PENSIERI A SCARTAMENTO RIDOTTO

Leggere i cosiddetti esperti in materia di tecnologia a volte può  essere davvero disperante, per un verso, e per altro verso per chi scrive può rivelarsi anche consolatorio e confortante, perché gli fa capire che non è il solo a ripetere sempre le stesse cose.  Qui sotto gli ultimi esempi.

Abbiamo Konrad Bleyer-Simon che fa una strepitosa quanto deludente (per lui e per chi la pensa come lui) scoperta: Internet «si presenta come una immane raccolta di merci», per dirla con il solito Marx. «Negli anni 2010 e 2020, i fornitori di servizi di piattaforma come Google, Facebook, Twitter o TikTok hanno di fatto creato dei “centri commerciali” online sempre più sofisticati: gli utilizzatori possono interagire sempre di più, ma in un ambiente sempre più controllato, spesso senza rendersi conto di essere guidati da algoritmi o moderatori” umani, mentre quasi tutte le loro attività generano dati che possono essere monetizzati. Le enormi quantità di dati raccolti da questi “centri commerciali” online sono alla base dell’evoluzione di una serie di nuove pratiche commerciali su internet. Pur essendo spesso basati su intrusioni nella privacy degli utenti, sulla raccolta e lo stoccaggio di dati e su servizi non sempre chiari e trasparenti, questi “centri commerciali” online sono riusciti ad attrarre investimenti da parte di grandi aziende. […] Un altro caso noto è quello di Uber, la società di trasporto e consegna a domicilio, i cui servizi hanno trasformato i lavoratori in “schiavi” pagati e controllati da algoritmi». La «svolta for-profit» di Internet molto amareggia il nostro, il quale auspica «misure per addomesticare internet e creare veri e propri spazi pubblici. Il buon senso suggerirebbe di creare nuove regole o di ridurre il potere di mercato degli operatori dominanti» (Green European Journal). Mettere le braghe al Moloch capitalistico, moderarlo, “civilizzarlo”, “democratizzarlo”: è la sola ingenua quanto insulsa ricetta “riformatrice” che i cervelli progressisti e benecomunisti riescono a regalare all’umanità.

Lo stesso Bleyer-Simon ammette che «Internet, così come la conosciamo, non sarebbe potuta nascere senza denaro pubblico e, infatti, esistono, ancora numerosi contratti tra l’apparato militare statunitense e la Silicon Valley. Dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Ottanta, o anche oltre, il settore privato non avrebbe infatti potuto assumersi il rischio assunto dalla Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) negli anni Sessanta e Settanta e impiegare la manodopera necessaria per realizzare questo progetto. Sostenuta dalla prospettiva a lungo termine fornita da un’agenzia governativa degli Stati Uniti e libera dalle pressioni del mercato, la prima internet è nata da un processo di co-creazione fruttuoso che ha visto collaborare per decenni migliaia di ricercatori. […] La privatizzazione di questa rete, fino ad allora fortemente sovvenzionata, era stata sì prevista, ma è avvenuta in una forma più estrema di quello che si era pensato». Il Capitale, pubblico e privato, ha sviluppato una tecnologia con lo scopo di trarne profitto: nulla di più “naturale” nella società dominata dal rapporto sociale capitalistico di produzione della ricchezza sociale. Il problema sta piuttosto nella testa di chi ne ha sottovalutato le capacità predatorie e si è fatto delle illusioni intorno alla «filosofia di apertura e condivisione che ne ha permesso nascita e sviluppo e che è stata soffocata da profitto e privatizzazione».

In ogni caso Bleyer-Simon ritiene ancora possibile la creazione di «un’internet in cui i mercati contano meno». Notare il “realismo”: «contano meno». Auguri!

Abbiamo poi Paul Nemitz, «esperto del “triangolo legge, tecnologia e democrazia” e consigliere dell’Ue», secondo il quale «Non possiamo essere certi che un’intelligenza artificiale generale non venga sviluppata a breve. Per questo è necessario che la democrazia prenda il controllo su questa tecnologia, in base al collaudato principio di precauzione. Gli ingegneri e gli sviluppatori che si occupano dell’Ia saranno d’accordo. Né le persone né la democrazia possono essere controllate e manipolate dall’Ia. Al contrario, sia le persone che la democrazia devono mantenere il controllo sull’intelligenza artificiale. Se si possa fare dell’Ia un’opportunità per la democrazia dipende da molti fattori. Per prima cosa, la volontà di coloro che sviluppano i sistemi d’intelligenza artificiale di servire la democrazia e non solo di trarne profitto. […] Non possiamo ignorare l’importante questione del potere quando si parla dell’Ia. Senza una legge vincolante, il potere della tecnologia di modellare la società si concentra nelle sole mani di coloro che la sviluppano e la possiedono. Se le società fossero organizzate in questo modo, la democrazia non funzionerebbe e non potremmo garantire che i diritti fondamentali vengano rispettati» (VoxEurop). Qui veramente siamo ai vertici della concezione feticistica della tecnologia, che difatti viene concepita come una cosa e non come un rapporto sociale. «Il potere della tecnologia di modellare la società» altro non è che il potere del capitale di modellare e plasmare sempre di nuovo la società. La democrazia capitalistica è al servizio di questo potere sociale, il quale ha appunto nella tecnoscienza il suo strumento più efficace per controllare sempre più capillarmente gli individui e per sfruttare nel modo sempre più razionale (capitalisticamente parlando, si capisce) l’umanità e la natura. Chi ci controlla e manipola è il dominio sociale capitalistico, non una tecnologia, e nemmeno una generica volontà, di natura economica o politica, orientata al Male. Come non mi stanco di scrivere, l’«intelligenza artificiale generale» di cui straparlano gli “esperti” non è altro che l’intelligenza del Capitale. Parlare di «autogestione dell’Intelligenza Artificiale» significa non avere la benché minima cognizione circa la società che ci è toccata in sorte, e su questo pessimo fondamento concettuale fioriscono rigogliosamente i fiori del feticismo e della reificazione. Fiori del male, per dirla con il poeta.   

L’illustratrice Molly Crabapple ha scritto una lettera aperta contro l’uso dell’intelligenza artificiale nella produzione di immagini: «Questa pratica nuoce al lavoro di artisti, vignettisti e illustratori e viola le norme sul diritto d’autore. Mentre le carriere degli illustratori saranno decimate dall’arte dell’intelligenza artificiale generativa, le aziende che sviluppano la tecnologia stanno facendo fortuna. La Silicon Valley sta attaccando i salari degli artisti in carne e ossa, e questo attraverso i suoi investimenti nell’Ia. L’Ia generativa è solo all’inizio. Se gli illustratori vogliono rimanere tali, il momento di lottare è adesso. Gli artisti, gli editori, i giornalisti, i curatori e i leader dei sindacati del giornalismo devono impegnarsi per i valori umani contro l’uso delle immagini dell’Ia generativa per sostituire l’arte fatta dall’uomo». Naturalmente sostengo la lotta di tutti i lavoratori salariati sfruttati, precarizzati e incalzati a ritmi sempre più frenetici dal Capitale (non dalla cosiddetta Intelligenza Artificiale); ma senza concedere nulla alle illusioni circa la possibilità di una comunità “più a misura d’uomo” nell’ambito della società capitalistica. Dar credito a questa ultrareazionaria illusione significa aver perso, sotto tutti i punti di vista, ancor prima d’aver iniziato a lottare.

Scriveva Karl Kraus nell’ottobre del 1908: «Siamo stati complicati abbastanza per creare le macchine, e siamo troppo primitivi per farci servire da esse. Pilotiamo un traffico mondiale sulle esigue rotaie del cervello». Il problema non sono le «esigue rotaie» del nostro cervello, ma la natura disumana del Moloch capitalistico, una mostruosità sociale che appare davvero primitiva se vista dalla prospettiva dell’emancipazione umana, una splendida possibilità sempre più necessaria e sempre più negata.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E CONSAPEVOLEZZA SOCIALE

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE E LA MINACCIA ESISTENZIALE ALL’UMANITÀ

UMANO, FIN TROPPO UMANO. PRATICAMENTE UNA PARODIA DI UMANITÀUMANO, FIN TROPPO UMANO; MESSAGGIO DEL NOSTRO FRATELLO MACCHINA

I PASSERI DI MAO

Ho appena finito di leggere un articolo, corredato di molte foto d’epoca, dedicato a un episodio particolarmente “curioso” avvenuto in Cina durante il Grande Balzo in Avanti, la campagna socio-economica promossa dal regine cinese nel 1958 e archiviata nel gennaio del 1961 a causa dei suoi esiti a dir poco disastrosi. Si tratta della campagna lanciata da Mao in persona contro le Quattro Piaghe: zanzare, mosche, roditori e passeri, ritenuti responsabili di malattie e della distruzione di una parte del raccolto di cereali. A finire nel mirino della propaganda maoista furono soprattutto gli uccelli in generale e i passeri in particolare, accusati di essere «gli animali del capitalismo». «Il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano in un’altra parte del mondo. Il famoso Effetto Farfalla ha raggiunto proporzioni bibliche nella Cina della metà del XX secolo ma, nel suo caso, scambiando le farfalle con i passeri» (The Daily Digest).

L’articolo definisce «governo comunista di Mao Zedong» il regime che promosse il Grande Balzo, mentre per chi scrive quel regime ebbe una natura schiettamente nazionale-borghese, come poteva esserlo nelle peculiari condizioni storiche e sociali della Cina d’allora, peraltro ancora legata al Paese che aveva dato il via alla tragica (perché menzognera) stagione del “socialismo reale”. Personalmente considero radicalmente infondata, sul piano storico-sociale, la contrapposizione tra la Cina di Mao e la Cina di Xi: vi è piuttosto una continuità di fondo che va appunto ricercata nella natura nazionale-borghese della rivoluzione che portò alla fondazione della Repubblica Popolare nel 1949. Ma su questo punto rimando ai miei diversi scritti dedicati al tema.

Per capire l’approccio ideologico del maoismo degli anni Cinquanta con i problemi posti dalla natura alla comunità umana, è sufficiente dire che esso si ispirava  alle “dottrine” di Trofim Lysenko, un agronomo russo che, sotto l’ala protettiva di Stalin, era riuscito a imporre al Paese l’acritica accettazione di una teoria dei caratteri acquisiti adattata alla dottrina del cosiddetto materialismo dialettico (diamat), una concezione volgare (borghese) che nulla a che fare aveva con il materialismo storico di Marx. «È una storia allucinante, assolutamente inverosimile per uno che non abbia vissuto quel delirio ideologico, degno dei periodi più oscuri del Medio evo. Anzi, che li sorpassa», scriveva Denis Buican nel suo saggio del 1978 L’eterno ritorno di Lysenko. Scrive Dominique Lecourt: «Nel 1935 Lysenko elaborò una teoria agronomica generale che rispondeva alle aspettative del potere politico. […] Trascinato nel gioco al rialzo della politica staliniana, il lysenkismo fu costretto a praticare a sua volta un gioco al rialzo di successi immaginari. Questo processo implacabile ha poco a che vedere con la pretesa paranoia di Lysenko o con i capricci di Stalin. È il processo in se stesso che è delirante» (Il Caso Lysenko, 1977). Inutile dire che le concezioni “socialiste” in campo agricolo di Lysenko si rivelarono un’assoluta sciocchezza sul piano scientifico e un fallimento sul piano della tecnica agronoma, e già alla fine degli anni Quaranta i fallimenti spettacolari del lysenkismo non poterono più essere tenuti nascosti neanche nel seno della comunità scientifica sovietica, che iniziò infatti a discuterne, sebbene all’inizio in modo estremamente prudente. Lysenko cadde in disgrazia solo a cominciare dal 1952, quando in una riunione del comitato centrale del PCUS Malenkov sostenne, a nome dei quadri della produzione agricola, che «malgrado l’eliminazione delle teorie antiscientifiche [sic!] e l’adozione di una base materialista-mičuriana [ah, ah, ah!] in agricoltura, la produzione delle aziende collettive e di Stato rimane sempre molto insufficiente». Notare il tono eufemistico adottato dal dirigente “comunista”: «rimane sempre molto insufficiente», per non dire che la “rivoluzione” nelle campagne russe promossa dallo stalinismo alla fine degli anni Venti si era risolta in un disastro economico-sociale. Lo stalinismo costruì un vero e proprio culto nazionale sulla figura dell’arboricoltore autodidatta Ivan Vladimirovich Mičiurin, morto nel 1935, e Lysenko lo trasformò in un teorico della «nuova agricoltura socialista» (peraltro deformandone gravemente il pensiero per presentarlo come un avversario della teoria mendeliana): il fallimento dell’agricoltura sovietica necessitava di santi a cui votarsi e di leggende da vendere al popolo lavoratore.    

Scrive Pietro Deragni: «Come l’Unione Sovietica, nel 1958 anche la Cina rifiutò la “scienza occidentale che amava i moscerini e odiava le persone” e applicò le fallimentari teorie del fanatico Lysenko. […]. Tra le innovazioni obbligatorie, i semi di diverse piante dovevano essere piantati gli uni vicini agli altri, in modo tale che esse potessero aiutarsi a vicenda secondo i principi della lotta di classe. Ma piantare semi troppo vicini e di piante con diverse caratteristiche non fece altro che mettere in competizione gli organismi gli uni con gli altri per le risorse, con esiti disastrosi. Un’altra trovata del Lysenkoismo era quella che di piantare i semia grandi profondità: la teoria alla base era che il terreno diventasse più fertile in profondità e che le piante in questo modo potessero di crescere più forti. Il risultato fu che i contadini cinesi si spaccarono le schiene per piantare semi fino all’assurda profondità di 2 metri, spesso compromettendo quegli strati di suolo, i più superficiali, che sono davvero cruciali per la coltivazione. Sempre in ossequio a Lysenko, i semi erano piantati anche in terreni gelati: le piante, anche grazie alle loro compagne, avrebbero col tempo avuto ragione delle avversità. Come se non bastasse, Lysenko in agricoltura rifiutava anche l’utilizzo di fertilizzanti di sintesi, poiché considerava la chimica qualcosa di intrinsecamente “altro” rispetto al mondo delle leggi della natura: per arricchire il terreno erano ammessi solamente il letame e la rotazione delle colture. Sebbene entrambe le tecniche (ben più antiche del Lysenkoismo) abbiano una indubbia efficacia siano tutt’ora applicate con successo dagli agricoltori, nella Cina del grande balzo in avanti furono anch’esse bloccate dall’ideologia. […] Non si può invece imputare all’agronomo di Stalin la Campagna di eliminazione dei quattro flagelli, che fu invece interamente responsabilità di Mao. Il piano era semplice: attuare un’eliminazione radicale ratti, zanzare, mosche e passeri usando tutta la popolazione come forza lavoro. Mao voleva sbarazzarsi dei primi tre flagelli per motivi sanitari, mentre i passeri erano ritenuti colpevoli di cibarsi dei semi delle colture. Il dittatore però non aveva fatto i conti con gli equilibri ecologici: i passeri non si limitavano a rubacchiare qualche seme, ma facevano scorpacciate di insetti, alcuni dei quali realmente dannosi per l’agricoltura. Dopo aver portato i passeri cinesi sull’orlo dell’estinzione, il governo fu ripagato da raccolti di riso devastati dagli insetti che quei passeri tenevano a bada. Lo sterminio dei passeri terminò nel 1960, quando la quarta peste nemica del popolo diventò la cimice dei letti. Nel frattempo, il governo cinese avrebbe cominciato a importare centinaia di migliaia di passeri dall’Unione Sovietica…» (Wired.net).

Secondo le stime ufficiali del governo cinese, il numero di persone morte per fame nel corso del Grande Balzo in Avanti è di 15 milioni. Ricerche non ufficiali ma molto più credibili stimano una cifra che si aggira intono ai 57 milioni di morti. Dopo gli immensi sforzi che hanno dovuto sostenere dal ’58 al ’61 i contadini e i proletari cinesi apprenderanno che il tanto reclamizzato Grande Balzo era miseramente fallito, e non certo a causa di uccelli e roditori. Tra l’altro nel 1959 quasi la metà delle aree coltivate furono colpite da grandi inondazioni o da gravi siccità, cosa che rese più urgente una più oculata e realistica campagna di costruzione delle infrastrutture del Paese. «In conclusione, il compito principale del Grande Balzo, accrescere l’accumulazione e la produttività agricola, non solamente non è stato portato a termine, ma la stessa produzione industriale è diminuita, sia in senso assoluto sia in rapporto alla produzione totale. In effetti è stato raggiunto proprio l’obiettivo inverso, cioè la riduzione degli investimenti nel settore dei beni di produzione per riorganizzare l’agricoltura» (A. Peregalli, Introduzione alla storia della Cina, 1976).

«Il giornalista ambientale John Platt, parlando con la BBC, ha riconosciuto il ruolo che la caccia di massa ai passeri ha avuto nella fame di massa in Cina, ma ha sottolineato che questa non è l’unica ragione della crisi. Da un lato, l’impiego dei contadini nell’industria siderurgica ed edile ha lasciato l’agricoltura senza personale e interi raccolti in decomposizione. Allo stesso tempo, la ricerca del governo cinese di un’industrializzazione effimera ha portato a una deforestazione massiccia. Con il senno di poi, è chiaro che la Cina ha imparato dai suoi errori ed è diventata la grande potenza che è oggi. Una lezione che è costata la vita a centinaia di milioni di passeri e, soprattutto, a decine di milioni di cittadini» (The Daily Digest). Sul processo di accumulazione capitalistica “primitiva” in Cina rimando a tre miei scritti: Tutto sotto il cielo – del CapitalismoChuang e il “regime di sviluppo socialista”Sulla campagna cinese.

ASPETTANDO GLI ANGELI DELLA RIVOLUZIONE…

A quanto pare più del 97% della comunità scientifica è unanime nell’attribuire alle cosiddette attività antropiche la causa di gran lunga maggiore, se non addirittura esclusiva, del cambiamento climatico in atto su scala planetaria – peraltro accettato come fatto evidente anche dai cosiddetti negazionisti climatici, che opinano se mai sulle sue vere cause. Io che non sono uno scienziato del clima, né di qualche altra “branca” scientifica, non posso che inchinarmi al cospetto di questa opinione praticamente unanime della comunità scientifica, e lo faccio anzi assai di buon grado. Il motivo è assai semplice, e non ha niente a che fare con la mitica “evidenza scientifica”.

Leggo da qualche parte: «Come facciamo a sapere che il riscaldamento globale non ha un’origine naturale? Perché le cause naturali in grado di influenzare la temperatura globale su scale temporali brevi (da anni a decenni) non hanno agito in modo significativo dall’era preindustriale a oggi.  […] I grafici mostrano come i gas serra, gli inquinanti atmosferici (aerosol) e le cause naturali hanno influenzato la temperatura media globale dal 1850. Solo includendo l’aumento di gas serra prodotti dall’uomo i modelli di simulazione climatica riescono a riprodurre le temperature osservate. Questo è uno dei modi con cui sappiamo che l’uomo è responsabile del riscaldamento del clima». Secondo i modelli climatici più accreditati il contributo delle cause naturali al cambiamento climatico è davvero scarso, mentre gli inquinanti atmosferici prodotti dalle attività industriali e dal “metabolismo urbano” contrasta hanno un effetto raffreddante e quindi contrastano l’innalzamento delle temperature dell’atmosfera, dei mari e delle terre emerse.

