Il dissenso è essenziale per la democrazia ma non deve mai condurre al disordine». Sono i limiti della democrazia capitalistica, bellezza! I confini tra “dissenso” tollerabile e anzi desiderato in quanto espressione di una società civile politicamente attiva e fiduciosa nella democrazia, e “dissenso” non tollerabile perché spezza l’ordine varia naturalmente con la natura del “dissenso” e con le condizioni generali della società: quello che oggi è tollerato domani potrebbe non esserlo più.

Per il Presidente non sono giorni facili, considerato che nelle ultime Presidenziali (2020) una parte molto consistente del voto giovanile preferì lui all’ex Presidente Trump. Secondo gli ultimi sondaggi Trump otterrebbe la metà del voto giovanile. Biden sta cercando di riconquistare “i cuori e le menti” dei giovani studenti, ad esempio annunciando «la cancellazione di debiti studenteschi pari a 1,2 miliardi di dollari, favorendo i redditi più bassi. Inoltre, a differenza di Trump che ha definito il riscaldamento globale una bufala, Biden ha aderito all’accordo di Parigi che impegna i firmatari a limitare la crescita della temperatura media globale» (Notizie Geopolitiche). Donald Trump vorrebbe invece rilanciare in grande stile l’industria legata all’estrazione del petrolio – oltre che gli Accordi di Abramo del 2020, le trattative tra Israele e l’Arabia Saudita e la politica delle sanzioni contro l’Iran. Trump sa bene che gran parte dei giovani mobilitati contro la guerra a Gaza non lo voterà mai, ma per lui è sufficiente che quei giovani elettori manifestino la loro delusione nei confronti di Biden rifugiandosi nell’astensione.

L’accusa di antisemitismo rivolta ai manifestanti presi in blocco, vale meno di zero (*), e quei pochissimi studenti e insegnanti che in effetti mescolano insieme antisionismo e antisemitismo, magari perché appoggiano acriticamente i nazi-islamisti di Hamas o perché non sanno (o non vogliono?) distinguere gli ebrei, anche quelli che hanno la ventura di vivere in Israele, dalla classe dirigente israeliana, non fanno che agevolare la calunnia governativa intesa a criminalizzare il dissenso. Anche il complottismo è stato mobilitato contro gli studenti e i professori “ribelli”, e molti politici di entrambi gli schieramenti politici invitano l’opinione pubblica americana a chiedersi se per caso dietro le proteste nei campus universitari non vi sia l’azione maligna di qualche “grande vecchio” – tipo Soros, che non manca mai nelle narrazioni a carattere complottista – o di qualche potenza nemica.

Per quanto riguarda la strumentale quanto falsa accusa di antisemitismo rivolta alla generalità del movimento contro il massacro dei palestinesi concentrati a Gaza (e non a singoli e isolati episodi), c’è da dire che una parte consistente della comunità ebraica americana si è subito schierata a favore di quel movimento, costituendone anzi l’ala politicamente più attiva e radicale. I giovani della Jewish Voice for Peace indossano magliette con la scritta Not in Our Name. E questo pur continuando a esprimere la loro solidarietà allo Stato di Israele – ma non al governo Netanyahu, che invece detestano con tutte le loro forze, come del resto capita a una larga parte dell’opinione pubblica israeliana.

La guerra che il governo israeliano sta conducendo contro i palestinesi (non solo e non tanto contro Hamas) con il sostegno politico, finanziario e militare degli Stati Uniti ha esacerbato un disagio e un senso di frustrazione che ormai cova da anni dentro le università americane, e ha radicalizzato uno scontro politico-ideologico molto diffuso in tutta la società americana, sempre più divisa e disgregata al suo interno, e la polarizzazione politico-ideologica che vediamo anche nei campus universitari non fa che esprimere un dato di fatto. Su questo punto cercherò di ritornare quanto prima.    

Leggo sul Manifesto: «Sventolare oggi la bandiera palestinese è sempre più parte della difesa del diritto internazionale, è contro la guerra, è per una vera pace». Questo può scriverlo solo chi crede nel diritto internazionale, che è diritto borghese all’ennesima potenza, chi crede nell’Onu, «un covo di briganti imperialisti», per dirla con Lenin, nel cui seno non si muove foglia che l’Imperialismo (delle grandi potenze: Usa e Cina in primis) non voglia e, dulcis in fundo, chi crede nella “pace” capitalistica, la quale prepara le condizioni che rendono possibili i conflitti armati. Per questo l’anticapitalista non sventola nessuna bandiera nazionale, mentre agita una sola metaforica bandiera: quella dell’autonomia di classe, la sola posizione politica che può consentire ai nullatenenti di tutto il mondo di non farsi usare dalle classi dominanti e di mantenere una posizione critica, indipendente e non subalterna nei confronti di tutte le cause che non sono riconducibili a quella della lotta di classe, dell’anticapitalismo, dell’internazionalismo. È da questa prospettiva che personalmente esprimo, sempre per quel pochissimo che vale, la mia solidarietà umana e politica ai nullatenenti palestinesi e ucraini.

(*) Su questo punto Giuliano Ferrara e Federico Rampini la pensano in maniera affatto diversa. Secondo il primo, «La passione acceca i giovani universitari, che minacciano la convenzione democratica di Chicago e la rielezione di Biden contro Trump. E non vedonoOdessa sotto le bombe e le atrocità di Hamas». Per Ferrara lo studente pro Hamas è una «strana bestia»; giudicarlo però è facile, perché sta dalla parte sbagliata, cioè dei carnefici, degli antisemiti, dei misogini. «Lo studente pro Hamas sta dalla parte sbagliata della storia, come i fascisti repubblichini sconfitti dagli angloamericani, dalla brigata ebraica, dai partigiani il 25 aprile del 1945. Meno facile è comprenderlo, anche se alla fine si capisce che si tratta di uno che si odia. Per quella cultura che deriva dall’ignoranza, si detesta. Ha frequentato corsi di antirazzismo, anticolonialismo, antispecismo, antiumanesimo ecologista, vive immerso in un brodo genderista, fanatico e bollente, dove sono maltrattati Shakespeare e altri geni del canone; pensa l’occidente come il luogo della vittimizzazione del diverso, della grande carneficina ai danni del povero, dell’escluso, e difende come un safe space, un luogo sicuro, perfino ormai l’antisemitismo modello Columbia University» ( Il Foglio).

Scrive invece Federico Rampini: «”In quanto nipote di un sopravvissuto di Auschwitz e studente di storia degli ebrei in Germania, ho sempre fatto fatica a credere che un popolo di alta cultura come i tedeschi, la nazione di Goethe e di Beethoven, potesse mostrare simpatia e perfino entusiasmo per lo sterminio nazista degli ebrei. Ora ci credo. L’ho visto succedere qui”. Chi scrive si firma J.J. Kimche, in una lettera aperta ad alcuni quotidiani americani e alle sue autorità accademiche. È un dottorando in storia ebraica a Harvard. Il “qui” a cui si riferisce è appunto la più prestigiosa di tutte le università americane. Ne sono usciti ben otto presidenti degli Stati Uniti, inclusi i due Roosevelt, John Kennedy e Barack Obama. Harvard ha anche il record di Premi Nobel: cinquanta. In questo tempio del sapere – con rette da settantamila dollari annui – trenta associazioni studentesche hanno firmato un documento che legittima il terrorismo di Hamas, non spende una sola parola per condannare le sue stragi (incluse le uccisioni di bambini), anzi proclama che “il regime israeliano è l’unico responsabile per la violenza”. […] Il caso-Harvard non è isolato. A Berkeley, California, un documento di «sostegno incondizionato» ad Hamas e non una parola di cordoglio per le sue vittime – ha riunito cinquanta associazioni studentesche. Alla Columbia University di New York un gruppo di iscritti ha festeggiato il massacro di civili come una “storica controffensiva”.Episodi analoghi sono accaduti in altre università di élite sulle due coste degli Stati Uniti. Non dovremmo sottovalutarli. È importante riflettere su quello che sta accadendo nelle più prestigiose facoltà americane (e in parecchi atenei europei). La vastità del consenso pro-Hamas, con punte di aperto antisemitismo e una totale assenza di condanna per le stragi di civili israeliani, ha sorpreso solo chi non conosca il clima ideologico che regna in quei campus» (Il Corriere della Sera).

SUL CONCETTO DI ANTISIONISMO

IL FENTANYL E LA DOLOROSA CONDIZIONE UMANA

CONTINUA LA GUERRA DI STERMINIO CONTRO I PALESTINESI

LA MACABRA FARSA SULLA PELLE DEI PALESTINESI – E NON SOLO

PRIMO LEVI CRITICO DI ISRAELE

LA DIALETTICA DELLO STERMINIO SECONDO HABERMAS

IL PUNTO SULLA CATASTROFE

OPERAZIONE CHIRURGICA…     

QUALCHE RIFLESSIONE SU HAMAS

LA QUESTIONE PALESTINESE DOPO IL 7 OTTOBRE

A GAZA COME IN UCRAINA E IN OGNI ALTRA PARTE DEL MONDO, LA GUERRA È TERRORISMO ORGANIZZATO E GENERALIZZATO

CONTRO LO STATO IMPERIALISTA ISRAELIANO E CONTRO HAMAS, PEDINA NELLO SCONTRO INTERIMPERIALISTICO


SUL CONCETTO DI DEMOCRAZIA CAPITALISTICA

Così come non si dà un modo di produzione e distribuzione della ricchezza sociale, cioè dei prodotti del lavoro, che non abbia peculiari connotati storici, che non sia cioè informata da precisi e ben individuabili rapporti sociali, allo stesso modo non possiamo riferirci alla democrazia in termini astratti, astorici. Pensare che il termine democrazia si possa “calare” senz’altro nella realtà dell’antica Grecia come in quella della moderna società borghese significa pensare male, per non dir di peggio. Oggi, nell’epoca imperialista del dominio borghese, la democrazia è una delle diverse forme che può assumere, nelle differenti congiunture storico-sociali e nei diversi Paesi del mondo, il dominio totalitario dei rapporti sociali capitalistici. La democrazia ateniese e la democrazia capitalistica, com’è giusto chiamare la “democrazia” dei nostri tempi, hanno tuttavia un fondamentale punto in comune: entrambe sono l’espressione politica, ideologica e istituzionale di una società divisa in classi, di una realtà conflittuale che vede dominanti e dominati disputarsi i prodotti del lavoro e il potere sociale. Come scriveva Arthur Rosenberg nel suo saggio del 1921 sulla democrazia ateniese ai tempi di Pericle, i cittadini «nullatenenti, nonostante la loro formale uguaglianza di diritti, risultavano di fatto esclusi anche dall’amministrazione della giustizia, così come lo erano dall’attività politica» (Democrazia e lotta di classe nell’antichità). Per non parlare del destino assai più triste riservato agli schiavi e ai servi. La discrepanza, per dir così, tra forma e sostanza, tra uguaglianza formale dei cittadini e la loro reale differenziazione sociale in “ricchi” e “poveri”, possidenti e nullatenenti, sfruttatori e sfruttati, rappresenta un connotato fondamentale della democrazia “pura”.

Democrazia è sinonimo insomma di antagonismo sociale, di conflitto sociale e, appunto, di dittatura di peculiari rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. È quindi storicamente fondato caratterizzare la «società civile» nei termini di un campo di battaglia tra le diverse classi sociali, come il regno del «bellum omnium contra omnes», come hanno fatto, sebbene da diverse prospettive concettuali e storiche, Hobbes, Hegel e Marx. Lo stesso conflitto armato tra gli Stati si spiega con la natura sociale del regime capitalistico qui rapidamente schizzata, e non va dunque contrapposto alla democrazia o allo Stato di diritto, come fanno quelli che non comprendono che «il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nello Stato di diritto» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica).  

Ovviamente gli apologeti della democrazia capitalistica non vedono il fondamento totalitario, dittatoriale, di questa peculiare forma politico-istituzionale di esercitare il potere politico per conto delle classi dominanti, ed è per questo che i loro discorsi intorno alla libertà e alla responsabilità degli individui sono, oltre che apologetici, del tutto vuoti di reali contenuti, di sostanza storica, sociale e politica. Ci troviamo cioè sul terreno della mera ideologia, nell’accezione marxiana del concetto: falsa coscienza e capovolgimento/travisamento della realtà: la forma domina sulla sostanza.

