Una riflessione sui concetti di sfruttamento e di proprietà capitalistica

Il concetto di sfruttamento e quello di proprietà capitalistica sono fra loro intimamente correlati, al punto da costituire in realtà due modi diversi di chiamare la stessa cosa; essi sono due lati della stessa medaglia. Storicamente parlando, sul fondamento dei rapporti sociali di produzione della ricchezza derivano specifici modi di sfruttare i lavoratori e un peculiare diritto di proprietà. «Il diritto non è che il riconoscimento ufficiale del fatto» (1), e il fatto su cui si riflette in questo scritto ha a che fare con la divisione classista degli individui, una tremenda realtà che agli occhi dell’opinione pubblica appare come qualcosa di naturale, anzi di banale. Il lavoro degli schiavi, il lavoro dei servi della gleba e il lavoro dei moderni salariati hanno come loro fondamento peculiari rapporti sociali di dominio e di sfruttamento e peculiari relazioni proprietarie. Come vedremo, la proprietà qui considerata si fonda in primo luogo sul possesso esclusivo delle condizioni oggettive della produzione, e quindi del prodotto del lavoro, e non sul possesso di generici beni: terreni, case e quant’altro. Di qui l’intimo legame tra sfruttamento e proprietà capitalistica richiamato sopra. Il monopolio della violenza in capo allo Stato capitalistico è un lato della medaglia; il monopolio delle condizioni oggettive della produzione ne è il lato opposto. La medaglia si chiama dominio capitalistico.
L’economia politica volgare travisa, e con ciò stesso mistifica, il concetto di sfruttamento, attribuendogli un significato che chiama in causa più la morale (meglio, il moralismo) che l’economia capitalistica considerata nella sua reale connotazione storico-sociale. Per questa economia, molto distante da quella “classica” di fine Settecento inizio Ottocento (dai fisiocrati francesi ad Adam Smith, da Ricardo a Sismondi), orientata a scoprire il meccanismo di funzionamento dell’economia capitalistica a cominciare dai sui fondamentali presupposti storici e sociali; per l’economia volgare, dicevo, il lavoro è sfruttato quando il lavoratore non riceve dal suo “datore di lavoro” il giusto compenso, la giusta paga fissata in qualche modo dalla legislazione dedicata alle attività lavorative. Di qui anche la parola d’ordine del socialismo ingenuo econservatore, già abbondantemente mazziato da Marx, Un equo salario per un’equa giornata di lavoro. Il termine sfruttamento viene così ad assumere una connotazione negativa, non in quanto necessariamente correlato al lavoro salariato in quanto tale, bensì in quanto espressione di una pratica illegale e moralmente condannabile perché romperebbe il civile patto tra lavoratori e datori di lavoro, patto sottoscritto liberamente dagli uni e dagli altri. Per l’evocato Marx invece si deve parlare di sfruttamento «senza che [al lavoratore] sia stato decurtato neppure d’un centesimo il giusto prezzo della sua merce» (2). Il “datore di lavoro” paga al lavoratore «un equo salario» e nondimeno qui siamo in presenza di una relazione di sfruttamento: il primo sfrutta il secondo. Di più: solo grazie a questo sfruttamento è possibile l’economia che oggi ha le dimensioni dell’intero pianeta. Com’è possibile? Per capire l’arcano non bisogna scambiare la parvenza delle cose per la loro sostanza.
La parvenza è il rapporto Capitale-Lavoro che osserviamo nella sfera della circolazione, la sostanza è l’uso capitalistico del lavoro. Infatti non parliamo di un generico lavoro, di un lavoro privo di peculiari connotati storici e sociali: parliamo del lavoro salariato, del sistema salariato, il quale fa dire a Marx quel che segue: «Il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù che diventa sempre più intollerabile nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, tanto se l’operaio riceve paghe migliori, tanto se ne riceve di peggiori (3). È il lavoro salariato in quanto tale, il lavoro tipico della società capitalistica (vedi l’Art. 1 della Costituzione), che presuppone e pone sempre di nuovo un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Questo vuol forse dire che i lavoratori farebbero bene a non lottare per migliori salari, per una riduzione della giornata lavorativa e, più in generale, per migliori condizioni di esistenza, e che dovrebbero invece concentrarsi solo sull’idea circa la necessità di superare il sistema salariale, ossia il capitalismo? Nient’affatto, anche perché le due cose non solo non si presentano fra loro come alternative (o lotto per ottenere miglioramenti nell’ambito della società capitalistica o lotto per superare questa stessa società), ma possono diventare due momenti della stessa lotta anticapitalistica. Infatti, lottando per degli obiettivi immediati i lavoratori possono acquisire fiducia nelle proprie forze, possono sviluppare un senso di appartenenza a una classe che emancipando se stessa può emancipare l’intera umanità. Forza, coraggio, solidarietà, autonomia politica e psicologica: ecco cosa possono conquistare i lavoratori attraverso le loro lotte “economiche”, conquiste senza le quali ogni discorso intorno alla rivoluzione sociale appare come un esercizio puramente teorico. Il problema se mai è come si lotta anche per ottenere piccoli miglioramenti, l’orientamento politico di questa lotta, la concezione (collaborazionista o anticollaborazionista) che la informa.
«Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande» (4). Allo stesso tempo Marx invita la classe dei lavoratori a «non lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione della società» (5). A scanso di equivoci “riformisti” e “progressisti”, occorre chiarire che con «ricostruzione della società» Marx allude alla società umana come viene fuori da una rivoluzione anticapitalista. A null’altro rinvia il “risvolto dialettico” da egli sottolineato: all’accumulo di miseria sociale fa da contraltare la possibilità oggettiva dell’emancipazione universale. Ma su questo aspetto del problema, che ho sfiorato solo per contraddire la vulgata secondo la quale gli anticapitalisti sarebbero degli antidialettici interessati solo al “programma massimo”, bisogna mettere un punto.
Nella citazione iniziale Marx alludeva al fatto che il lavoratore vende la «sua merce»: che merce vende a un «giusto prezzo» il lavoratore al suo “datore di lavoro”? Questa: la possibilità di venir impiegato in un processo produttivo. Questa possibilità rappresenta in effetti il valore d’uso della merce chiamata lavoratore, il cui valore di scambio è dato dalla somma di denaro che gli occorrono per vivere e per riprodurre altri futuri lavoratori – chiamati figli. Si tratta dei costi di produzione della forza-lavoro e di riproduzione di futura forza-lavoro, perché «gli operai logorati dal lavoro» devono venir rimpiazzati da altri operai: «Il logorio dell’operaio viene dunque conteggiato allo stesso modo del logorio della macchina» (6). Prima di continuare il ragionamento occorre chiarire, a scanso di antipatici equivoci, che il cinismo è nella cosa stessa, nella materia qui trattata, non nell’intenzione di chi si limita ad esprimerla chiamando ad esempio, e molto giustamente, merce il lavoratore (e non solo il suo lavoro) o sostenendo l’analogia tra l’uso del lavoratore e l’uso della macchina che egli adopera nel processo produttivo. Come diceva Rosa Luxemburg, «Il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome».
Quando il “datore di lavoro” dà un salario al suo “collaboratore” egli lo paga secondo i crismi della giustizia mercantile: al valore x della merce-lavoratore corrisponde il valore x delle merci e dei servizi che il lavoratore può acquistare con il salario ricevuto. Qui non c’è trucco e non c’è inganno, e difatti non c’è guadagno dal lato del “datore di lavoro”. Ma avendo acquistato la merce-lavoratore, il “datore di lavoro” ha il pieno diritto di consumarne il peculiare valore d’uso: se compro degli spaghetti avrò pure il diritto di mangiarli! Il lavoratore è d’accordo: «Mi ha pagato il giusto, ha il diritto di usare la mia capacità lavorativa». Ma allora dove si annida la magagna? Per scoprirlo bisogna abbandonare la sfera della libera circolazione, dove regna la libertà di vendere e comprare, e seguire i due liberi contraenti nel processo di produzione, ossia là dove il “datore di lavoro” può finalmente usare la merce acquistata.
