QUEL CHE NON DICE IL TRATTORE

E le prime ad esser mature sono le ciliegie. Un cent e mezzo alla libbra. Diamine, come si fa a raccoglierle per così poco. Ciliegie nere, ciliegie rosse, piene e zuccherose, e gli uccelli ne beccano la metà, e le vespe ronzano nei buchi fatti dagli uccelli. Le susine violette diventano dolci e molli. Diamine, come si fa a spruzzarle, coglierle, lasciarle seccare, per così poco? Impossibile pagare un salario, quale che sia. E le prugne violette fanno un tappeto a terra, e le mosche sciamano a banchetto. […] I piccoli agricoltori vedono il debito salire come un fiume in piena. Spruzzano la vite e non possono vendere l’uva perché il prezzo è troppo basso; potano e innestano e non possono vendere il vino perché il suo prezzo è troppo alto. Solo i grossi agricoltori possono sopravvivere oggi perché possiedono anche le fabbriche di frutta in conserva. […]  Gli uomini che hanno creato frutti nuovi non sanno creare il sistema che permetta ai loro frutti di venir mangiati (J. Steinbeck, Furore, 1939).

Nel caso Stellantis come nel caso dei “trattori selvaggi” siamo dinanzi allo stesso processo economico-sociale, compendiabile nei concetti, cari alla letteratura marxista, di concentrazione e centralizzazione; concetti che esprimano “leggi di sviluppo” e tendenze di lungo respiro immanenti al concetto stesso di capitale. Non a caso dobbiamo appunto a Marx la loro trattazione a mio modesto avviso più pregnante (altri direbbero “più scientifica”) e in grado di dar conto anche, per non dire soprattutto dell’attuale fase del capitalismo mondiale. E qui fa capolino un altro peso massimo concettuale, quello di imperialismo, chiamato a sciogliere il nodo che stringe insieme economia e politica, il dominio dei rapporti sociali capitalistici e lo Stato come loro formidabile strumento di difesa e di espansione. La difesa e l’espansione di questi rapporti non è mai pacifica, né lineare, ma è sempre conflittuale al massimo grado e sommamente contraddittoria – nonché terribilmente irrazionale dal punto di vista dei reali bisogni umani, ossia dei bisogni di un’umanità conforme al proprio concetto. Ad esempio, non si distrugge cibo e non si finanzia la non produzione di cibo, pur di sostenere il prezzo del cibo destinato al mercato, ossia al bisognoso in grado di pagare?

Come si dice volgarmente, pesce grande mangia pesce piccolo: il grande capitale (nella produzione, nella commercializzazione, nella logistica, nel credito) assorbe o espelle la media e la piccola impresa, in tutti i settori dell’economia. I medi e i piccoli imprenditori, non importa a quale settore economico appartengano, per non finire nella stramaledetta categoria dei senza riserve, dei proletari, dei salariati,   sfruttano a più non posso i loro pochi sottoposti, e spesso si sottopongono a un autosfruttamento a dir poco spregevole. E naturalmente chiedono al potere politico sussidi e protezioni d’ogni sorta. «Noi piccoli imprenditori facciamo anche gli interessi dei consumatori»: come no!

Nella furibonda lotta per la spartizione del bottino, cioè del plusvalore, perché di questo e di nient’altro si tratta, i grandi capitalisti vincono, sempre, e i medi e i piccoli si devono accontentare di quel che passa il convento capitalistico. E intanto la famigerata catena internazionale del valore, che si tratti di produrre autovetture o scatole di tonno, gasolio o pizza surgelata, computer quantistici o zucchine, si stringe sempre più fortemente intorno a chi per vivere è costretto a farsi sfruttare, in una fabbrica, su un campo seminato, in una serra, in un ufficio, ovunque il capitale investe per ricavarne il massimo profitto. Il piccolo imprenditore si accontenti delle briciole che rimangono sulla tavola e veda di torchiare a più non posso i suoi lavoratori!

È forse ovvio dirlo qui, ma lo dico lo stesso: personalmente sono esclusivamente dalla parte dei lavoratori salariati, industriali o agricoli che siano, e sono contro i padroni, grandi, medi o piccoli che siano, non importa se italiani, cinesi o di altra nazionalità. Chi, a “destra” come a “sinistra”, auspica la nascita di un fronte comune tra piccoli/medi imprenditori e lavoratori salariati è parte del problema che ormai da molto, troppo tempo affligge le classi subalterne, le quali non riescono a trovare la strada maestra dell’autonomia di classe.    

IL CAPORALATO È AL SERVIZIO DEL CAPITALE

UOMINI, CAPORALI E CAPPELLI

CIBO AMARO. Può la merce sfamare l’uomo?

3 pensieri su “QUEL CHE NON DICE IL TRATTORE

  1. LA “PIANIFICAZIONE PUBBLICA” COME IDEA FISSA

    Anche per la scottante questione agricola Emiliano Brancaccio propone la sua solita ricetta.

    «Se Marx potesse guardare i trattori che oggi marciano sulle metropoli, noterebbe che la sua “legge di tendenza” verso la centralizzazione dei capitali sta agendo nell’agricoltura con una ferocia persino superiore che altrove. […] La tendenza alla centralizzazione del capitale agricolo non risparmia nemmeno l’Italia. L’Istat ci dice che negli ultimi quarant’anni le aziende agricole del nostro paese sono passate da tre milioni a un milione di unità. Nei seminativi, nelle coltivazioni legnose, nei pascoli, ovunque abbiamo assistito all’uscita dal mercato di migliaia di piccoli produttori, i cui terreni e impianti sono stati abbandonati oppure acquisiti dalle aziende più forti. In agricoltura, anche più che nell’industria o nei servizi, il pesce grande mangia il pesce piccolo» (Il Manifesto).