Tutti gli studi scientifici sul cambiamento climatico derivato dalle attività umane che ho letto negli ultimi anni fanno riferimento al 1850 come avvio della serie statistica. Ora, se l’intelligenza non m’inganna, nel 1850 le attività industriali significative per il problema qui trattato avevano una natura squisitamente capitalistica, per non parlare delle attività “antropiche” degli anni successivi. Oggi il capitalismo ha le dimensioni del pianeta. Che senso ha, quindi, parlare di generiche “attività umane”, di “antropizzazione del territorio”, di “Antropocene”, di “sapiens” (come ama fare il noto Mario Tozzi) (*)? A mio avviso un solo significato: nascondere la radice sociale del problema, mistificare la realtà, portare acqua al mulino del dominio sociale capitalistico, appoggiare una cordata capitalistica (ad esempio, quella molto interessata alla “transizione tecnologica/ecologica”) in lotta contro altre cordate (ad esempio, quelle interessate al mantenimento della vecchia tecnologia basata sui combustibili fossili). Una società dominata dal Moloch capitalistico non può che generare distruzioni e cataclismi sociali d’ogni genere – inclusi ovviamente quelli cosiddetti ambientali.

Scriveva il già citato Tozzi nell’ottobre del 2020 (forse in occasione di qualche alluvione o di un analogo disastroso evento): «Abusi, incuria e colate di cemento: la colpa è dell’uomo, non della natura» (La Stampa).  Così mi permettevo di chiosare: «Si scrive “uomo”, si legge Capitale. Mutatis mutandis, la stessa cosa vale a proposito della parola “Coronavirus” e ai disastri sociali a essa associati». Non ho altro da aggiungere. Anzi, un’ultima cosa vorrei aggiungerla: più che di «angeli del fango» (che stucchevole retorica!) l’umanità e la natura avrebbero un immenso bisogno di angeli della rivoluzione.

(*) «In teoria i sapiens comprendono la realtà e vi si adattano o la modificano a proprio vantaggio. Sono realmente sapiens, però, quando questo piegarla non diventa un boomerang. Esattamente quanto sta accadendo con la pandemia da Covid-19. Dalla rivoluzione industriale in poi gli uomini hanno sostanzialmente mutato il volto del pianeta, creando addirittura un periodo geologico che chiamiamo Antropocene, segnato dalle conseguenze delle nostre attività. Questa mutazione si è declinata in tanti modi, ma possiamo riassumerla in uno solo: lo sconvolgimento degli ecosistemi preesistenti. Ciò si traduce in una perdita di natura complessiva che ha, fra le altre conseguenze devastanti, le pandemie che, dunque, non sono affatto casuali. Quando tagli una foresta tropicale, sottrai habitat a pipistrelli e altri animali che ospitano virus e batteri e che sono costretti a cercarsi un altro posto, in genere nei pressi degli allevamenti intensivi o delle periferie urbane. Con tutto il loro corredo di microrganismi. In pratica è come se noi stessi li invitassimo a nuove mense, magari attraverso ospiti-serbatoio, come potrebbe essere stato il caso del pangolino cinese» (La Stampa, 16/03/2020). Sulla crisi sociale pandemica rinvio al mio PDF.

DA HIROSHIMA SEGNALI DI GUERRA PER PECHINO

Nel documento finale sfornato a Hiroshima dal G7, la Cina viene accusata senza mezzi termini di  «coercizione economica». Come scrive l’ex ambasciatore in Iraq Marco Carnelos, «tale accusa viene mossa da 7 Paesi e da un’istituzione, l’UE, che figurano come i principali sanzionatori economici verso il resto del mondo. Un recente studio del Center for Economic and Policy Research ha rilevato che i soli Stati Uniti, attualmente, sanzionano il 29% dell’economia mondiale, percentuale indubbiamente destinata a salire se consideriamo anche gli altri membri del G7 che si adeguano a Washington. Le sanzioni economiche sono forse qualcosa di diverso dalla coercizione economica, e politica? Se questa fosse una discussione al Bar dello Sport, si direbbe che siamo in presenza del “bue che dà del cornuto all’asino”. Nei salotti eleganti, invece, quei pochi caratterizzati da maggior coraggio, utilizzerebbero il termine “ipocrisia”» (Middle Easy Eye). E ancora: «Le regole del gioco erano buone quando hanno permesso agli Stati Uniti e all’Occidente globale di vincere e dominare, ma ora che tale egemonia sta diventando incerta le regole devono cambiare». Parlare di “doppio standard” è a dir poco eufemistico.

Ma niente di nuovo sotto il cielo del capitalismo mondiale: alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso gli Stati Uniti arrivarono ad accusare il Giappone, terza superpotenza economica del mondo che in molti e fondamentali settori industriali, commerciali e finanziari aveva intaccato il primato capitalistico statunitense, di praticare la stessa politica estera che ebbe come conseguenza l’«attacco proditorio» a Pearl Harbor del dicembre 1941 e l’intervento degli americani nella Seconda guerra mondiale. Peraltro gli stessi economisti giapponesi posero allora lo scottante problema che segue: come può il Giappone diventare una potenza globale senza un’adeguata capacità militare? La risposta americana la conosciamo. Pechino ha insomma buon gioco a comunicare quanto segue: «Quando si tratta di “coercizione economica”, questo cappello è più adatto agli Stati Uniti. In quanto vittima degli accordi del Plaza degli anni ‘80, il Giappone (che accettò di svalutare la sua valuta) dovrebbe avere la comprensione più profonda di ciò». Per il governo cinese, molto irritato con Tokyo (1) perché il governo giapponese non fa nulla per «fermare il bullismo unilaterale indiscriminato» di Washington e per «esercitare l’indipendenza strategica» (nei confronti degli americani), «Le principali minacce all’economia mondiale nella necessità di assicurare la stabilità delle catene industriali e di approvvigionamento, e di evitare di dividere il mondo in due grandi mercati e due grandi sistemi arrivano dagli Stati Uniti». Pechino accusa i Paesi del G7 di aver voluto «diffamare e attaccare la Cina», oltre ad aver «gravemente interferito negli affari interni della Cina» (vedi la questione Taiwan); quei Paesi secondo i cinesi farebbero bene a «mettersi al passo con la tendenza dei tempi caratterizzate da apertura e inclusività» (Il Quotidiano del Popolo).

In effetti, la “globalizzazione capitalistica” com’è stata praticata da tutti i Paesi, e soprattutto dalla Cina, negli ultimi 40 anni sorride ancora agli interessi del Celeste Imperialismo, che difatti teme molto la   «coercizione economica» orchestrata ai suoi danni dall’Occidente e dai suoi alleati asiatici. Sul piano storico, la politica delle “porte aperte” e del libero-scambismo è stata una prerogativa dei Paesi capitalisticamente più forti, mentre la politica protezionista è più adeguata ai Paesi in declino o non ancora sufficientemente sviluppati.  

A proposito di globalizzazione! Per Richard D. Wolff, professore emerito di Economia alla University of Massachusetts, «La globalizzazione è la conseguenza inevitabile del capitalismo, sistema economico storicamente e intrinsecamente espansionistico. Molto più dello schiavismo, del colonialismo o di altri sistemi economici precedenti. I meccanismi di accumulazione e competizione del capitalismo implicano una spinta espansionistica, motivata dalla costante ricerca di nuove fonti di approvvigionamento e mercati di sbocco. A prescindere dall’iniziale nucleo geografico in cui un’economia capitalistica nasce e prende forma, questo sistema è naturalmente indotto a trascendere i propri confini – fisici, politici, culturali – originari, espandendosi in modo potenzialmente illimitato» (Limes). Il concetto di imperialismo come intima natura del Capitale, inteso sempre come rapporto sociale di dominio e di sfruttamento, e non come “cosa economica”, qui è espresso in modo davvero ammirevole.

La Cina concepisce come proprio cortile di casa l’area del Mar Cinese Meridionale e Orientale, e quindi avverte come una grave intrusione nel suo più immediato spazio vitale la parte del documento dei “Sette grandi” dedicata all’espansionismo cinese in quell’area delicatissima sotto molti aspetti. Per non parlare all’asserita necessità, molto apprezzata da Taipei, «di continuare a cooperare contro l’autoritarismo» cinese. Ovviamente la contrapposizione ideologico-propagandistica tra “democrazie” e “autocrazie” serve a coprire la vera e sola posta in palio: il potere mondiale declinato in tutti i suoi aspetti. Quella contrapposizione è meglio lasciarla ai tifosi delle opposte fazioni imperialistiche, facce della stessa escrementizia medaglia. In ogni caso, come sostiene il già citato Carnelos, «La narrativa degli Stati Uniti su un New Washington Consensus come strumento per vincere la presunta battaglia in corso tra democrazia e autocrazia non sembra convincente». Più convincente in molte aree del mondo appare invece l’approccio “pragmatico” della Cina orientato – in apparenza – solo ai rapporti economici, base per una futura influenza geopolitica. La politica estera di Pechino può essere sintetizzata, al netto della fraseologia diplomatica, come segue: ogni Paese ha il pieno diritto di sfruttare e opprimere i lavoratori e le minoranze (etniche, religiose, ecc.) come meglio crede. In ciò il Celeste Imperialismo appare meno ipocrita della concorrenza “democratica” che tanto affetta di amare i cosiddetti “ditti umani”.

Intanto la Cina approfitta anche del conflitto in Ucraina per insediarsi nel cuore dell’Asia Centrale, indebolendo di molto la già difficile posizione della Russia: «Il vertice della scorsa settimana delle cinque repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan) a Xi’an indica che la Cina vuole insinuarsi nella regione, percependo che la Russia sta perdendo la sua presa. A quanto pare, Pechino teme un vuoto di potere in Asia centrale, che è cruciale per la sua Belt and Road Initiative. Mosca è assorbita dalla sua guerra in Ucraina e potrebbe verificarsi una crisi politica nel Paese. Trent’anni fa, con la caduta dell’Unione Sovietica, la Cina ha visto le repubbliche dell’Asia centrale diventare indipendenti e sempre più instabili. Tuttavia, per paura di irritare la Russia, la Cina non si è mossa per cercare di stabilizzare la situazione. Poi sono intervenuti altri attori politici, tra cui gli Stati Uniti, con grande disappunto di Russia e Cina. Ora la Cina vuole evitare e prevenire tutto ciò» (F. Sisci, Formiche.net). «Il mondo ha bisogno di un’Asia centrale stabile, prospera, armoniosa e ben collegata. La Cina è pronta ad aiutare i Paesi dell’Asia centrale a migliorare l’applicazione della legge, la sicurezza e la costruzione di capacità di difesa», ha dichiarato Xi Jinping, infilando un dito nell’occhio di Putin e un altro nell’occhio di Biden. Secondo Francesco Sisci l’impresa non è comunque di quelle facili: «Non è chiaro quanto la proposta possa avere un impatto reale. Le repubbliche sono desiderose di agganciarsi al motore economico cinese e di collegarsi ai suoi porti orientali. Ma le popolazioni locali sono anche diffidenti nei confronti della pervasiva penetrazione economica della Cina e sono allarmate dalla recente e diffusa repressione degli uiguri nello Xinjiang». Tutto appare insomma fluido, in movimento, magmatico, e i vari “attori internazionali” cercano di approfittare delle altrui debolezze, pensando sempre di essere più intelligenti e più furbi dei concorrenti. Il processo sociale reale poi mette le cose a posto e stabilisce la graduatoria dei vincenti e dei perdenti, come sempre. Ma ritorniamo, per concludere rapidamente, al versante occidentale.

L’ordine internazionale basato sulle regole imposte alla fine della Seconda guerra mondiale dall’«Occidente collettivo» a guida statunitense al resto del mondo vacilla vistosamente, e il “fronte occidentale”, che è tutt’altro che coeso, cerca di reagire scatenando una controffensiva sistemica (economica, tecnologica, geopolitica, ideologica) senza precedenti ma nient’affatto priva di contraddizioni e di incertezze, come dimostra la transizione, teorizzata da Jake Sullivan, direttore del National Security Council della Casa Bianca, dalla politica  del   decoupling  (disaccoppiamento)  a quella  del  de-risking (riduzione del rischio). Dice Macron: «Dobbiamo ridurre i rischi sulle catene di valore, ma senza cercare un disaccoppiamento completo delle nostre economie. C’è volontà di avere un rapporto con la Cina e dobbiamo trovare un equilibrio». Vasto e impegnativo programma, non c’è dubbio.

Secondo Sullivan, «Dobbiamo costruire delle palizzate molto alte, attorno a un cortile abbastanza piccolo»; secondo lui è questa la ricetta giusta  per fare uscire gli Stati Uniti dalla grave crisi sistemica (economica, politica, ideologica) che l’attanaglia ormai da anni e che si esprime in alcuni fenomeni sociali particolarmente evidenti e allarmanti (2). La verità è che «Le imprese USA hanno de-localizzato intere catene industriali in Asia per sfruttare costi del lavoro molto più bassi e realizzare maggiori profitti. Così facendo hanno espulso dal mercato del lavoro milioni di lavoratori americani. Sciaguratamente, questi enormi profitti non sono stati investiti né per migliorare la competitività delle imprese né per mantenere il loro primato tecnologico in settori cruciali. Allo stesso tempo, le ultime tre amministrazioni statunitensi (Bush II, Obama, Trump) hanno speso 7.000 (settemila) miliardi di dollari per guerre senza fine in Medio Oriente, in Afghanistan e contro il terrorismo risoltesi in fallimenti clamorosi, tralasciando peraltro il decadimento delle infrastrutture del paese. La lenta ma costante erosione del dollaro USA come valuta di riserva globale è un altro inquietante campanello d’allarme» (Marco Carnelos).

(1) «La Cina si oppone fermamente alle misure di controllo delle esportazioni che il governo giapponese ha posto sulle apparecchiature per la produzione di semiconduttori, ha detto martedì 23 maggio un portavoce del Ministero del Commercio cinese. La mossa è un abuso delle misure di controllo delle esportazioni e una grave deviazione dalle regole del libero scambio e dalle regole economiche e commerciali internazionali, ha affermato il portavoce. Durante il periodo di consultazione pubblica per le misure proposte dal Giappone, le industrie cinesi hanno presentato osservazioni e una serie di associazioni industriali hanno rilasciato pubblicamente dichiarazioni contrarie alla mossa. Anche alcuni gruppi industriali e aziende giapponesi hanno espresso preoccupazione per le incertezze future, ha affermato il portavoce. Purtroppo, ha osservato il portavoce, le misure di controllo delle esportazioni, in contrasto con le ragionevoli richieste dell’industria, danneggeranno gravemente gli interessi delle aziende cinesi e giapponesi, nonché la cooperazione economica e commerciale tra i due Paesi. Danneggeranno la struttura globale dell’industria dei semiconduttori e invieranno onde d’urto attraverso la sicurezza e la stabilità delle filiere industriali e di approvvigionamento. Il Giappone dovrebbe correggere immediatamente le sue pratiche sbagliate, a partire dal rispetto delle regole economiche e commerciali internazionali e della cooperazione economica e commerciale Cina-Giappone, per evitare misure che ostacolino la normale cooperazione e lo sviluppo delle industrie di semiconduttori dei due Paesi, ha affermato il portavoce. La Cina si riserva il diritto di adottare misure per salvaguardare risolutamente i propri diritti e interessi legittimi, ha aggiunto il portavoce» (Quotidiano del Popolo Online).

(2) «È fuga da San Francisco. Nel 2000 da questa città partì la prima rivoluzione di internet. La San Francisco di oggi è l’epicentro di un esodo, di una fuga: un paio di icone della grande distribuzione americana hanno dovuto chiudere i loro punti vendita nel centro della città […] La scelta della chiusura è motivata dal fatto che erano spesso saccheggiati: ladri entravano indisturbati, rubavano merce e la portavano via senza che la polizia facesse nulla. […] San Francisco è malata di una politica troppo ideologica che ha trasformato la città in un accampamento di homeless con una spaventosa ecatombe di tossicodipendenti […] È l’epicentro di una crisi di tossicodipendenze, di povertà, di senzatetto che non ha eguali nel resto degli Stati Uniti per la sua concentrazione. A tutto ciò si aggiunge la crisi di Big Tech, i licenziamenti che hanno colpito l’industria digitale. E’ diventata una città inospitale» (F. Rampini, Il Corriere della Sera).

«È un numero impressionante: uno su 25 bambini americani di cinque anni non raggiungerà il quarantesimo compleanno. È un tasso di mortalità quattro volte più alto che in ogni altro Paese ricco. Vuol dire che una coppia di genitori in ogni asilo seppellirà il proprio bambino. In America l’impatto del Covid è solo un aspetto di questa storia: è il numero di giovani che muoiono a fare la differenza (e la pandemia è responsabile solo per il 2% di questi decessi). Il tasso di mortalità giovanile è aumentato del 10,7 per cento dal 2019 al 2020 e dell’8,3 per cento tra il 2020 e il 2021. Il fenomeno è maggiormente pronunciato tra gli adolescenti ma anche il tasso di mortalità tra 1 e 9 anni è aumentato dell’8,4 per cento dal 2020 al 2021. Le cause principali sono: la diffusione delle armi (gli omicidi tra i 10 e i 19 anni sono aumentati del 39% dal 2019 al 2020), le overdosi (raddoppiate per quell’età), gli incidenti d’auto. […] Solo quest’anno ci sono state finora circa 200 sparatorie di massa, secondo le stime, tra le quali quella alla scuola elementare di Nashville in Tennessee compiuta da una ex allieva che ha ucciso tre bambini di 9 anni e tre adulti. […] L’aspettativa di vita in America è in caduta libera da circa un decennio: è arrivata a 76,1 anni nel 2021, il punto più basso dal 1996, secondo i dati del Centro nazionale delle statistiche sulla salute.Secondo una ricerca di America Inequality gli americani nati in contee povere come Owsley County in Kentucky o Union County in Florida dove le famiglie hanno un salario medio di 35 mila dollari e l’aspettativa di vita è di 67 anni (la più bassa del Paese) muoiono mediamente vent’anni prima di chi vive in posti come Aspen in Colorado o Santa Clara in California. Gli stati del Sud hanno un’aspettativa di vita più ridotta di quelli del Nord. Gli afroamericani in media muoiono 4-5 anni prima dei bianchi, in ogni Stato» (F. Basso, V. Mazza, Il Corriere della Sera).

POPOLI E GOVERNI

Leggo da qualche parte a commento della foto qui pubblicata: «Siamo socialisti, distinguiamo tra governi e popoli». Il governo ucraino che si allea con l’«Occidente collettivo» a guida statunitense è una cosa, il «popolo ucraino» aggredito dall’imperialismo russo è un’altra cosa: è la resistenza di questo popolo che i «socialisti» appoggiano sventolando il sacro principio dell’autodeterminazione dei popoli. A mio avviso la distinzione «tra governi e popoli» qui proposta, oltre ad essere politicamente ingenua, a dir poco, è radicata in una concezione ultrareazionaria del processo sociale, che a mio avviso va sempre considerato nella sua complessa totalità (cioè come intreccio di interessi economici, politici, geopolitici e quant’altro) e nella sua dimensione sovranazionale. Questa sommaria puntualizzazione circa la realtà del processo sociale qui richiamato è centrale nella mia riflessione sul conflitto armato in corso in Ucraina come momento della più generale guerra sistemica mondiale – o «nuova guerra mondiale a pezzetti», per dirla col Santo Padre. Guerra mondiale imperialista, mi permetto di aggiungere. Ma ritorniamo ai nostri «socialisti».