Per farla breve, la giornata di lavoro si compone di due parti ben definite e concettualmente distinte fra loro: in una parte (x ore di lavoro) il lavoratore restituisce in termini di prodotto generato lo stesso valore ricevuto dal “datore di lavoro” come salario: in questa fase nessuno dei due personaggi incassa un atomo in più di valore rispetto a quello offerto alla controparte. Fin qui siamo in una relazione a somma zero: nessuno perde, nessuno vince. «Stringiamoci la mano e amici come prima!» Alt! Il contratto stipulato liberamente dai nostri “amici” prevede una seconda parte (y ore di lavoro), e solo alla conclusione dell’intera giornata lavorativa il lavoratore può abbandonare il posto di lavoro e recarsi dove meglio crede. Ed è proprio in questa seconda parte che si annida la magagna dello sfruttamento, perché tutto quello che viene fuori da quel tempo di lavoro realizza il plusvalore che spiega il motivo che ha spinto il “datore di lavoro” a stipulare un contratto con il suo futuro lavoratore. Se non ci fosse stata quella seconda parte, il “datore di lavoro” non sarebbe stato mai tale, semplicemente perché non avrebbe avuto nessun motivo per dare un salario a un lavoratore per riceverne in cambio lo stesso valore in termini di prodotto o servizio. Gli economisti classici hanno scoperto che il profitto non nasce nella sfera della circolazione, dove le merci vengono scambiate, salvo rare eccezioni (e la stupidità della gente), secondo il principio dell’equivalenza dei valori (come avveniva anche per il baratto), ma in quella della produzione, cioè a dire attraverso la manipolazione di mezzi di produzione e materie prime. Manipolare qui significa lavorare (7). È stato però Marx a dare un contenuto organico, definito e privo di contraddizioni alle pur geniali intuizioni di quegli economisti, i quali non riuscirono a liberarsi del tutto dalle concezioni economiche precedenti – a cominciare dal cosiddetto mercantilismo. D’altra parte è molto più facile spiegare il profitto come una semplice quanto più o meno arbitraria aggiunta di valore al prezzo di costo della merce prodotta: al valore di costo x appiccico un valore y, e il profitto è fatto! Niente di più sbagliato. Nei suoi scritti “economici” Marx confuta l’«errata opinione popolare» secondo la quale «è l’imprenditore capitalista che aggiunge al valore della merce un valore arbitrario come suo profitto, a cui poi viene aggiunto un altro valore, pure fissato arbitrariamente, per il proprietario fondiario, ecc.» (8). Il profitto come truffa (ai danni di qualcuno”: sia esso il consumatore o un qualsiasi “operatore economico”), e non come «furto di tempo di lavoro altri» e quindi come sfruttamento del lavoratore, è un’antica ma sempre verde fola, sempre per usare la caustica terminologia del comunista di Treviri.
Sopra ho definito con ironia “collaboratore” il lavoratore sfruttato (o impiegato, fa lo stesso) dal capitalista, il quale spesso ci tiene a presentarsi agli occhi del primo più come un suo “collega”, sebbene di genere particolare, che appunto come suo padrone: che termine arcaico!. La mistificazione ha un fondamento reale: «Siccome tutte le forme sviluppate del processo di produzione capitalistico sono forme di cooperazione, nulla è naturalmente più facile che astrarre dal loro carattere specificamente antagonistico e trasformarle, a furia di fole, in forme di associazione libera» (9). Il fatto che il capitalista non sia un capitalista assenteista ma cooperi attivamente allo sfruttamento dei suoi lavoratori, e che si presenti egli stesso in guisa di lavoratore, non muta di un atomo la natura antagonistica della relazione che lo lega ai primi. Peraltro il concetto di autosfruttamento, che ha un significato soprattutto nella piccola produzione industriale e agricola, rinvia proprio al carattere sociale, e non meramente individuale, del capitale, il quale, è sempre bene ricordarlo, nella sua essenza è un rapporto sociale di sfruttamento.
«Nella misura in cui questa funzione di sfruttare lavoro richiede nella produzione capitalistica effettivamente un lavoro, essa è espressa nel salario del direttore d’azienda» (10). Il lavoro del direttore d’azienda, quando questa figura professionale non corrisponde al capitalista, come accade nelle imprese di una certa grandezza, è dunque quello di rendere possibile tecnicamente e organizzativamente lo sfruttamento dei lavoratori. In ogni caso, non va mai confuso questo tipo di salario, che Marx chiamava di salario sorveglianza, con il profitto del capitalista; non bisogna confondere «il lavoro dello sfruttare col lavoro che viene sfruttato» (11). Ma riprendiamo il filo del discorso.