Quando si riflette seriamente sui concetti di democrazia e di dittatura, i quali a uno sguardo superficiale (e ideologico) sembrano essere separati da un abisso, non bisogna dunque dimenticare di prendere in considerazione l’essenziale, ossia la loro comune natura sociale, il loro essere facce di una stessa medaglia, differenti espressioni dello stesso potere sociale. È questo che ha reso possibile nel tempo una combinazione, più o meno stabile ed eclettica, di quelle due forme politico-istituzionali, il trapasso più o meno pacifico da una forma all’altra, com’è avvenuto ad esempio in Italia con il passaggio dalla Stato liberale a quello fascista, e da quest’ultimo allo Stato post-fascista, che peraltro del primo ha conservato molto tanto sul piano della “struttura” economica, quanto su quello della “sovrastruttura” politica e giuridica. Ci troviamo insomma dinanzi a varianti dello Stato capitalistico, che solo una concezione liberale piccolo-borghese trova corretto porre in netta e irriducibile reciproca antitesi. Che idea ridicola (antistorica, adialettica, superficiale), oltre che ultrareazionaria – perché tende a mobilitare “il popolo” a favore di una delle fazioni borghesi che si contendono la leadership politica del Paese.

Mutuando Marx (La guerra civile in Francia, 1871), possiamo senz’altro affermare che il suffragio universale serve a decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dirigente, espressione delle classi dominanti, deve mal rappresentare “il popolo” nel parlamento. Di qui la sua polemica nei confronti del cretinismo parlamentare, la concezione che crede possibile l’emancipazione delle classi subalterne attraverso la prassi democratico-parlamentare, e non invece attraverso «lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le circostanze e gli uomini». Inutile precisare che il passo marxiano appena citato rinvia direttamente ai concetti di lotta di classe, di rivoluzione sociale anticapitalista e di potere rivoluzionario del proletariato. Al contrario del liberale, che può anche riconosce l’esistenza della lotta di classe, l’anticapitalista si sforza di portare questa innegabile realtà alle sue estreme e coerenti conseguenze – quantomeno sul terreno della riflessione politica, che comunque ha un’importanza decisiva quando si ha la possibilità di dare un contenuto “pratico” alla teoria.

Parlare astrattamente di democrazia in una società classista è concesso solo agli «spregevoli sicofanti al servizio della borghesia» (Lenin), i quali hanno tutto l’interesse a celare la vera natura dello Stato rappresentativo: strumento dell’oppressione sociale (economica, politica, ideologica, psicologica) delle classi subalterne da parte delle classi dominanti. Come non mi stanco di ripetere, la Costituzione italiana, dichiarando già nel suo primo Articolo che la Repubblica si fonda sul lavoro (salariato, cioè sfruttato e mercificato), confessa suo malgrado la natura di classe della democrazia italiana, dello Stato italiano. Solo una classe subalterna completamente priva di coscienza di classe accetta la forma democratica del dominio capitalistico come l’espressine del migliore dei mondi possibili, ed è per questo che l’anticapitalista fa di tutto per combattere questa convinzione che fa di chi vive di lavoro uno schiavo impotente e senza speranza. Qui è solo il caso di ricordare, a proposito dell’evocato Art. 1, che il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù e di una schiavitù che diventa sempre più intollerante nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali, tanto se l’operaio riceve paghe migliori, tanto se ne riceve di peggiori» (K. Marx, Critica del programma di Gotha, 1875).

La dura polemica con chi combatte le misure autoritarie e repressive dei governi che si succedono nel tempo, di “destra”, di “centro” o di “sinistra” che siano, rivendicando il ripristino della “vera democrazia”, dei “valori democratici sanciti dalla Costituzione (capitalistica) più bella del mondo” (sic!), è al centro della lotta politica demistificatrice cui si accennava sopra e che ha come obiettivo la costruzione dell’autonomia di classe del proletariato, la nascita di un punto di vista autenticamente anticapitalista. 

 

ASPETTANDO IL 25 APRILE

ASTENSIONISMO E ANTIPARLAMENTARISMO

PENSARE IL POTERE POLITICO RIVOLUZIONARIO NEL XXI SECOLO

L’INGRANAGGIO DEL DOMINIO

DIALETTICA DELLA PAURA

STATO DI DIRITTO E DEMOCRAZIA TRA MITO E REALTÁ

SULLA CRISI DELLA DEMOCRAZIA

LA “BELLA POLITICA”, DA PERICLE A PIPERNO.

ROMA E MOSCA SI DISPUTANO LA LIBIA?

Riempire di contenuti il cosiddetto Piano Mattei, che rimane ancora una scatola vuota utile solo sul terreno propagandistico per usi interni ed internazionali; mettere un ulteriore freno ai flussi migratori, soprattutto in vista della prossima tornata elettorale europea e della stagione estiva; contenere la presenza russa: questi sono i punti più significativi dell’agenda che Giorgia Meloni ha preparato per il suo viaggio in Libia.

Soprattutto l’ultima questione appare di notevole significato, visto che chiama in causa il crescente conflitto di interessi tra l’Italia e la Russia. Roma teme che la Cirenaica possa diventare la base logistica della Russia nel Mediterraneo. «Un processo che in realtà è già partito, visto che navi e aerei russi stanno arrivando per portare armi e istruttori militari – e soldati dell’Africa Corps – che transitano poi nel deserto e, infine, nel Sudan e in Sahel. Una novità che destabilizza l’area e preoccupa gli Stati Uniti». Dallo scorso febbraio a Roma si parla con insistenza di una possibile base per sottomarini nucleari russi che Mosca vorrebbe costruire nella Libia orientale. Si tratta di una notizia uscita su The Times il 30 gennaio e poi ripresa anche dai siti libici. Il Ministro Crosetto negli ultimi mesi ha denunciato l’attivismo della flotta navale russa nel Mediterraneo, sottolineandone la postura aggressiva ai limiti della provocazione. Occorre monitorare la situazione da molto vicino, e sempre con un occhio fisso all’Ucraina.

Le ambizioni dell’imperialismo italiano sono sintetizzate da Gabriele Checchia, già ambasciatore in Libano: «L’Italia è punta di lancia d’Europa nel continente africano. Con il Piano Mattei sosterremo l’area del Sahel, dopo il passo indietro francese. La visita porta in grembo il ritrovato peso dell’Italia nello scacchiere mediterraneo, con iniziative di alta visibilità e ripetute missioni in Paesi per noi partner strategici, penso ad Algeria, Egitto, Tunisia, Libia, Libano e Marocco» (Formiche.net). Si tratta di ambizioni destinate ad avere a che fare, in primo luogo, con gli interessi di Cina, Russia e Turchia. Staremo a vedere, tifando sempre contro l’imperialismo mondiale nel suo complesso, e contro l’imperialismo italiano in particolare.

IL “PIANO MATTEI” E LA “GRANDEUR” FRANCESE

STRISCIA DI GAZA E IMPERIALISMO A SEI ZAMPE

 QUEL CHE RESTA DELL’AFRICA “FRANCESE”

TUTTE LE STRADE DELL’IMPERIALISMO PORTANO IN AFRICA

SUDAN. TANTA MISERIA E TANTI AFFARI IN GIOCO – SULLA PELLE DEGLI ULTIMI

ANCHE L’IMPERIALISMO ITALIANO, NEL “SUO PICCOLO”, HA QUALCOSA DA DIRE

DRAGHI, AFFARI E GEOPOLITICA

GROSSI GUAI NEL NOSTRO CORTILE DI CASA
PER UNA STRETTA DI MANO…
SULLA GUERRA PER LA SPARTIZIONE DELLA LIBIA
È FACILE ESSERE “BUONISTI” ACCUSANDO L’IMPERIALISMO DEGLI ALTRI!
DUE PAROLE SUL PERICOLOSISSIMO INTRIGO LIBICO
LIBIA E CONTINUITÀ STORICA
A TRIPOLI, A TRIPOLI!
L’IMPERIALISMO ITALIANO NEL“PARADOSSO AFRICANO”
IL PROFITTO È GRANDE, E L’IMPERIALISMO È IL SUO PROFETA!
TU CHIAMALO SE VUOI, IMPERIALISMO

UN CINESE A PARIGI

Federico Rampini torna oggi a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e, soprattutto, della classe dirigente occidentale su quello che negli ultimi anni è diventato il suo cavallo di battaglia, o chiodo fisso che dir si voglia: la denuncia della sfida strategica, potenzialmente mortale, che il Celeste Imperialismo ha lanciato all’Imperialismo occidentale a trazione statunitense. «La seconda superpotenza militare e tecnologica, la seconda economia mondiale dietro gli Stati Uniti, la prima potenza industriale ed esportatrice del pianeta, nonché un colosso da 1,4 miliardi di abitanti, erede di una civiltà con tremila anni di storia», come il Nostro scriveva sul Corriere sell Sera dello scorso 7 aprile, non solo non mostra alcuna intenzione di voler prestare orecchio alle critiche, di diverso segno, che l’Occidente rivolge alla Cina, ma esibisce un comportamento che sembra ricercare intenzionalmente l’umiliazione dei suoi competitors, i quali peraltro sono lontani dal voler – e poter – creare un fronte comune anticinese. Troppo diversi sono infatti gli interessi che, ad esempio, i Paesi appartenenti all’Unione Europea intessono con Pechino in gelosa autonomia e in reciproca concorrenza, sperando di poter occupare quanto prima lo spazio economico degli altri. «In molte capitali europee la Cina è vista sempre più come minaccia articolata. Ma ci sono divisioni all’interno dell’Europa su quanto velocemente e fino a che punto affrontare le preoccupazioni sulla Cina, sia in campo economico che in materia di sicurezza» (Il Sole 24 Ore).

E così il capitalismo cinese si permette di invadere il mercato europeo con le sue merci e con i suoi servizi (anche quelli che assicurano la sicurezza delle città europee, a cominciare dai loro porti e aeroporti) oltremodo competitivi grazie al basso costo della forza lavoro cinese e alla politica dei sussidi adottata da Pechino. Bruxelles non fa che tuonare contro «le pratiche commerciali sleali» di Pechino, e a questo si aggiungono le accuse di spionaggio contro il Dragone che vengono da Berlino e da Londra. Ma mentre in Europa gli “esperti” discutono di de-risking come valida alternativa al disaccoppiamento tecnologico praticato dagli americani nei confronti della Cina, e denunciano l’irresistibile penetrazione del Celeste Imperialismo (oltre che della Russia Wagneriana) in tutta l’Africa, i singoli Paesi del Vecchio Continente cercano di non perdere una sola occasione per continuare a  fare business con il ricco capitalismo cinese.

Arriviamo così alla lamentele di giornata by Federico Rampini: «Ingombrante e indispensabile, ostile ed essenziale: Xi Jinping torna in Europa cinque anni dopo. Dalla sua ultima visita la relazione tra Est e Ovest ha subito peggioramenti drastici. Per colpa sua. Prima la sua gestione iniziale della pandemia tra bugie e arroganza. Poi l’appoggio a Putin nell’aggressione all’Ucraina, dettato dalla volontà di indebolire l’Occidente. Ma Xi l’ha fatta franca, non ha pagato dei prezzi sostanziali per i danni arrecati all’Europa. Xi incontra Macron e Ursula von der Leyen. Il primo è la voce europea più determinata sul fronte geopolitico, si spinge più avanti di tutti nell’appoggio all’Ucraina. Però non sono all’ordine del giorno sanzioni serie contro Pechino per gli aiuti che fornisce alla Russia. Con la presidente della Commissione il tema sarà anzitutto commerciale. La ripresa dell’economia cinese è tutta trainata dalle esportazioni, è in atto una nuova invasione dei nostri mercati da parte del “made in China” in ogni settore, dai più tradizionali alle tecnologie avanzate, dall’acciaio ai pannelli solari, dalla chimica alle auto elettriche. […] Il boom delle delle esportazioni cinesi consente a Xi di rinviare i conti con i suoi problemi interni e con i suoi errori: crac immobiliare, alta disoccupazione giovanile, calo degli investimenti esteri. Difficoltà in parte legate alla sterzata socialista [sic!] e dirigista impressa dal leader, creando un clima più pesante per l’imprenditoria privata. È un paradosso che Xi debba il rilancio della sua crescita proprio a quell’Occidente di cui teorizza apertamente il declino» (Il Corriere della Sera).

Rampini si chiede se ormai «non sia troppo tardi per ridurre una dipendenza così estrema dell’Europa dalle tecnologie cinesi»: un dubbio lancinante che toglie il sonno a tutti i sinceri anticapitalisti di questo capitalistico mondo!

Intanto il regime cinese ci tiene a farci sapere quanto sia bello, buono e soprattutto facile fare eccellenti affari con la Cina e in Cina: «Il 30 aprile, all’Aeroporto di Nanjing Lukou, il passeggero francese Sahut Antoine ha parlato molto bene del contesto imprenditoriale cinese e delle comode politiche in entrata e in uscita: “Il motivo principale per cui ci piace la Cina è che fare le cose qui è efficiente, conveniente e su larga scala. Tutto ciò che possiamo fare in Cina è sorprendente. Credo che dopo l’attuazione della politica di esenzione dai visti, entrare in Cina sarà più conveniente. Ciò aiuterà tutti a venire in Cina ed esplorare la Cina, stabilendo così connessioni migliori» (Quotidiano del Popolo Online). Purtroppo chi scrive non ha capitali da investire: che peccato!

