LA SCONFITTA DEL PROPRIO PAESE NELLA GUERRA IMPERIALISTICA

Tregua-di-Natale-818x420L’operaio deve sapere che l’imperialismo domina tutta
la politica; deve sapere che, provocando guerre infinite,
l’imperialismo minaccia di rovina e di distruzione il
proletariato; che sotto l’imperialismo non possono più
aver luogo guerre di difesa; e infine e principalmente
che l’imperialismo unisce tutti i capitalisti nazionali.
(Herman Gorter, 1914).

Potrebbe rivelarsi particolarmente fecondo, anche dal punto di vista strettamente politico, leggere e rileggere ai nostri bellicosi giorni gli scritti che Lenin scrisse a partire dall’agosto 1914 contro la guerra imperialista. Naturalmente sarebbe oltremodo sbagliato riprendere oggi meccanicamente e acriticamente la posizione politica leniniana d’allora, soprattutto alla luce dei giganteschi mutamenti avvenuti nel frattempo nel mondo, a cominciare dalla Russia, un Paese capitalisticamente arretrato che doveva ancora conoscere la rivoluzione borghese; un «Paese più arretrato di tutti gli altri in cui una rivoluzione socialista immediata è impossibile», come scrisse lo stesso Lenin nel luglio del 1915, non molto prima della Rivoluzione d’Ottobre. Com’è noto, nei periodi di grandi sconvolgimenti sociali il tempo storico accelera il proprio passo, come del resto aveva sempre pensato e scritto il capo del bolscevismo, che proprio sull’accelerazione del tempo storico e sulla non linearità deterministica dei processi sociali aveva fondato la sua strategia rivoluzionaria – in costante polemica con il determinismo storico dei menscevichi.

Oggi prendo in rapida considerazione uno scritto leniniano del 26 luglio 1915 dal titolo a dir poco impegnativo (soprattutto alla luce della recente catastrofe del socialismo internazionale, il quale nella sua stragrande maggioranza si era piegato agli interessi nazionali): La sconfitta del proprio governo nella guerra imperialistica (1). Scriveva Lenin: «Una classe rivoluzionaria non può, durante una guerra reazionaria, non augurarsi la sconfitta del proprio governo. Questo è un assioma contestato soltanto dai socialsciovinisti». Polemizzando con i fautori dell’insulsa parola d’ordine «né vittoria né sconfitta» (praticamente ci si augurava un pareggio!), Lenin finiva per attaccare la posizione di Trotsky, il quale «cercando di cavarsela con delle frasi, prende di mira lucciole per lanterne. Pare a lui che augurando la disfatta della Russia si voglia la vittoria della Germania». Da dove trae origine questa conclusione che mette in mostra una grave indigenza di pensiero dialettico? Dal riflettere sulla guerra ponendosi da una prospettiva grettamente nazionale, mentre la sola prospettiva adeguata all’evento bellico è quello internazionale, in due differenti ma convergenti significati. La guerra imperialista è per definizione un fenomeno sociale internazionale perché prende corpo a partire dalla guerra sistemica tra le imprese e le nazioni, che si contendono profitti, mercati, materie prime e quant’altro; in quanto fenomeno internazionale la guerra esige «il coordinamento e la cooperazione dei movimenti rivoluzionari in tutti i Paesi belligeranti». Gli anticapitalisti di tutti i Paesi coinvolti nel conflitto armato denunciano come imperialista questo conflitto, senza nulla concedere agli interessi nazionali e alle tesi propagandistiche di quei Paesi («Noi ci difendiamo dal nemico che vuole annientarci!», «Noi difendiamo i valori della civiltà!», «La nostra è una guerra di liberazione, non di aggressione!», ecc.), e si impegnano ad abbattere la classe dominante del proprio Paese, perché sarebbe fin troppo facile praticare l’internazionalismo prendendosela innanzitutto con la classe dominante degli altri Paesi. Attaccando il proprio Paese, il proletariato dà un gigantesco contributo all’internazionalismo e all’anticapitalismo mondiale. Vediamo come la pensano a tal proposito due noti disfattisti tedeschi: «Sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia» (2). Epigoni particolarmente escrementizi hanno voluto attribuire al termine nazionale usato da Marx e da Engels un significato nazionalista, borghese, che ovviamente è del tutto assente nei passi appena citati.

Scriveva l’internazionalista Herman Gorter nell’autunno del 1914: «L’imperialismo unisce tutti i capitalisti nazionali contro il proletariato mondiale»: è il concetto di imperialismo unitario che spesso si trova nei miei scritti. «Il proletariato dà il suo consenso alla guerra, e con ciò minaccia e distrugge un proletariato di altra nazionalità. Con ciò esso indebolisce i suoi propri fratelli. Con ciò esso rinvigorisce l’imperialismo in generale, l’imperialismo di tutti i Paesi, in primo luogo l’imperialismo dei suoi propri dominanti. Dunque esso indebolisce sé stesso e il proletariato mondiale. Questa è la nuova situazione creata dall’imperialismo» (3). All’Internazionale del capitale imperialistico, occorreva opporre l’Internazionale del proletariato mondiale: è quel che allora pensavano i socialdemocratici europei rimasti sul terreno dell’anticapitalismo internazionalista.