Oltre ad acquistare capacità lavorative, il capitalista acquista tutto ciò che serve a consumare produttivamente la merce-lavoratore che egli si porta a casa, cioè in fabbrica: mezzi di produzione, materie prime e quant’altro. L’intero capitale investito per la produzione di una merce è dunque sborsato dal capitalista, che per questo si chiama in tal modo. Potendo contare sulla proprietà dell’intero capitale investito, il capitalista si appropria senza fare torto a nessuno il prodotto sfornato dai lavoratori; una parte del valore di questo prodotto andrà poi a finire nella disponibilità dei lavoratori sottoforma di salario. Lavoratori, mezzi di produzione, materie prime e quanto serve per la produzione: tutto appartiene con pieno diritto al capitalista. Beninteso, si tratta del diritto capitalistico, il quale si fonda sui vigenti rapporti sociali e ha quindi avuto una ben precisa e documentabile genesi storica. Questo diritto nasce nel momento in cui i lavoratori (delle campagne e delle città) si vedono privati dal processo sociale (cioè dalle classi dominanti e dal loro Stato) dei mezzi di produzione necessari a produrre quanto serve loro per vivere. Proprietari solo della loro capacità lavorativa, i lavoratori sono costretti a lavorare per chi offre loro un salario. La proprietà capitalistica ha cioè come suo fondamento storico-sociale l’allontanamento dei lavoratori dai mezzi di produzione, così che per vivere essi sono appunto costretti a vendere le loro capacità lavorative a chi può comprarle, e cioè ai capitalisti, i quali peraltro si presentano alla società come dei benefattori: «Se non vi dessimo da lavorare, e quindi un salario da spendere come meglio desiderate, che fine fareste?» Anche i lavoratori privi di un minimo di coscienza, e non solo gli apologeti di questa società disumana, credono in questa colossale menzogna. «Dopo tutto, da che mondo è mondo, i padroni ci sono sempre stati!» Millenni di società classista hanno conficcato nel profondo della nostra coscienza l’idea che ci deve pur essere un padrone che dà un lavoro a chi padrone non è: «L’importante è che sia un buon padrone». Chi sostiene che l’umanità può benissimo fare a meno di padroni e di schiavi (comunque definiti: vogliamo chiamarli “collaboratori”?) passa per un inguaribile utopista, quando va bene.
La distinzione degli individui in lavoratori e datori di lavoro (cioè sfruttatori di lavoro altrui) è data dal pensiero dominante come un fatto naturale che non merita nessuna riflessione. Per l’anticapitalista riflettere criticamente su quella distinzione rappresenta invece il cuore della sua iniziativa politica, della sua concezione “antropologica”, della sua visione etica delle relazioni umane. La divisione classista degli esseri umani è una realtà che getta una spessa ombra su ogni aspetto della nostra esistenza.
Marx definì, con la sua solita pungente ironia, il processo genetico della proprietà capitalistica il «peccato originale economico», in forza del quale alcuni individui particolarmente fortunati accumularono enormi ricchezze, e altri, molto più numerosi e assai meno fortunati, «non hanno altro da vendere che la propria pelle» (12). «La storia di questa espropriazione degli operai è scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco». Marx colloca il passaggio dallo sfruttamento di tipo feudale a quello di tipo capitalistico alla fine del XV secolo, mentre «l’era capitalistica data solo dal secolo XVI». Questo passaggio fu tutt’altro che pacifico, e fu anzi un momento particolarmente violento e pieno di sofferenze per il popolo lavoratore delle campagne e delle città. A differenza di quanto si trova scritto nei saggi di economia politica degli apologeti, i quali raccontarono quella drammatica e dolorosa transizione nei termini di un idillio progressista, «Di fatto i metodi dell’accumulazione originaria son tutto quel che si vuole fuorché idillici». In un atto del 1489, Enrico VIII lamentava la formazione in Inghilterra di «una massa stupefacente di popolazione privata della possibilità di mantenere se stessa e le famiglie». Quella «massa stupefacente» era formata perlopiù da contadini indipendenti provvisti di una piccola proprietà (yeomen), e da contadini e operai (spesso si trattava della stessa persona) non ancora assoggettati al rapporto sociale capitalistico che in un breve lasso di tempo si trovarono liberi dai vecchi rapporti sociali feudali, liberi dal possesso dei mezzi di produzione, liberi di vendersi a un capitalista per riceverne un salario. «Dall’età dell’oro, come dice giustamente il Thornton, la classe operaia inglese è precipitata senza alcuna transizione in quella del ferro». Come si sa, Marx si servì della storia inglese come esempio in grado di illuminare la genesi del capitalismo e la sua storica affermazione in ogni Paese “civile” del suo tempo, e potè farlo perché allora l’Inghilterra si trovava al vertice del capitalismo mondiale. Scrive Marx: «La creazione della fabbrica è preceduta da un vagabondaggio quasi universale nei secoli XV e XVI. La fabbrica inoltre una solida base nei numerosi contadini che, cacciati continuamente dalle campagne in seguito alla trasformazione dei campi in pascoli e ai progressi nell’agricoltura, che rendevano necessario un minor numero di braccia per la coltivazione delle terre, continuarono ad affluire nelle città per secoli interi» (13). Mutatis mutandis, questo processo di migrazione dei contadini dalla campagna alla città ha accompagnato la storia della Cina moderna, e qualcosa di questo processo continua nel grande Paese asiatico anche ai nostri giorni.