Ma il Caro Leader cinese ha buone parole anche per la classe operaia! «Il 29 aprile il presidente cinese Xi Jinping ha risposto alla lettera dei lavoratori serbi dell’Acciaieria Zelezara Smederevo, incoraggiandoli a dare nuovi contribuiti all’amicizia fra la Cina e la Serbia. Xi Jinping ha scritto nella sua lettera che, durante la sua visita di Stato in Serbia nel 2016, si è recato all’acciaieria per avere un incontro diretto con i lavoratori e ha percepito profondamente il loro sostegno alla cooperazione reciprocamente vantaggiosa fra Cina e Serbia e le loro aspettative per un futuro migliore della fabbrica. “Dalla vostra lettera ho appreso che, grazie agli sforzi congiunti dei team di gestione dei due Paesi e dei lavoratori dell’acciaieria, quest’ultima ha assunto un nuovo aspetto, fornendo un forte sostegno allo sviluppo della città di Smederevo. Sono molto compiaciuto del fatto che l’acciaieria si sia rapidamente risollevata dopo l’investimento dell’azienda cinese e che abbia garantito posti di lavoro a più di 5.000 dipendenti. Il progresso dell’Acciaieria Zelezara Smederevo è una chiara testimonianza della costruzione congiunta della Belt & Road fra la Cina e la Serbia, nonché un esempio di successo della cooperazione reciprocamente vantaggiosa tra i due Paesi. I lavoratori della fabbrica sono partecipanti, garanti, collaboratori e beneficiari dell’amicizia e della cooperazione fra i due Paesi» (Quotidiano del Popolo Online). Dal capo del Partito Capitalista (lo so, Rampini avrebbe scritto “Comunista”, e con un certo compiacimento) più grande del mondo non potevamo aspettarci parole più coerenti e ispirate da quelle appena riportate.

SUL CONCETTO DI ANTISIONISMO

Sulla Repubblica di oggi Bernard-Henri Lévy scrive che «l’antisionismo è diventato il principale pilastro dell’odierno antisemitismo»; lo stesso concetto si trova nell’intervista che sempre oggi Pier Luigi battista ha rilasciato a Libero. Entrambi attribuiscono l’involuzione antisemita del movimento studentesco occidentale come si esprime negli Stati Uniti e in Europa alla cosiddetta cultura Woke. Assai gradevole, si fa per dire, è poi la denuncia del «nazicomunismo» (ah! ah! ah!) che fa Battista, il quale peraltro difende la linea repressiva antistudentesca adottata dal Presidente Biden come la sola opzione possibile «per difendere la democrazia e la libertà». Per il Wall Street Journal, «Le scuole fanno la cosa giusta quando chiamano la polizia per ristabilire l’ordine su folle indisciplinate. Una solida politica di libertà di parola non è in conflitto con la richiesta agli studenti di seguire le politiche del campus o di affrontare conseguenze per azioni che minacciano i compagni ebrei». Quanto a repressione dei movimenti politici e sociali il “democratico” governo degli Stati Uniti non sfigura affatto nei confronti del governo “fascista” del nostro Paese, a ulteriore dimostrazione di quanto sia risibile la distinzione tra “destra” e “sinistra”.

La stringata riflessione che segue si propone di offrire qualche elemento critico utile a contrastare la propaganda ideologica degli apologeti dei cosiddetti valori occidentali (che nei fatti ha il significato di una difesa degli interessi che fanno capo all’imperialismo occidentale), e, soprattutto, di sollecitare un ulteriore approfondimento da parte dei lettori del tema qui trattato per sommi capi e senza alcuna pretesa di rigore storiografico. Davvero oggi l’antisionismo è una comoda quanto ipocrita e odiosa copertura per l’antisemitismo del XXI secolo?

Penso sia corretto giungere al concetto di antisionismo, di cui oggi tanto si parla, il più delle volte a vanvera, in Occidente prendendo le mosse dal concetto di sionismo. Dal positivo al negativo, dall’affermazione alla sua negazione. Il termine sionismo compare la prima volta, per quel che ne so, nel 1886, mentre il concetto che ne presuppone l’esistenza inizia a formarsi qualche anno prima, come risposta ai pogrom antisemiti che si scatenarono in Russia dopo l’assassinio dello Zar Alessandro II avvenuto il 1̊ marzo del 1881. Nei venti anni che seguono quelle violentissime persecuzioni «un milione e mezzo di ebrei emigrerà in direzione degli Stati Uniti, questa nuova Terra promessa. Solo un pugno di giovani idealisti decise, invece, di dirigersi verso la Palestina. Facevano parte della associazione degli Hovevé Zion, gli Amanti di Sion, di cui un medico di Odessa, Leon Pinsker, avava assunto la presidenza» (1). Per gli aderenti di questa associazione il duro lavoro della terra in Palestina doveva rappresentare per gli ebrei una vera e propria redenzione, dopo secoli di oppressione, di discriminazione e di sottomissione, e dopo il periodo di integrazione (assimilazione) degli ebrei nella società borghese che aveva finito per corromperne la cultura e l’etica. Soprattutto questi Amanti di Sion stigmatizzavano la funzione commerciale e creditizia che molti ebrei avevano svolto nella moderna società borghese, sebbene quella funzione fosse il retaggio delle leggi interdittive varate nei secoli dai cristiani ai danni della comunità ebraica. Guadagnerai il tuo pane col sudore della fronte: a questa massima biblica si ispirarono i pochi ebrei russi che decisero di andare in Palestina.

Qui c’è un primo importante aspetto da cogliere: gli ebrei protagonisti della prima Aliah (ondata migratoria) che tra il 1882 e il 1903 vedrà giungere in Palestina circa 30.000 ebrei (ma alcuni studiosi parlano di 20.000) non praticarono un “sionismo” di matrice politica, «giacché per questi pionieri che fuggivano dalla Russia si trattava di porre le basi di una società nuova, senza che, al momento, venisse espressa l’idea di uno Stato ebraico» (2). Per quanto strano ci possa oggi sembrare, questi pionieri colonizzatori diedero per scontato ciò che col tempo non si rivelò affatto tale, ossia la possibilità di una pacifica e stabile convivenza con i residenti palestinesi, che iniziò a venire meno via via che il numero degli ebrei che arrivavano in Palestina dall’Europa, soprattutto dall’Impero Russo, cresceva. In ogni caso fino alla vigilia della Grande Guerra non si registrarono significativi conflitti tra arabi ed ebrei, soprattutto perché i primi non avvertivano come una minaccia la presenza dei secondi sul suolo palestinese. Tutto cambia dopo il primo conflitto imperialista, e il quadro qui abbozzato cambierà ancora, e molto più radicalmente, a causa del Secondo macello mondiale.

Il sionismo politico, espressione del peculiare nazionalismo ebraico, nasce “ufficialmente” nel 1897 a Basilea, dove si tenne il primo Congresso mondiale sionista organizzato da Theodor Herzl, considerato unanimemente dagli storici come «il padre del sionismo», e come tale ancora oggi venerato dai sionisti israeliani. Com’è noto, Herzel era stato in passato un acceso sostenitore della tendenza assimilazionista, posizione che cambiò radicalmente in seguito al famigerato caso Dreyfus (3), che ferì in profondità la coscienza di quegli ebrei che avevano individuato nella Francia dei diritti universali dell’uomo un vero e proprio faro di civiltà. Meglio volgere lo sguardo verso gli Stati Uniti! O verso la Palestina… Già nel 1882 A. A. Droujanoff aveva posto il dilemma: «Non ci resta che emigrare. Ma rimane il problema: dove? Chi vorrebbe la Palestina, chi l’America» (4). C’è da dire che anche nel seno del movimento sionista l’alternativa non venne sciolta subito, tant’è vero che lo stesso Herzel accarezzò l’dea di fondare lo Stato ebraico in un lontano Paese ricco di terre da coltivare e scarsamente popolato: Canada, Argentina e Nuova Zelanda furono vagliate come possibili focolai nazionali ebraici, come si diceva allora. Si sarebbe trattato di un “sionismo” rivisitato e corretto alla luce della dura realpolitik.

Il sionismo si sviluppa dunque storicamente come risposta all’antisemitismo che la società borghese occidentale non solo non era riuscita ad estirpare, nonostante il suo illuminismo, la sua scienza, il suo progresso civile e materiale, la sua democrazia e il suo gran parlare intorno ai «diritti inalienabili dell’uomo e del cittadino», ma che aveva di fatto dotato di strumenti potentissimi (immateriali e materiali: vedi i mezzi di comunicazione di massa e i mezzi di sterminio di massa) che facevano impallidire quelli di cui disponeva il vecchio antisemitismo.

Non molto paradossalmente furono gli antisemiti occidentali più incalliti che accolsero con entusiasmo la nascita del movimento sionista, in quanto vi videro un’eccellente soluzione del problema ebraico: finalmente gli ebrei potevano lasciare l’Europa in massa e “spontaneamente”: per gli antisemiti si trattava di un guadagno in termini politici ed economici – anche la violenza ha un costo! E qui finalmente arriviamo all’antisionismo.

La posizione antisionista nasce dentro la comunità ebraica, e non ha dunque storicamente e concettualmente nessun punto in comune con l’antisemitismo. I primi a rigettare in termini teologici e non politici il sionismo furono gli ebrei più ortodossi, i quali videro in quel movimento una vera e propria bestemmia, un’eresia indegna per il popolo prescelto da Dio e il cui ritorno a Sion non poteva avvenire senza la Santa guida del Messia: volendo precorrere i tempi i sionisti mandavano in frantumi la Santa Alleanza che legava Dio al suo Popolo Eletto. «Anatema su di voi!» A questa posizione religiosa e prepolitica bisogna naturalmente aggiungere l’antisionismo di matrice squisitamente politica, il quale faceva sostanzialmente capo a due grandi tendenze: quella assimilazionista liberale, che puntava su una graduale integrazione degli ebrei nella società borghese, e quella marxista, che individuava il superamento delle discriminazioni religiose e politiche nella rivoluzione sociale anticapitalista, e nell’emancipazione dell’intera umanità (ebrei compresi) che ne sarebbe seguita. I marxisti di origine ebraica cercavano dunque di orientare il proletariato ebraico in senso classista e internazionalista, e consideravano il cosiddetto sionismo socialista una contraddizione in termini, un ossimoro concettuale, una posizione che indeboliva tanto il proletariato ebraico quanto il proletariato della nazione che ospitava gli ebrei.

Tutte le correnti politico-ideologiche antisioniste non accettavano poi l’idea che si potesse fondare lo Stato nazionale ebraico a spese di popolazioni che abitavano da secoli le terre che finivano, anche se in modo pacifico (ad esempio comprando le terre dei proprietari terrieri indigeni), nella disponibilità dei coloni ebrei. Era più che legittimo aspettarsi una violenta reazione da parte di quelle popolazioni, il cui nazionalismo sarebbe stato radicalizzato dalla presenza dei sionisti-coloni altrettanto radicalizzati in senso nazionalista. Del resto le lettere che i pionieri del sionismo spedivano alla comunità ebraica d’Europa raccontavano di un’accoglienza tutt’altro che amichevole da parte degli arabi che abitavano la Palestina: «Non ci vogliono e ci tollerano appena». Anche perché quei pionieri introducevano “artificialmente” in quella regione del Medio Oriente la cultura e i metodi di lavoro appresi in Occidente, e questo creava i presupposti di un “conflitto di civiltà” dagli esiti tutt’altro che scontati. Anche senza volerlo, il sionismo si faceva strumento di una modernizzazione capitalistica che la popolazione locale (che viveva soprattutto di agricoltura di sussistenza, di artigianato e di piccolo commercio) non era pronta ad accettare.    

C’era poi un altro fondamentale aspetto della questione da considerare. Il sionismo avrebbe potuto realisticamente portare a compimento il suo programma nazionale solo con il sostegno politico, economico e militare di una Potenza occidentale, e difatti Herzl cercò fin dall’inizio la benevolenza di Londra e di Parigi, non disdegnando neanche di cercare le simpatie di Mosca – ricevendone in cambio ironiche battute e sprezzanti giudizi sulla comunità ebraica russa, troppo incline alla sommossa per i gusti dei governanti dell’Impero Russo. Questa realpolitik sionista non poteva ovviamente trovare degli appigli in quella parte della comunità ebraica occidentale orientata in senso progressista, la quale guardava con orrore alla sola idea che potesse nascere in Palestina una nazione ebraica avente fin da subito i caratteri del colonialismo (di insediamento) (5) e che si candidava ad essere, necessariamente, nei fatti, la lunga mano dell’imperialismo occidentale nella regione mediorientale.

