Manganelli, pallottole di gomma, gas lacrimogeni, spray urticanti, cannoni ad acqua, cariche della polizia sempre più violente e arresti (più di mille studenti, poi rilasciati): quando c’è da reprimere un movimento politico e sociale che crea «caos e disagi per i pacifici cittadini», il governo democratico e progressista degli Stati Uniti non è secondo a nessuno, non teme il confronto con altri regimi del mondo, compresi quelli di Russia e Cina. Raggiungere lo standard repressivo dell’Iran è invece più difficile, ma con un po’ di impegno e con la giusta motivazione anche l’imperialismo Usa è in grado di competere con i macellai del regime iraniano.
Nonostante la repressione e la criminalizzazione continuano le manifestazioni pro-palestinesi e anti-Israele che da diverse settimane impazzano in moltissime (più di cento) università statunitensi, pubbliche e private, alcune delle quali molto prestigiose: Harvard, Columbia, Berkeley. Le proteste degli studenti irritano il governo americano anche, se non soprattutto, perché i “ribelli” appartengono alla sinistra del Partito Democratico e rappresentano la futura classe dirigente del Paese: «Cosa è andato storto?», si chiedono oggi a Washington, come del resto se lo chiesero durante la guerra in Vietnam. Moltissimi militanti del movimento contro la guerra (Peace and Love!) di allora andarono a rivitalizzare una classe dirigente che non riusciva più a tenere il passo delle trasformazioni sociali. Vedremo che fine faranno i contestatori di oggi.
Dice il Presidente Biden: «Il dissenso è essenziale per la democrazia ma non deve mai condurre al disordine». Sono i limiti della democrazia capitalistica, bellezza! I confini tra “dissenso” tollerabile e anzi desiderato in quanto espressione di una società civile politicamente attiva e fiduciosa nella democrazia, e “dissenso” non tollerabile perché spezza l’ordine varia naturalmente con la natura del “dissenso” e con le condizioni generali della società: quello che oggi è tollerato domani potrebbe non esserlo più.
Per il Presidente non sono giorni facili, considerato che nelle ultime Presidenziali (2020) una parte molto consistente del voto giovanile preferì lui all’ex Presidente Trump. Secondo gli ultimi sondaggi Trump otterrebbe la metà del voto giovanile. Biden sta cercando di riconquistare “i cuori e le menti” dei giovani studenti, ad esempio annunciando «la cancellazione di debiti studenteschi pari a 1,2 miliardi di dollari, favorendo i redditi più bassi. Inoltre, a differenza di Trump che ha definito il riscaldamento globale una bufala, Biden ha aderito all’accordo di Parigi che impegna i firmatari a limitare la crescita della temperatura media globale» (Notizie Geopolitiche). Donald Trump vorrebbe invece rilanciare in grande stile l’industria legata all’estrazione del petrolio – oltre che gli Accordi di Abramo del 2020, le trattative tra Israele e l’Arabia Saudita e la politica delle sanzioni contro l’Iran. Trump sa bene che gran parte dei giovani mobilitati contro la guerra a Gaza non lo voterà mai, ma per lui è sufficiente che quei giovani elettori manifestino la loro delusione nei confronti di Biden rifugiandosi nell’astensione.
L’accusa di antisemitismo rivolta ai manifestanti presi in blocco, vale meno di zero (*), e quei pochissimi studenti e insegnanti che in effetti mescolano insieme antisionismo e antisemitismo, magari perché appoggiano acriticamente i nazi-islamisti di Hamas o perché non sanno (o non vogliono?) distinguere gli ebrei, anche quelli che hanno la ventura di vivere in Israele, dalla classe dirigente israeliana, non fanno che agevolare la calunnia governativa intesa a criminalizzare il dissenso. Anche il complottismo è stato mobilitato contro gli studenti e i professori “ribelli”, e molti politici di entrambi gli schieramenti politici invitano l’opinione pubblica americana a chiedersi se per caso dietro le proteste nei campus universitari non vi sia l’azione maligna di qualche “grande vecchio” – tipo Soros, che non manca mai nelle narrazioni a carattere complottista – o di qualche potenza nemica.
Per quanto riguarda la strumentale quanto falsa accusa di antisemitismo rivolta alla generalità del movimento contro il massacro dei palestinesi concentrati a Gaza (e non a singoli e isolati episodi), c’è da dire che una parte consistente della comunità ebraica americana si è subito schierata a favore di quel movimento, costituendone anzi l’ala politicamente più attiva e radicale. I giovani della Jewish Voice for Peace indossano magliette con la scritta Not in Our Name. E questo pur continuando a esprimere la loro solidarietà allo Stato di Israele – ma non al governo Netanyahu, che invece detestano con tutte le loro forze, come del resto capita a una larga parte dell’opinione pubblica israeliana.