La concezione “socialista” qui presa di mira è ultrareazionaria in un senso preciso: essa non si pone il problema di capire quale sia il livello di coscienza dei “popoli”, quali forze sociali (politiche ed economiche, nazionali e sovranazionali) agiscono alle spalle di quei “popoli” spingendoli ora in una direzione, ora in un’altra, non di rado opposta. E il tutto sempre accompagnato dalla demagogica sentenza: «È il popolo che lo vuole!» Ah, se lo vuole il “popolo”… Si può forse dar torto al “popolo”? Si tratta di un “populismo” che porta sempre acqua al mulino delle classi dominanti, o magari solo a una loro fazione. Lo vediamo, ad esempio, tutte le volete che il “popolo” elegge democraticamente la classe politica chiamata a servire gli interessi della nazione, cioè delle classi dominanti. «È il popolo che lo vuole!» In ogni caso, a soffrirne sono puntualmente gli interessi delle classi subalterne. Ed è il concetto di classe, non quello di popolo, che aiuta l’anticapitalista a comprendere ciò che avviene nel mondo, a non perdersi nella fitta trama delle relazioni e degli interessi sociali.

In Europa ormai da moltissimo tempo il concetto borghese di popolo serve solo a celare e mistificare la natura classista della società, della nazione, della patria. Dalla Cina agli Stati Uniti, dall’Ucraina alla Russia, dall’Italia al resto del mondo: oggi le classi subalterne di tutto il pianeta non riescono a spezzare il cerchio stregato del nazionalismo, del patriottismo e, più in generale, dell’ideologia dominante – non importa se declinata in termini “destrorsi” o “sinistrorsi”. «Il nazionalismo è un fiotto in cui ogni altro pensiero annega», disse una volta Karl Kraus, e questo è vero anche a proposito del conflitto che miete vittime ucraine e russe. Prendere insomma per oro colato quello che vogliono e fanno i “popoli” significa porsi acriticamente sul terreno delle classi dominanti e del loro supremo strumento di difesa: lo Stato. Per l’anticapitalista si pone invece il problema di come combattere il nazionalismo e il patriottismo che avvelena i nullatenenti trasformandoli non raramente, come vediamo tutti i giorni, in carne da macello. Gli ucraini sono certo vittime dell’imperialismo russo, ma lo sono anche del sistema imperialistico mondiale di cui anche l’Ucraina fa parte, necessariamente, inevitabilmente. Gli interessi imperialistici di Mosca non sono più esecrabili e disumani rispetto agli interessi imperialistici di Bruxelles o di Washington: per tutti i “players” la posta in gioco è il potere – economico, politico, geopolitico, ideologico. E a farne le spese sono come sempre le classi subalterne – o i “popoli”, come piace dire a certi «socialisti».

Parlare di autodecisione delle nazioni e dei popoli nel contesto del capitalismo mondiale e totalitario del XXI secolo è quindi ridicolo sul piano storico e ultrareazionario su quello politico, almeno per quanto riguarda l’Europa. Non siamo più al tempo in cui Lenin rivendicava per l’Ucraina e per le altre nazionalità oppresse dall’Impero Russo il diritto di separarsi completamente da Mosca, peraltro scontrandosi anche con quei bolscevichi che esibivano ai suoi occhi l’odiato spirito Grande-Russo: di qui il legittimo odio che Putin nutre nei confronti dell’internazionalista Lenin, oltre che nei confronti degli «antirussi» Marx ed Engels. Detto en passant, Putin che accusa di “nazismo” Zelensky è come il classico bue che dice cornuto all’asino.

Al “popolo” ucraino non rimane insomma che “scegliere” da quale parte dell’Imperialismo mondiale vuole stare: dalla parte dell’imperialismo a guida statunitense (e magari un domani a guida europea), oppure dalla parte dell’imperialismo concorrente, sempre più a guida cinese?  Ecco i termini reali, non ideologici, non propagandistici, della cosiddetta “autodeterminazione delle nazioni e dei popoli” nell’Europa del XXI secolo. Alcuni “socialisti” sostengono il campo occidentale (con annesso Giappone e altri alleati sparsi per il vasto mondo), altri “socialisti” sostengono invece il campo opposto: si tratta di due facce della stessa medaglia chiamata appunto Imperialismo Mondiale, il quale rappresenta il mostruoso campo nel cui seno uomini e donne vengono sfruttate e oppresse in mille modi, mentre la natura è trattata come mera risorsa economica da “mettere a profitto”.

I «socialisti» qui presi di mira possono anche credere in ottima fede che per il “popolo” ucraino sia meglio stare dalla parte dell’«Occidente Collettivo» a guida statunitense, ma acquisterebbero in serietà, almeno ai miei occhi, se non tirassero in ballo la balla dell’”autodecisione”. So bene che si tratta di un consiglio destinato a cadere nel vuoto. Ma non fa niente. Ci tengo però, sempre per quel che vale, a rinnovare la mia vicinanza umana e politica con gli ucraini e i russi (centinaia di migliaia di giovani mandati al macello dal regime putiniano), presi nella morsa dell’Imperialismo Unitario, come lo sono del resto anche le classi subalterne italiane, chiamate a sostenere economicamente e politicamente la partecipazione del governo italiano al conflitto armato, in vista di quella “pace” che darà via all’assai profittevole (almeno così si spera!) ricostruzione dell’Ucraina – con un occhio al sempre possibile regime change in Russia. Bisogna pagare un prezzo oggi per poterci sedere domani al “tavolo della pace”!

IL PUTIN DI IRINA SCHERBAKOWA

LA GUERRA IN UCRAINA VISTA DA ZIMMERWALD

MANEGGIARE CON CURA ROSA LUXEMBURG!

NON AVERE NIENTE E PRODURRE TUTTO

Una riflessione sui concetti di sfruttamento e di proprietà capitalistica

Il concetto di sfruttamento e quello di proprietà capitalistica sono fra loro intimamente correlati, al punto da costituire in realtà due modi diversi di chiamare la stessa cosa; essi sono due lati della stessa medaglia. Storicamente parlando, sul fondamento dei rapporti sociali di produzione della ricchezza derivano specifici modi di sfruttare i lavoratori e un peculiare diritto di proprietà. «Il diritto non è che il riconoscimento ufficiale del fatto» (1), e il fatto su cui si riflette in questo scritto ha a che fare con la divisione classista degli individui, una tremenda realtà che agli occhi dell’opinione pubblica appare come qualcosa di naturale, anzi di banale. Il lavoro degli schiavi, il lavoro dei servi della gleba e il lavoro dei moderni salariati hanno come loro fondamento peculiari rapporti sociali di dominio e di sfruttamento e peculiari relazioni proprietarie. Come vedremo, la proprietà qui considerata si fonda in primo luogo sul possesso esclusivo delle condizioni oggettive della produzione, e quindi del prodotto del lavoro, e non sul possesso di generici beni: terreni, case e quant’altro. Di qui l’intimo legame tra sfruttamento e proprietà capitalistica richiamato sopra. Il monopolio della violenza in capo allo Stato capitalistico è un lato della medaglia; il monopolio delle condizioni oggettive della produzione ne è il lato opposto. La medaglia si chiama dominio capitalistico.

L’economia politica volgare travisa, e con ciò stesso mistifica, il concetto di sfruttamento, attribuendogli un significato che chiama in causa più la morale (meglio, il moralismo) che l’economia capitalistica considerata nella sua reale connotazione storico-sociale. Per questa economia, molto distante da quella “classica” di fine Settecento inizio Ottocento (dai fisiocrati francesi ad Adam Smith, da Ricardo a Sismondi), orientata a scoprire il meccanismo di funzionamento dell’economia capitalistica a cominciare dai sui fondamentali presupposti storici e sociali; per l’economia volgare, dicevo, il lavoro è sfruttato quando il lavoratore non riceve dal suo “datore di lavoro” il giusto compenso, la giusta paga fissata in qualche modo dalla legislazione dedicata alle attività lavorative. Di qui anche la parola d’ordine del socialismo ingenuo econservatore, già abbondantemente mazziato da Marx, Un equo salario per un’equa giornata di lavoro. Il termine sfruttamento viene così ad assumere una connotazione negativa, non in quanto necessariamente correlato al lavoro salariato in quanto tale, bensì in quanto espressione di una pratica illegale e moralmente condannabile perché  romperebbe il civile patto tra lavoratori e datori di lavoro, patto sottoscritto liberamente dagli uni e dagli altri. Per l’evocato Marx invece si deve parlare di sfruttamento «senza che [al lavoratore] sia stato decurtato neppure d’un centesimo il giusto prezzo della sua merce» (2). Il “datore di lavoro” paga al lavoratore «un equo salario» e nondimeno qui siamo in presenza di una relazione di sfruttamento: il primo sfrutta il secondo. Di più: solo grazie a questo sfruttamento è possibile l’economia che oggi ha le dimensioni dell’intero pianeta. Com’è possibile? Per capire l’arcano non bisogna scambiare la parvenza delle cose per la loro sostanza.

La parvenza è il rapporto Capitale-Lavoro che osserviamo nella sfera della circolazione, la sostanza è l’uso capitalistico del lavoro. Infatti non parliamo di un generico lavoro, di un lavoro privo di peculiari connotati storici e sociali: parliamo del lavoro salariato, del sistema salariato, il quale fa dire a Marx quel che segue: «Il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù che diventa sempre più intollerabile nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, tanto se l’operaio riceve paghe migliori, tanto se ne riceve di peggiori (3). È il lavoro salariato in quanto tale, il lavoro tipico della società capitalistica (vedi l’Art. 1 della Costituzione), che presuppone e pone sempre di nuovo un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Questo vuol forse dire che i lavoratori farebbero bene a non lottare per migliori salari, per una riduzione della giornata lavorativa e, più in generale, per migliori condizioni di esistenza, e che dovrebbero invece concentrarsi solo sull’idea circa la necessità di superare il sistema salariale, ossia il capitalismo? Nient’affatto, anche perché le due cose non solo non si presentano fra loro come alternative (o lotto per ottenere miglioramenti nell’ambito della società capitalistica o lotto per superare questa stessa società), ma possono diventare due momenti della stessa lotta anticapitalistica. Infatti, lottando per degli obiettivi immediati i lavoratori possono acquisire fiducia nelle proprie forze, possono sviluppare un senso di appartenenza a una classe che emancipando se stessa può emancipare l’intera umanità. Forza, coraggio, solidarietà, autonomia politica e psicologica: ecco cosa possono conquistare i lavoratori attraverso le loro lotte “economiche”, conquiste senza le quali ogni discorso intorno alla rivoluzione sociale appare come un esercizio puramente teorico. Il problema se mai è come si lotta anche per ottenere piccoli miglioramenti, l’orientamento politico di questa lotta, la concezione (collaborazionista o anticollaborazionista) che la informa.

«Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande» (4). Allo stesso tempo Marx invita la classe dei lavoratori a «non lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione della società» (5). A scanso di equivoci “riformisti” e “progressisti”, occorre chiarire che con «ricostruzione della società» Marx allude alla società umana come viene fuori da una rivoluzione anticapitalista. A null’altro rinvia il “risvolto dialettico” da egli sottolineato: all’accumulo di miseria sociale fa da contraltare la possibilità oggettiva dell’emancipazione universale.  Ma su questo aspetto del problema, che ho sfiorato solo per contraddire la vulgata secondo la quale gli anticapitalisti sarebbero degli antidialettici interessati solo al “programma massimo”, bisogna mettere un punto.

Nella citazione iniziale Marx alludeva al fatto che il lavoratore vende la «sua merce»: che merce vende a un «giusto prezzo» il lavoratore al suo “datore di lavoro”? Questa: la possibilità di venir impiegato in un processo produttivo. Questa possibilità rappresenta in effetti  il valore d’uso della merce chiamata lavoratore, il cui valore di scambio è dato dalla somma di denaro che gli occorrono per vivere e per riprodurre altri futuri lavoratori – chiamati figli. Si tratta dei costi di produzione della forza-lavoro e di riproduzione di futura forza-lavoro, perché «gli operai logorati dal lavoro» devono venir rimpiazzati da altri operai: «Il logorio dell’operaio viene dunque conteggiato allo stesso modo del logorio della macchina» (6). Prima di continuare il ragionamento occorre chiarire, a scanso di antipatici equivoci, che il cinismo è nella cosa stessa, nella materia qui trattata, non nell’intenzione di chi si limita ad esprimerla chiamando ad esempio, e molto giustamente, merce il lavoratore (e non solo il suo lavoro) o sostenendo l’analogia tra l’uso del lavoratore e l’uso della macchina che egli adopera nel processo produttivo. Come diceva Rosa Luxemburg, «Il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome».

Quando il “datore di lavoro” dà un salario al suo “collaboratore” egli lo paga secondo i crismi della giustizia mercantile: al valore x della merce-lavoratore corrisponde il valore x delle merci e dei servizi che il lavoratore può acquistare con il salario ricevuto. Qui non c’è trucco e non c’è inganno, e difatti non c’è guadagno dal lato del “datore di lavoro”. Ma avendo acquistato la merce-lavoratore, il “datore di lavoro” ha il pieno diritto di consumarne il peculiare valore d’uso: se compro degli spaghetti avrò pure il diritto di mangiarli! Il lavoratore è d’accordo: «Mi ha pagato il giusto, ha il diritto di usare la mia capacità lavorativa». Ma allora dove si annida la magagna? Per scoprirlo bisogna abbandonare la sfera della libera circolazione, dove regna la libertà di vendere e comprare, e seguire i due liberi contraenti nel processo di produzione, ossia là dove il “datore di lavoro” può finalmente usare la merce acquistata.

Per farla breve, la giornata di lavoro si compone di due parti ben definite e concettualmente distinte fra loro: in una parte (x ore di lavoro) il lavoratore restituisce in termini di prodotto generato lo stesso valore ricevuto dal “datore di lavoro” come salario: in questa fase nessuno dei due personaggi incassa un atomo in più di valore rispetto a quello offerto alla controparte. Fin qui siamo in una relazione a somma zero: nessuno perde, nessuno vince. «Stringiamoci la mano e amici come prima!» Alt! Il contratto stipulato liberamente dai nostri “amici” prevede una seconda parte (y ore di lavoro), e solo alla conclusione dell’intera giornata lavorativa il lavoratore può abbandonare il posto di lavoro e recarsi dove meglio crede. Ed è proprio in questa seconda parte che si annida la magagna dello sfruttamento, perché tutto quello che viene fuori da quel tempo di lavoro realizza il plusvalore che spiega il motivo che ha spinto il “datore di lavoro” a stipulare un contratto con il suo futuro lavoratore. Se non ci fosse stata quella seconda parte, il “datore di lavoro” non sarebbe stato mai tale, semplicemente perché non avrebbe avuto nessun motivo per dare un salario a un lavoratore per riceverne in cambio lo stesso valore in termini di prodotto o servizio. Gli economisti classici hanno scoperto che il profitto non nasce nella sfera della circolazione, dove le merci vengono scambiate, salvo rare eccezioni (e la stupidità della gente), secondo il principio dell’equivalenza dei valori (come avveniva anche per il baratto), ma in quella della produzione, cioè a dire attraverso la manipolazione di mezzi di produzione e materie prime. Manipolare qui significa lavorare (7). È stato però Marx a dare un contenuto organico, definito e privo di contraddizioni alle pur geniali intuizioni di quegli economisti, i quali non riuscirono a liberarsi del tutto dalle concezioni economiche precedenti – a cominciare dal cosiddetto mercantilismo. D’altra parte è molto più facile spiegare il profitto come una semplice quanto più o meno arbitraria aggiunta  di valore al prezzo di costo della merce prodotta: al valore di costo x appiccico un valore y, e il profitto è fatto! Niente di più sbagliato.  Nei suoi scritti “economici” Marx confuta l’«errata opinione popolare» secondo la quale «è l’imprenditore capitalista che aggiunge al valore della merce un valore arbitrario come suo profitto, a cui poi viene aggiunto un altro valore, pure fissato arbitrariamente, per il proprietario fondiario, ecc.» (8). Il profitto come truffa (ai danni di qualcuno”: sia esso il consumatore o un qualsiasi “operatore economico”), e non come «furto di tempo di lavoro altri» e quindi come sfruttamento del lavoratore, è un’antica ma sempre verde fola, sempre per usare la caustica terminologia del comunista di Treviri.

Sopra ho definito con ironia “collaboratore” il lavoratore sfruttato (o impiegato, fa lo stesso) dal capitalista, il quale spesso ci tiene a presentarsi agli occhi del primo più come un suo “collega”, sebbene di genere particolare, che appunto come suo padrone: che termine arcaico!. La mistificazione ha un fondamento reale: «Siccome tutte le forme sviluppate del processo di produzione capitalistico sono forme di cooperazione, nulla è naturalmente più facile che astrarre dal loro carattere specificamente antagonistico e trasformarle, a furia di fole, in forme di associazione libera» (9). Il fatto che il capitalista non sia un capitalista assenteista ma cooperi attivamente allo sfruttamento dei suoi lavoratori, e che si presenti egli stesso in guisa di lavoratore, non muta di un atomo la natura antagonistica della relazione che lo lega ai primi. Peraltro il concetto di autosfruttamento, che ha un significato soprattutto nella piccola produzione industriale e agricola, rinvia proprio al carattere sociale, e non meramente individuale, del capitale, il quale, è sempre bene ricordarlo, nella sua essenza è un rapporto sociale di sfruttamento.

«Nella misura in cui questa funzione di sfruttare lavoro richiede nella produzione capitalistica effettivamente un lavoro, essa è espressa nel salario del direttore d’azienda» (10). Il lavoro del direttore d’azienda, quando questa figura professionale non corrisponde al capitalista, come accade nelle imprese di una certa grandezza, è dunque quello di rendere possibile tecnicamente e organizzativamente lo sfruttamento dei lavoratori. In ogni caso, non va mai confuso questo tipo di salario, che Marx chiamava di salario sorveglianza, con il profitto del capitalista; non bisogna confondere «il lavoro dello sfruttare col lavoro che viene sfruttato» (11). Ma riprendiamo il filo del discorso.