Qualcuno può forse rintracciare un solo atomo di antisemitismo nell’antisionismo come si è sviluppato storicamente in fortissima polemica con il progetto sionista? Io non credo.

Fu l’antisemitismo occidentale, che nel nazismo ebbe la sua forma più micidiale e conseguente, che rese possibile prima la nascita del sionismo e poi, dopo la Seconda guerra mondiale, il suo successo nei tempi e nei modi che sappiamo dal 1945 in poi. Lo sterminio degli ebrei, condotto con metodi industriali e con la tradizionale disciplina e serietà che tutti riconoscono alla nazione tedesca, convinse molti dei “salvati” che per loro non c’era più alcuna possibilità di vivere in Europa senza vedere tutti i giorni in ogni non ebreo un potenziale antisemita pronto a colpirli il giorno in cui la società avesse bisogno di un capro espiatorio. La nascita di Israele (14 maggio 1948) non fu insomma solo il frutto dell’ideologia sionista, ma fu soprattutto il frutto velenoso dell’imperialismo mondiale.

Nato, nelle intenzioni poi rimaste deluse di Londra, come lunga mano dell’imperialismo britannico nel Medio Oriente; divenuto poi gendarme – tutt’altro che sciocco e servile – dell’imperialismo Usa, Israele non può sopravvivere senza spostare in avanti, sempre di nuovo, i confine della sua dominazione, da un lato occupando  nuovi territori, servendosi anche delle divisioni e delle rivalità interne al mondo arabo, e dall’altro disperdendo o/e eliminando fisicamente le masse palestinesi che si trovano ancora troppo a ridosso delle sue frontiere. E non può fare questo senza sconvolgere periodicamente gli equilibri geopolitici della regione mediorientale e, molto spesso, senza entrare in conflitto con gli interessi strategici degli Stati Uniti e, soprattutto, dei Paesi europei, ossia dei suoi migliori (vitali) alleati.

Veniamo, per concludere rapidamente, ai nostri giorni. Chi non fa alcuna distinzione tra gli ebrei (compresi quelli di nazionalità israeliana) e lo Stato colonialista/imperialista d’Israele; chi denuncia, molto giustamente, i crimini commessi da quello Stato contro i palestinesi, ma si schiera senz’altro con Hamas (che per i palestinesi di Gaza è parte del problema, non della sua soluzione) e con gli Stati (Iran in testa) che sostengono la “causa palestinese” solo strumentalmente, a chiacchiere, per ottenerne vantaggi economici, geopolitici e sociali: chi fa questo a mio avviso si presta per un verso alla facile propaganda filoisraeliana che tende a identificare l’antisionismo con i nemici di Israele (molti dei quali sono effettivamente antisemiti), e per altro verso, soprattutto, porta acqua al mulino di uno dei due campi imperialistici che si disputano il potere mondiale. Anche su questo terreno l’autonomia politica di classe sostenuta dall’anticapitalismo militante si rivela essere la sola strada da percorrere per chi vuole lottare contro le mille contraddizioni sociali generate sempre di nuovo dal capitalismo mondiale senza correre il rischio di farsi intruppare in uno degli eserciti che si fanno la guerra e che vanno combattuti entrambi “senza se e senza ma”. Vediamo ad esempio come una cospicua parte del mondo cosiddetto femminista occidentale non dice nulla sull’atroce repressione che stanno subendo in Iran le donne che cercano di ribellarsi all’odioso regime misogino degli ayatollah, e questo sostanzialmente perché molte femministe non vogliono apparire come complici dell’Occidente! Quale subalternità politica! Quale miseria umana! Purtroppo è così che ragione chi è intrappolato nella logica “campista”: o stai da questa parte del campo, o stai dall’altra parte di esso, mentre in realtà si tratta di mandare a gambe in aria il campo imperialista nel suo complesso.

(1) P. Maltese, Nazionalismo arabo nazionalismo ebraico. 1798-1992, p. 34, Mursia, 1992.
(2) «Certamente su questo punto non ci potevano essere dubbi [per Droujanoff] : l’America, terra della libertà, della giustizia, terra fertile, era chiaramente preferibile alla Palestina, che era arida, sotto il giogo della Turchia e boicottata dai filantropi ebrei dell’Occidente: “Dunque io partirò per l’America e soltanto per l’America, e insieme a un gruppo di persone costituiremo una colonia agricola”» 147-148, J. Frankel, Gli ebrei russi. Tra socialismo e nazionalismo (1862-1917), Einaudi, 1990.
(3) Scrive Francesca Trivellato commentando il saggio di Maurice Samuel Alfred Dreyfus. The Man at the Center of the Affair (Yale University Press, 2024): «La gamma di reazioni all’interno del mondo ebraico internazionale fu ampia, spingendo alcuni verso il sionismo, altri verso l’integrazione e dividendo i socialisti sulla questione religiosa. A dispetto di queste divergenze ideologiche, secondo l’autore fu l’affaire Dreyfus prim’ancora che la Shoa a fare della persecuzione il minimo comune denominatore dell’identità ebraica moderna» (Il Sole 24 Ore).
(4) Ivi, p. 35.
(5) Sul concetto di colonialismo di insediamento, che forse sarebbe più corretto definire di sostituzione, rimando a un interessante scritto (L’altra faccia del sionismo) di Arnon Degani, accademico israeliano, pubblicato dalla rivista il Mulino del 17/12/2023. Sulla prassi di questo colonialismo Lorenzo Cremonesi ha scritto un articolo molto interessante.

 

 

LENIN E LA QUESTIONE EBRAICA IN RUSSIA

IL GIOVANE MARX E LA QUESTIONE EBRAICA

AGAINST PINKWASHING.  Sinophone Queers and Feminists for Palestine

CONTRO IL LAVORO (SALARIATO)!

La produzione produce l’uomo non soltanto come una
merce, la merce umana, l’uomo in funzione di merce;
ma lo produce, corrispondentemente a questa funzione,
come un essere tanto spiritualmente che fisicamente
disumanizzato (K. Marx).

Sino a tanto che l’operaio salariato è operaio salariato, la
sua sorte dipende dal capitale. Questa è la tanto rinomata
comunità di interessi fra operaio e capitalista (K. Marx).

Per l’anticapitalismo il lavoro (salariato) non si festeggia ma si combatte fino alla sua completa abolizione attraverso l’emancipazione dell’umanità dalla divisione classista degli individui, fonte principale di tutte le magagne sociali che devastano soprattutto l’esistenza delle classi subalterne: sfruttamento, avvilimento fisico, psichico e morale, guerre, inquinamento dell’aria, della terra e del cielo e via elencando citando dalla rubrica delle sciagure sociali.

Come ogni vigilia di Primo Maggio, divenuto ormai da molto tempo una festa di regime (tipo 25 aprile), si sprecano le dichiarazioni, più o meno banali, più o meno retoriche e ultrareazionarie, intorno al concetto di lavoro come attività che conferirebbe, secondo gli apologeti della Costituzione (borghese) «più bella del mondo», libertà, dignità, progresso e prosperità, ai singoli lavoratori come alla società nel suo complesso. Tutta ideologia borghese che cola sul narcotizzato corpo sociale. Solo in ristrettissime minoranze politiche si conserva l’autentico spirito del Primo Maggio (1), come seppe esprimerlo ad esempio Rosa Luxemburg nel 1894: «Il 1° maggio rivendicava l’instaurazione della giornata di 8 ore. Ma anche dopo che questo scopo fu raggiunto, il 1° maggio non fu abbandonato. Finché durerà la lotta dei lavoratori contro la borghesia e le classi dominanti, finché tutte le rivendicazioni non saranno soddisfatte, il 1° maggio sarà l’espressione annuale di queste rivendicazioni. E, quando sorgeranno giorni migliori, quando la classe operaia del mondo avrà conquistato la sua liberazione, allora probabilmente anche l’umanità festeggerà il 1° maggio, in onore delle lotte accanite e delle numerose sofferenze del passato» (Sprawa Robotnicza). Il Primo Maggio dunque come giorno in cui la classe operaia riconferma la propria radicale inimicizia per la festa che il Capitale fa tutti i giorni ai lavoratori sfruttandoli nelle fabbriche, nelle miniere, negli uffici, sui mezzi di trasporto, ovunque si possa ricavare dal loro “capitale umano” un profitto.

Quest’anno particolarmente significative, anche se tutt’altro che originali, mi sono sembrate le parole del Presidente Mattarella, proprio perché esse esprimono quanto di più lontano possa esserci dal modo di pensare dell’anticapitalista. Cito: «Domani è Primo maggio. Festa del Lavoro. Dunque Festa della Repubblica, che i costituenti hanno voluto fondare proprio sul lavoro. Come disse all’Assemblea Costituente il primo tra i proponenti di questa formula, Fanfani, “fondata non sul privilegio, non sulla fatica altrui”, ma sul lavoro di tutti. È un elemento base, quindi, della nostra identità democratica. Il lavoro è legato, in maniera indissolubile, alla persona, alla sua dignità, alla sua dimensione sociale, al contributo che ciascuno può e deve dare alla partecipazione alla vita della società. Il lavoro non è una merce. Ha un valore – lo sappiamo – nel mercato dei beni e degli scambi. Anzi, ne è elemento essenziale, perché senza l’apporto della creatività umana sarebbe privo di consistenza e di qualità. Ma proprio la connessione con la realizzazione della personalità umana conferisce al lavoro un significato ben più grande di un bene economico; lo rende elemento costitutivo del destino comune» (Presidenza della Repubblica).

Come ha scritto Marx, e come non si stanca di ripetere chi scrive, il lavoro è, a tutti gli effetti, una merce; di più: è l’intera esistenza dei lavoratori a subire quel disumano trattamento di mercificazione che rende quantificabile la loro esistenza in termini di beni di sussistenza e quindi di salario. È, questo, il concetto di valore di scambio del lavoratore – non semplicemente del lavoro, secondo un’interpretazione fin troppo accomodante con il regime sociale capitalistico. «Salario = prezzo della merce. La determinazione del salario coincide dunque in generale con la determinazione generale del prezzo. L’attività umana = merce. L’estrinsecazione della vita, l’attività vitale appare come mero mezzo; l’esistenza separata da questa attività come fine. Quando si parla della caduta o dell’ascesa del salario non si devono mai perdere di vista tutto il mercato mondiale e le condizioni degli operai nei vari paesi. Il salario non è un fattore indispensabile della produzione. In un’altra organizzazione del lavoro esso può scomparire» (2).

È facile capire come non sia “ontologicamente” possibile separare la capacità lavorativa messa in vendita dal lavoratore in cambio di un salario, dall’esistenza di questo stesso lavoratore, il quale per vivere è costretto a farsi merce – una «merce speciale», come ben comprese il comunista di Treviri indagando l’origine del plusvalore, fondamento di ogni forma di profitto (industriale, commerciale, finanziario) e di rendita. Mattarella ha dunque ragione quando sostiene che il lavoro (salariato) ha «un significato ben più grande di un bene economico», che esso non va considerato solo da una prospettiva puramente economica – economicista. Di qui la necessità storica, per l’umanità, di emanciparsi dalla forma salariale, cioè capitalistica, del lavoro, la quale presuppone e pone sempre di nuovo il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento, degli individui e della natura, che oggi vige su scala planetaria: dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Norvegia al Sudafrica, dall’Italietta…

Il lavoro di cui parla la nostra Costituzione fin dal suo primo articolo è proprio il lavoro che per i nullatenenti rappresenta una maledizione sociale: senza volerlo, essa confessa alla società che la Repubblica (capitalistica) si fonda sullo sfruttamento dei lavoratori. Ciò che per Mattarella, e per la classe dirigente di questo Paese che egli rappresenta massimamente, costituisce una deviazione dalla norma (“incidenti” sul lavoro, supersfruttamento, caporalato e quant’altro) è invece, sul fondamento della società dominata dall’ossessiva ricerca del profitto, una necessaria conseguenza, una realtà che getta un potente fascio di luce sull’essenza del lavoro nella società capitalistica. Gli “eccessi” nella ricerca del profitto fanno insomma parte della fisiologia, non della patologia, del sistema sociale capitalistico, un concetto, questo, che ovviamente deve risultare inaccettabile e financo immorale alla coscienza degli apologeti di questo sistema, che essi certamente considerano perfettibile ma che rimane in ogni caso il migliore dei mondi possibili: «Sappiamo com’è andata a finire con il socialismo reale!» Sarebbe un’inutile spreco di tempo e di energia spiegare a quella gente che il «socialismo reale» di cui parlano non aveva (e non ha: vedi la Cina!) niente di socialista ricadendo quel sistema sociale interamente nella disumana dimensione del capitalismo – più o meno di Stato.