Il «peccato originale economico» si rinnova tutte le volte che un nullatenente stipula un contratto di lavoro con un funzionario del Capitale – e questo a prescindere dalla natura giuridica della proprietà dei mezzi di produzione: statale, privata, “mista”, “cooperativistica”, azionaria. Si tratta di una vera e propria coazione a ripetere che può essere spezzata solo spezzando il rapporto sociale capitalistico di produzione, cosa che pone il problema della rivoluzione sociale anticapitalista ovunque nel mondo. Vasto programma? No, si tratta, come già detto, del solo modo che l’umanità ha per venire fuori dalla maledetta (disumana) dimensione del dominio di classe. Essere realisti significa, per chi scrive, guardare in faccia la realtà, e la realtà non offre altre soluzioni alla continuità del Dominio. «Ciò vuol dire forse che dopo la caduta dell’antica società ci sarà una nuova dominazione di classe, riassumentesi in un nuovo potere politico? No. La condizione dell’affrancamento della classe lavoratrice è l’abolizione di tutte le classi. […] La classe lavoratrice sostituirà, nel corso dello sviluppo, all’antica società civile un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il compendio ufficiale dell’antagonismo nella società civile» (14). È degno di nota, per noi cittadini del XXI secolo, il fatto che Marx definisse «antica» la società borghese del 1847: un secolo e mezzo dopo come dovremmo definire la «società civile» della quale facciamo parte? Dico questo anche per sottolineare il fatto che i concetti di “antico” e “moderno” non hanno un valore assoluto e non sono riferibili semplicemente a dati cronologici o tecnologici: personalmente trovo vecchia come il cucco la società che ha prodotto la bomba atomica, i viaggi spaziali e l’”Intelligenza Artificiale”.
Per Marx la proprietà capitalistica è in primo luogo e in radice «il titolo di proprietà del capitale sulla forza-lavoro» (15): del capitale, non del singolo capitalista, che non a caso egli considera nei termini di funzionario del capitale, di capitale personificato, di agente capitalistico. Questo perché per lui il capitale è in primo luogo un peculiare rapporto sociale di produzione e riproduzione, che sta a fondamento della proprietà capitalistica, il cui significato abbiamo considerato appena sopra. La proprietà privata stricto sensu, cioè la proprietà che fa capo al singolo capitalista, deve essere considerata alla luce della natura sociale del capitale, e quindi deve essere sempre riferita alla società capitalistica colta nella sua totalità. Anche per questo Marx ed Engels non fecero mai alcuna differenza qualitativa tra la proprietà privata dei mezzi di produzione e la proprietà statale di questi mezzi, e anzi polemizzarono aspramente con la triviale concezione che spacciava per socialismo il capitalismo di Stato. In quanto rapporto sociale di produzione, e non «pura cosa», «Il capitale può ben essere separato dal singolo capitalista. Hanno un bel dire i socialisti: noi abbiamo bisogno del capitale, non del capitalista» (16). “Abolito” il singolo capitalista, come sognano gli statalisti d’ogni tendenza politico-ideologica, rimane ovviamente il rapporto sociale capitalistico, ossia il capitalismo, cioè lo sfruttamento dei lavoratori. Solo «i sicofanti» asserviti al pensiero stalinista/maoista (a sua volta erede del «socialismo volgare» già bastonato come si deve da Marx ed Engels) possono parlare senza provare vergogna di “mercato socialista” o di “denaro socialista”, oppure di “salario socialista” e così via.