Oltre ad acquistare capacità lavorative, il capitalista acquista tutto ciò che serve a consumare produttivamente la merce-lavoratore che egli si porta a casa, cioè in fabbrica: mezzi di produzione, materie prime e quant’altro. L’intero capitale investito per la produzione di una merce è dunque sborsato dal capitalista, che per questo si chiama in tal modo. Potendo contare sulla proprietà dell’intero capitale investito, il capitalista si appropria senza fare torto a nessuno il prodotto sfornato dai lavoratori; una parte del valore di questo prodotto andrà poi a finire nella disponibilità dei lavoratori sottoforma di salario. Lavoratori, mezzi di produzione, materie prime e quanto serve per la produzione: tutto appartiene con pieno diritto al capitalista. Beninteso, si tratta del diritto capitalistico, il quale si fonda sui vigenti rapporti sociali e ha quindi avuto una ben precisa e documentabile genesi storica. Questo diritto nasce nel momento in cui i lavoratori (delle campagne e delle città) si vedono privati dal processo sociale (cioè dalle classi dominanti e dal loro Stato) dei mezzi di produzione necessari a produrre quanto serve loro per vivere. Proprietari solo della loro capacità lavorativa, i lavoratori sono costretti a lavorare per chi offre loro un salario. La proprietà capitalistica ha cioè come suo fondamento storico-sociale l’allontanamento dei lavoratori dai mezzi di produzione, così che per vivere essi sono appunto costretti a vendere le loro capacità lavorative a chi può comprarle, e cioè ai capitalisti, i quali peraltro si presentano alla società come dei benefattori: «Se non vi dessimo da lavorare, e quindi un salario da spendere come meglio desiderate, che fine fareste?» Anche i lavoratori privi di un minimo di coscienza, e non solo gli apologeti di questa società disumana, credono in questa colossale menzogna. «Dopo tutto, da che mondo è mondo, i padroni ci sono sempre stati!» Millenni di società classista hanno conficcato nel profondo della nostra coscienza l’idea che ci deve pur essere un padrone che dà un lavoro a chi padrone non è: «L’importante è che sia un buon padrone». Chi sostiene che l’umanità può benissimo fare a meno di padroni e di schiavi (comunque definiti: vogliamo chiamarli “collaboratori”?) passa per un inguaribile utopista, quando va bene.

La distinzione degli individui in lavoratori e datori di lavoro (cioè sfruttatori di lavoro altrui) è data dal pensiero dominante come un fatto naturale che non merita nessuna riflessione. Per l’anticapitalista riflettere criticamente su quella distinzione rappresenta invece il cuore della sua iniziativa politica, della sua concezione “antropologica”, della sua visione etica delle relazioni umane. La divisione classista degli esseri umani è una realtà che getta una spessa ombra su ogni aspetto della nostra esistenza.

Marx definì, con la sua solita pungente ironia, il processo genetico della proprietà capitalistica il «peccato originale economico», in forza del quale alcuni individui particolarmente fortunati accumularono enormi ricchezze, e altri, molto più numerosi e assai meno fortunati, «non hanno altro da vendere che la propria pelle» (12). «La storia di questa espropriazione degli operai è scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco». Marx colloca il passaggio dallo sfruttamento di tipo feudale a quello di tipo capitalistico alla fine del XV secolo, mentre «l’era capitalistica data solo dal secolo XVI». Questo passaggio fu tutt’altro che pacifico, e fu anzi un momento particolarmente violento e pieno di sofferenze per il popolo lavoratore delle campagne e delle città. A differenza di quanto si trova scritto nei saggi di economia politica degli apologeti, i quali raccontarono quella drammatica e dolorosa transizione nei termini di un idillio progressista, «Di fatto i metodi dell’accumulazione originaria son tutto quel che si vuole fuorché idillici». In un atto del 1489, Enrico VIII lamentava la formazione in Inghilterra di «una massa stupefacente di popolazione privata della possibilità di mantenere se stessa e le famiglie». Quella «massa stupefacente» era formata perlopiù da contadini indipendenti provvisti di una piccola proprietà (yeomen), e da contadini e operai (spesso si trattava della stessa persona) non ancora assoggettati al rapporto sociale capitalistico che in un breve lasso di tempo si trovarono liberi dai vecchi rapporti sociali feudali, liberi dal possesso dei mezzi di produzione, liberi di vendersi a un capitalista per riceverne un salario. «Dall’età dell’oro, come dice giustamente il Thornton, la classe operaia inglese è precipitata senza alcuna transizione in quella del ferro». Come si sa, Marx si servì della storia inglese come esempio in grado di illuminare la genesi del capitalismo e la sua storica affermazione in ogni Paese “civile” del suo tempo, e potè farlo perché allora l’Inghilterra si trovava al vertice del capitalismo mondiale. Scrive Marx: «La creazione della fabbrica è preceduta da un vagabondaggio quasi universale nei secoli XV e XVI. La fabbrica inoltre una solida base nei numerosi contadini che, cacciati continuamente dalle campagne in seguito alla trasformazione dei campi in pascoli e ai progressi nell’agricoltura, che rendevano necessario un minor numero di braccia per la coltivazione delle terre, continuarono ad affluire nelle città per secoli interi» (13). Mutatis mutandis, questo processo di migrazione dei contadini dalla campagna alla città ha accompagnato la storia della Cina moderna, e qualcosa di questo processo continua nel grande Paese asiatico anche ai nostri giorni.

Il «peccato originale economico» si rinnova tutte le volte che un nullatenente stipula un contratto di lavoro con un funzionario del Capitale – e questo a prescindere dalla natura giuridica della proprietà dei mezzi di produzione: statale, privata, “mista”, “cooperativistica”, azionaria. Si tratta di una vera e propria coazione a ripetere che può essere spezzata solo spezzando il rapporto sociale capitalistico di produzione, cosa che pone il problema della rivoluzione sociale anticapitalista ovunque nel mondo. Vasto programma? No, si tratta, come già detto, del solo modo che l’umanità ha per venire fuori dalla maledetta (disumana) dimensione del dominio di classe. Essere realisti significa, per chi scrive, guardare in faccia la realtà, e la realtà non offre altre soluzioni alla continuità del Dominio. «Ciò vuol dire forse che dopo la caduta dell’antica società ci sarà una nuova dominazione di classe, riassumentesi in un nuovo potere politico? No. La condizione dell’affrancamento della classe lavoratrice è l’abolizione di tutte le classi. […] La classe lavoratrice sostituirà, nel corso dello sviluppo, all’antica società civile un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il compendio ufficiale dell’antagonismo nella società civile» (14). È degno di nota, per noi cittadini del XXI secolo, il fatto che Marx definisse «antica» la società borghese del 1847: un secolo e mezzo dopo come dovremmo definire la «società civile» della quale facciamo parte? Dico questo anche per sottolineare il fatto che i concetti di “antico” e “moderno” non hanno un valore assoluto e non sono riferibili semplicemente a dati cronologici o tecnologici: personalmente trovo vecchia come il cucco la società che ha prodotto la bomba atomica, i viaggi spaziali e l’”Intelligenza Artificiale”.

Per Marx la proprietà capitalistica è in primo luogo e in radice «il titolo di proprietà del capitale sulla forza-lavoro» (15): del capitale, non del singolo capitalista, che non a caso egli considera nei termini di funzionario del capitale, di capitale personificato, di agente capitalistico. Questo perché per lui il capitale è in primo luogo un peculiare rapporto sociale di produzione e riproduzione, che sta a fondamento della proprietà capitalistica, il cui significato abbiamo considerato appena sopra. La proprietà privata stricto sensu, cioè la proprietà che fa capo al singolo capitalista, deve essere considerata alla luce della natura sociale del capitale, e quindi deve essere sempre riferita alla società capitalistica colta nella sua totalità. Anche per questo Marx ed Engels non fecero mai alcuna differenza qualitativa tra la proprietà privata dei mezzi di produzione e la proprietà statale di questi mezzi, e anzi polemizzarono aspramente con la triviale concezione che spacciava per socialismo il capitalismo di Stato. In quanto rapporto sociale di produzione, e non «pura cosa», «Il capitale può ben essere separato dal singolo capitalista. Hanno un bel dire i socialisti: noi abbiamo bisogno del capitale, non del capitalista» (16). “Abolito” il singolo capitalista, come sognano gli statalisti d’ogni tendenza politico-ideologica, rimane ovviamente il rapporto sociale capitalistico, ossia il capitalismo, cioè lo sfruttamento dei lavoratori. Solo «i sicofanti» asserviti al pensiero stalinista/maoista (a sua volta erede del «socialismo volgare» già bastonato come si deve da Marx ed Engels) possono parlare senza provare vergogna di “mercato socialista” o di “denaro socialista”, oppure di “salario socialista” e così via.  

Provo a sintetizzare quel che ho scritto. Ogni attività finalizzata a impiegare (o sfruttare) lavoratori in vista di un profitto ha come suo punto di partenza, come suo necessario presupposto, l’esistenza della proprietà capitalistica, la quale come abbiamo visto si sostanzia nell’esclusione dei lavoratori dai fattori della produzione, cosa che fa di loro, anche solo “tecnicamente” parlando, dei nullatenenti. La non proprietà dei lavoratori fonda la peculiare proprietà capitalistica; essa «rappresenta la proprietà del capitale come mezzo per appropriarsi dei prodotti del lavoro altrui, come dominio sul lavoro altrui» (17). Questa proprietà ha dunque una natura essenzialmente privativa, se così posso esprimermi, nel senso che essa priva una moltitudine di individui dal possesso delle condizioni oggettive del lavoro, e questo a prescindere dalla sua fenomenologia giuridica: statale, privata, ecc. I lavoratori possono vantare, per così dire (perché in realtà si tratta di una maledizione), la sola proprietà della loro capacità lavorativa, che mettono in vendita per ottenere di che vivere. Per dirla con Marx, i lavoratori sono «venditori di se stessi», perché ovviamente la capacità lavorativa, che rappresenta il valore d’uso della merce-lavoratore, non può venir separata dal corpo del lavoratore, che rappresenta il valore di scambio di quella bio-merce. Per diventare economicamente significativa, la triste proprietà dei lavoratori deve essere alienata in cambio di denaro, ed è quindi una proprietà che sorride solo al Capitale. «Il rapporto capitalistico ha come suo presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. […] La produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente» (18). Infatti, il processo produttivo non sforna solo merci, ma riproduce appunto sempre di nuovo il rapporto capitalistico di produzione che vede i lavoratori e i capitalisti occupare i due poli opposti della relazione: da una parte i nullatenenti, al lato opposto quelli che detengono la proprietà dell’intero processo produttivo, lavoratori compresi. Prodotto materiale (la merce) e prodotto immateriale (il rapporto sociale capitalistico) si presuppongono e si pongono sempre di nuovo vicendevolmente e necessariamente, perché la merce non è una cosa ma un rapporto sociale – e così il mercato, il denaro e ogni altra categoria economica che definisce l’economia capitalistica.

Come fece notare Marx contro gli apologeti della proprietà privata, la proprietà capitalistica, nei termini in cui è stata qui definita, si afferma storicamente come violento annientamento della proprietà dei contadini indipendenti e quella dei lavoratori che avevano nella loro disponibilità i mezzi di lavoro sufficienti a procacciarsi da vivere. Marx ridicolizzò «La stoica imperturbabilità dell’economista politico nel considerare la spudoratissima profanazione del “sacro diritto della proprietà” e il più grossolano atto di violenza contro le persone»; e denunciò il suo silenzio su «Tutta la serie di rapine, atrocità, tribolazioni del popolo che accompagnarono l’espropriazione violenta del popolo dall’ultimo terzo del secolo XV fino alla fine del secolo XVIII» (19). All’espropriazione della piccola proprietà del popolo dei lavoratori, occorre aggiungere il saccheggio e la distruzione della proprietà comune, la quale «era un’antica istituzione germanica, sopravvissuta sotto l’egida del feudalesimo. Si è visto come l’usurpazione violenta della proprietà comune, per lo più accompagnata dalla trasformazione del terreno arabile in pascolo, cominci alla fine del secolo XV e continui nel secolo XVI. Ma allora il processo si attuò come azione violenta individuale, contro la quale la legislazione combattè, invano, per 150 anni. Il progresso del secolo XVIII si manifesta nel fatto che ora la legge stessa diventa veicolo di rapina delle terre del popolo. […] La forma parlamentare del furto è quella dei Bills for Inclosures of Commons (leggi per la recinzione delle terre comuni)» (20).

Il popolo lavoratore inglese se la passava molto meglio prima che la società capitalistica lo trasformasse in una massa di “liberi” individui proprietari solo di merce-lavoro da vendere sul mercato. Scriveva alla fine del XVIII secolo il dott. Price, citato da Marx nel capitolo ventiquattresimo del primo libro del Capitale dedicato alla Cosiddetta accumulazione originaria: «Nell’insieme la situazione delle classi inferiori della popolazione è peggiorata quasi sotto ogni punto di vista; i proprietari fondiari e fittavoli minori sono stati abbassati allo stato di giornalieri e mercenari; e allo stesso tempo è diventato più difficile guadagnarsi la vita in questa situazione». Evolvendosi, per così dire, in lavoratore salariato, il lavoratore-artigiano del XV secolo e della prima metà del secolo successivo ci scapitò molto sotto tutti i punti di vista. Al contrario di ciò che sostengono quei detrattori (non pochi militano nel “partito ecologista”) che lo accusano di essere stato un apologeta del progresso portato dal capitalismo, Marx scrisse la più implacabile denuncia dei crimini commessi dalla borghesia in ascesa durante il periodo della Cosiddetta accumulazione originaria, e illuminò a giorno l’ipocrisia dei suoi «sicofanti» che presentarono quella sanguinosa epoca storica in termini a dir poco adulterati (21). Per Marx «il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro» (22). Certo, per saperlo occorre leggere i suoi scritti, e rifiutarsi di ripetere luoghi comuni più o meno cretini letti o orecchiati da qualche parte.  

Oggi a noi appare normale che un individuo per vivere debba vendere una qualche capacità lavorativa; che egli lavori con mezzi di lavoro che non gli appartengono e che ritorni a casa privo del prodotto che pure ha contribuito a realizzare. Ma come abbiamo visto non è stato sempre così, e anzi c’è voluto molto tempo e molta coercizione per creare un simile individuo.

Il salario dei lavoratori, qui genericamente considerati, va sempre confrontato con la ricchezza sociale che essi creano sempre di nuovo; da questo confronto si capisce molto bene quanto sia corretto e storicamente attuale il concetto marxiano di miseria crescente, trivialmente travisato dai suoi detrattori: il lavoratori diventano sempre più socialmente indigenti non in termini assoluti, ossia in rapporto al salario incassato nel passato, ma relativamente alla produttività sociale del loro lavoro, alla massa di “beni e servizi” che essi riescono a mettere a disposizione della società. Questo senza considerare il fatto che non raramente i lavoratori diventano più poveri anche in termini assoluti: è il caso italiano degli ultimi tre decenni! «La situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua situazione sociale. L’abisso sociale che lo separa dal capitalista si è approfondito» (23). Bisogna allora fare di ogni lavoratore un capitalista? Che idea sciocca! Allora bisogna fare dello Stato il solo capitalista? Che idea ultrareazionaria! Occorre “semplicemente” abolire il rapporto sociale capitalistico di produzione. Come abbiamo visto per quanto riguarda il concetto di miseria crescente, il punto di vista marxiano ha sempre una connotazione squisitamente qualitativa, e questo perché Marx non perde mai di vista la totalità sociale, il processo storico-sociale considerato nel suo reale, complesso e dialettico dispiegarsi, e si rifiuta di separare con rigide barriere concettuali i diversi fenomeni sociali che travagliano la società, facendone delle esistenze autonome. Qui è stata importante la lezione hegeliana: la totalità pulsa al cuore della particolarità e le dà un reale significato, un movimento perfettamente intellegibile.

La miseria sociale (o «miseria assoluta») posta qui brevemente a tema acquista un significato particolarmente drammatico e politicamente pregnante alla luce dell’attuale impotenza sociale dei lavoratori, che fa letteralmente a pugni con la loro posizione sociale: «Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa» (24). È una vera tragedia che i lavoratori non riescano ancora a trarre tutte le necessarie conseguenze che risultano “dialetticamente” dalla loro posizione sociale, la quale fa di loro la sola classe oggettivamente (ma solo potenzialmente) rivoluzionaria. Non esiste infatti nessun’altra classe che ha il potere di far crepare una nazione smettendo di lavorare. E quale classe ha l’interesse a spezzare il cerchio del dominio e dello sfruttamento se non la classe dominata e sfruttata? Non si tratta di ideologia (personalmente non ho mai aderito all’esaltazione ideologica e mitologica della classe operaia), ma di interessi sociali, di rapporti di forza, di funzioni sociali. Per dirla con Carlo Cafiero, i lavoratori hanno fatto tutto, e tutto possono distruggere, perché tutto possono rifare, possibilmente sotto condizioni sociali radicalmente diverse. Per questo mi fanno ridere i ricercatori di “nuove classi rivoluzionarie” che non soddisfano i requisiti “materialistici” qui accennati; i teorici della definitiva scomparsa della classe rivoluzionaria si limitano invece a fotografare un dato di fatto che non può essere in alcun modo generalizzato e fissato concettualmente. Almeno a mio avviso.  

Certo è che niente e nessuno può surrogare la funzione storicamente rivoluzionaria dei lavoratori, i quali solo costituendosi «in classe, e quindi in partito politico» (Marx) possono diventare una potenza sociale in grado di rimettere in moto la speranza, intesa però come vitale prassi e non come passiva attesa di qualcuno o di qualcosa – del Grande Evento. «L’emancipazione della classe operaia deve essere opera degli operai stessi». I lavoratori non devono attendere niente e nessuno: essi devono “semplicemente” prendere coscienza delle straordinarie responsabilità storiche e sociali che gli derivano dalla loro posizione/condizione sociale.

(1) K. Marx, Miseria della filosofia, in Marx-Engels, Opere, VI, p. 154, Editori Riuniti, 1973.

(2) K. Marx, Il Capitale, I, p. 642, Editori Riuniti, 1980.

(3) K. Marx, Critica del Programma di Gotha, p. 49, Savelli, 1975.

(4) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, p. 116, Newton Compton Editore, 1978.

(5) Ivi.

(6) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 53, Newton Compton Editori, 1978. «Il valore delle merci che entrano nel consumo degli operai determina il valore del salario» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 69, Einaudi, 1955). Non a caso si parla ancora oggi di beni-salario, o di paniere dei beni-salario.

(7) «A. Smith ha scoperto la vera origine del plusvalore. Egli fa derivare il profitto del capitalista dal fatto che questo non ha pagato una parte del lavoro aggiunto alla merce, e da ciò deriva il suo profitto nella vendita della merce» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, I, p. 142, Einaudi, 1954).

(8) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, p. 116.

(9) K. Marx, Il Capitale I, p. 581.

(10) K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 513, Einaudi 1958.

(11) Ibid., p. 510.

(12) K. Marx, Il Capitale I, p. 777. Questa come le citazioni che seguono sono tratte dal Capitolo Ventiquattresimo del libro primo del Capitale: La cosiddetta accumulazione originaria.

(13) K. Marx, Miseria della filosofia, p. 195.

(14) Ibid., pp. 224-225.

(15) K. Marx, Il Capitale I, p. 630.