Il «destino comune» di cui parla il Presidente è dunque quello che vede i lavoratori sottoposti allo sfruttamento del Capitale e a tutte le sue molteplici contraddizioni, e l’intera umanità sottoposta alla mercificazione universale come prassi e come ideologia. Anche il lavoro salariato è, allo stesso tempo, fatto economico e ideologia, “struttura” e “sovrastruttura”, ed è appunto l’ideologia borghese del lavoro, che è penetrata in profondità anche (se non soprattutto) fra le classi subalterne, che l’anticapitalista deve attaccare, come fece a suo tempo Paul Lafargue, il quale denunciò «la strana pazzia»  che si era impossessata delle «classi operaie in cui domina la civiltà capitalistica»: «Questa pazzia è l’amore per il lavoro, la passione furibonda per il lavoro» (3).

«Una disumanità regna su ogni cosa, scriveva il giovane Marx nei Manoscritti del 1844; il lavoro salariato è al cuore di questa disumanità che non conosce limiti e che fa letteralmente impallidire ogni illusione circa la possibilità di un’esistenza autenticamente libera e dignitosa nel seno della Società-Mondo del XXI secolo.

Fin qui quello che ho scritto ieri e che non ho avuto modo di postare. Oggi aggiungo quanto segue. Cito dal cosiddetto Quotidiano comunista (Il Manifesto): «Non si sono ancora spenti gli echi delle grandi manifestazioni del 25 aprile che arriva oggi la data simbolo della riscossa operaia, dell’autonomia di classe, del senso di dignità del lavoro. Ed è una felice vicinanza quella del 1 maggio con la Liberazione, perché finalmente le riflessioni che vengono spontanee sono quelle sulle grandi questioni. Non solo dell’Italia ma dell’epoca digitale. […] Perché ancora volta, come nel 1945, si tratta di salvare il Paese, noi stessi, dalla distruzione civile e economica». Parlare seriamente di «autonomia di classe» e di «riscossa operaia» significa parlare contro ciò che il 25 aprile rappresenta e contro il Paese (cioè contro la classe dominante di questo Paese). Chi intende «salvare il Paese, noi stessi» (sic!) dai politici e dai padroni che offrono «un’immagine miserabile dell’imprenditoria e del management che governano questo capitalismo» (ci vorrebbero ben altri imprenditori, ben altri manager, ben altri sfruttatori!) è parte del problema che affligge i lavoratori e il proletariato nel suo insieme, non certo della sua soluzione. In bocca a certi personaggi l’anticapitalismo più che una menzogna è soprattutto una ridicola battuta – che non fa nemmeno ridere.

Ancora dal Manifesto: «È povero, precario, sfruttato, mortale ed è poco, ma per la Costituzione il lavoro è il fondamento della Repubblica»: appunto!

(1) «Per molti è il giorno del concertone a Roma, per altri è un’occasione di riposo dal lavoro. Ma come nasce la Festa dei Lavoratori e perché proprio il primo maggio? Frutto di un’idea della Seconda internazionale, riunitasi al Congresso di Parigi, La Festa dei lavoratori fu istituita il 20 luglio 1889. La data simbolica ricorda lo sciopero generale degli Stati Uniti a Chicago del 1° maggio 1886, indetto per ridurre la giornata di lavoro a otto ore. Durato fino al 4 maggio, la manifestazione si concluse con il massacro di Haymarket, in cui morirono 11 persone. Nel 1884, durante un convegno a Chicago, i sindacati americani, stanchi dello sfruttamento dei datori di lavoro, dichiararono che dal 1° maggio 1886 la giornata lavorativa sarebbe stata di un massimo di otto ore, avvertendo che, se la loro richiesta non fosse stata soddisfatta, i lavoratori negli Stati Uniti avrebbero scioperato. Il tetto massimo delle ore lavorative non venne rispettato e la promessa dei lavoratori venne mantenuta. A Chicago, epicentro del movimento operaio americano, il 1° maggio 1886 circa 300 mila lavoratori sospesero le loro attività e nei giorni successivi si aggiunsero altre migliaia.  Ma la manifestazione durata più giorni degenerò, fino a quando il 4 maggio durante la protesta in Haymarket Square, la piazza del mercato delle macchine agricole, una bomba fu lanciata contro la Polizia. Gli agenti risposero, quindi, sparando sulla folla. Il numero dei morti è ancora contestato, ma sarebbero 11 le vittime tra agenti e manifestanti» (Il Messaggero).
(2) K. Marx, Manoscritto sul salario, 1847, Opere Marx-Engels, VI , p. 434, Editori Riuniti, 1973.
(3) P. Lafargue, Il diritto alla pigrizia, p. 71, Forum Editoriale Milano, 1968.

SALARIO MINIMO E DEMAGOGIA MASSIMA

NON AVERE NIENTE E PRODURRE TUTTO

LAVORO POVERO E MISERIA CRESCENTE

SUL CONCETTO DI MISERIA SOCIALE E SUI PROUDHONIANI 2.0

PROFITTO VERSUS RENDITA

A SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA. Sul concetto di sussunzione reale del lavoro al capitale

IRAN. IL BOIA LAVORA A PIENO REGIME…

Non hai notato con quanta crudeltà le tue guardie picchiano
le donne? Forse sei terrorizzato dalle madri iraniane.
Sono gli dei che creano persone come me. Tu sei il nemico
dell’umanità e io sono il tuo nemico (Toomaj Salehi).

Corruzione sulla Terra, sedizione, propaganda contro il sistema, incitamento alle rivolte: queste le accuse che il sadico e misogino regime iraniano ha scagliato contro il rapper Toomaj Salehi per chiudere definitivamente i conti con lui e, soprattutto, per intimidire i giovani iraniani, in primis le ragazze, che negli ultimi anni lo hanno eletto a loro rappresentante ed eroe.

«Nel 2021 era stato arrestato per i testi delle sue canzoni. Nel 2022, perché ha partecipato alle proteste antigovernative per Mahsa Amini. Nel luglio 2023 è stato condannato a sei anni e tre mesi di prigione, salvato in extremis da una sentenza di morte “grazie” alla Corte suprema. Ma a gennaio il tribunale rivoluzionario ha aggiunto alla piramide di accuse altre accuse» (Il Corriere della Sera). Si tratta di un segnale di forza o di debolezza che lancia, “oggettivamente”, il regime degli ayatollah? Su questa domanda gli analisti che conoscono bene la società iraniana sono divisi, anche se la maggior parte di loro pensa che si tratti di un ennesimo segnale di estrema debolezza, tanto più se si pensa che la popolazione iraniana appare tutt’altro che entusiasta dei “memorabili successi” che la Repubblica Islamica dice di star conseguendo in politica estera, in primo luogo nei confronti degli Stati Uniti e di Israele, del Grande e del Piccolo Satana. L’attivismo imperialista di Teheran non sembra più in grado di accendere nelle masse iraniane quel sentimento di acceso nazionalismo a sfondo antiamericano e antisionista (inculcato nella testa degli iraniani fin dalla più tenera età) che in passato il regime riusciva a incassare. Staremo a vedere.

C’è da dire che la pena di morte è diventata in Iran non l’eccezione ma la regola nella gestione delle contraddizioni sociali. «Il boia non si ferma più. Le prigioni dell’Iran stanno diventando “centri di uccisioni di massa”. La denuncia arriva da Amnesty International che ha registrato una drammatica impennata delle condanne a morte eseguite dal Paese nel 2023: 853, oltre la metà dei quali, almeno 481, per reati di droga. Le letali politiche antidroga stanno contribuendo a un ciclo di povertà e d’ingiustizia sistematica e rafforzano ulteriormente la discriminazione nei confronti delle comunità marginalizzate, in particolare della minoranza oppressa dei baluci. Il numero delle esecuzioni registrato nel 2023 è il più alto dal 2015 e segna un aumento del 48 per cento rispetto al 2022 e del 172 per cento rispetto al 2021. La carneficina sta proseguendo nel 2024, con almeno 95 condanne a morte eseguite alla data del 20 marzo» (Avvenire).

Chiudo questa breve nota riconfermando, per quel che vale (e per me comunque vale), il mio disgusto nei confronti di quei sinistrorsi e di quelle sinistrorse che per non indebolire il campo imperialista che hanno scelto di appoggiare (Cina, Russia, Iran) non esprimono alcuna solidarietà nei confronti del movimento di opposizione iraniano, guidato dalle donne e dalle minoranze etniche, che lotta contro il violento e oppressivo regime degli ayatollah. Personalmente non condivido neanche un po’ le idee politiche di gran lunga prevalenti in quel movimento, e che lo portano ad esempio a chiedere il sostegno dell’imperialismo occidentale nell’opera di regime change a cui si sente impegnato; ma questo non mi impedisce di guardare con molta simpatia, ma senza un briciolo di illusione, la lotta delle donne iraniane vessate dagli aguzzini che difendono la mortifera morale di regime (*), la lotta dei lavoratori iraniani che rivendicano in primo luogo il diritto di organizzarsi in sindacati indipendenti, la lotta delle minoranze etniche che rivendicano un trattamento non discriminatorio (sul piano dei diritti e dei trattamenti economici) da parte di Teheran. Questo significa all’avviso di chi scrive esercitare l’autonomia politica sul terreno dell’anticapitalismo e dell’internazionalismo, contro l’intero campo imperialista e contro tutte le forme politico-istituzionali nelle quali trova espressione nei diversi Paesi del mondo (dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Iran a Israele, dalla Russia all’Italia) la dittatura dei rapporti sociali capitalistici. Ogni riferimento al 25 Aprile è ovviamente del tutto casuale…

(*) «Il loro crimine è danzare con i capelli al vento. Il coraggio è stato il loro crimine. Il coraggio di denunciare i vostri 44 anni di governo» (Toomaj Salehi). Come ho scritto altrove, esercitando la più rigida e violenta sorveglianza sul corpo e sui pensieri delle donne, il regime iraniano ha inteso controllare capillarmente, fin nelle sue più intime realtà (la famiglia) il corpo sociale del Paese, a cominciare dalle giovani generazioni che ai suoi occhi sembrano le più esposte alle sataniche influenze dei valori occidentali. Su questo terreno Khamenei e Putin parlano lo stesso linguaggio.

IRAN. FESTA DEL FUOCO, MANIFESTAZIONI ANTIREGIME, REPRESSIONE E MARINE SECURITY BELT 2024

IL PUNTO SULL’IRAN

INFERNO IRANIANO

LA SUPERCAZZOLA DELLA GUIDA SUPREMA

 SULLA “RIVOLUZIONE” IRANIANA

SI FA PIÙ FEROCE LA GUERRA DEL REGIME IRANIANO CONTRO I MANIFESTANTI

IRAN. LA LOTTA CONTRO IL REGIME NON SI ARRESTA

CON I RIBELLI IRANIANI! CONTRO IL REGIME OMICIDA DEGLI AYATOLLAH!

CADE ANCORA UNA VOLTA IL VELO DEL REGIME SANGUINARIO

IRAN. OGGI E IERI

SUL – CONTROVERSO – CONCETTO DI “RIVOLUZIONE”

IL “PIANO MATTEI” E LA “GRANDEUR” FRANCESE

La Francia non ha preso bene, per usare un eufemismo, la decisione italiana di mantenere la sua piccola (ma politicamente molto significativa) presenza militare in Niger anche dopo il golpe dello scorso 26 luglio capeggiato dal generale Abdouahamane Tchiani e appoggiato dalla Wagner di Evgenij Prigozhin. Dopo il Mali, il Ciad e il Burkina Faso, anche il Niger ha rotto bruscamente i ponti con la Francia e ha spalancato porte e finestre alla Russia, la quale espande la propria influenza geopolitica in vaste aree del continente africano. Dopo il lunghissimo periodo di sfruttamento coloniale e di saccheggio imperialistico da parte delle potenze occidentali, adesso è dunque arrivato il turno della Russia e della Cina. «L’imperialismo neocoloniale russo prospera da tempo neppure fingere – come avevano fatto Bismarck, Napoleone III e gli inglesi un secolo e mezzo fa – di agire in nome della “mission civilisatrice”, come i francesi chiamarono la spartizione dell’Africa. Oggi l’unica missione di Mosca è quella di agguantare terre, risorse, potere, senza più nemmeno il paravento ideologico che nei lontani anni brezneviani spingeva i volontari cubani ad affiancare i vari movimenti di liberazione in Angola, in Mozambico, nell’Ogaden, in Somalia, in Tanzania, nel Congo, in Sierra Leone» (G. Ferrari, Avvenire). Ferrari è molto critico nei confronti dell’Europa e delle «ricche nazioni occidentali», le quali avrebbero spianato il terreno a Russia e Cina praticando in Africa una politica «che ha relegato Paesi come il Niger, il Mali, la Mauritania nel ben custodito recinto delle nazioni africane da tenere a bada con compiacenti manutengoli e viceré, nell’eterna convinzione che i popoli africani siano bambini incapaci di darsi un futuro». Come si vede, si trova sempre qualcuno pronto a impartire lezioni di buona politica all’imperialismo occidentale. Ma forse ormai è troppo tardi.