Provo a sintetizzare quel che ho scritto. Ogni attività finalizzata a impiegare (o sfruttare) lavoratori in vista di un profitto ha come suo punto di partenza, come suo necessario presupposto, l’esistenza della proprietà capitalistica, la quale come abbiamo visto si sostanzia nell’esclusione dei lavoratori dai fattori della produzione, cosa che fa di loro, anche solo “tecnicamente” parlando, dei nullatenenti. La non proprietà dei lavoratori fonda la peculiare proprietà capitalistica; essa «rappresenta la proprietà del capitale come mezzo per appropriarsi dei prodotti del lavoro altrui, come dominio sul lavoro altrui» (17). Questa proprietà ha dunque una natura essenzialmente privativa, se così posso esprimermi, nel senso che essa priva una moltitudine di individui dal possesso delle condizioni oggettive del lavoro, e questo a prescindere dalla sua fenomenologia giuridica: statale, privata, ecc. I lavoratori possono vantare, per così dire (perché in realtà si tratta di una maledizione), la sola proprietà della loro capacità lavorativa, che mettono in vendita per ottenere di che vivere. Per dirla con Marx, i lavoratori sono «venditori di se stessi», perché ovviamente la capacità lavorativa, che rappresenta il valore d’uso della merce-lavoratore, non può venir separata dal corpo del lavoratore, che rappresenta il valore di scambio di quella bio-merce. Per diventare economicamente significativa, la triste proprietà dei lavoratori deve essere alienata in cambio di denaro, ed è quindi una proprietà che sorride solo al Capitale. «Il rapporto capitalistico ha come suo presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. […] La produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente» (18). Infatti, il processo produttivo non sforna solo merci, ma riproduce appunto sempre di nuovo il rapporto capitalistico di produzione che vede i lavoratori e i capitalisti occupare i due poli opposti della relazione: da una parte i nullatenenti, al lato opposto quelli che detengono la proprietà dell’intero processo produttivo, lavoratori compresi. Prodotto materiale (la merce) e prodotto immateriale (il rapporto sociale capitalistico) si presuppongono e si pongono sempre di nuovo vicendevolmente e necessariamente, perché la merce non è una cosa ma un rapporto sociale – e così il mercato, il denaro e ogni altra categoria economica che definisce l’economia capitalistica.
Come fece notare Marx contro gli apologeti della proprietà privata, la proprietà capitalistica, nei termini in cui è stata qui definita, si afferma storicamente come violento annientamento della proprietà dei contadini indipendenti e quella dei lavoratori che avevano nella loro disponibilità i mezzi di lavoro sufficienti a procacciarsi da vivere. Marx ridicolizzò «La stoica imperturbabilità dell’economista politico nel considerare la spudoratissima profanazione del “sacro diritto della proprietà” e il più grossolano atto di violenza contro le persone»; e denunciò il suo silenzio su «Tutta la serie di rapine, atrocità, tribolazioni del popolo che accompagnarono l’espropriazione violenta del popolo dall’ultimo terzo del secolo XV fino alla fine del secolo XVIII» (19). All’espropriazione della piccola proprietà del popolo dei lavoratori, occorre aggiungere il saccheggio e la distruzione della proprietà comune, la quale «era un’antica istituzione germanica, sopravvissuta sotto l’egida del feudalesimo. Si è visto come l’usurpazione violenta della proprietà comune, per lo più accompagnata dalla trasformazione del terreno arabile in pascolo, cominci alla fine del secolo XV e continui nel secolo XVI. Ma allora il processo si attuò come azione violenta individuale, contro la quale la legislazione combattè, invano, per 150 anni. Il progresso del secolo XVIII si manifesta nel fatto che ora la legge stessa diventa veicolo di rapina delle terre del popolo. […] La forma parlamentare del furto è quella dei Bills for Inclosures of Commons (leggi per la recinzione delle terre comuni)» (20).
Il popolo lavoratore inglese se la passava molto meglio prima che la società capitalistica lo trasformasse in una massa di “liberi” individui proprietari solo di merce-lavoro da vendere sul mercato. Scriveva alla fine del XVIII secolo il dott. Price, citato da Marx nel capitolo ventiquattresimo del primo libro del Capitale dedicato alla Cosiddetta accumulazione originaria: «Nell’insieme la situazione delle classi inferiori della popolazione è peggiorata quasi sotto ogni punto di vista; i proprietari fondiari e fittavoli minori sono stati abbassati allo stato di giornalieri e mercenari; e allo stesso tempo è diventato più difficile guadagnarsi la vita in questa situazione». Evolvendosi, per così dire, in lavoratore salariato, il lavoratore-artigiano del XV secolo e della prima metà del secolo successivo ci scapitò molto sotto tutti i punti di vista. Al contrario di ciò che sostengono quei detrattori (non pochi militano nel “partito ecologista”) che lo accusano di essere stato un apologeta del progresso portato dal capitalismo, Marx scrisse la più implacabile denuncia dei crimini commessi dalla borghesia in ascesa durante il periodo della Cosiddetta accumulazione originaria, e illuminò a giorno l’ipocrisia dei suoi «sicofanti» che presentarono quella sanguinosa epoca storica in termini a dir poco adulterati (21). Per Marx «il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro» (22). Certo, per saperlo occorre leggere i suoi scritti, e rifiutarsi di ripetere luoghi comuni più o meno cretini letti o orecchiati da qualche parte.