(16) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, p. 289, La Nuova Italia, 1978. Com’è noto, già Engels parlava dello Stato capitalista come l’ideale capitalista complessivo (o collettivo): «Recentemente, da che Bismarck si è gettato alla statizzazione, si è presentato un certo falso socialismo, il quale ogni monopolio, anche quello di Bismarck, dichiarò senz’altro socialista. […] Né la trasformazione in società per azioni né quella in proprietà dello Stato sopprime l’appropriazione capitalistica delle forze produttive. […] Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, l’ideale capitalista complessivo. Quanto più si appropria di forze produttive tanto più esso diventa realmente il capitalista generale, tanto più sfrutta i cittadini dello Stato borghese. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La categoria del capitale non è abolita, ma è spinta al contrario al più alto grado» (F. Engels, La scienza sovvertita dal signor Eugenio Dühring, p. 238, Società Editrice Avanti, 1925). Per Engels, a un certo grado di sviluppo delle forze produttive capitalistiche «il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve assumerne la direzione» Come si vede, Engels sembra addirittura dare come deterministicamente certo il realizzarsi della tendenza al capitalismo di Stato. «Definire “socialismo” le intromissioni dello Stato nella libera concorrenza – ovvero dazi protettivi, corporazioni, monopolio del tabacco, statalizzazioni di rami dell’industria, commercio marittimo, regia manifattura di porcellane – è una mera falsificazione voluta dalla borghesia di Manchester. Noi non dobbiamo credere a tutto ciò, ma criticarlo. Se ci crediamo e intorno a essa costruiamo una teoria, quest’ultima crollerà insieme alle sue premesse […] quando si dimostrerà che questo presunto socialismo non è altro che, da un lato, una reazione feudale e, dall’altro, un pretesto per estorcere denaro, con il secondo fine di trasformare il maggior numero possibile di proletari in funzionari e stipendiati dallo Stato, così da organizzare, a fianco dell’esercito disciplinato di funzionari e di militari, un analogo esercito di operai. Il suffragio obbligatorio imposto dai superiori statali invece che dai sorveglianti di fabbrica… che bel socialismo!» (Lettera di F. Engels a E. Bernstein, 12 marzo 1881, in Marx-Engels, Lettere 1880-1883, p. 60, Lotta Comunista, 2008). 

(17) K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 509.

(18) K. Marx, Il capitale, I, p. 778.

(19) Ibid., p. 791.

(20) Ibid., p. 788

(21) «Sir F. M. Eden parla con annoiato scetticismo degli orrori dell’espropriazione della popolazione rurale e della sua espulsione dalla terra a partire dall’ultimo terzo del secolo XV fino al tempo suo, che è la fine del secolo XVIII. […] Con lo sviluppo della produzione capitalistica durante il periodo della manifattura la pubblica opinione europea aveva perduto l’ultimo resto di pudore e di coscienza morale. Le nazioni cominciarono a vantarsi cinicamente di ogni infamia che fosse un mezzo per accumulare capitale» (Ibid., pp. 820-822).

(22) Ibid., p. 823.

(23) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 68.

(24) Lettera di Marx a L. Kugelmann dell’11 luglio 1868, in Marx-Engels, Lettere sul Capitale, p. 119, Laterza, 1971.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E CONSAPEVOLEZZA SOCIALE

Giustamente Roger Penrose ritiene che non abbia alcun senso contrapporre la cosiddetta Intelligenza Artificiale all’Intelligenza Naturale, mentre si tratta, tradotto nei termini di chi scrive, di puntare i riflettori sulla «consapevolezza» (*) che orienta la nostra prassi sociale, le nostre scelte riguardanti gli aspetti più importanti della nostra vita. Ecco come il celebre matematico, fisico e cosmologo britannico si esprimeva in un’intervista rilasciata a Vita nel giugno del 2018 e che ho avuto il piacere di leggere solo oggi:  

« […] Oltretutto non mi piace l’uso della parola “intelligente” nel contesto di sistemi artificiali, dal momento che sembra implicare una misura unidimensionale delle capacità mentali. Naturalmente molti, se non la maggior parte tra coloro che si occupano di AI la pensano diversamente. Costoro si dicono convinti che qualunque “comprensione” o “significato” possano essere simulati da un sistema computazionale puro. […]In sostanza, se si ritiene che i neuroni si comportino come fili e transistor è normale credere che un dispositivo regolato da un computer possa simularne il funzionamento. Ma ci siamo messi su una strada sbagliata.[…] Dal lavoro all’uso di sistemi informatici complessi nel campo del controllo, dello spionaggio militare, il problema è grande. Ma ciò di cui dobbiamo preoccuparci non è se i computer e quindi se ciò che chiamiamo comunemente “intelligenza artificiale” prenderanno il sopravvento, bensì l’abuso che l’intelligenza naturale degli umani potrà fare di una tecnologia informatica, ovvero di una “intelligenza” priva di consapevolezza. Per questa ragione ritengo che quando parliamo di intelligenza, non dovremmo mai rimuovere l’elemento umano dalla nostra visione. Quando parliamo di sistemi controllati da algoritmi, sistemi di calcolo molto potenti e veloci, dobbiamo sempre ricordare che non sono dotati di consapevolezza. Se dunque prenderanno il sopravvento in molti ambiti della nostra società — lavoro, salute, istruzione — sarà proprio perché abbiamo dato deleghe in bianco su questa consapevolezza».

Il problema circa la cosiddetta “intelligenza umana” (come per qualsiasi altra tecnologia) si configura quindi come segue: che tipo di «consapevolezza» domina nella Società-Mondo del XXI secolo? Personalmente penso che si tratti di una consapevolezza sociale (perché di questo si tratta, non della consapevolezza dei singoli individui) orientata necessariamente dai rapporti sociali capitalistici, che sono rapporti di dominio e di sfruttamento – degli esseri umani e della natura. Non è della straordinaria potenza di calcolo delle macchine “intelligenti” che dobbiamo dunque avere paura, ma della disumana potenza del Moloch capitalistico. È questo mostro sociale che non riusciamo a controllare (e che anzi ci controlla, ispirandoci fra l’altro pensieri che capovolgono i termini reali della “questione tecnologica”), semplicemente perché esso è radicalmente (“strutturalmente”, come si usa dire oggi) incontrollabile. Non è l’AI che ci controlla, che ci opprime, che ci sfrutta scientificamente, che ci precarizza, che ci licenzia, che ci incalza in ogni aspetto della nostra vita: tutto questo è opera, per così dire, del Capitale, che si serve dell’AI di cui ha finanziato lo sviluppo per conseguire i suoi disumani obiettivi.

Utopistica, nell’accezione negativa del concetto, non è l’idea di farla finita con il Moloch, non è la convinzione che sia possibile superare la dimensione classista della società; utopistica, anzi chimerica (cioè mostruosa) è l’idea di poter “umanizzare” e “moderare” la Malabestia, di poterne usare gli “aspetti buoni” eliminando in qualche modo quelli “cattivi”. Dinanzi al “realismo” di chi crede nella politica del “male minore”, l’anticapitalista non fa certo fatica a credere di essere dalla parte della verità, anche in un mondo «ove l’azione non è sorella al sogno» (Charles Baudelaire).

(*) Sul concetto di consapevolezza Roger Penrose e Stuart Hameroff, teorici di una Mente Quantica concretamente osservabile all’interno del nostro cervello, suggeriscono l’approccio che segue: «L’origine della consapevolezza riflette il nostro posto nell’universo, la natura della nostra esistenza. Forse la coscienza evolve da calcoli complessi nei neuroni del cervello, come afferma la maggior parte degli scienziati? O la coscienza, in un certo senso, è lì da sempre, come sostengono gli approcci spirituali? Questa riflessione apre un potenziale vaso di Pandora, ma la nostra teoria concilia entrambi questi punti di vista, suggerendo che la coscienza derivi da vibrazioni quantiche nei microtubuli, polimeri proteici all’interno dei neuroni cerebrali, che governano le funzioni neuronale e simpatica, e collegano i processi di auto-organizzazione nella struttura quantica fine “proto-cosciente” della realtà» (Consciousness in the Universe, 2014). Gli aspetti quantistici implicati nei processi biologici sono in grado di spiegare la sostanza storica e sociale della coscienza? E che cosa rimane della coscienza prescindendo da questa sostanza? In un’intervista rilasciata all’Avvenire nel 2018 Penrose dice: «Non credo che la meccanica quantistica, per come la comprendiamo oggi, possa aiutarci a comprendere la coscienza. Penso che avremo bisogno di una teoria migliore di quella attuale». Oggi no, ma domani chissà. In ogni caso è bene sapere che «attualmente l’approccio quantistico viene applicato con successo a un’ampia gamma di fenomeni cognitivi: dalla percezione alla memoria, dall’inconscio all’analisi delle decisioni e persino ai giochi logici» (F. Fracas, Il mondo secondo la fisica quantistica, p. 257, Sperling & Kupfer, 2019). C’è chi teme l’alleanza sempre più stretta tra neuroscienze, sempre più ossessionate dall’idea di poter mettere le mani sulla sede fisica dei processi cognitivi, in generale, e della coscienza in particolare, e fisica quantistica; non a torto, al modesto avviso di scrive. Su questi temi rimando ai seguenti PDF:

SUL CONCETTO DI LAVORO MENTALE E SULLA TEORIA LENINIANA DEL RIFLESSORIDATEMI IL LIBERO ARBITRIO!LA PARTICELLA DI DIO E L’ORGASMO COSMICO DEGLI SCIENTISTI. Leggi anche il breve post NEUROSCIENZE E LIBERO ARBITRIO.

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE E LA MINACCIA ESISTENZIALE ALL’UMANITÀ

UMANO, FIN TROPPO UMANO. PRATICAMENTE UNA PARODIA DI UMANITÀUMANO, FIN TROPPO UMANO; MESSAGGIO DEL NOSTRO FRATELLO MACCHINA

CAPITALISMO ALIMENTARE

Carne macellata o “coltivata”? “Naturale” o “sintetica”? “Tradizionale” o di “nuova concezione”? Ma è poi questo il problema? Qui di seguito pubblico degli appunti che non ho avuto modo di sistemare e correggere. Mi scuso quindi con chi legge per le ripetizioni e per gli errori che vi troveranno in gran copia. Io non so se le tesi addotte dai sostenitori della carne coltivata per magnificarne le virtù alimentari, etiche ed ecologiche corrispondono a verità, né ritengo che ciò sia dirimente dal punto di vista che mi interessa porre all’attenzione di chi legge. Non si tratta infatti, per chi scrive, di capire chi abbia ragione nella controversia tra carne “naturale” e carne “artificiale”; si tratta piuttosto di capire il senso di questa controversia, il suo significato sociale e politico. In guerra non esistono verità, ma solo opposte propagande, si suole dire. Ebbene, questo vale anche per la guerra economica che si fanno le imprese, comprese ovviamente quelle che investono nel settore alimentare.

1. Una brevissima nota metodologica: qui ciò che interessa mettere in rilievo non è tanto il merito del problema affrontato, che pure è interessante per diversi aspetti, ma il metodo, ossia il modo in cui, all’avviso di chi scrive, questo come altri problemi sociali vanno approcciati e impostati. Questo approccio serve a sottrarsi alla morsa del pensiero dominante che ci spinge a schierarci in opposte fazioni, a intrupparci nelle quadre del “Sì” e del “No”, dei “Pro” e degli “Anti”, cosa che non ci consente di cogliere la radice sociale dei problemi che ci riguardano. Dobbiamo resistere alla tentazione della facile risposta, peraltro già confezionata per noi dai politici e dai cosiddetti esperti nelle più disparate materie: da quelle biologiche e sanitarie, a quelle fisiche, da quelle “umanistiche” a quelle “scientifiche”.

2. Il problema non è quello di fare una “scelta responsabile” pro o contro il cibo di “nuova concezione”, ma, come già detto, di capire il significato dell’acceso dibattito politico, economico e “filosofico” che su quel tipo di cibo si è innescato soprattutto nel nostro Paese. Anche il cosiddetto dibattito pubblico si è molto animato nelle ultime settimane, ma perlopiù esso si limita a rimasticare e vomitare frasi e posizioni di politici e opinionisti lette e orecchiate da tutte le parti; politici e opinionisti che in grande maggioranza sono schierati a favore del “Cibo naturale”, soprattutto se Made in Italy – cioè quello prodotto in grande misura brutalizzando la forza lavoro dei migranti. Secondo un’indagine Tecné la stragrande maggioranza degli italiani boccia il “cibo sintetico” e il 72% di loro non addenterebbe mai una bistecca “artificiale”. Le bestie destinate a trasformarsi in bistecca naturalmente ringraziano.

3. Da quale punto di vista la carne “tradizionale” sarebbe da preferire alla carne di “nuova concezione”? Dal punto di vista sanitario? Dal punto di vista dietetico? Dal punto di vista organolettico? Dal punto di vista etico? Dal punto di vista sociale? Dal punto di vista economico? Ottenere carne da animali torturati negli allevamenti industriali oppure da cellule “coltivate” nelle future industrie di carne “sintetica”; proteine animali derivate da tessuti coltivati in laboratorio, o proteine animali ottenute dalla macellazione di animali: chi legge ha delle preferenze a tal proposito? Personalmente, e in linea di principio, cioè superando certe idee che mi vengono in testa immaginando la carne prodotta in un “freddo” e asettico laboratorio (e rifiutandomi ostinatamente di immaginare cosa succede nelle industrie della carne “tradizionale”!), non ho alcuna preferenza. Una bistecca è pur sempre una bistecca, e un petto di pollo è pur sempre un petto di pollo! Certo, si tratta di vedere, anzi di gustare il sapore dei due tipi di carne, e poi fare la “scelta”. A proposito di petti di pollo! Una volta Churchill disse che era irrazionale allevare un pollo intero quando poi i britannici ne usavano come cibo solo il petto: «Dovremmo trovare il modo di produrre solo petti di pollo». Si trattava di una battuta in stile anglosassone che anticipava di un secolo l’attuale discussione intorno alla “carne coltivata” – o “sintetica”, oppure “artificiale”, come molti la chiamano con intento denigratorio. È più desiderabile allevare un pollo intero, per così dire, o solo ciò che di esso mangiamo? Ma più desiderabile per chi, esattamente? Inutile dire che comunque la pensiate tutti i polli vorrebbero avere un destino da gallo: questo è poco ma sicuro! Anche perché il gallo può vivere fino a 8 anni, mentre il pollo esaurisce la sua cattiva esistenza al massimo in cinque settimane. Sono un onnivoro particolarmente ghiotto si salsicce e polpette, che però consumo con grande moderazione solo per questioni dietetiche, e quindi quanto scrivo è lungi da un approccio moralistico al problema inteso a fabbricare accuse contro i «cinici divoratori di carne», fra i quali comunque debbo essere senz’altro annoverato. Le mie preferenze alimentari personali, peraltro tutt’altro che unilaterali e scolpite sulla pietra, non sono insomma politicamente significative, nel senso che non difendo alcun regime alimentare particolare. Ciò doverosamente precisato, andiamo avanti.

4. Leggo da qualche parte: «Carne coltivata e farine di insetti, a vincere ancora una volta è solo il capitalismo». Ma nella società capitalistica «a vincere ancora una volta» chi dovrebbe essere, se non appunto il capitalismo? Ecco dunque il tema che pongo alla riflessione mia e di chi legge, e che provo a sintetizzare come segue: Sull’uso capitalistico delle tecnologie e sui fini sociali della produzione: soddisfare i molteplici bisogni umani o quelli, radicalmente e necessariamente disumani, del Capitale? Davvero non c’è limite all’ingenuità di non pochi “esperti della materia”, di qualsiasi materia, beninteso: che si tratti di “utero in affitto” o di “intelligenza artificiale”, di guerra in Ucraina o di “transizione ecologica”, di pratiche vaccinali o di politica genericamente intesa. Per questi cosiddetti esperti il concetto di capitalismo spiega ben poco, e anzi il più delle volte appare ai loro occhi come un intruso ideologico che anziché illuminare la riflessione su un determinato problema sociale, favorendo la comprensione di ciò che è essenziale senza perdersi appresso all’inessenziale, la conduce piuttosto su un binario morto. Per questi “esperti” il concetto di capitalismo o spiega troppo poco, oppure spiega troppo: in ogni caso si tratterebbe di un eccesso, e l’eccesso apre le porte alla disarmonia.

5. Come scrive Francesca Grazioli, ricercatrice al centro Bioversity International e autrice di Capitalismo carnivoro (Saggiatore, 2022), i lavoratori sfruttati negli allevamenti intensivi sono «appena un gradino sopra rispetto agli animali. Sono loro stessi oggetto di una violenza». Per Grazioli «Come il capitalismo, l’industria della carne tende a una crescita infinita, volta alla continua rigenerazione del capitale». Ma l’industria della carne, qualunque sia la sua tipologia (“tradizionale” o di “nuova concezione”) è capitalismo, e quindi la distinzione tra le due cose è priva di senso. Nella società capitalistica la produzione di qualsiasi “bene o servizio” non può che avere una natura capitalistica. «La carne sintetica è una tecnologia che potrebbe risolvere alcuni problemi, ma il punto è: chi detiene questa tecnologia? Sarà condivisa, diffusa, aperta e accessibile come lo è oggi quella della birra artigianale, o sarà appannaggio delle multinazionali? Certo è che, di fronte alla necessità assoluta di cambiare il sistema con cui viene prodotta la carne, è una risposta parziale che crea semmai nuovi bisogni legati al consumo, ma non risponde alle necessità di redistribuzione o revisione del sistema degli incentivi» (F. Grazioli). La tecnologia di cui si parla è stata sviluppata grazie all’investimento di ingenti capitali, e quindi anche qui mi sembra abbastanza “ridondante”, diciamo così, domandarsi chi ne detiene la proprietà e quindi il diritto di impiegarla capitalisticamente, ossia in vista di un “ritorno economico”. A mio avviso non si tratta di un problema di «redistribuzione» o di «revisione del sistema degli incentivi»: si tratta piuttosto di prendere atto del potere sociale fondato sui rapporti sociali capitalistici, i quali presuppongono e pongono sempre di nuovo una prassi di dominio e di sfruttamento degli esseri umani e della natura, trattati dal Capitale come una mera risorsa economica. I bisogni umani rappresentano per il Moloch capitalistico occasioni di profitto da ampliare e moltiplicare continuamente, inventandone sempre di nuovi, e in questo il Mostro ha nella tecnoscienza il suo più potente alleato.

6. Il fatto che a inizio Novecento a ispirare Ford per l’elaborazione di un moderno processo produttivo (la famigerata catena di montaggio) sia stato il macello di Chicago, è cosa che a mio avviso si presta benissimo come metafora circa la natura disumana del capitalismo. Questa natura non ha a che fare, in primo luogo, con la produzione di carne, ma essenzialmente con la produzione del profitto attraverso lo sfruttamento dell’uomo e della natura. In questo senso è corretto dire che il Moloch sociale chiamato Capitale si nutre fondamentalmente di esistenze umane, di vita umana, di «tempo di lavoro altrui non retribuito», per dirla con Marx. Il Mostro capitalistico ha «la fame di plusvalore da lupi mannari», scriveva sempre il comunista di Treviri. Su questo fondamentale aspetto, la produzione di carne “naturale” e quella di carne “artificiale” non si distinguono affatto, ed entrambe aderiscono perfettamente alla metafora di cui sopra. Nella lotta industriale tra produttori di cibo il benessere umano e quello animale sono solo una copertura propagandistica che non riesce a nascondere la vera posta in palio: il benessere dell’investimento capitalistico. «Certo è che il modello attuale di produzione alimentare, in particolare di carne, risulta non essere più sostenibile per un pianeta, e una popolazione, che sta attraversando questa crisi climatica. Diventa quindi importante individuare tutte le possibili soluzioni che possono apportare vantaggi all’ambiente, al benessere degli animali e alla salute umana, compresa la carne coltivata» (Fondazione Veronesi). La «crisi climatica» ormai viene tirata in ballo per giustificare qualsiasi cosa. Ciò che è invece certo, a mio avviso, è che la produzione capitalistica è insostenibile dal punto di vista umano e ambientale, e questo a prescindere da come essa produce il nostro cibo, che per il Capitale rappresenta solo un valore di scambio da trasformare (realizzare) in denaro.

