LE AMBIZIONI DELL’IMPERIALISMO EUROPEO. SUL GLOBAL GATEWAY

«Oggi la Commissione europea e l’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza lanciano il “Global Gateway”, la nuova strategia europea per promuovere una connettività intelligente, pulita e sicura in materia digitale, di energia e di trasporti e rafforzare i sistemi sanitari, dell’istruzione e della ricerca in tutto il mondo. La strategia mira a realizzare collegamenti sostenibili e affidabili al servizio delle persone e del pianeta, creando le condizioni per potere affrontare le più pressanti sfide globali» (Commissione Europea). Ovviamente la frase «al servizio delle persone e del pianeta» va tradotta come segue: «al servizio dell’imperialismo europeo». Sempre che abbia un senso puntuale parlare di un solo e unitario imperialismo europeo, visto che ci troviamo dinanzi alla risultante di più iniziative imperialistiche a cui Germania e Francia cercano di dare un orientamento quanto più coerente e unitario possibile nelle attuali condizioni. Peraltro non sempre Berlino e Parigi tirano l’UE nella stessa direzione.

«Nel tentativo di darsi un nuovo strumento di politica estera, la Commissione europea, che si vuole geopolitica, ha presentato mercoledì 1° dicembre una iniziativa tutta dedicata a investimenti infrastrutturali a livello mondiale. L’obiettivo è di migliorare i legami commerciali e contrastare la crescente presenza internazionale della Cina o della Russia. L’esecutivo comunitario spera di mobilitare investimenti pubblici e privati per 300 miliardi di euro tra il 2021 e il 2027. […] Al finanziamento parteciperanno tutte le principali istituzioni comunitarie, tra cui la Banca europea degli investimenti(Bei) e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers)» (Il Sole 24 Ore). Per quel che è possibile capire finora, Il Global Gateway appare come il tentativo, tardivo e ancora piuttosto debole e confuso, dell’Unione Europea di mettere in piedi una risposta sistemica (economica, tecnoscientifica, geopolitica, ecc.) alle sfide che provengono dagli imperialismi concorrenti, a cominciare da quello cinese: tutti gli analisti concordano nel presentare il Global Gateway come la risposta europea alla Via della Seta (1).

«Non c’è dubbio che il Global Gateway sia una risposta europea alla Belt and Road Initiative, la grande rete di collegamenti marittimi e terrestri che il governo cinese sta costruendo tra Asia, Africa (2) ed Europa, ribattezzata Nuova via della seta. Non a caso, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha citato il dialogo con il presidente statunitense Joe Biden al momento della presentazione, affermando che un’iniziativa del genere necessita sintonia politica con chi condivide gli stessi valori dell’Ue. Ne è sfuggito il riferimento al programma del G7 Build Back Better World, fortemente voluto dall’amministrazione Usa per contrastare l’espansionismo cinese. Il piano strategico europeo è una sorta di alternativa democratica alla Belt and Road Initiative, perché secondo la Commissione punta a fornire supporto finanziario ai Paesi in via di sviluppo, senza doverli necessariamente relegare in una posizione subalterna rispetto ai propri interessi economici. Insieme a investimenti cospicui si offriranno loro condizioni commerciali non svantaggiose e un ambiente accogliente per le imprese locali. “La differenza è che noi non vogliamo lasciarci dietro le spalle una scia di problemi sociali, come quelli provocati dalla Cina in Africa”, afferma a Linkiesta Anna Cinzia Bonfrisco, eurodeputata della Lega, molto attiva sui temi che riguardano le ingerenze del governo di Pechino» (Linkiesta). Detto in estrema (ma non per questo meno veritiera) sintesi: nel mondo si confronterebbero due tipi di imperialismo: uno buono (quello occidentale, ovviamente) e l’altro cattivo (quello cinese). Chi legge i miei modesti scritti conosce il credito che attribuisco a questa “fondamentale” – quanto escrementizia – distinzione.