    Che fare «dinanzi a questa immane centralizzazione capitalistica»? «In agricoltura come in ogni altro settore, una lotta di emancipazione dal potere del grande capitale centralizzato può essere rilanciata solo attraverso la riorganizzazione politica delle quote crescenti di lavoro salariato. E solo perseguendo l’obiettivo di una messa “in comune” di quel capitale. Una moderna pianificazione pubblica è ormai l’unica strada per tenere assieme lotta alle disuguaglianze, difesa dell’ambiente e costruzione della pace». Ho il sospetto che se Marx, il fustigatore del pensiero socialista picciolo-borghese (del genere di Proudhon) e statalista (del genere di Lassalle), potesse leggere quanto appena citato si metterebbe a sghignazzare da par suo.

  2. SUPERSRUTTAMENTO, MINACCE E BOTTE

    Il Made in Italy agroalimentare si basa in larga misura sul supersfruttamento degli immigrati, vessati anche dal caporalato, il quale non è una “piaga sociale” ma una forma specifica di organizzazione capitalistica del lavoro.

    Da Avvenire, 17 febbraio 2024:
    «Il modo in cui ci trattano è molto brutto. Lavoriamo per 11 ore al giorno e ci appellano in modi molto brutti quando ci chiamano. Ci forzano a fare sempre di più. C’è sempre una persona che ci controlla e, se ci lamentiamo, ci fanno stare a casa il giorno dopo. Mi sento come quando stavo in Libia e mi sento come se dietro di me ci fosse una persona con la pistola». A parlare è un gambiano di 28 anni, uno dei dieci braccianti immigrati sfruttati sui campi casertani scoperti dall’importante inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere. Sfruttati da quattro imprenditori agricoli campani ora indagati. I motivi sono sintetizzati in poche e drammatiche parole contenute nell’ordinanza. «Li costringevano a condizioni lavorative nei campi, per più di dieci ore, senza pausa e nonostante il caldo asfissiante, in totale assenza di misure di sicurezza, con esposizione a fonti di pericolo senza dispositivi di tutela, commettendo violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro tali da esporre i lavoratori a pericolo per la loro sicurezza e incolumità personale».
    Rischi per la sicurezza che cominciano già all’alba quando uno degli imprenditori viene a prendere i braccianti che attendono alla rotonda di Pescopagano, frazione di Castel Volturno, il luogo dell’«arruolamento». «Solitamente passa alle 5,30 a bordo di un camioncino Iveco di colore rosso e telo blu. Il camioncino non è munito di sedili passeggeri nella parte posteriore poiché è per trasporto di cose e non di persone. Noi viaggiamo sul cassone seduti per terra oppure sulle cassette per la frutta». Con pericoli gravissimi in caso di incidente, come purtroppo accaduto non poche volte nelle campagne dello sfruttamento, non solo nel Casertano. «Se qualcuno di noi si lamenta della faticosità e delle condizioni lavorative, lui di tutta risposta ci mette a zappare o, comunque, ad effettuare lavori ancora più gravosi. In più occasioni ha brandito degli oggetti per minacciare gli operai». E non solo per minacciare.
    Come accade a un senegalese di 26 anni. È lui stesso a raccontarlo agli investigatori. «Al termine della giornata di lavoro mentre aspettavamo l’arrivo del trattore per caricare il prodotto raccolto, decisi di fumare una sigaretta e mi sedetti per terra per poter riposare. Mentre ero seduto arrivò Domenico (uno degli imprenditori n.d.r.) che in modo aggressivo iniziò a sgridarmi, ordinando a voce alta di alzarmi. Io non feci nulla e lui me lo ripetette per la seconda volta. Io gli risposi testualmente: “Non mi rompere le palle”, anche perché avevamo oramai finito la giornata di lavoro. Iniziò a gridare ancora di più e, dando dei pugni a terra, mi diceva che quella era casa sua e che comandava lui e che quando parlava lui io dovevo stare zitto e non dovevo permettermi di rispondere. Io non dissi più nulla».
    Ma più tardi scatta la punizione, quando Domenico riferisce l’accaduto al fratello Vincenzo. «Andò su tutte le furie, corse verso il capannone dove prelevò una cinghia in gomma, una di quelle utilizzate per la trasmissione di alcuni macchinari. Allo stesso tempo Domenico prelevò un bastone di legno dallo stesso magazzino. Immediatamente i due corsero nella mia direzione, brandendo gli oggetti che avevano preso, come per colpirmi». Intervengono gli altri braccianti ma ugualmente il ragazzo viene colpito. «Mi si gonfiò il braccio per alcuni giorni. Mi medicai da solo e decisi di non fare ricorso a cure mediche». E a proposito di salute, in un’intercettazione telefonica tra due imprenditori, emerge che i braccianti stranieri erano costretti a pagare di tasca propria la visita medica prima di iniziare a lavorare, mentre per gli italiani pagavano, come prevede la legge, i datori di lavoro.
    Informazioni preziose per individuare le gravi responsabilità degli imprenditori.

    Tutto questo naturalmente il trattore non lo dice.

  3. Pingback: IL NOME DELLA BARBARIE | Sebastiano Isaia

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