Scrive Enrico Oliari: «Gli Usa sono riusciti, per il momento, a conservare in Niger un piccolo contingente di 600 uomini, ai quali è già stato chiesto di andarsene. Il Niger è tra gli ultimi paesi al mondo nell’indice di sviluppo umano e la metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, ma per decenni le potenze mondiali, in particolare la Francia, ne hanno abbondantemente saccheggiato le risorse, soprattutto l’uranio per il funzionamento delle centrali nucleari, senza che vi fossero ricadute positive sui 23 milioni di abitanti» (Notizie Geopolitiche). L’ estrema povertà e una corruzione politica in passato largamente sovvenzionata dai francesi ha fatto del Niger una facile preda per una galassia di bande armate che si contendono le risorse del Paese. Omicidi, estorsioni e furti di bestiame sono ancora all’ordine del giorno, e la popolazione vive costantemente nel terrore, anche perché da anni essa è vittima delle ricorrenti violenze jihadiste perpetrate da gruppi legati ad al-Qaeda e all’Isis.

Anche la Turchia sta cercando di approfittare della situazione di caotica transizione geopolitica per incunearsi negli spazi un tempo occupati da francesi e statunitensi. La stessa cosa sta cercando di fare l’Italia, per conseguire soprattutto due obiettivi: incamerare petrolio e gas, e cercare di controllare il crocevia dei flussi migratori che partono dal Sahel e dal Corno d’Africa.

In un’audizione davanti alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato dello scorso 11 aprile, Francesco Paolo Figliuolo, comandante del Comando operativo di vertice interforze, spiegava l’importanza che riveste l’area del Sahel, e in particolare il Niger, per il nostro Paese: «L’Italia ha una posizione di interlocutore privilegiato nel Paese, che continua ad essere il crocevia di tutti i flussi migratori sia dal Sahel sia dal Corno d’Africa. Il Niger è un’area di priorità e interesse nazionale, per tale motivo e nella considerazione che un’eventuale uscita delle nazioni occidentali dal Paese lascerebbe spazi di manovra all’allargamento della presenza di altri attori della regione anche malevoli, riteniamo di primaria importanza consolidare la nostra presenza con la missione bilaterale Misin. Complessivamente nel Sahel prevediamo di impiegare un contingente massimo di quasi 800 unità, un’unità navale e fino a 6 assetti tra aerei e elicotteri». Come sempre l’imperialismo italiano si muove sullo scacchiere internazionale in ottima fede, in primo luogo per il bene degli altri, e soprattutto rispettando la cultura e gli interessi dei suoi partners: «Noi italiani non abbiamo la spocchia e l’arroganza dei francesi!»

A questo proposito nella sua visita al Ghana del 4 aprile Mattarella è stato chiaro: «Insieme per il multilateralismo; il Piano Mattei è per una collaborazione paritaria. Il Ghana è stato il capofila dell’indipendenza contro il colonialismo e questo ha meritato la simpatia e la vicinanza dell’Italia. La scelta del nome di Mattei per il piano che il governo italiano ha lanciato non è casuale. Mattei è stato un amico del Ghana, dell’Africa occidentale e del continente africano contro ogni forma di sfruttamento coloniale, a favore di una collaborazione sul piano paritario e a tutela delle risorse locali, e questo è l’obiettivo del Piano Mattei, che vuole essere di collaborazione secondo le indicazioni, le esigenze e le proposte definite dai governi dei vari Paesi del continente africano. Il piano Mattei ricorda un protagonista dell’amicizia tra Africa ed Europa e per l’indipendenza dell’Africa». Pare che Giorgia Meloni abbia avuto un orgasmo di proporzioni cosmiche ascoltando le ispirate parole del Presidente Mattarella.

Inutile dire che Parigi guarda con crescente irritazione l’attivismo di Roma in un’area lungamente presidiata dall’imperialismo francese, il quale forse confida, concedendosi un eccesso di ottimismo dovuto alla disperazione, in un suo prossimo ritorno. Al G7 di Capri il ministro degli Esteri Tajani ha dichiarato che l’Italia agisce in Niger soprattutto per conto dell’Europa, per assicurare in quel Paese e in quell’area la presenza europea, ma il suo collega francese si è limitato a fare buon viso a cattivo gioco. Tempi duri per la grandeur dei cugini d’oltralpe!  Si tratta ora di vedere, anche alla luce di ciò che accade nel Mar Rosso e in Ucraina, come evolverà la convivenza in Niger tra il piccolo contingente militare italiano e il ben più robusto dispositivo militare russo.

STRISCIA DI GAZA E IMPERIALISMO A SEI ZAMPE

 QUEL CHE RESTA DELL’AFRICA “FRANCESE”

FRANCE À FRIC

TUTTE LE STRADE DELL’IMPERIALISMO PORTANO IN AFRICA

SUDAN. TANTA MISERIA E TANTI AFFARI IN GIOCO – SULLA PELLE DEGLI ULTIMI

ANCHE L’IMPERIALISMO ITALIANO, NEL “SUO PICCOLO”, HA QUALCOSA DA DIRE

SOVRANITÀ NAZIONALE/CONTINENTALE AFRICANA E AUTONOMIA DI CLASSE

L’AFRICA SOTTO IL CELESTE IMPERIALISMO

ASPETTANDO IL 25 APRILE

Le polemiche sullo slogan scelto per caratterizzare sul piano politico la manifestazione di regime del 25 aprile (Cessate il fuoco ovunque) gettano un po’ di luce anche sulla natura della cosiddetta Resistenza antifascista che prese corpo in Italia dopo la caduta del regime fascista (25 luglio 1943) causata dall’irresistibile iniziativa bellica dell’imperialismo angloamericano dentro i confini della nazione italiana.

La comunità ucraina ha ragione da vendere, a mio avviso, quando rimprovera agli organizzatori della manifestazione nazionale che si terrà come sempre a Milano che lo slogan da loro scelto tradisce il vero spirito della Resistenza: «Se avessimo chiesto ai partigiani o agli alleati il cessate il fuoco durante la Seconda guerra mondiale, oggi avremmo un’Italia diversa». Ora come allora: Resistenza! In effetti, la Resistenza ucraina contro gli invasori russi si inquadra perfettamente, mutatis mutandis, nella logica e nella prassi della Resistenza antifascista, la quale fu, sempre all’avviso di chi scrive, la continuazione della guerra imperialista (deflagrata com’è noto nel 1939) nella nuova situazione militare e politica determinata dai successi degli Alleati, i quali causarono quel “rocambolesco” cambio di alleanze dell’Italia a tutti noto – e che si è prestato benissimo come trama anche in molti film comici.

Anche la guerra di resistenza ucraina ha una natura imperialista, oltre che nazionale, soprattutto per due motivi: 1. le sue cause di fondo vanno ricercate nella contesa interimperialistica totale (o sistemica: economica, tecnologica, scientifica, geopolitica, militare, ideologica) tra le grandi potenze; 2. senza il sostegno politico, militare ed economico dell’imperialismo occidentale (americano ed europeo) l’Ucraina non avrebbe potuto opporre alla Russia una così lunga guerra di resistenza. «”Cessate il fuoco ovunque“ è uno slogan che non condividiamo assolutamente. È uno slogan che mette sullo stesso piano aggrediti e aggressori. Nel caso dell’Ucraina, si tratta di un’invasione da parte della Russia». Così ha dichiarato alla stampa Kateryna Sadilova, una rappresentante della comunità ucraina in Italia. Non c’è dubbio: la Russia ha invaso l’Ucraina (continuando l’impresa iniziata nel 2014); ma l’esistenza dell’Imperialismo Unitario, che fa delle nazioni (grandi, medie o piccole che siano) i nodi di una sola gigantesca rete di interessi, fa letteralmente impallidire la distinzione fra aggrediti e aggressori, distinzione che peraltro trovò una critica radicale da parte di Lenin e di tutti gli anticapitalisti europei già nel 1914. Figuriamoci se questa distinzione possa trovare un qualche appiglio nella coscienza degli anticapitalisti che si confrontano con la società capitalistica del XXI secolo! Analogo discorso vale per la cosiddetta autodecisione dei popoli e delle nazioni, un’autentica menzogna alla luce dell’odierna Società-Mondo – la stessa Russia rischia di venire inglobata nello spazio vitale del Celeste Imperialismo.

Il fatto che la comunità ucraina e quella parte della comunità ebraica italiana che critica lo slogan sul cessate il fuoco (ritenendo evidentemente in qualche modo giustificato il massacro dei civili palestinesi a Gaza per mano israeliana), abbiano deciso di festeggiare insieme il 25 Aprile, questo fatto la dice lunga  sulla natura dei conflitti in corso in Ucraina e a Gaza. Questo senza nulla togliere al fatto che, come ho scritto molto prima del famigerato 7 ottobre, Hamas rappresenta per i palestinesi parte del loro annoso problema, non certo della sua soluzione. L’appoggio indiscriminato, acritico, subalterno, “senza se e senza ma” al nazionalismo palestinese non può certo far parte del baglio politico dell’anticapitalista, il quale mette avanti in primo luogo l’autonomia politica del proletariato e la solidarietà tra i subalterni di tutto il mondo – classismo contro nazionalismo.

Per ciò che concerne la guerra russo-ucraina, possiamo dire che dal punto di vista dell’imperialismo russo si tratta dell’estremo tentativo di non perdere definitivamente l’influenza sull’Ucraina, forse il pezzo più pregiato dello spazio imperiale russo dai tempi degli zar, a favore della concorrenza occidentale. Intendo dire che se ragioniamo sul terreno degli interessi nazionali, troviamo “ragioni” e “torti” sia fra gli aggrediti sia fra gli aggressori, ragioni che l’anticapitalista respinge in blocco in quanto applica alla contesa fra le nazioni una logica radicalmente diversa da quella plasmata, appunto, da quegli interessi, che sono poi gli interessi che fanno capo alle classi dominanti, le quali hanno nello Stato (qualsiasi sia la sua forma politico-istituzionale: democratica, autocratica, totalitaria) il loro supremo cane da guardia.

Sul merito della parola d’ordine Cessate il fuoco ovunque, occorre dire che il suo contenuto politico-ideologico oggi è tale «da seminare soltanto illusioni e fare del proletariato un trastullo nelle mani della diplomazia segreta dei paesi belligeranti. È questo il destino della propaganda non accompagnata da un appello all’azione rivoluzionaria delle masse» (*). È vero che oggi non esistono le condizioni perché quel tipo di appello possa avere un minimo di seguito fra le masse; ma tali condizioni non maturano spontaneamente, o per il semplice aggravamento della crisi internazionale: per mettere radici esse hanno anche bisogno del lavoro politico della soggettività rivoluzionaria. Alla nascita di questa soggettività chi scrive si sforma di dare il suo modestissimo contributo. Il pacifismo borghese va combattuto sul piano squisitamente politico, non su quello meramente ideologico, semplicemente perché per un verso esso non è in grado di evitare le guerre, né di “umanizzarle”, e per altro verso ostacola l’iniziativa autonoma delle classi subalterne, la sola iniziativa che può creare un serio problema al militarismo e al bellicismo radicati in profondità nei rapporti sociali capitalistici oggi dominanti su scala planetaria

«Il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia? Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così». E chi se ne importa, mi permetto di aggiungere con una grossolanità di pensiero che di certo urterà la sensibilità del fine intellettuale, tanto più se di simpatie sinistrorse. Me ne farò una ragione! Poco sopra ho citato il testo del monologo, che definire insulso è già un complimento, di Antonio Scurati per il 25 Aprile che oggi trova spazio su tutti i quotidiani e ovunque sui “social” per la nota polemica di cui a chi scrive importa meno di zero. La citazione mi serve solo per ricordare che il fascismo nasce in Italia in primo luogo per schiacciare con la violenza i lavoratori delle fabbriche e della terra che nel Primo dopoguerra minacciarono gli interessi della classe dominante e che simpatizzarono con la Russia rivoluzionaria: Fare come in Russia! La carota giolittiana (fiaccare e dividere  il movimento operaio concedendo briciole e facendo promesse) e il manganello mussoliniano (uccidere le avanguardie proletarie e distruggere le organizzazioni di classe) messi al servizio della borghesia italiana – la cui fazione liberale si era illusa di poter usare la violenza fascista senza pagare un prezzo politico troppo caro: l’autonomizzazione politica del manganello non era stato previsto! Carota democratica e manganello fascista: due facce della stessa capitalistica e controrivoluzionaria medaglia. Ieri come oggi – e sempre mutatis mutandis, si capisce.