Le conseguenze economiche della crisi pandemica hanno allargato e reso più evidente il gap capitalistico (o imperialistico: due diversi modi di riferirsi alla stessa realtà) che separa i Paesi dell’UE dalla Cina, la quale esce piuttosto rafforzata dalla pandemia, almeno nel breve periodo – la vicenda Evergrande segnala i limiti e le contraddizioni di un capitalismo ormai maturo (3). Bruxelles cerca di correre ai ripari, o quantomeno avverte l’esigenza di far sapere ai competitors che si sta ponendo seriamente il problema di come recuperare il molto terreno perduto nei loro confronti: «Che si sappia, ne abbiamo la volontà!» E la capacità? Basta attendere le ambizioni europee alla prova dei fatti.

Certo è che i 300 miliardi di euro che il Global Gateway promette di mobilitare in sei anni non sembrano poi questa gran cifra, soprattutto se confrontata ai mille miliardi previsti dal programma lanciato da Xi Jinping nel lontano 2013. D’altra parte, ognuno fa il pane con gli ingredienti che ha.

Il Global Gateway nelle parole di Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea: «La pandemia di COVID-19 ha dimostrato quanto sia interconnesso il mondo in cui viviamo. Nel contesto della nostra ripresa globale vogliamo ridefinire il nostro modello di connessione mondiale, per poter plasmare più efficacemente il futuro. Il modello europeo prevede di investire sia nelle infrastrutture materiali che in quelle immateriali, di favorire investimenti sostenibili nei settori digitale, climatico ed energetico, nei trasporti, nella sanità, nell’istruzione e nella ricerca nonché in un quadro favorevole che garantisca condizioni di parità. Sosterremo investimenti intelligenti in infrastrutture di qualità, rispettando le più rigorose norme sociali e ambientali, in linea con i valori democratici dell’UE e con le norme e gli standard internazionali. La strategia “Gateway globale” fungerà per l’Europa da fonte d’ispirazione nella costruzione di connessioni più resilienti con il mondo» (Commissione Europea). Poteva mancare il riferimento alla “resilienza”? Ovviamente no!

Anche L’alto Rappresentante nonché Vicepresidente Josep Borrell non si lascia sfuggire la ghiotta occasione: «Le connessioni tra settori chiave contribuiscono a fare sorgere comunità di interesse condivise e a rendere più resilienti le nostre catene di approvvigionamento». Non c’è dubbio che la “resilienza” delle catene di approvvigionamento rappresenta per i Paesi europei un nervo scoperto, come sta sperimentando ormai da qualche mese soprattutto la Germania (4), la cui ripresa economica sta risentendo dei “colli di bottiglia” che si sono formati nel sistema logistico mondiale.

Come si può vedere, il «modello europeo» non fa che riprendere il «modello cinese» di penetrazione capitalistica, al netto delle solite menate propagandistiche sulle «norme sociali e ambientali» e sui «valori democratici». La Cina usa altre menate propagandistiche, di solito basate sul «reciproco rispetto politico e culturale» e sull’«armoniosa collaborazione tra i Popoli» – leggi: ogni Paese sfrutta e opprime i propri sudditi come ritiene meglio, e a nessun Paese è dato di sindacare il comportamento degli altri: padroni a casa propria!

L’elefante cinese ha rotto molti vasi e cristalli in giro per il mondo (vedi la cosiddetta trappola del debito: si stima un debito di 385 miliardi dollari contratti da molti Paesi nei confronti della Cina), e gli europei cercheranno di farsi largo nei punti di frattura provocate dalle forti iniziative economiche (industriali, finanziarie, commerciali) che da oltre dieci anni caratterizzano l’ascesa del Celeste Imperialismo sulla scena mondiale.