7. Tutti gli attori in campo, sia quelli interessati a difendere lo status quo tecnologico e merceologico, sia quelli che coltivano l’interesse opposto, portano a loro difesa argomenti centrati sulla difesa dei “beni comuni”, del pianeta, della salute umana, del benessere animale e quant’altro rientri nella lista del politicamente ed ecologicamente corretto. Tutte chiacchiere, confezionate più o meno bene, che nascondono appunto un solo interesse: quello per il profitto. L’argomento più forte qui è come sempre la quantità di profitto che può generare la produzione di un bene o servizio. Né bisogna sottovalutare l’importanza di valutazioni d’ordine generale che riguardano la tenuta complessiva della società capitalistica, le cui dimensioni oggi abbracciano l’intero pianeta. Per il Capitale considerato come potenza sociale collettiva il mondo intero rappresenta un’immensa occasione di profitto, e quindi esso è interessato a non distruggerlo una volta per sempre, cioè a non renderlo socialmente ed economicamente inservibile. Detta in altri termini, questa società cerca di porre rimedio ai problemi di vario genere che essa stessa produce sempre di nuovo, con assoluta necessità, e lo fa dispiegando tutte le sue conoscenze tecniche e scientifiche, nonché la sua smisurata potenza di fuoco economica. Come ridurre l’inquinamento ambientale? Come dare una risposta alla crisi demografica? Come contrastare il senso di frustrazione e di impotenza degli individui? E così via. Un problema sociale si trasforma molto spesso in uno stimolo per l’innovazione tecnologica, per la produzione di nuovi bisogni da soddisfare, ossia in un guadagno per l’investimento capitalistico. Il Moloch capitalistico intasca profitti sia generando magagne, sia cercando di eliminare queste magagne, per produrne altre nuove di zecca, e così via, lungo un circolo che è virtuoso solo per il Mostro.

8. Quello che mi interessa promuovere non è «un vero dibattito scientifico» sulla questione, anche perché non ne sarei capace, non essendo un “esperto”; vorrei invece orientare il pensiero (a cominciare dal mio) in direzione di una posizione critico-rivoluzionaria, cioè anticapitalista sul problema in oggetto come su tutti i grandi problemi che ci riguardano. Nel capitalismo la scienza non solo non è politicamente neutra, ma essa è profondamente implicata nelle scelte politiche dei governi e degli Stati, anche a prescindere dalla volontà degli stessi scienziati. Come si diceva, la scienza e il suo “risvolto” pratico, la tecnologia, sono lo strumento più potente che il Capitale ha nelle mani per sfruttare uomini e natura, per dominarli concettualmente e praticamente. La tecnoscienza è capitale all’ennesima potenza, e come ben comprese Marx già ai suoi tempi il vero e proprio capitalismo moderno inizia proprio con l’introduzione metodica e sempre più estesa della scienza nel processo produttivo. Col tempo i funzionari del capitale (o capitalisti che dir si voglia, sia che si occupino di industria, di commercio, di finanza, di “terziario avanzato” o di altro) hanno capito che perfino la ricerca scientifica teorica più lontana, nell’immediato, da un uso economicamente finalizzato delle sue scoperte, presto o tardi può produrre risultati estremamente profittevoli sotto il profilo squisitamente economico. È l’intelligenza del Capitale, che fa impallidire l’attuale dibattito sulla cosiddetta intelligenza artificiale, un dibattito peraltro completamente feticizzato e reificato. Per dirla volgarmente: senza profitto il Capitale non galleggia! Tutta la costosissima ristrutturazione tecnologica delle imprese in vista della cosiddetta “economia green”, che tanto piace soprattutto all’opinione pubblica progressista, si spiega solo a partire dagli interessi capitalistici e dai problemi che questi interessi generano sempre di nuovo agli esseri umani e alla natura – in termini di inquinamento, di catastrofi ambientali d’ogni tipo,di distruzione di interi ecosistemi (spesso alla base di molte ondate epidemiche), ecc. Non so se alla fine della “transizione ecologica” (o energetica/tecnologica) il pianeta che ci ospita sarà più verde e respirabile; so però per certo che ci troveremo a che fare con un capitale mondiale più concentrato, più centralizzato e più disumano.

9. Come sempre i detrattori di una nuova tecnologia o di un nuovo business chiamano in causa non meglio definiti “poteri forti” (la finanza internazionale, senza mai trascurare di tirare in ballo un banchiere o uno speculatore ebreo, le multinazionali che investirebbero nei settori industriali tecnologicamente più all’avanguardia per perseguire indicibili quanto loschi obiettivi, i politici al servizio della globalizzazione e del “liberismo selvaggio”, ecc.), come se dalla parte della concorrenza operassero invece pii francescani interessati solo al bene comune, alla pace nel mondo e alla salvezza del pianeta. Per la Coldiretti, che sostiene la politica proibizionista governativa in materia di “cibo sintetico”, «La carne sintetica spezza lo straordinario legame che unisce cibo e natura». Tra le molte ragioni addotte dai nemici della «carne Frankenstein», questa mi sembra la più risibile e ipocrita.  L’attuale produzione di cibo non rispetta né l’uomo né la natura, a cominciare ovviamente dai lavoratori sfruttati per produrlo e dagli animali destinati a essere usati come materia prima. Senza parlare dell’impatto ambientale di questa produzione. Francesco Lollobrigida, il ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare (sic!), nonché strenuo difensore dell’italica etnia (strasic!), ha definito «aberrante» l’intenzione di chi vorrebbe introdurre in Italia e in Europa la produzione del «cibo sintetico», mettendo scientemente «a rischio la salute dei consumatori». Il ministro auspica un’«alleanza contro l’assalto del cibo sintetico alle tavole mondiali e a comparti strategici del vero Made in Italy agroalimentare, dalla carne ai salumi, dal latte ai formaggi». Il linguaggio guerrafondaio usato dal ministro fa capire gli enormi interessi economici in gioco. Basti pensare che l’export di cibo italiano vale 60 miliardi di euro. Per il nostro sovranista alimentare, ossessionato com’è noto dall’idea complottista della “sostituzione etnica” (dal Manifesto della Razza al Manifesto dell’Etnia?), la maligna intenzione di sdoganare il “cibo sintetico” persegue la «negazione di una cultura e di un mondo come quello agricolo che non ha eguali nel mondo». Dietro l’idealizzazione stupida e provinciale di una realtà che esiste solo nella sua testa sovrana, c’è ovviamente la realtà di imprenditori, piccoli, medi e grandi, che vedono minacciato il loro business anche solo in una prospettiva molto lontana.

10. Esattamente come accadde per i famigerati OGM, sarà proibito produrre in Italia “cibo sintetico” mentre non si potrà impedirne l’importazione e la commercializzazione qualora Bruxelles dovesse approvarne la produzione e la commercializzazione in tutti i Paesi dell’Unione Europea. Occorre poi considerare le leggi transnazionali che regolano il commercio mondiale. Per adesso la linea governativa, sostenuta anche dall’opposizione, va appunto nel senso della proibizione; domani si vedrà. È un po’ quello che è accaduto con l’energia elettrica prodotta dalle centrali nucleari: si è impedita la sua produzione in Italia, mentre la si importa tranquillamente dalla Francia, la quale notoriamente confina con il nostro Paese. Pensiamo a una Chernobyl francese, e facciamo i dovuti scongiuri!  

11. Per impostare correttamente, cioè non ideologicamente, il problema riguardante la cosiddetta carne coltivata occorre prima capire qual è oggi la realtà del processo di produzione della carne – e del pesce, posta la fondatezza di questa distinzione – che finisce nel consumo di miliardi di persone. Com’è noto, gli animali che vengono allevati con sistemi industriali a dir poco ostili al benessere degli esseri viventi destinati alla macellazione, non sono destinati alla nostra compagnia, non saranno mai oggetto delle nostre attenzioni, delle nostre carezze, del nostro affetto: essi sono appunto destinati fin dall’inizio a finire nei nostri piatti, e poi nel nostro apparato digerente. Si fabbrica cibo usando miliardi di essere senzienti – si stima che nel mondo vengono allevati a questo scopo non meno di 60 miliardi di animali. Quando riflettiamo sulla produzione di carne, di latte e di uova destinati al nostro consumo, non dobbiamo pensare alle belle fattorie o ai campi agricoli stile “Mulino Bianco”, o alle verdi praterie che vediamo in molti film americani. Ecco come Il Mattino del 9 maggio commentava il via libera del governo israeliano alla produzione industriale di latte “sintetico”: «Niente più latte della Lola. La dolce e paffuta mucca della pubblicità così come tutte le sue colleghe di mungitura presto potrebbero perdere il lavoro ed essere sostituite da bioreattori che faranno arrivare in tavola una tazza fumante di caffellatte, ma rigorosamente senza nessun sentore di animali al pascolo, prati e campagne». Niente di tutto questo ovviamente corrisponde alla realtà. «Le mucche allevate per la produzione di latte sono costrette a vivere una vita meccanica, ripetitiva, confinata in strutture dai rumori robotici e innaturali, create appositamente per poter mungere più facilmente il latte in continuazione. Le mucche vivono confinate, senza alcun accesso ai prati, senza la possibilità di crescere i propri figli, precocemente strappati e avviati a un triste destino, spesso ferite, consumate e sfruttate fino allo sfinimento, fino a che il loro corpo non cederà e verranno avviate al macello. L’unica fine possibile per le mucche sfruttate dall’industria del latte. Esse vivranno Tutto questo avverrà almeno due volte al giorno, finché il loro corpo sarà in grado di sostenere un ritmo serrato di produzione, che le porta a produrre fino a 60 litri di latte al giorno, contro i 4 che produrrebbe normalmente» (Animalequality). Ecco come vivono davvero Lola e le sue sorelle!

12. La produzione industriale di carne, di pesce, di latte e di uova dà insomma l’idea di un inferno per gli animali. Ogni idealizzazione di questa produzione in regime capitalistico è infondata e forviante, oltre che sommamente cinica. In ogni singola bistecca che mangiamo, e in ogni bicchiere di latte che beviamo, o nell’uovo che mandiamo giù c’è un concentrato di sofferenze che non riusciamo – e non vogliamo: perché rovinarci la digestione! – nemmeno a immaginare. Un assetto autenticamente umano della società si rifiuterebbe di creare tutta questa sofferenza negli esseri viventi che non appartengono alla nostra specie. Oltre a generare un’infinità di sofferenze agli animali, la produzione industriale di carne, di latte e di uova genera moltissimo inquinamento (con emissioni di gas serra d’ogni tipo), molto consumo di acqua e di cibo destinato agli animali-cibo (il 90% della produzione di soia nel mondo è destinato agli animali), molto consumo di suolo sottratto alla produzione di cibo per gli esseri umani, e molto consumo di ormoni e antibiotici idonei a prevenire le infezioni negli animali-cibo – e che causano in molti di noi una resistenza agli antibiotici che scopriamo quando ci ammaliamo.

13. Per la produzione della carne coltivata siamo ancora nella fase di sperimentazione, e per questo il suo costo è proibitivo, ma il prezzo è destinato a scendere rapidamente, come d’altra parte è accaduto e accade per ogni altro nuovo prodotto basato su nuove tecnologie e su nuovi materiali. In dieci anni un hamburger di carne sintetica dal peso di 142 grammi è passato da circa 290mila euro a circa 6 euro, e anche la sua consistenza e il suo sapore stanno convergendo verso l’hamburger “tradizionale”, attraverso un sapiente miscuglio di fibre muscolari e di sostanza grassa. Il passaggio dal laboratorio alla produzione su scala industriale non dovrebbe essere lontano, e la commercializzazione della carne coltivata anche in Italia non appare più un’impresa (capitalista) impossibile, nonostante l’orientamento proibizionista di governo e opposizione – salvo rare eccezioni. I biotecnologi sostengono che è sbagliato parlare di carne sintetica, perché non siamo alla presenza di un prodotto di sintesi ma ad una vera e propria coltivazione di cellule staminali in bioreattori. «Per sintetico, infatti, si intende qualcosa che è risultato da una sintesi che avviene al di fuori di un organismo vivente. Cosa che attualmente non è» (Fondazione Veronesi). Per quel che ne so, e mi scuso nel caso dovessi scrivere delle sciocchezze, biologicamente parlando non c’è alcuna differenza tra l’hamburger prodotto con la coltivazione in un bioreattore delle cellule muscolari che vengono prelevate da una mucca, per ottenerne dei tessuti, e l’hamburger ottenuto macellando la stessa mucca. Stesso discorso vale per il latte e per il formaggio “sintetici”. Un bioreattore è, detto in estrema sintesi, un contenitore (un dispositivo, un apparecchio, un impianto) in cui avvengono reazioni guidate da cellule o parti di esse, come enzimi proteici. La tecnologia è tutt’altro che nuova perché da decenni l’uomo ha imparato a coltivare cellule per “riparare” parti del corpo umano danneggiati – ad esempio, pelle umana da impiantare a un soggetto ustionato. Adesso il Capitale (non il generico “uomo”, né il singolo capitalista) vuole sfruttare quella tecnologia per ampliarne ulteriormente le sue capacità d’impiego produttivo: tutto assolutamente normale – si parla di normalità capitalistica, è ovvio. E di quale normalità dovremmo parlare? Secondo le ultime e assai accreditate ricerche di mercato (tipo McKinsey e AT Kearney) la carne cosiddetta artificiale potrebbe creare un mercato da 25 miliardi di dollari entro il 2030, ed entro il 2040 il 35% di tutta la carne consumata potrebbe venir generata da cellule staminali, mentre i sostituti a base vegetale potrebbero coprire una quota di mercato pari al 25%. In questo scenario tutt’altro che fantascientifico la carne da macello finirebbe per coprire “solo” il 40% del mercato globale. I detrattori della nuova tecnologia ovviamente puntano i riflettori sulle sue “criticità”: grandi consumi energetici dei bioreattori e un ampio utilizzo di coloranti, aromatizzanti e addensanti che dà corpo a un cibo iper-processato. Gli avversari della “carne sintetica” qualche mese fa affermavano, senza se e senza ma, che quel prodotto era senz’altro dannoso per la salute, oltre che per l’ambiente e per il nostro “stile di vita”, la nostra cosiddetta cultura; non potendo produrre alcuna prova di questa asserita certa dannosità, oggi si limitano a invocare il “principio di precauzione”: essa potrebbe essere dannosa, e quindi fino a prova contraria è meglio vietarne la produzione. Sarebbe come sbattere in galera qualcuno perché potrebbe commettere un delitto e non è in grado di provare il contrario. Detto per inciso, gli organi repressivi dello Stato non di rado adottano, attraverso stratagemmi attinti dal Codice Penale, questa metodologia “preventiva”. Meglio prevenire che curare! Ma solo quando la cosa intacca i nostri interessi, beninteso. Ad esempio, sull’italico vino nulla da dire: più ne beviamo e meglio stiamo! C’è poi da considerare anche la “carne vegetale”, che non è, sempre capitalisticamente parlando, un ossimoro ma una nuova possibilità di profitto che si affaccia sul mercato. «La vedi, e ti sembra una bistecca. La tagli, e le fibre si separano esattamente come quelle muscolari. Il sangue cola, il sapore è quello che ti aspetti. Eppure questo, che sembra un filetto a tutti gli effetti, in realtà è fatto di soia, piselli, noce di cocco, burro di cacao, ferro, succo di barbabietola e lieviti. E la forma gliel’ha data una stampante 3d. È la prima bistecca vegetale al mondo. Ed è appena sbarcata in una quindicina di ristoranti italiani, di cui cinque a Milano e due a Roma. A produrla è una società israeliana, Redefine Meat, nello stabilimento che la società ha in Olanda» (Il Sole 24 Ore). Il Capitale ne inventa una al giorno, se gli va malissimo, pur di far felici i consumatori (in grado di pagare!): buon appetito!

14. Il consumo di carne nel mondo è aumentato di moltissimo negli ultimi cinquant’anni, via via che centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà assoluta grazie allo sviluppo capitalistico di grandi Paesi come la Cina e l’India. La sempre più numerosa classe media cinese e indiana desidera arricchire la propria dieta con carne, latte e formaggio, tutti prodotti che come sappiamo oggi possono essere prodotti “artificialmente” nei bioreattori e nei fermentatori. Il ventre di una mucca che dà latte può essere assimilato a un bioreattore, considerato che in esso hanno luogo analoghi processi biologici e chimici? Non saprei dire. So però che oggi trasformiamo la povera mucca in materia prima vivente. La produzione industriale di cibo mentre smentisce sempre di nuovo le tesi malthusiane, conferma le tesi marxiane circa il carattere squisitamente sociale, e non astrattamente naturale o antropologica, del problema che riguarda il sostentamento degli esseri umani, il loro benessere fisico e “spirituale” all’interno di una comunità. Nel capitalismo la fame non ha mai avuto nulla a che fare con la sindrome malthusiana, ma piuttosto con la disumana logica del profitto. E difatti oggi nei Paesi capitalisticamente avanzati si parla di «inverno demografico», e perfino in Cina il problema non è più la sovrappopolazione ma il graduale declino demografico: non si tratta di avere troppe bocche da sfamare ma braccia insufficienti da sfruttare. «Noi, semplicemente, annulliamo la contraddizione superandola. Si dilegua così l’opposizione fra la sovrappopolazione qui e l’eccesso di ricchezza lì, si dilegua il fatto prodigioso, più prodigioso di tutti
i prodigi di tutte le religioni messe insieme, che una nazione debba morire di fame a causa della ricchezza e della sovrabbondanza; si dilegua la folle tesi che la terra non abbia la capacità di nutrire gli uomini». Questo scriveva il giovane Engelsnei suoi Lineamenti di una critica dell’economia politica (1843-1844). Nella testa degli anticapitalisti il problema non si è mai configurato come limiti di uno sviluppo» astrattamente considerato, ma nei termini dei limiti invalicabili posti all’umanità da una peculiare società: quella basata sul profitto.