La guerra che il governo israeliano sta conducendo contro i palestinesi (non solo e non tanto contro Hamas) con il sostegno politico, finanziario e militare degli Stati Uniti ha esacerbato un disagio e un senso di frustrazione che ormai cova da anni dentro le università americane, e ha radicalizzato uno scontro politico-ideologico molto diffuso in tutta la società americana, sempre più divisa e disgregata al suo interno, e la polarizzazione politico-ideologica che vediamo anche nei campus universitari non fa che esprimere un dato di fatto. Su questo punto cercherò di ritornare quanto prima.
Leggo sul Manifesto: «Sventolare oggi la bandiera palestinese è sempre più parte della difesa del diritto internazionale, è contro la guerra, è per una vera pace». Questo può scriverlo solo chi crede nel diritto internazionale, che è diritto borghese all’ennesima potenza, chi crede nell’Onu, «un covo di briganti imperialisti», per dirla con Lenin, nel cui seno non si muove foglia che l’Imperialismo (delle grandi potenze: Usa e Cina in primis) non voglia e, dulcis in fundo, chi crede nella “pace” capitalistica, la quale prepara le condizioni che rendono possibili i conflitti armati. Per questo l’anticapitalista non sventola nessuna bandiera nazionale, mentre agita una sola metaforica bandiera: quella dell’autonomia di classe, la sola posizione politica che può consentire ai nullatenenti di tutto il mondo di non farsi usare dalle classi dominanti e di mantenere una posizione critica, indipendente e non subalterna nei confronti di tutte le cause che non sono riconducibili a quella della lotta di classe, dell’anticapitalismo, dell’internazionalismo. È da questa prospettiva che personalmente esprimo, sempre per quel pochissimo che vale, la mia solidarietà umana e politica ai nullatenenti palestinesi e ucraini.
(*) Su questo punto Giuliano Ferrara e Federico Rampini la pensano in maniera affatto diversa. Secondo il primo, «La passione acceca i giovani universitari, che minacciano la convenzione democratica di Chicago e la rielezione di Biden contro Trump. E non vedonoOdessa sotto le bombe e le atrocità di Hamas». Per Ferrara lo studente pro Hamas è una «strana bestia»; giudicarlo però è facile, perché sta dalla parte sbagliata, cioè dei carnefici, degli antisemiti, dei misogini. «Lo studente pro Hamas sta dalla parte sbagliata della storia, come i fascisti repubblichini sconfitti dagli angloamericani, dalla brigata ebraica, dai partigiani il 25 aprile del 1945. Meno facile è comprenderlo, anche se alla fine si capisce che si tratta di uno che si odia. Per quella cultura che deriva dall’ignoranza, si detesta. Ha frequentato corsi di antirazzismo, anticolonialismo, antispecismo, antiumanesimo ecologista, vive immerso in un brodo genderista, fanatico e bollente, dove sono maltrattati Shakespeare e altri geni del canone; pensa l’occidente come il luogo della vittimizzazione del diverso, della grande carneficina ai danni del povero, dell’escluso, e difende come un safe space, un luogo sicuro, perfino ormai l’antisemitismo modello Columbia University» ( Il Foglio).
Scrive invece Federico Rampini: «”In quanto nipote di un sopravvissuto di Auschwitz e studente di storia degli ebrei in Germania, ho sempre fatto fatica a credere che un popolo di alta cultura come i tedeschi, la nazione di Goethe e di Beethoven, potesse mostrare simpatia e perfino entusiasmo per lo sterminio nazista degli ebrei. Ora ci credo. L’ho visto succedere qui”. Chi scrive si firma J.J. Kimche, in una lettera aperta ad alcuni quotidiani americani e alle sue autorità accademiche. È un dottorando in storia ebraica a Harvard. Il “qui” a cui si riferisce è appunto la più prestigiosa di tutte le università americane. Ne sono usciti ben otto presidenti degli Stati Uniti, inclusi i due Roosevelt, John Kennedy e Barack Obama. Harvard ha anche il record di Premi Nobel: cinquanta. In questo tempio del sapere – con rette da settantamila dollari annui – trenta associazioni studentesche hanno firmato un documento che legittima il terrorismo di Hamas, non spende una sola parola per condannare le sue stragi (incluse le uccisioni di bambini), anzi proclama che “il regime israeliano è l’unico responsabile per la violenza”. […] Il caso-Harvard non è isolato. A Berkeley, California, un documento di «sostegno incondizionato» ad Hamas – e non una parola di cordoglio per le sue vittime – ha riunito cinquanta associazioni studentesche. Alla Columbia University di New York un gruppo di iscritti ha festeggiato il massacro di civili come una “storica controffensiva”.Episodi analoghi sono accaduti in altre università di élite sulle due coste degli Stati Uniti. Non dovremmo sottovalutarli. È importante riflettere su quello che sta accadendo nelle più prestigiose facoltà americane (e in parecchi atenei europei). La vastità del consenso pro-Hamas, con punte di aperto antisemitismo e una totale assenza di condanna per le stragi di civili israeliani, ha sorpreso solo chi non conosca il clima ideologico che regna in quei campus» (Il Corriere della Sera).
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