«“Considerando la Nuova Via della Seta come un astuto tentativo di Pechino di sfruttare la potenza economica per scopi strategici”, rileva il think tank tedesco Merics specializzato nell’analisi sulla Cina, “l’Ue sta cercando di fare qualcosa di molto simile, per ridisegnare la sua strategia di connettività e per adattarla a quella che von der Leyen definisce “la nuova era dell’iper-competitività”» (Huffingtonpost). Perché parlare di «un astuto tentativo» quando è normalissimo (necessario) usare «la potenza economica per scopi strategici»? l’imperialismo occidentale lo ha sempre fatto, e adesso è il turno della Cina, buon ultima. Anche in questo il capitalismo con caratteristiche cinesi ripercorre, mutatis mutandis, la storia del capitalismo occidentale.

Scrive Marta Dassù: «La prospettiva non è la convergenza fra le maggiori economie mondiali: è una sistematica divergenza, in un contesto che gli strateghi definirebbero ibrido. Le relazioni economiche, commerciali e finanziarie continueranno: nessuna delle parti – sappiamo quanto vale il mercato cinese per il settore automobilistico tedesco o quanto pesano le riserve in dollari della Banca centrale di Pechino – può affrontare i costi di un “decoupling”, di un disaccoppiamento fra Cina e Occidente. Ma prevalgono diffidenza e prudenza: Pechino crede ormai che gli Stati Uniti, dalla crisi finanziaria del 2008 in poi, siano avviati a un inesorabile declino; America ed Europa hanno scoperto la vulnerabilità delle catene globali del valore e puntano sul controllo delle tecnologie sensibili. Il confronto fra tecno-democrazie e tecno-autoritarismo dominerà la competizione del secolo. Insieme allo scontro già in atto sugli equilibri in Asia orientale, con il nodo critico di Taiwan» (Aspenia Online). Si tratta della competizione interimperialistica come si dà in questo periodo storico – e ovviamente Marta Dassù milita dalla parte delle «tecno-democrazie» contro il «tecno-autoritarismo», due facce della stessa capitalistica/imperialistica medaglia.

(1) Intanto il capitale cinese, forte della sua straordinaria “liquidità”, torna all’attacco della logistica del mezzogiorno europeo: «“Il porto di Palermo deve sfuggire alle mire commerciali o espansionistiche cinesi”. Risponde così Giorgio Mulè, sottosegretario alla Difesa e deputato di Forza Italia, a un commento chiesto da Formiche.net. Il riferimento al porto siciliano, che come ha sottolineato anche Mulè è cruciale per l’Italia e gli scambi verso il Nord Africa ma anche per ragioni militari, è riportato dal Quotidiano del Sud: le aziende cinesi Cosco Shipping Ports, compagnia statale cinese con partecipazioni in 15 scali europei, e China Merchants Port Holdings, sotto il controllo del ministero dei Trasporti di Pechino – gruppi che spesso si muovono assieme sui porti europei – hanno presentato alle autorità siciliane un piano di investimenti da 5 miliardi di euro per realizzare e gestire nel porto di Palermo una megapiattaforma per il trasporto di container. Il piano cinese per lo scalo siciliano fa seguito all’incontro di una rappresentanza di investitori cinesi provenienti da Shanghai con i vertici di Eurispes, a Villa Zito a Palermo» (Formiche.net).

«L’investimento della COSCO segue a ruota quello realizzato nel porto del Pireo in Grecia che è diventata una storia di successo e indica che, qualora progetti simili venissero portati avanti nel Mezzogiorno, apporterebbero ulteriori benefici alla comunità locale, al potenziale delle esportazioni italiane verso la Cina ed altri Paesi asiatici lungo la Via della Seta, e, aspetto forse di maggiore importanza, alle esportazioni cinesi e asiatiche verso l’Africa (dalla Sicilia e dalla Calabria). L’iniziativa, che vede come capofila di un gruppo societario la COSCO Shipping Ports Limited, compagnia statale cinese che detiene partecipazioni in 15 scali europei, prevede la realizzazione di una mega piattaforma marittima integrata destinata al trasporto merci con navi portacontainer» (Quotidiano del Sud).