Oggi a noi appare normale che un individuo per vivere debba vendere una qualche capacità lavorativa; che egli lavori con mezzi di lavoro che non gli appartengono e che ritorni a casa privo del prodotto che pure ha contribuito a realizzare. Ma come abbiamo visto non è stato sempre così, e anzi c’è voluto molto tempo e molta coercizione per creare un simile individuo.
Il salario dei lavoratori, qui genericamente considerati, va sempre confrontato con la ricchezza sociale che essi creano sempre di nuovo; da questo confronto si capisce molto bene quanto sia corretto e storicamente attuale il concetto marxiano di miseria crescente, trivialmente travisato dai suoi detrattori: il lavoratori diventano sempre più socialmente indigenti non in termini assoluti, ossia in rapporto al salario incassato nel passato, ma relativamente alla produttività sociale del loro lavoro, alla massa di “beni e servizi” che essi riescono a mettere a disposizione della società. Questo senza considerare il fatto che non raramente i lavoratori diventano più poveri anche in termini assoluti: è il caso italiano degli ultimi tre decenni! «La situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua situazione sociale. L’abisso sociale che lo separa dal capitalista si è approfondito» (23). Bisogna allora fare di ogni lavoratore un capitalista? Che idea sciocca! Allora bisogna fare dello Stato il solo capitalista? Che idea ultrareazionaria! Occorre “semplicemente” abolire il rapporto sociale capitalistico di produzione. Come abbiamo visto per quanto riguarda il concetto di miseria crescente, il punto di vista marxiano ha sempre una connotazione squisitamente qualitativa, e questo perché Marx non perde mai di vista la totalità sociale, il processo storico-sociale considerato nel suo reale, complesso e dialettico dispiegarsi, e si rifiuta di separare con rigide barriere concettuali i diversi fenomeni sociali che travagliano la società, facendone delle esistenze autonome. Qui è stata importante la lezione hegeliana: la totalità pulsa al cuore della particolarità e le dà un reale significato, un movimento perfettamente intellegibile.
La miseria sociale (o «miseria assoluta») posta qui brevemente a tema acquista un significato particolarmente drammatico e politicamente pregnante alla luce dell’attuale impotenza sociale dei lavoratori, che fa letteralmente a pugni con la loro posizione sociale: «Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa» (24). È una vera tragedia che i lavoratori non riescano ancora a trarre tutte le necessarie conseguenze che risultano “dialetticamente” dalla loro posizione sociale, la quale fa di loro la sola classe oggettivamente (ma solo potenzialmente) rivoluzionaria. Non esiste infatti nessun’altra classe che ha il potere di far crepare una nazione smettendo di lavorare. E quale classe ha l’interesse a spezzare il cerchio del dominio e dello sfruttamento se non la classe dominata e sfruttata? Non si tratta di ideologia (personalmente non ho mai aderito all’esaltazione ideologica e mitologica della classe operaia), ma di interessi sociali, di rapporti di forza, di funzioni sociali. Per dirla con Carlo Cafiero, i lavoratori hanno fatto tutto, e tutto possono distruggere, perché tutto possono rifare, possibilmente sotto condizioni sociali radicalmente diverse. Per questo mi fanno ridere i ricercatori di “nuove classi rivoluzionarie” che non soddisfano i requisiti “materialistici” qui accennati; i teorici della definitiva scomparsa della classe rivoluzionaria si limitano invece a fotografare un dato di fatto che non può essere in alcun modo generalizzato e fissato concettualmente. Almeno a mio avviso.
Certo è che niente e nessuno può surrogare la funzione storicamente rivoluzionaria dei lavoratori, i quali solo costituendosi «in classe, e quindi in partito politico» (Marx) possono diventare una potenza sociale in grado di rimettere in moto la speranza, intesa però come vitale prassi e non come passiva attesa di qualcuno o di qualcosa – del Grande Evento. «L’emancipazione della classe operaia deve essere opera degli operai stessi». I lavoratori non devono attendere niente e nessuno: essi devono “semplicemente” prendere coscienza delle straordinarie responsabilità storiche e sociali che gli derivano dalla loro posizione/condizione sociale.
(1) K. Marx, Miseria della filosofia, in Marx-Engels, Opere, VI, p. 154, Editori Riuniti, 1973.
(2) K. Marx, Il Capitale, I, p. 642, Editori Riuniti, 1980.