15. Se non si comprende che il capitale investe nella produzione di cibo solo per intascare appunto un profitto, non si comprendono le dinamiche sociali (economiche, politiche, tecnoscientifiche, geopolitiche) che in qualche modo sono riconducibili a quella produzione. Affermare che per il Capitale il cibo, “tradizionale” o “artificiale” che sia, è una merce come le altre, significa dire un’ovvietà che solo chi non comprende i fondamentali meccanismi di funzionamento di questa società non è in grado di cogliere nel suo autentico significato, cosa che lo espone a un moralismo davvero pietoso e in compenso molto utile a una delle tante fazioni capitalistiche che si contendono il bottino. Purtroppo sono in molti, diciamo pure in troppi, che non capiscono quei meccanismi, e che quindi non solo non riescono a dare le corrette risposte alle domande poste sempre di nuovo dal processo sociale, ma non riescono nemmeno a impostare le domande in modo corretto, con ciò che ne segue dal lato delle risposte. Non riesco nemmeno a immaginare, né mi sforzo di farlo, il tipo di regime alimentare adeguato a una Comunità che fosse autenticamente umana; tuttavia sono certo che essa, se volesse rimanere fedele al proprio concetto, non potrebbe non farsi carico anche della felicità degli altri esseri viventi. La felicità degli esseri umani non potrebbe mai fondarsi sull’infelicità delle altre creature viventi né, più in generale, a spese della natura, la quale del resto sarebbe parte essenziale di quella Comunità. Come tutto ciò potrebbe riflettersi sul terreno del regime alimentare degli esseri umani, questo non so dirlo, ma che l’umanizzazione della prassi sociale debba necessariamente coinvolgere anche quel regime, di questo non ho alcun dubbio. In ogni caso io sostengo questo concetto di Comunità umana e non intendo cambiarlo per nulla al mondo – anche se, per assurdo, scoprissi che Marx in persona sul punto la pensava all’opposto: non sono un marxista, dopotutto. «E il lupo dimorerà con l’agnello, e il pardo giacerà col capretto; e il vitello, il leoncello e la bestia ingrassata staranno insieme, ed un piccolo fanciullo li guiderà. E la vacca e l’orsa pasceranno insieme» (Isaia, 11/6). La Riconciliazione Universale, ossia l’umanizzazione della natura per mezzo di Dio: è ciò che promette «Il regno pacifico e prosperoso del Messia». E cosa promette a tutte le creature viventi il regno pacifico e prosperoso dell’Uomo?

LO SPETTRO DI MALTHUS. E QUELLO DI MARX

CONSIDERAZIONI PAUPERISTICHE

CIBO AMARO. Può la merce sfamare l’uomo?

BRUCIARE CIBO, SPECULARCI SOPRA: NULLA È PIÚ “NATURALE” SULLA BASE DEL CAPITALISMO DEL XXI SECOLO

IL PUTIN DI IRINA SCHERBAKOWA

L’intervista che la scrittrice e traduttrice russa Irina Scherbakowa ha rilasciato al quotidiano Domani è molto interessante a partire dal suo titolo: Questa non è una guerra regionale. Non c’è dubbio, e non a caso il PDF che raccoglie i miei post dedicati alla guerra in Ucraina ha il titolo che segue: La dimensione mondiale del conflitto russo-ucraino. L’intervista è molto interessante per diversi aspetti anche se il punto di vista sulla guerra della Scherbakowa è agli antipodi rispetto al mio, come si evince da un’altra frase dello stesso titolo appena citato: «In Ucraina si combatte per la stabilità del sistema democratico e per la Ue». Per lei il «sistema democratico» ucraino e l’imperialismo europeo rappresentano due realtà che bisogna preservare dalle mire espansionistiche dell’imperialismo russo. Per me si tratta invece di sottrarsi dall’abbraccio mortale di ogni nazionalismo (compreso quello ucraino) e di ogni imperialismo (compreso ovviamente quello russo e a cominciare da quello italiano, considerato che chi scrive è di nazionalità italiana). Ma sulla mia posizione sul conflitto in corso rimando ai miei diversi post dedicati al tema.

Cofondatrice nel 1989 di Memorial e premio Nobel per la pace nel 2022, Irina Scherbakowa si è molto occupata dei crimini commessi dal regime stalinista, cosa che evidentemente ha molto irritato Putin, la cui narrazione propagandistica si basa sul recupero di tutta la storia dell’Impero Russo, per farne qualcosa di eccezionale che giustifica le “legittime” ambizioni della Russia così disprezzate e ostacolate dall’odiato Occidente. «Ciò che Putin trova più inquietante nel nostro lavoro è che Memorial ha gettato una luce critica sul passato russo, nominando non solo le vittime del terrore staliniano, ma anche i loro aguzzini. […] Nella mente di Putin coesiste un mix di vari costrutti mitologici, in parte persino di idee del XIX secolo e non solo dell’era sovietica. In lui c’è una rappresentazione quasi razziale della superiorità della storia russa, che include l’Ucraina come territorio russo, privo di una propria lingua e cultura. Putin l’ha ribadito più volte che ai suoi occhi l’Ucraina non è e non sarà mai una nazione indipendente, ma solo una parte della storia e della cultura russa».

Per Scherbakowa la frase attribuita a Putin secondo la quale «il crollo dell’Unione Sovietica ha rappresentato la peggiore catastrofe del XX secolo» non è che una frase propagandistica, e comunque essa non rispecchia quanto è accaduto in sorte all’autocrate russo. «Negli anni ’90 infatti, subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’ex ufficiale del Kgb Putin era completamente integrato nel nuovo sistema politico russo. Diciamoci la verità: mai all’interno dell’Urss un piccolo ufficiale del Kgb avrebbe potuto fare la carriera che Putin ha fatto dopo il crollo dell’impero. Il suo balzo ai vertici del Cremlino si deve alla catastrofe dell’Urss, che lui poi ha tanto mistificato. Putin è il figlio del caos e di quell’atmosfera criminale che ha dominato in Russia nei primi anni Novanta». È comunque vero che già nel 2011 Putin disse a Bill Clinton di non condividere l’accordo che l’ex Presidente degli Stati Uniti avevo stipulato con Boris Eltsin e di non sentirsene vincolato: «Sapevo da quel giorno in poi che era solo una questione di tempo» (Intervista di Clinton al Financial Times del 5 maggio).

Giustamente Irina Scherbakowa fa notare come il sovranismo del Presidente della Federazione Russa sia sempre molto piaciuto tanto a «una certa sinistra estrema» (stalinista, cioè anticomunista, checché ne pensi la nostra amica russa), quanto «a quelli dell’estrema destra»: «E ciò ha a che fare con il fatto che gli estremismi ideologici si somigliano». Come ho scritto altre volte, gli estremi si toccano quando stanno sullo stesso piano, e “sinistrorsi” e “destrorsi” si muovono sullo stesso escrementizio piano: quello del capitalismo e dell’imperialismo. Beninteso, anche Scherbakowa si muove sullo stesso piano dei suoi obiettivi polemici.

Buona parte della sinistra ha sempre visto nei Paesi dell’Europa dell’Est solo Paesi-satellite di Mosca. Anche la sinistra non ha voluto conoscere la storia e la cultura dei Paesi dell’ex blocco sovietico, accettando insomma la logica imperiale del Cremlino. Sino ad oggi si ripete, anche contro il governo di Zelensky, che l’Ucraina è un paese di corrotti e mafiosi. Ma, domando: forse che il governo di Putin, l’amministrazione e l’economia russa sono meno corrotti?». Nei confronti della “sinistra” che sostiene la coalizione imperialista avversaria dell’imperialismo a trazione statunitense Scherbakowa ha ragione da vendere, come si dice. Peccato, si fa sempre per dire, che per lei lo stalinismo rappresentò una criminale «dittatura comunista», e non, come in realtà fu, una dittatura capitalistica che oltretutto ebbe il demerito di presentarsi, orwellianamente, appunto come “comunismo” o “socialismo reale”. Le conseguenze politiche di questa gigantesca mistificazione ideologica ancora si fanno sentire.

Chiudo con un’ultima citazione, sempre a proposito di mistificazione, di creazione di miti e di leggende (tipo Grande Guerra Patriottica): «Noi vogliamo che si faccia finalmente luce sul modo disastroso in cui Stalin e i suoi generali hanno condotto la guerra contro l’invasione nazista (1). Una guerra atroce che è costata la vita a milioni di soldati e ufficiali e di inermi cittadini. Ma che dal dopoguerra in poi è associata al culto della personalità di Stalin, e ancora oggi viene celebrata da Putin come il mito della Grande guerra patriottica. Senza mai uno sguardo critico sul modo in cui Stalin ha trattato i soldati come carne da cannone. Il lavoro di Memorial mira a far comprendere ai cittadini russi che quella dello Stato sovietico è la storia di uno Stato criminale, che ha trattato in modo disumano i nostri parenti, bisnonni, nonni, padri e madri». Questi passi mi ricordano un mio post del 2012 intitolato Uomini come carbone, a cui rimando chi legge.

«La Russia spinge i propri soldati verso la morte. La mobilitazione serve solo a fornire carne da cannone ai comandanti» (Adnkronos). Nel complesso, le stime pubblicate da varie fonti ipotizzano dalle 100 a 280mila perdite totali dell’esercito di Mosca (2) e tra le 30 e le 90mila perdite totali dell’esercito di Kiev. Perfino il macellaio Evgeny Prigožin, capo indiscusso dei mercenari della famigerata Wagner, è stato costretto a denunciare un’anomala ondata di sangue russo fra i suoi combattenti. «Il patron della Wagner si scaglia contro la leadership dell’esercito regolare russo accusando il capo di Stato Maggiore delle forze armate, Valery Gerasimov, e il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, della morte dei suoi uomini» (ANSA). Qualcosa forse bolle nella sempre più caotica e imprevedibile pentola moscovita. Forse. Di certo c’è il massacro di civili e soldati, di entrambi i fronti, vittime di un sistema sociale che ha le dimensioni del mondo. Irina Scherbakowa ha ragione: «Questa non è una guerra regionale».

(1) Scrive (e io riprendo a scanso di antipatici equivoci!) Irina Scherbakowa: «Quella scatenata da Hitler in Europa, nel settembre del 1939, fu una guerra totale, rivolta non solo contro gli eserciti nemici ma contro le società civili, e che causò la morte di milioni di persone in tutta Europa. Il sistema del terrore nei lager nazisti si basava su un’assoluta “fabbrica della morte”, con l’obiettivo di liquidare milioni di ebrei. Per tutto questo, ciò che oggi vediamo all’opera nella Russia di Putin possiamo senz’altro definirlo come una forma inusuale di fascismo» (Domani, 6/5/2023). «Suo nonno Yakov, di origine ucraina, era uno dei dirigenti nell’apparato del Komintern, e sin dall’ottobre 1924. Sua madre è nata nel famigerato Hotel Lux di Mosca, dove la famiglia ha abitato sino al 1945. Suo padre, un giovane ufficiale russo ed ebreo dell’Armata Rossa, fu gravemente ferito, nei pressi di Stalingrado, nel 1944» (Ivi).

(2) «Se n’è accorto perfino il ministro della Giustizia, Konstantin Chuychenko, compagno di studi dell’ex presidente russo Medvedev a Leningrado, e per tre anni nel Kgb prima di scalare i vertici di Gazprom. I numeri erano sotto i suoi occhi, bastava leggerli. Nel 2018, solo trecento russi avevano chiesto di cambiare sesso, nel 2022 sono diventati 2700. E l’impennata risale a un mese dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio dell’anno scorso. Mistero sui numeri più recenti. Chuychenko ha fatto due più due e capito che molti dei transgender, in realtà, vogliono registrarsi come donne solo per non arruolarsi e non andare al fronte in Ucraina. Perciò ha deciso un giro di vite legislativo, rafforzando le norme che invece oggi consentono a chiunque, in Russia, di cambiare sesso presentando un certificato medico, senza doversi sottoporre ad interventi chirurgici. Entro la prossima settimana la Duma è chiamata a esprimersi col voto sul nuovo testo e il 15 maggio potrebbe varare la legge per imporre la sala operatoria, oltre alle già previste terapie ormonali» (Il Messaggero).  Dimostra di essere un vero uomo, recita la nuova campagna di reclutamento di giovani russi da inviare al fronte…

CONTRADDIZIONI IN SENO ALL’OCCIDENTE

LA GUERRA IN UCRAINA VISTA DA ZIMMERWALD

MANEGGIARE CON CURA ROSA LUXEMBURG!

UN ANNO DOPO

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE E LA MINACCIA ESISTENZIALE ALL’UMANITÀ

La tecnologia in quanto tale, la tecnologia in sé e per sé: si tratta di concetti che poco a che fare hanno con la realtà. La stessa cosa si può dire a proposito della scienza, che della tecnologia è il presupposto concettuale fondamentale, senza il quale quest’ultima sarebbe da svariati secoli a un livello assai primitivo. Riflettere sulla scienza e sulla tecnologia prescindendo dalla società e dall’epoca storica che le rendono possibili, tanto sul piano teorico quanto su quello pratico, non ha a mio avviso alcun senso. Il filosofo Emanuele Severino diceva che «La storia della scienza è la storia della volontà di potenza dell’uomo»: si tratta di riempire di contenuti storico-sociali questo impegnativo concetto, che va sottratto da una sua “declinazione” puramente antropologica.

Su questa semplice, direi elementare, convinzione fondo la mia critica nei confronti dell’ondata di feticismo tecnoscientifico che almeno da cinque anni caratterizza il dibattito specialistico e politico sulla cosiddetta Intelligenza Artificiale. Il dibattito pubblico sull’AI, in Italia e in tutti i Paesi Occidentali (in Giappone, India e Cina l’approccio ai problemi posti alla società dal capitalismo altamente sviluppato è più “pragmatico” e meno ideologico), si è trasformato in una quotidiana scoperta di nuovi rischi e di nuove minacce, più o meno imminenti. All’ansia/angoscia per le malattie, per le guerre, per le catastrofi naturali, per il lavoro (sia quando non lo si ha, sia quando lo si ha), per l’invasione degli immigrati e quant’altro, si aggiunge oggi quella per le tecnologie cosiddette intelligenti.

Scrivo cosiddette anche per alludere a certe sciocchezze che ho letto e ascoltato, sempre a proposito dell’AI, intorno ai concetti di intelligenza, di conoscenza, di consapevolezza, di comprensione. Un solo esempio: «Ho cambiato idea sul rapporto tra il cervello umano e i modelli di intelligenza artificiale. Pensavo che questi modelli lavorassero come il cervello. Invece questi grandi modelli sono in grado di sapere migliaia di volte quello che sanno gli umani. Se poi si prendono vari di questi modelli a lavorare su set di dati diversi, quello che impara uno può essere subito comunicato all’altro. Le persone non possono fare così, perché i nostri cervelli sono tutti diversi tra loro». Ho citato l’informatico Geoffrey Hinton, da poco dimessosi da Google e tra i pionieri della tecnologia “intelligente”.

Hinton è balzato agli onori della cronaca internazionale perché ha esternato l’ennesima riflessione circa la «minaccia esistenziale all’umanità» che ci verrebbe dalle macchine intelligenti: «Questi strumenti, incluso ChatGpt, sono in grado di fare dei ragionamenti. Possono essere in grado di manipolare le persone, avendo imparato tutta la conoscenza del mondo». In estrema sintesi, il bravo informatico attribuisce a ciò che giustamente definisce strumenti una volontà manipolatrice che essi ovviamente non hanno e che non possono avere essendo appunto meri strumenti al servizio di chi se ne serve per conseguire determinati obiettivi. Quanto “capiscono” «questi grandi modelli» di AI di quello che “apprendono”? Si può parlare seriamente di «ragionamenti» a proposito dei complessi calcoli algoritmici? Non siamo forse in presenza di una riflessione completamente feticizzata e reificata? D’altra parte, come scriveva Marx il feticismo e la reificazione universale sono fatti immanenti al concetto stesso di capitale, al suo reale modo di essere e di operare, e non rappresentano cioè un mero difetto del pensiero, una “sovrastruttura”.

Così com’è reale la paura dell’”Occidente collettivo” di perdere la partita tecnoscientifica con l’Oriente, a cominciare dalla Cina; di qui la lettera per una «moratoria di sei mesi dei sistemi di intelligenza artificiale generativa» sottoscritta da diversi guru dell’AI e indirizzata soprattutto agli Stati Uniti e alla Cina. «La mia sola speranza è che Stati Uniti e Cina trovino la forza di una cooperazione come abbiamo fatto nell’epoca nucleare», dice Hinton. «”Stiamo tutti fermi per sei mesi, e poi che succede? Pechino starà ferma per sei mesi?”, ha chiesto l’imprenditore Tom Siebel» (La Repubblica). Come siamo messi male, noi dell’Occidente collettivo! Viene quasi da invidiare i tifosi del capitalismo con caratteristiche cinesi nella nuova era (quella di Xi Jinping)!

È vero che le distopie sociali basate sulle macchine intelligenti raccontate in libri e in film sembrano sul punto di realizzarsi, ma bisogna capire il fondamento sociale che le ispirava, ciò a cui esse alludevano a prescindere dall’intenzione dei loro stessi autori.

Dalla mia prospettiva il problema da prendere in considerazione non è la macchina “intelligente” ma l’uso che ne fanno il Capitale, per meglio sfruttare gli uomini e la natura, e lo Stato, per meglio controllare, orientare e, all’occorrenza, reprimere le persone. Ecco da dove parte la «minaccia esistenziale all’umanità».

Il problema è la tecnoscienza, una straordinaria potenza concettuale e materiale, posta al servizio del dominio sociale capitalistico: è di questo che dobbiamo avere paura, è questo il tema che dobbiamo porre alla nostra riflessione. Il problema non è che corriamo il rischio di perdere il controllo sulla macchina “intelligente”: il problema è che come umanità non abbiamo mai avuto il controllo sugli aspetti fondamentali della nostra vita, a cominciare dalla prassi che rende possibile la nostra stessa esistenza: la produzione di “beni e servizi”. Per togliere il “potere” all’AI è sufficiente staccare la spina; per togliere potere al Capitale che se ne serve, bisogna invece fare una rivoluzione sociale. Per come impostano il problema molti esperti e studiosi dell’AI, sembra che staccare la spina alla macchina “intelligente” sia un’impresa impossibile, o quantomeno estremamente difficile, quasi come lo è “fare” una rivoluzione! E forse anche in questo c’è una stringente logica.

So di essere ripetitivo, ma anche i miei bersagli polemici non scherzano quanto a ripetitività di concetti e argomenti. Gioverà, poi? Potrei rivolgere la domanda alla macchina intelligente e confidare nella sua superiore capacità conoscitiva («avendo imparato tutta la conoscenza del mondo»): hai visto mai!

L’INTELLIGENZA DEL CAPITALE

Sul potere sociale della scienza e della tecnologiaIo non ho paura – del robotRobotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significareCapitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salarialeAccelerazionismo e feticismo tecnologico.

CONTRADDIZIONI IN SENO ALL’OCCIDENTE

Dopo le sue dure critiche al Ministro della Difesa Guido Crosetto, giustamente definito «piazzista di morte», il professor Carlo Rovelli si è visto costretto a dover chiarire la sua posizione sull’aggressione russa dell’Ucraina. «Attaccarmi con una guerra sanguinosa alle porte dell’Europa è una delle cose più gravi che si possano fare», ha dichiarato il Ministro della Difesa. Gli antimilitaristi sono avvisati! Per Crosetto Rovelli parla di cose che non conosce: «Io non parlerei mai di fisica e lui non può parlare di cose di cui non sa nulla». Che trivialità! Come se dei problemi sociali, di respiro nazionale e mondiale, fossero legittimati a parlare con serietà solo i professionisti della politica o della geopolitica, i quali peraltro sono al servizio delle classi dominanti e dello Stato che ne difende il potere sociale. Il problema è piuttosto come se ne parla, il punto di vista che si esprime, gli interessi sociali che si difendono, spesso senza averne la benché minima contezza.

A suo tempo il geniale Albert Einstein esternò, a proposito della guerra e della pace, concetti assai modesti, banali e ingenui, non perché la sua genialità in fatto di fenomeni naturali offuscasse la sua visione sul resto dell’esistenza umana («Lo specialista “conosce” assai bene il suo minimo angolo di universo, ma ignora radicalmente tutto il resto», disse una volta il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset), ma semplicemente perché egli osservava «tutto il resto» con gli occhi dell’ideologia dominante, la quale è, come diceva il noto barbuto tedesco, l’ideologia della classe dominante. Non si trattava, cioè, di un difetto di pensiero causato dalla «barbarie dello specialismo», ma di un pensiero informato da una precisa posizione politico-ideologica. Naturalmente il giudizio sul pensiero politico di Einstein impegna solo chi scrive. E qui arriviamo al chiarimento esposto ieri dal nostro professore, nonché «astro della fisica», in una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera.