Come ho scritto altre volte, le singole nazioni non sono che nodi locali di una rete mondiale che ha nelle maggiori potenze capitalistiche (Stati Uniti, Cina, Europa) i suoi potenti centri gravitazionali; che lo vogliano o meno, le piccole e medie nazioni devono orbitare intorno a questi centri del dominio capitalistico, i quali fanno di tutto per espandere la loro forza di attrazione sistemica (economica, tecnoscientifica, ideologica, geopolitica). Se non si ha ben chiaro il quadro appena delineato, non è possibile comprendere la natura del conflitto russo-ucraino, capirne la genesi e la dinamica. Ma ritorniamo allo scritto leniniano.

«La rivoluzione in tempo di guerra è la guerra civile; la trasformazione della guerra dei governi in guerra civile è facilitata da una parte dai rovesci militari di questi governi; d’altra parte è praticamente impossibile tendere realmente a questa trasformazione senza concorrere, in pari tempo, alla disfatta. La “parola d’ordine” della disfatta è respinta dagli sciovinisti precisamente perché è l’unica e sola parola d’ordine che sia un appello conseguente all’azione rivoluzionaria contro il proprio governo durante la guerra, e senza questa azione, i milioni di frasi rrrivoluzionarissime sulla lotta contro “la guerra, ecc.”, non valgono un soldo bucato». Certo, mettendosi sulla rischiosissima strada del disfattismo rivoluzionario l’anticapitalista si espone al rischio di venir bollato e condannato dallo Stato borghese come traditore della Sacra Patria, e più che di un rischio si tratta in effetti di una certezza, e ovviamente l’anticapitalista è l’ultimo a farsi delle illusioni intorno al diritto borghese e alla democrazia capitalistica. Ancora Lenin: «L’unica politica di rottura – non a parole – della “pace civile”, di riconoscimento della lotta di classe, è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo al fine di abbatterli. […] Quando, prima della guerra, i socialdemocratici italiani hanno posto il problema dello sciopero di massa, la borghesia ha risposto assolutamente in modo giusto dal suo punto di vista: questo sarà un tradimento dello Stato e noi vi tratteremo come si trattano i traditori. Questo è vero, come è vero che la fraternizzazione nelle trincee è un tradimento contro lo Stato». Detto in estrema sintesi, «La “guerra alla guerra” è una frase banale se non si fa la rivoluzione contro il proprio governo».

Solo nella testa di chi assume come proprio il punto di vista nazionale il disfattismo rivoluzionario appare come un tradimento (e questo è vero) che ha come obiettivo il successo del “nemico” della propria nazione (e questo è falso). L’anticapitalista basato in una data nazione lascia la nazione “nemica” alle cure dell’anticapitalista che agisce localmente, e insieme cercano il modo migliore per promuovere la rivoluzione sociale internazionale.

Ci sono poi, ma su un terreno affatto diverso, anzi radicalmente opposto, gli “antimperialisti” a chiacchiere che si credono tali solo perché tifano per il successo del campo imperialista antagonista a quello che essi odiano: ogni riferimento ai sostenitori della Cina, della Russia e del “Sud globale” è puramente voluto. Qui non ci troviamo di fronte al disfattismo rivoluzionario, ma a una scelta di campo imperialista. La strategia internazionalista del disfattismo rivoluzionario colpisce anche questi personaggi particolarmente escrementizi – appunto perché affettano a sprezzo del ridicolo pose “antimperialiste”.

Come “declinare” nella prassi, in concreto, il disfattismo rivoluzionario ai nostri pessimi tempi, ossia nel momento in cui non sembra nemmeno lontanamente possibile lo sviluppo nel mondo di movimenti proletari in grado di reagire allo scatenamento di un conflitto armato generale paragonabile ai due conflitti imperialistici del secolo scorso? Difficile a dirsi, almeno per chi scrive. Tuttavia credo di non sbagliare se dico che occorre praticare e predicare, anche a livello individuale, l’autonomia politica di classe su tutti i grandi fenomeni sociali, a cominciare dal nazionalismo, dal patriottismo (incluso quello di matrice europeista), un veleno di grande efficacia controrivoluzionaria in “pace” come in guerra. Battersi, ognuno come può e come sa fare, contro la sempre più spinta militarizzazione della società rappresenta a mio avviso un’eccellente traduzione pratica delle tesi sostenute in questo modesto scritto.

(1) Lenin, Opere, XXI, p. 248, Editori Riuniti, 1966.
(2) Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, 1848, Opere, VI, p. 497, Editori Riuniti, 1973.
(3) H. Gorter, L’imperialismo, la guerra mondiale e la socialdemocrazia, p. 41, Società Editrice Avanti!, 1920.

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4 pensieri su “LA SCONFITTA DEL PROPRIO PAESE NELLA GUERRA IMPERIALISTICA

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