Di qui l’abissale differenza che corre tra l’antifascismo anticapitalista, che combatte le radici sociali (capitalistiche) del fascismo, e l’antifascismo che anticapitalista non è, quello che si riconosce nella Costituzione borghese di questo Paese – che non a caso esordisce santificando il lavoro (salariato) come fondamento della Repubblica. Scriveva Max Horkheimer negli anni Trenta del secolo scorso: «Chi non vuole parlare del capitalismo non deve parlare nemmeno del fascismo, il quale è la verità della società moderna colta dalla teoria fin dall’inizio. L’ordine totalitario non è altro che l’ordine precedente senza i suoi freni. Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto» (Gli ebrei e l’Europa).

(*) Lenin, Valutazione della parola d’ordine della “pace”, luglio-agosto 1915, Opere, XXI, Editori Riuniti, 1966.

Sul 25 aprile e sul fascismo:

CONTRO LA COSTITUZIONE. QUELLA DI IERI, DI OGGI E DI DOMANI

MITI ULTRAREAZIONARI E FESTE COMANDATE. SUL 25 APRILE

UN 25 APRILE DI GUERRA (IMPERIALISTA). ESATTAMENTE COME ALLORA!

LIBERARSI DAL MITO DELLA LIBERAZIONE

FASCISMO STORICO, FASCISMO ETERNO, FASCISMO DEL XXI SECOLO, FASCISMO IMMAGINARIO…

OGGI COME ALLORA. ADORNO E IL NUOVO RADICALISMO DI DESTRA

LA PERFETTA CONTINUITÀ DELLO STATO. OVVERO: LO STATO ETERNO

Sulla guerra russo-ucraina come parte del conflitto interimperialistico totale:

ESSERE PARTE DEL PROBLEMA O DELLA SUA SOLUZIONE?

SULLA GENESI DEL REGIME PUTINIANO

LA SCONFITTA DEL PROPRIO PAESE NELLA GUERRA IMPERIALISTICA

CANNONI CONTRO BURRO. A DUE ANNI DALL’INVASIONE RUSSA DELL’UCRAINA

SULLA COSIDDETTA AMBIGUITÀ STRATEGICA

MISERIA DELLA FILOSOFA

DALLA “NEUTRALITÀ BENEVOLA” ALLO “STATO DI BELLIGERANZA”. OVVIAMENTE CON LA COPERTURA DELL’ART. 11 DELLA COSTITUZIONE

Su Israele e Gaza:

CONTINUA LA GUERRA DI STERMINIO CONTRO I PALESTINESI

LA MACABRA FARSA SULLA PELLE DEI PALESTINESI – E NON SOLO

PRIMO LEVI CRITICO DI ISRAELE

LA DIALETTICA DELLO STERMINIO SECONDO HABERMAS

IL PUNTO SULLA CATASTROFE

OPERAZIONE CHIRURGICA…     

QUALCHE RIFLESSIONE SU HAMAS

LA QUESTIONE PALESTINESE DOPO IL 7 OTTOBRE

A GAZA COME IN UCRAINA E IN OGNI ALTRA PARTE DEL MONDO, LA GUERRA È TERRORISMO ORGANIZZATO E GENERALIZZATO

CONTRO LO STATO IMPERIALISTA ISRAELIANO E CONTRO HAMAS, PEDINA NELLO SCONTRO INTERIMPERIALISTICO

LA TEMPESTA E LA SPADA. LA GUERRA È SERVITA – DI NUOVO!

LENIN, KEYNES E LE CONSEGUENZE DELLA “PACE”

Il mio dovere, il dovere di un rappresentante del
proletariato rivoluzionario, è quello di preparare
la rivoluzione proletaria mondiale quale unica
salvezza dagli orrori della guerra mondiale. Io
debbo ragionare non dal punto di vista del “mio
paese”, ma dal punto di vista di chi lavora per
affrettare la rivoluzione proletaria mondiale.
(Lenin, Il rinnegato Kautsky 1918).

Ogni guerra e ogni armistizio è politica (Lenin, 1919).

Scrive Maurizio Sgroi su Econopoly (Il Sole 24 Ore) del 18 aprile scorso: «Quanto costa la pace? Ci si domanda dopo aver terminato l’ultimo libro di Emiliano Brancaccio, docente di politica economica all’università del Sannio. I lettori di Econopoly, che ha ospitato anche l’appello per la pace sottoscritto da Brancaccio e altri intellettuali, conoscono bene il pensiero di questo autore. Ma chi non avesse avuto prima questa opportunità, può farsene un’idea esauriente leggendo “Le condizioni economiche per la pace” (Mimesis, 2024) (1), che strizza l’occhio al noto “Le conseguenza economiche della pace “ di Keynes, da una parte, ma soprattutto, alla lunga tradizione di origine marxista secondo la quale le “condizioni materiali”, come le chiama l’autore – leggi gli interessi economici – siano una potente lente esplicativa della realtà, e in particolare dei conflitti che stiamo vivendo in questi anni tormentati. […] Le condizioni economiche della pace, per dirla con l’autore, potrebbero essere costruite semplicemente ricordando che lo scopo non è semplicemente sfuggire alla guerra di oggi, ma soprattutto evitare quelle di domani. Ricordando, dati alla mano, che siamo tutti sulla stessa barca. In fondo il libro di Brancaccio parla di questo».

Detto che sulla «lunga tradizione di origine marxista» di cui scrive Sgroi occorre nutrire più di un dubbio, visto che gli scritti di Brancaccio sono generalmente riconducibili a quella scuola di pensiero (che ha in Keynes forse il suo esponente più illustre e teoricamente dotato) che intende salvare il capitalismo (ormai da oltre un secolo nella sua “fase” imperialista) dalle sue stesse molteplici contraddizioni attraverso una più oculata, saggia e razionale iniziativa degli Stati più potenti del pianeta; precisato questo per pura pignoleria, debbo anche dire che l’articolo qui citato si presta a qualche non banale riflessione, che tuttavia non farò. La sua lettura mi ha suggerito un rimando storico che forse ai lettori potrà risultare interessante. Si tratta del Rapporto sulla situazione internazionale e sui compiti fondamentali dell’internazionale comunista che Lenin presentò al secondo congresso dell’Internazionale comunista che si tenne, prima a Pietrogrado e poi a Mosca, dal 19 luglio al 7 agosto del 1920. Siamo in un momento in cui tutti i comunisti del mondo pensavano che «il rovesciamento del giogo del capitalismo in tutti i paesi del mondo» fosse più che mai imminente, e certamente all’ordine del giorno, in primo luogo a causa del completo dissesto dell’economia capitalistica mondiale. Purtroppo non andò così e siamo ancora qui a discorrere di capitalismo, di imperialismo, di militarismo e di guerre. Qui di seguito riporto la parte del Rapporto leniniano che prende in considerazione, con la solita pungente ironia del capo bolscevico, il libro di J. M. Keynes pubblicato a Londra nel 1919 con il titolo The economic consequences of the peace. Buona lettura!

***

Prendete i debiti statali. Sappiamo che i debiti dei principali Stati europei sono aumentati di almeno sette volte tra il 1914 e il 1920. Voglio citare un’altra fonte economica, che assume particolare rilievo, intendo riferirmi al diplomatico inglese Keynes, autore del libro: Le conseguenze economiche della pace. Keynes, per incarico del suo governo, ha partecipato ai negoziati di pace di Versailles, ne ha seguito direttamente lo svolgimento da un punto di vista puramente borghese, ha studiato passo passo, in tutti i particolari, e, come economista, ha preso parte alle riunioni. Keynes è pervenuto a conclusioni che sono più forti, più lampanti, più istruttive di qualsiasi conclusione alla quale potrebbe giungere un rivoluzionario comunista, perché sono le conclusioni di un borghese genuino, avversario implacabile del bolscevismo, che egli, da filisteo inglese, concepisce come qualcosa di feroce, di mostruoso, di barbaro. Keynes è pervenuto alla conclusione che con la pace di Versailles l’Europa e il mondo intero stanno marciando verso la bancarotta. Keynes ha rassegnato le dimissioni, ha gettato in faccia al governo il suo libro e ha detto: “State facendo una pazzia”. […] Soltanto gli Stati Uniti si trovano oggi in una situazione finanziaria assolutamente indipendente. Prima della guerra essi erano debitori, oggi esclusivamente creditori. Tutte le altre potenze del mondo sono indebitate.  […] Naturalmente il governo rivoluzionario russo si rifiuta di pagare i debiti. Qualsiasi altro si rifiuterebbe di pagare, perché questi debiti rappresentano gli interessi usurari di ciò che è già stato pagato venti volte, e il borghese Keynes, che non nutre alcuna simpatia per il movimento rivoluzionario russo, afferma : “È chiaro che non si può tenere conto di questi debiti”.

La Francia, il paese che i francesi stessi chiamavano l’usuraio del mondo, perché il suo “risparmio” era colossale, perché il saccheggio coloniale e finanziario, procurando alla Francia capitali ingenti, le permetteva di dare in prestito miliardi e miliardi soprattutto alla Russia. da questi prestiti la Francia traeva interessi giganteschi. Ma, nonostante ciò, a dispetto della vittoria, anche la Francia è oggi indebitata. Una fonte borghese americana, citata dal compagno Braun, comunista, nel suo libro: Chi deve pagare i debiti di guerra? (Lipsia, 1920), determina il rapporto tra i debiti nazionali e il patrimonio nazionale come segue: nei paesi vincitori, in Inghilterra e in Francia , i debiti ammontano a più del 50% dell’intero patrimonio nazionale. in italia la cifra corrispondente è del 60-70% e in russia del 90%, ma, come voi sapete, questi debiti non ci preoccupano, perché, un po’ prima che uscisse il libretto di Keynes, noi avevamo seguíto il suo ottimo consiglio e annullato tutti i debiti.  E qui Keynes rivela soltanto la solita bizzarria del filisteo: nel suggerire l’annullamento di tutti i debiti, egli dice che, naturalmente, solo la Francia ci guadagnerà, che, naturalmente, l’Inghilterra non perderà poi molto, perché dalla Russia non si sarebbe recuperato niente lo stesso. L’America, è vero, subirà una perdita cospicua, ma Keynes fa assegnamento sulla “generosità” americana! A questo proposito non condividiamo l’opinione di Keynes e degli altri pacifisti piccolo-borghesi. Pensiamo che essi, riguardo all’annullamento dei debiti, dovranno attendere qualcos’altro, senza contare sulla “generosità” dei signori capitalisti.

Dalle poche cifre riportate risulta che la guerra imperialistica ha creato una situazione impossibile anche per i paesi vincitori. Lo attesta anche il gravissimo squilibrio tra i salari e l’aumento dei prezzi. Il Consiglio economico supremo, che è un ente incaricato di difendere in tutto il mondo l’ordine borghese dalla rivoluzione in ascesa, ha approvato l’8 marzo scorso una risoluzione che si conclude con un appello all’ordine, al lavoro, al risparmio, a condizione, beninteso, che gli operai rimangano gli schiavi del capitale. […] È chiaro che in questa situazione la crescente indignazione degli operai, lo sviluppo dello spirito rivoluzionario e delle idee rivoluzionarie. L’intensificazione degli scioperi spontanei di massa sono inevitabili. La condizione degli operai si fa infatti insopportabile. contro lo squilibrio tra i prezzi e i salari i capitalisti non possono fare niente, e gli operai non possono vivere. Contro questa sventura non si può lottare con i vecchi metodi: nessuno sciopero parziale, nessuna battaglia parlamentare, nessuna votazione può servire a qualche cosa. […]

Il “meccanismo” dell’economia capitalistica mondiale è completamente dissestato. […] Avviene così che la stessa America, cioè il paese più ricco a cui sono subordinati tutti gli altri, non può né comprare né vendere. E lo stesso Keynes, che pur ha percosso i tortuosi meandri dei negoziati di Versailles, è costretto a riconoscere questa impossibilità, nonostante la sua incrollabile decisione di difendere il capitalismo e nonostante tutto il suo odio per il bolscevismo. Mi vien fatto di dire che, secondo me, nessun appello comunista, o rivoluzionario in genere, può reggere il confronto, quanto a efficacia, con le pagine in cui Keynes dipinge Wilson e i “wilsonismo” nella pratica. Wilson è stato l’idolo dei piccoli borghesi e dei pacifisti (2), come Keynes e come molti eroi della II Internazionale (e persino dell’Internazionale “due e mezzo”), che invocavano i “quattordici punti” e scrivevano persino dei lavori “scientifici” sulle “radici” della politica wilsoniana, sperando che Wilson avrebbe salvato la “pace sociale”, riconciliato gli sfruttatori e gli sfruttati. […]

Così, il borghese Keynes afferma che per salvare se stessi e la propria economia gli inglesi devono promuovere la ripresa di libere relazioni commerciali tra la Germania e la Russia! Ma come raggiungere questo obiettivo? Mediante l’annullamento di tutti i debiti, così propone Keynes! Né si tratta di un’idea esclusiva del dotto economista Keynes, perché quest’idea viene e sarà sempre più accolta da  milioni di uomini. Milioni di uomini sentono dire dagli economisti borghesi che l’unica soluzione consiste nell’annullamento dei debiti, e quindi “siano maledetti i bolscevichi” (che hanno annullato i debiti), ci si rivolga alla “generosità” dell’America!! Credo che a questi economisti, trasformati in agitatori bolscevichi, il congresso dell’Internazionale comunista dovrebbe inviare un messaggio di ringraziamento (3).