«Detesto la politica del governo russo e di Putin. Penso sia una delle peggiori al mondo. È all’opposto dei miei valori politici. Non sono filorusso. Condanno la Russia con tutta la convinzione possibile. Invadere un Paese, bombardare città, uccidere soldati e civili, è un crimine orrendo. Penso che tutte le persone oneste dovrebbero condannare senza alcuna ambiguità. L’invasione ha creato un dolore inimmaginabile, questo è imperdonabile. La guerra, i bombardamenti e i massacri sono un male indipendentemente dal sistema politico del Paese che scatena la guerra. Condannare l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia dicendo che il problema è che una autocrazia ha invaso una democrazia equivale a dire che invece se è uno Stato democratico a invadere, bombardare e uccidere, allora va tutto bene. E infatti molti che condannano l’invasione dell’Ucraina erano d’accordo con le invasioni dell’Afghanistan, dell’Iraq, e tutte le molte altre a cui abbiamo partecipato noi. Questa è l’ipocrisia che ho provato a denunciare: l’idea che noi ci riteniamo in diritto di uccidere e poi ci scandalizziamo se lo fa un sistema politico che non ci piace».

Molto bene. Ma «noi» chi? Noi occidentali, è ovvio. In altri termini il noto divulgatore scientifico parla dal punto di vista della “nostra” civiltà, della “nostra” cultura, dei “nostri” valori, che egli rivendica in pieno e che anzi intende difendere dall’ipocrisia di chi aderisce solo formalmente a quella civiltà, a quella cultura, a quei valori, che poi sono appunto i “nostri ” valori. Domanda insidiosa: «Perché lei dà sempre l’impressione di mettere sullo stesso piano la Russia e le democrazie occidentali?» Ecco la risposta di Rovelli: «Ovviamente non sono sullo stesso piano. Forse è perché reagisco all’estremo opposto: la santificazione dell’Occidente, e l’idea che l’intero resto del mondo sia da controllare sotto il dominio di un solo Paese. L’Occidente è la mia patria e la amo. Ma voglio vivere in pace con il resto del mondo, non detestare il resto del mondo, come molti spingono adesso a fare». A differenza di Rovelli, per me «la Russia e le democrazie occidentali» vanno invece messi sullo stesso piano, in quanto si tratta di Paesi che condividono lo stesso regime sociale (capitalistico/imperialistico), il quale è la “causa ultima” (spesso non tanto “ultima”) dei conflitti militari. Come ho scritto nei miei post dedicati alla guerra in Ucraina, questi conflitti non sono che la prosecuzione delle guerre sistemiche (economiche, tecnologiche, scientifiche, geopolitiche) che hanno come loro attori principali le grandi Potenze mondiali: Stati Uniti, Cina, Unione Europea, Russia, e come vittime predestinate le classi subalterne di tutto il mondo. Ma posso scrivere questo perché il mio punto di vista non è quello della “civiltà occidentale”, della “cultura occidentale”, dei “valori occidentali”, bensì quello dell’anticapitalismo, dell’antimperialismo (da non confondere con l’antiamericanismo degli escrementizi amici di Putin e Xi Jinping), dell’internazionalismo proletario – cioè, per usare un linguaggio meno vetusto, dell’internazionalismo dei nullatenenti, i quali in tutto il mondo sono costretti a vendere una qualche capacità professionale in cambio di un salario. È con questa disumana quanto macroscopica realtà che deva fare i conti ogni discorso sulla democrazia (capitalistica), sulla libertà, sulla civiltà (capitalistica: a Occidente come a Oriente, a Nord come a Sud). Macroscopica realtà, beninteso, solo per chi ha occhi per vedere, e non solo per guardare. In ogni caso, è da questa prospettiva radicalmente classista (e umana, in un’accezione ben peculiare) che formulo i miei giudizi ed elaboro le mie (assai modeste, ne sono consapevole) critiche. Ma contro il Dominio si fa quel che si sa e quel che si può!

Chi definisce «l’Occidente democratico un miracolo della storia, un’eccezione», e che in quanto tale andrebbe difeso dai suoi nemici dichiarati (Cina e Russia, in primis) costi quel che costi (lacrime, sacrifici, sangue e quant’altro) ha in testa un ben misero concetto di libertà, umanità, prosperità e felicità, e la loro abissale indigenza concettuale (e umana) risalta ancor più proprio quando, parlando delle autocrazie, fanno l’apologia dell’«Occidente democratico». Ma ritorniamo a Rovelli

I concetti di capitalismo e di imperialismo sono evidentemente estranei al pensiero di Rovelli, nel senso che egli non se ne serve per analizzare la realtà, cosa che gli fa balbettare le solite banalità pacifiste centrate sulla buona/cattiva volontà delle classi dirigenti. Ecco tal proposito  la sua grande, quanto originale, idea: «Trovare un modo di convivere su questo pianeta senza massacrarci. Combattere con le idee, con l’esempio, con i risultati, non con le bombe. Le guerre si protraggono a lungo perché nessuno vuole essere “arrendevole”. È la logica del gorilla». Prendere appunti, mi raccomando! Altro che logica del capitalismo/imperialismo! Altro che logica del profitto, dello sfruttamento di uomini e natura! Niente di tutto questo: «È la logica del gorilla». Dall’incivile (se adottata dagli esseri umani) «logica del gorilla» bisogna dunque passare alla logica dei buoni di spirito: «Nella comunità internazionale esistono persone ragionevoli che non si scoraggiano davanti a un muro. La Storia è fatta anche da queste persone. Ci riuscirono perfino americani e russi nel momento più duro della guerra fredda e dello scontro capitalismo-comunismo. Non credo che esistano “mostri”: si può parlare con tutti gli esseri umani. L’Italia di Andreotti e Craxi lo faceva, senza paura di irritare». Sul presunto «scontro capitalismo-comunismo» rimando ai miei scritti dedicati alla colossale frottola del “socialismo” e del “comunismo” reali; sull’«Italia di Andreotti e Craxi» e meglio non dire nulla, se non prendere atto che anche a “sinistra” c’è qualcuno che ricorda con un pizzico di nostalgia la tanto bistrattata e sottovalutata “Prima repubblica”.  

Per Rovelli brasiliani, cinesi, e indiani, «insomma, la maggior parte del mondo», rappresentano anche «la parte ragionevole del mondo»: qui parlare di ingenuità significa esibire una gentilezza eufemistica, per così dire, davvero ammirevole. Nella sua riflessione i grandi interessi economici e geopolitici che stanno a fondamento della politica internazionale di tutte le nazioni (non dei “popoli” astrattamente considerati) scompaiono, mentre sulla scena mondiale come lui se la rappresenta si muovono con pessime intenzioni solo «i guerrafondai che traggono vantaggio economico o politico dalla prosecuzione della guerra [e che] vogliono vincere tutto fino in fondo, continuare la guerra, umiliare il nemico». Insomma, il ruolo delle pessime persone tocca insomma recitarlo agli americani e a quegli europei che si comportano come loro vassalli. «La politica dell’Italia scivola sempre più dal pacifismo tradizionale del nostro Paese a un asservimento alle posizioni più estreme e bellicose di alcuni dei nostri alleati». Sul «pacifismo tradizionale del nostro Paese» è meglio stendere un pietosissimo velo e approfittare dell’occasione per ricordare il “primo comandamento” della Bibbia Internazionalista: Il mio peggior nemico è il mio Paese. Mi par di sentire il vocione di Crosetto: «Ma questo si chiama disfattismo! Qui siamo al tradimento della Patria!» Non c’è dubbio! Tradimento della Patria e della Civiltà occidentale, tanto per non scontentare nessuno.

Crosetto e Rovelli rivendicano con orgoglio l’appartenenza alla stessa civiltà: quella capitalistica con caratteristiche occidentali (che, detto solo en passant, ha generato, fra l’altro, i grandi massacri del Novecento), ed è per questo che politicamente parlando hanno fra loro molte più cose in comune di quanto questi due “iconici” personaggi possano anche solo lontanamente immaginare – e ammettere, anche a se stessi.

Per Angelo Panebianco «a causa della guerra, europei filo e anti-occidentali sono in grado di riconoscersi e di contarsi. Possiamo ora “pesare”, mettere sui due piatti della bilancia, rispettivamente, le preferenze per l’ordine occidentale, i suoi principi, le sue regole, e le preferenze per l’ordine autocratico, i suoi principi, le sue regole. E stabilire quale dei due piatti sia più pesante dell’altro. Due opposte tesi si confrontano e lo fanno da molto prima che iniziasse l’invasione russa dell’Ucraina» (Il Corriere della Sera). Inutile dire quale sia la preferenza del noto politologo, da quale parte della bilancia egli fa pendere la “pesata” tra i due ordini messi a confronto. Ciò che molto lo irrita è piuttosto quella parte di Occidente (e non c’è dubbio che Rovelli è qui chiamato in causa) che da molto tempo non è più disposta a fare sacrifici, d’ogni genere, per sostenere e difendere il «valore della propria civiltà», dando così ragione a Putin e Xi Jinping: «Gli autocrati di Pechino e di Mosca non dubitano della loro superiorità, del fatto che sconfiggeranno l’Occidente e se ne spartiranno le spoglie. È una tesi diffusa anche qui da noi, benché alcuni di coloro che la condividono se ne rallegrino e altri se ne dolgano». Per Panebianco l’esito dello scontro finale tra i due ordini che si contendono il primato sistemico mondiale non è affatto scontato, e anzi critica chi ragiona su questo punto in termini deterministici: non bisogna infatti sottovalutare il peso che nelle grandi battaglie hanno la casualità e, soprattutto, la volontà di vincere, la convinzione (la fede) di essere dalla parte giusta della storia. Insomma, l’Occidente non deve avere paura di impugnare la spada per difendere ciò in cui crede: ma ci crede ancora? Questo è il problema che più angustia i difensori dell’Occidente, cioè dell’imperialismo a trazione statunitense – magari con la speranza, sempre meno nascosta, che diventi a trazione europea: d’altra parte, è l’Europa la culla della Civiltà occidentale!

Nel suo famoso Messaggio contro la guerra atomica (o Testamento spirituale, 1955), Einstein scrisse che «Dobbiamo imparare a pensare in una nuova maniera». Sottoscrivo. E cerco di dare il mio piccolo contributo a questa “rivoluzione del pensiero”.

LA GUERRA IN UCRAINA VISTA DA ZIMMERWALD

MANEGGIARE CON CURA ROSA LUXEMBURG!

UN ANNO DOPO

L’ASSE DEL MALE È SEMPRE PIÙ FORTE E MINACCIOSO

LA DIMENSIONE MONDIALE DEL CONFLITTO RUSSO-UCRAINO

LA FINE DI UN’ERA: L’ATTIVISMO SINDACALE NELLA CINA DEL XXI SECOLO

L’ultimo articolo pubblicato da Chuang ha come titolo La fine di un’era: l’attivismo sindacale nella Cina del 21° secolo. Si tratta di un lungo e assai interessante articolo dedicato alla storia recente del movimento operaio cinese. Lo scritto è soprattutto centrato sul rapporto, che nel tempo è andato modificandosi con il modificarsi della società cinese, che le avanguardie sindacali hanno cercato di instaurare, spesso riuscendovi, con i lavoratori del grande Paese asiatico. Credo che alcuni problemi affrontati nell’introduzione curata da Chiang, e che pubblico qui sotto, dicano qualcosa anche alle avanguardie operaie che agiscono in Occidente, e questo a dimostrazione dell’acquisita maturità capitalistica del Celeste Imperialismo. Dei problemi e delle lotte dei lavoratori cinesi poco si sa e si parla in Occidente, ed è per questo che spesso pubblico articoli che appaiono sull’importante Blog cantonese.

Quanto segue è stato scritta da Wen, un compagno della Cina continentale che è stato attivo nel lavoro di supporto ai lavoratori durante i primi due decenni del XXI secolo. La maggior parte è stata originariamente scritta nel gennaio 2020, subito dopo che gli ultimi attivisti sindacali degli anni 2010 erano stati arrestati, costretti ad andare ancora più sottoterra, o altrimenti impediti a continuare molte delle attività su cui si erano precedentemente concentrati. Poi la pandemia ha messo tutto in sospensione per un paio d’anni. Negli ultimi mesi, Wen ha rivisto e aggiornato l’articolo attraverso una serie di conversazioni con noi sulle implicazioni della bozza originale, nonché delle varie forme di attivismo e lotta sindacale sorte durante la pandemia, specialmente nel 2022 e nei primi mesi di quest’anno.

Una di queste ondate più recenti di disordini proletari è continuata dal gennaio del 2023 fino al momento della redazione dell’articolo; si è trattato di una lotta guidata da pensionati contrari ai cambiamenti al sistema di assicurazione sociale, compresi i tagli alle prestazioni mediche e le proposte per aumentare l’età pensionabile. Crediamo che non sia una coincidenza che questa ondata abbia coinciso approssimativamente con il movimento contro riforme comparabili in Francia: entrambi rispondono alla spinta globale del capitale a tagliare i costi della riproduzione sociale mentre la popolazione invecchia e la crescita economica continua a ristagnare. Sembra improbabile che queste proteste sparse si uniscano in un movimento nazionale prima che lo Stato le soffochi con la sua combinazione standard di tattiche del bastone e della carota, ma queste e molte altre lotte degli ultimi tre anni supportano la nostra tesi (proposta per la prima volta nel nostro articolo del 2015 No Way Forward, No Way Back poi aggiornata in scritti successivi come Picking Quarrels) che la Cina ha iniziato un’intensificazione dei conflitti nella sfera della riproduzione sociale, sovrapponendosi e rovesciando le lotte “operaie” nel senso tradizionale. A questo proposito, le tendenze osservate in Cina dai primi anni 2010 sono in linea con quelle di molti altri paesi, riflettendo uno sviluppo più profondo della “legge generale dell’accumulazione capitalista”.

I cambiamenti strutturali nell’occupazione hanno indotto cambiamenti simili nella soggettività politica e nella conseguente attività dei proletari in Cina. Questo doppio cambiamento fornisce un contesto per il declino della forma di attivismo sindacale esplorata nell’articolo di Wen qui sotto – una forma che, vorremmo sottolineare, non è mai esistita in Cina prima degli anni 2000 e potrebbe non esistere mai più [*]. Oltre a evidenziare questo contesto, vorremmo anche chiarire ulteriormente la nostra comprensione del rapporto tra lotte industriali e attivisti sindacali già suggerito dall’articolo di Wen. In primo luogo, il tipo specializzato di attivisti sindacali discusso qui è stato sempre e solo direttamente coinvolto in una frazione delle innumerevoli lotte industriali che per lo più sono sorte “spontaneamente” (anche se spesso organizzate da lavoratori militanti senza alcun collegamento con le reti di attivisti) durante i primi due decenni del XXI secolo. In secondo luogo, come ha detto un altro ex attivista, “Sono state le azioni collettive dei lavoratori cinesi (specialmente quelli del settore manifatturiero costiero) che hanno attratto gli attivisti e li hanno spinti ad avanzare insieme ai lavoratori, piuttosto che quegli attivisti con background e visioni del mondo diversi che guidano le azioni dei lavoratori. Tuttavia, gli attivisti hanno svolto un ruolo preciso nella formazione delle reti organizzative interne dei lavoratori, fornendo una base per [alcune delle loro azioni successive]”.

Questo articolo è quindi un importante contributo alla nostra continua analisi delle lotte di massa e degli interventi di sinistra della Cina, nonché una sorta di necrologio per una forma storicamente distinta di intervento la cui era è ora finita. Insieme all’autore, speriamo che una franca autopsia del movimento operaio fornisca lezioni per l’attuale generazione di proletari che iniziano nuove forme di resistenza più appropriate alle condizioni attuali. Anche se ci possono essere alcuni piccoli disaccordi tra la nostra posizione e quella esposta di seguito, il pezzo è una preziosa visione di prima mano di un momento cruciale nella storia della lotta di classe in Cina.

[*] Le discussioni sull’attivismo sindacale in Cina e altrove spesso commettono due errori che questo articolo evita: confondono le lotte dei lavoratori con l’attivismo sindacale e con precedenti forme di intervento di sinistra nelle lotte dei lavoratori. La tarda Qing e le prime forme repubblicane di auto-organizzazione operaia emersero da corporazioni, società segrete, club di arti marziali, associazioni di città natale, ecc. Quando prima gli anarchici e poi i comunisti e altri iniziarono a organizzare i lavoratori negli anni 1910-1920, dovettero collaborare con queste tradizioni esistenti per stabilire organizzazioni più simili al modello occidentale di sindacati. (Lo stesso modello occidentale era emerso da forme meno centrate sulle questioni del lavoro e più organicamente connesse alla vita dei contadini-operai e dei primi proletari). Dopo il 1949, alcuni sindacati furono incorporati nello stato cinese sotto la Federazione dei sindacati di tutta la Cina, mentre altri tipi di organizzazione dei lavoratori furono messi fuori legge. Quando i lavoratori hanno cercato di combattere per i loro interessi contro lo stato dalla metà degli anni 1950 fino alla ristrutturazione delle imprese statali negli anni 1990-2000, lo hanno fatto generalmente attraverso reti informali, o alla fine degli anni 1960 sotto la rubrica delle organizzazioni della Rivoluzione Culturale. Non è stato che alla fine degli anni Novanta che alcuni lavoratori migranti, avvocati del lavoro, assistenti sociali, persone di sinistra e accademici hanno iniziato a cooperare per creare gruppi di sostegno al lavoro e infine ONG che sono diventate il veicolo principale per quello che ora chiamiamo “attivismo del lavoro”. Naturalmente, durante tutto questo periodo dall’inizio dell’industrializzazione della Cina ad oggi, ogni volta che i lavoratori hanno combattuto collettivamente per i loro interessi, le loro azioni sono state spesso avviate o coordinate da alcuni colleghi più militanti, che possono avere qualche esperienza più rilevante di altri. Nel periodo repubblicano alcuni di quei lavoratori militanti avrebbero continuato a unirsi a sindacati con legami con partiti politici, o formare il proprio. Questa non era un’opzione nei primi anni del XXI secolo a causa di una varietà di condizioni storiche (non limitate alla repressione politica, che esisteva anche in tempi precedenti e in altri luoghi che avevano sindacati indipendenti). Queste condizioni hanno dato origine alle nuove categorie di “attivista sindacale” e “ONG del lavoro”, attirando alcuni lavoratori militanti (le cui controparti potrebbero essersi unite ai sindacati nell’era repubblicana o alle guardie rosse durante la Rivoluzione Culturale), insieme ad attivisti provenienti da ambienti più privilegiati. Queste reti di attivisti non sono mai cresciute fino a raggiungere il numero o l’influenza di quelle organizzazioni precedenti, ma sono diventate il modello principale per il sostegno al lavoro migrante fino a quando le condizioni sono cambiate di nuovo alla fine degli anni 2010.

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