(2) «Nessuno può danneggiare la cooperazione tra Cina ed Africa. In accordo ai risultati di un sondaggio recentemente pubblicato da un rinomato istituto di statistica africano, l’influenza della Cina nell’Africa è al primo posto. Questo risultato non solo deriva dal fatto che Cina ed Africa si sostengono reciprocamente da oltre mezzo secolo, ma anche perché la Cina ha mantenuto i suoi rapporti con l’Africa fondati sulla sincerità; dunque esso rappresenta un vivido esempio di comunità sino-africana per un futuro condiviso. Il 26 novembre, il governo cinese ha pubblicato il libro bianco Cooperazione Cina-Africa nella nuova era, presentando i risultati fruttuosi della collaborazione tra la Cina e il continente africano. La Cina ha fornito tutta l’assistenza possibile per lo sviluppo dell’Africa e ha costantemente ampliato gli scambi in vari settori. La collaborazione tra Cina ed Africa hanno portato benefici concreti ai popoli di entrambe le parti. Nell’ambito dell’iniziativa “Belt and Road”, la Cina continua ad aiutare i paesi africani a ricostruire le loro infrastrutture per migliorare la loro capacità di sviluppo indipendente. Allo stesso tempo, la cooperazione tra le due parti continua ad espandersi a settori emergenti, tra cui l’economia digitale, l’aerospazio e l’energia pulita» (Quotidiano del Popolo Online).

(3) «Le esportazioni del dragone cinese hanno di nuovo spiccato il volo. Per l’undicesimo mese di fila il volume di scambi da/per la Cina è salito anno su anno, con una crescita del 32,4% delle esportazioni e dell’42,5% delle importazioni. Questo implica che dopo anni di declino, il peso cinese nel commercio globale è tornato a crescere nei primi mesi del 2021 (+1,5%). È un trend in consolidamento con la progressiva ripresa dell’economia globale: la Cina rischia di chiudere il 2021 con il più alto surplus della bilancia commerciale di sempre. […] La Cina ha consolidato una schiacciante superiorità produttiva rispetto alle economie occidentali dopo lo stop dovuto al lockdown nazionale di febbraio 2020. Inoltre sta aumentando il peso dell’accresciuta domanda di elettronica/informatica dovuta al potenziamento delle infrastrutture per il lavoro da remoto. Nel 2020 i prezzi del petrolio e delle materie prime persistentemente bassi hanno aiutato la ripresa delle esportazioni in tutte le principali aree geografiche. […] La performance delle esportazioni appare straordinaria se si considera che è avvenuta a fronte di un apprezzamento del Renminbi sul Dollaro del 9,6%» (Il Sole 24 Ore).

(4) «A differenza degli USA l’area Euro si trova in una situazione di maggior equilibrio in termini di saldo import/export. I dati più recenti mostrano un’interdipendenza dei cicli economici sempre più stretta tra la locomotiva manifatturiera d’Europa (la Germania) e la Cina. Esiste una stretta relazione tra «il ciclo di espansione del credito in Cina connesso alla politica monetaria di Pechino con le variazioni a 12 mesi dell’indice dell’attività manifatturiera delle imprese tedesche. In altri termini, un aumento del credito ad imprese e consumatori in Cina tende a provocare, con un ritardo di circa 6 mesi, una variazione contestuale dell’attività delle imprese tedesche attraverso un aumento delle esportazioni verso la Cina. Se si considera che la relazione che lega queste due variabili è indiretta e diluita nel tempo, nell’ultimo decennio lo stimolo monetario all’economia cinese è stato spesso in forte correlazione con una crescita dell’attività industriale in Germania. In questa prospettiva non bisogna essere troppo fiduciosi che il balzo sperimentato dalla produzione industriale tedesca (ed a traino, europea) negli ultimi mesi possa durare a lungo. L’espansione del credito in Cina ha già cominciato vistosamente a rallentare ed il ciclo potrebbe entrare in fase di contrazione a breve: ciò implicherebbe dei riflessi negativi significativi sulla manifattura tedesca nell’arco di 6-9 mesi» (Il Sole 24 Ore).

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