(3) K. Marx, Critica del Programma di Gotha, p. 49, Savelli, 1975.
(4) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, p. 116, Newton Compton Editore, 1978.
(5) Ivi.
(6) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 53, Newton Compton Editori, 1978. «Il valore delle merci che entrano nel consumo degli operai determina il valore del salario» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 69, Einaudi, 1955). Non a caso si parla ancora oggi di beni-salario, o di paniere dei beni-salario.
(7) «A. Smith ha scoperto la vera origine del plusvalore. Egli fa derivare il profitto del capitalista dal fatto che questo non ha pagato una parte del lavoro aggiunto alla merce, e da ciò deriva il suo profitto nella vendita della merce» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, I, p. 142, Einaudi, 1954).
(8) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, p. 116.
(9) K. Marx, Il Capitale I, p. 581.
(10) K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 513, Einaudi 1958.
(11) Ibid., p. 510.
(12) K. Marx, Il Capitale I, p. 777. Questa come le citazioni che seguono sono tratte dal Capitolo Ventiquattresimo del libro primo del Capitale: La cosiddetta accumulazione originaria.
(13) K. Marx, Miseria della filosofia, p. 195.
(14) Ibid., pp. 224-225.
(15) K. Marx, Il Capitale I, p. 630.
(16) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, p. 289, La Nuova Italia, 1978. Com’è noto, già Engels parlava dello Stato capitalista come l’ideale capitalista complessivo (o collettivo): «Recentemente, da che Bismarck si è gettato alla statizzazione, si è presentato un certo falso socialismo, il quale ogni monopolio, anche quello di Bismarck, dichiarò senz’altro socialista. […] Né la trasformazione in società per azioni né quella in proprietà dello Stato sopprime l’appropriazione capitalistica delle forze produttive. […] Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, l’ideale capitalista complessivo. Quanto più si appropria di forze produttive tanto più esso diventa realmente il capitalista generale, tanto più sfrutta i cittadini dello Stato borghese. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La categoria del capitale non è abolita, ma è spinta al contrario al più alto grado» (F. Engels, La scienza sovvertita dal signor Eugenio Dühring, p. 238, Società Editrice Avanti, 1925). Per Engels, a un certo grado di sviluppo delle forze produttive capitalistiche «il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve assumerne la direzione» Come si vede, Engels sembra addirittura dare come deterministicamente certo il realizzarsi della tendenza al capitalismo di Stato. «Definire “socialismo” le intromissioni dello Stato nella libera concorrenza – ovvero dazi protettivi, corporazioni, monopolio del tabacco, statalizzazioni di rami dell’industria, commercio marittimo, regia manifattura di porcellane – è una mera falsificazione voluta dalla borghesia di Manchester. Noi non dobbiamo credere a tutto ciò, ma criticarlo. Se ci crediamo e intorno a essa costruiamo una teoria, quest’ultima crollerà insieme alle sue premesse […] quando si dimostrerà che questo presunto socialismo non è altro che, da un lato, una reazione feudale e, dall’altro, un pretesto per estorcere denaro, con il secondo fine di trasformare il maggior numero possibile di proletari in funzionari e stipendiati dallo Stato, così da organizzare, a fianco dell’esercito disciplinato di funzionari e di militari, un analogo esercito di operai. Il suffragio obbligatorio imposto dai superiori statali invece che dai sorveglianti di fabbrica… che bel socialismo!» (Lettera di F. Engels a E. Bernstein, 12 marzo 1881, in Marx-Engels, Lettere 1880-1883, p. 60, Lotta Comunista, 2008).
(17) K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 509.
(18) K. Marx, Il capitale, I, p. 778.
(19) Ibid., p. 791.
(20) Ibid., p. 788
(21) «Sir F. M. Eden parla con annoiato scetticismo degli orrori dell’espropriazione della popolazione rurale e della sua espulsione dalla terra a partire dall’ultimo terzo del secolo XV fino al tempo suo, che è la fine del secolo XVIII. […] Con lo sviluppo della produzione capitalistica durante il periodo della manifattura la pubblica opinione europea aveva perduto l’ultimo resto di pudore e di coscienza morale. Le nazioni cominciarono a vantarsi cinicamente di ogni infamia che fosse un mezzo per accumulare capitale» (Ibid., pp. 820-822).
(22) Ibid., p. 823.
(23) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 68.
(24) Lettera di Marx a L. Kugelmann dell’11 luglio 1868, in Marx-Engels, Lettere sul Capitale, p. 119, Laterza, 1971.