(1) Ne ho scritto qualcosa anch’io su un post del 19/2/2023: L’asse del male è sempre più forte e minaccioso.
(2) «Quando si conclude una guerra e, per di più con le caratteristiche sanguinose del Secondo conflitto mondiale, il tema che si pone è “fare la pace” e, subito dopo, dar vita a un sistema di sicurezza collettiva efficace. Avvenne così nel 1918 quando, sulla spinta del Presidente degli Stati Uniti, Wilson, e dei suoi 14 punti, si diede vita alla Società delle Nazioni, nell’aspirazione di superare il principio secondo il quale l’espressione all’estero della sovranità di uno Stato si esprimeva con l’uso della forza nei rapporti internazionali». Questo lo ha detto il presidente Sergio Mattarella lo scorso 15 aprile parlando al Comando delle Unità Mobili e Specializzate Carabinieri Palidoro. Ecco cosa invece scriveva su Wilson Il Soviet, Organo delle sezioni del Partito socialista italiano nella Provincia di Napoli (Organo della frazione comunista astensionista dal 20 ottobre 1919), il primo gennaio 1919: «Wilson è l’uomo del giorno. Nel campo socialista non pochi simpatizzano per l’uomo e per il programma. […] Noi socialisti dobbiamo non plaudire, ma a viso aperto combattere Wilson. E ricordare, mentre egli percorre in trionfo le vie delle nostre città, le migliaia di compagni imprigionati e perseguitati dal Governo borghese ch’egli rappresenta. Filippo Turati scorge un dilemma: Wilson o Lenin. È il dilemma che vediamo anche noi: capitalismo o socialismo. Turati si è dunque finalmente persuaso che tra i due termini di esso non vi è via di conciliazione? E si deciderà a scegliere? Noi restiamo con Lenin, per il socialismo». In realtà la sua controrivoluzionaria scelta Turati l’aveva già fatta da tempo.
(2) Lenin, Rapporto sulla situazione internazionale e sui compiti fondamentali dell’internazionale comunista, Opere, XXXI, pp. 208-214, Editori Riuniti, 1967.

SULLA GUERRA CAPITALISTA

NON ABBANDONATE QUELLA VIA!

SOVRANISMO ECONOMICO E PROTEZIONISMO: LA GUERRA È SERVITA!

LA QUERELA E LO STUDIO DELLA STORIA

«Sono anziano, ma la testa mi funziona. La storia non si querela, si studia» (Luciano Canfora). Condivido in pieno! Io, ad esempio, studiando (non a scuola, non nelle libere e democratiche università di questo Paese) la storia del Novecento ho capito che fascismo e stalinismo (che tanto piace al nostro professorone) sono due facce della stessa capitalistica medaglia, due momenti della stessa controrivoluzione antiproletaria i cui devastanti effetti sulle classi subalterne sono lungi dall’essersi esauriti. Il problema, per chi scrive, non è avere una testa funzionante, ma avere una testa cosciente – nell’accezione marxiana del concetto. Quella coscienza (“di classe”) che mi permette di non schierarmi mai dalla parte degli organi repressivi dello Stato – magistratura compresa, la quale dovrà giudicare se quanto detto da Canfora a proposito di Giorgia Meloni ha i caratteri di una «diffamazione aggravata».  

L’appello al «diritto costituzionalmente garantito alla libertà di pensiero e di opinione» lo lascio volentieri ai feticisti della Costituzione (borghese) “più bella del mondo”.

ESSERE NEONAZISTI E STALINISTI DENTRO, NELL’ANIMA…

ESSERE PARTE DEL PROBLEMA O DELLA SUA SOLUZIONE?

Non possiamo essere neutrali!

Per Sebastiano Maffettone nelle guerre, passate, presenti e future, «non possiamo essere neutrali e dobbiamo schierarci». Condivido pienamente questa idea antineutralista! Si tratta naturalmente di “declinarne” il significato politico: schierarsi con chi e contro chi? Ancora Maffettone: «Parlare di guerra in punta di teoria mentre la gente muore sul campo, è complicato e può sembrare inopportuno. Tuttavia, lasciare andare le cose senza riflettere mi sembra anche peggio». E anche su questo punto non ci piove, come si dice con indulgenza poetica. Essendo un sostenitore della «liberal-democrazia», considerata «il migliore dei regimi politici possibili» (e certamente la società capitalistica il migliore dei mondi possibili), il Nostro si schiera, ad esempio, per l’Ucraina contro la Russia, per Israele contro l’Iran, per Taiwan contro la Cina, e così via secondo lo schema liberal-democrazie versus autocrazie e dittature di vario conio politico-ideologico. Questo per il presente. Guardando al passato egli ovviamente difende la scelta delle «liberal-democrazie» di allearsi con l’Unione Sovietica (che liberal-democratica com’è noto non era) al fine di sconfiggere il nazifascismo. Qui Maffettone si concede una “debolezza” di stampo realista, anche in considerazione del fatto che «alcuni aspetti del realismo politico sono necessari in ogni valutazione seria della guerra».

Quello che egli non condivide della “concezione realista del mondo” è la sua indifferenza per ciò che riguarda la natura politico-istituzionale degli Stati, che i realisti prendono in considerazione solo in quanto centri di potere e di interessi in grado di pesare più o meno sulla bilancia del potere mondiale. «Quale è il limite più evidente del realismo? È in sostanza quello che non ci spiega perché dovremmo – ammesso che dovremmo – stare da una parte o dall’altra di un eventuale conflitto. “Questo e quello per me pari sono”, potrebbe essere il suo motto. Ma un indifferentismo del genere non aiuta a pensare la guerra. Tra Hitler e i suoi avversari non si poteva e doveva essere neutrali. I limiti del realismo fanno capire anche quelli del pacifismo assoluto. Perché se è vero che tutte le persone mentalmente sane sono a favore della pace, non è vero che tutte le guerre sono eguali tra loro. Alcune guerre possono essere “giuste”».

Tra Hitler e i suoi avversari (ed ex alleati: vedi Stalin!) non si poteva e doveva essere neutrali? Personalmente condivido la posizione di coloro che allora decisero di combattere tanto Hitler quanto i suoi avversari, considerati due facce della stessa disumana (capitalista/imperialista) moneta. Questi militanti politici (1), che respinsero qualsiasi forma di neutralismo e che negarono alla Russia cosiddetta Sovietica qualsiasi diversità di stampo “socialista” (e facendo questo si esposero a una triplice ritorsione: fascista, stalinista e liberaldemocratica!), considerarono giusta solo la guerra di classe intesa ad abbattere il regime sociale capitalistico in vista della costruzione di una società senza classi sociali, e quindi senza Stato, senza confini, senza eserciti, senza patrie da difendere: si tratta del solo pacifismo che essi riuscivano a concepire come giusto e possibile, ben sapendo che la cosiddetta pace nella società classista è solo una menzogna che serve a occultare il dominio di classe e a preservare la “pace sociale”.

«Bene o male», scrive il Nostro liberal-democratico, «ho passato la vita a occuparmi di filosofia e di teoria politica, e in tutto questo periodo sono sempre partito da due punti fermi: considerare la liberal-democrazia il migliore dei regimi politici che avevo conosciuto e auspicare l’affermarsi progressivo di quella che Kant chiamava una “pace perpetua”». E anche il povero Kant è sistemato! Anche perché leggere «pace perpetua», nel contesto del mortifero regime sociale mondiale, mi fa venire in mente la morte. Pace eterna!

Maffettone, a cui ovviamente sfugge la natura socialmente totalitaria dei rapporti sociali capitalistici (realtà che fa impallidire e che rende ridicola, oltre che miserabile, ogni illusione “liberal-democratica”), chiude il suo articolo pubblicato oggi sul Riformista ribadendo il concetto che segue: «Nel malaugurato caso di conflitto, noi non possiamo e dobbiamo essere neutrali». Giustissimo! Il disfattismo rivoluzionario praticato e predicato dagli anticapitalisti nelle guerre imperialiste è infatti l’esatto opposto del neutralismo. Al passo appena citato, che naturalmente invita l’opinione pubblica a schierarsi dalla parte dei Paesi «liberal-democratici», mi limito ad aggiungere che noi siamo già dentro un conflitto di dimensioni mondiali (2).

Essere parte del problema o della sua soluzione?

Se nel corso di una guerra interimperialista dici che si tratta di discriminare fra aggressori e aggrediti, fra buoni e cattivi, quello che a questo punto ti rimane da confessare è da quale parte del campo imperialista ti schieri. Se ti poni il problema di capire quale degli Stati imperialisti in competizione per il potere sistemico regionale o mondiale ha iniziato le ostilità, ha sparato il primo colpo, ha violato per primo i confini di un altro Stato, allora stai accettando di fatto la logica della contesa interimperialistica, la quale si spiega solo chiamando in causa gli interessi delle classi dominanti di tutti i Paesi, di tutti gli Stati, di tutte le nazioni. Si tratta di interessi (economici, geopolitici ecc.) che sono radicalmente ostili ai reali bisogni dell’umanità, in generale, e delle classi subalterne in particolare. Se non comprendi questo, o semplicemente accetti la logica del “male minore” (di quello che ti appare come tale), per l’anticapitalismo sei parte del problema, non della sua soluzione.

 

(1) Alludo alla sinistra comunista antistalinista italiana ed europea.

(2) «Chi paventa il rischio di una Terza guerra mondiale forse non si rende del tutto conto che siamo già dentro una guerra di dimensioni mondiali che ha nel conflitto armato solo uno, certamente il più distruttivo e sanguinoso, dei suoi molteplici aspetti. Si tratta piuttosto di capire in quale modo e in che tempi questa guerra sistemica per il potere totale (economico, tecnoscientifico, ideologico, geopolitico) evolverà, quali nuovi aspetti assumerà la competizione interimperialistica nel prossimo futuro. Se assumiamo questo punto di vista, la vecchia distinzione fra crisi regionali (locali) e crisi internazionali (globali) perde di significato: troppo intrecciati e ingarbugliati sono infatti gli interessi di varia natura che fanno capo alle classi dominanti dei diversi Paesi del mondo; interessi che in qualsiasi momento possono entrare in reciproco contrasto e scatenare conflitti di qualche genere (qui viene in soccorso anche il concetto di “guerra ibrida”) al centro come alla periferia del sistema capitalistico mondiale. D’altra parte, la stessa guerra in Europa non è affatto una novità di questi ultimi anni: è sufficiente ricordare la guerra balcanica degli anni Novanta che fece più di 200mila morti e che ebbe nella dissoluzione della Jugoslavia il suo risultato più eclatante. Allora la Federazione Russa, alleata della Serbia ma corrosa da una gravissima crisi economica, non fu in grado di reagire prontamente contro l’attivismo occidentale. Ma di certo una parte della società russa non rimase indifferente: “In Russia, la questione serba è già diventata un problema interno. Le delegazioni di nazionalpatrioti che si susseguono in Serbia per stringere la mano a Milošević non si accontentano di uno scambio di esperienze con i loro compagni serbi; l’esempio di un regime che non esclude la possibilità di una guerra negli Stati vicini in nome della difesa dei serbi può essere contagioso” (L. Telen’, Le lezioni delle sanzioni, Moskovskie Novosti, n. 48, 29/12/1992). Diciamo pure che per Putin l’esempio serbo non è stato insignificante, tutt’altro (Sulla genesi del regime putiniano).

LA SCONFITTA DEL PROPRIO PAESE NELLA GUERRA IMPERIALISTICA

CANNONI CONTRO BURRO. A DUE ANNI DALL’INVASIONE RUSSA DELL’UCRAINA

SULLA COSIDDETTA AMBIGUITÀ STRATEGICA

MISERIA DELLA FILOSOFA

DALLA “NEUTRALITÀ BENEVOLA” ALLO “STATO DI BELLIGERANZA”. OVVIAMENTE CON LA COPERTURA DELL’ART. 11 DELLA COSTITUZIONE