Scrive Marina Corradi sull’Avvenire di oggi: «Abbiamo ancora negli occhi le code dolenti dei profughi ucraini in marcia verso Occidente, in primavera. Eppure, ora è diverso. I giovani russi non fuggono da città sventrate, fuggono perché non vogliono andare al fronte: mentre il regime ormai li manda a cercare, casa per casa. E loro in questa guerra non credono, né nelle parole di Putin che li incita a partire. Per cosa? Per la gloria, per il potere della Russia? Non credono a nulla di tutto questo. Sanno di essere solo pedine da sacrificare in un cinico gioco. Ma in queste colonne di ragazzi russi che partono, a volte anche con i figli bambini, non c’è forse una traccia di tempi nuovi? Ancora nell’ultima guerra la parola “disertore” aveva un sapore ignobile. E in quella precedente i ragazzi che non volevano essere gettati in spaventose carneficine venivano fucilati sul campo. “Disertori”: e non se ne parlava più a casa, nelle famiglie. Disertore, era una indicibile parola. Del resto da sempre la cultura popolare era intrisa di questo senso dell’”onore”, del dovere andare a uccidere e a morire. “L’armata se ne va, e se non partissi anch’io sarebbe una viltà…”, era una canzone popolare del Risorgimento, che tuttavia i bambini degli anni 60 cantavano ancora nelle scuole italiane. […] Tanti loro coetanei ucraini hanno difeso disperatamente nell’unico modo che è stato loro dato, con le armi, le donne, le famiglie, le case da un invasore. Ma la guerra a cui sono chiamati i russi è diversa, è un’aggressione, e loro non ci stanno, non vogliono andare a uccidere e morire».
Come ho cercato di argomentare nel mio ultimo post, ucraini e russi combattono la stessa guerra; essi sono vittime dello stesso sistema sociale mondiale. La guerra in corso in Ucraina appare diversa, per gli ucraini e per i russi, solo se guardata dal punto di vista degli interessi nazionali e internazionali – geopolitici. Ecco perché l’invito alla diserzione vale, almeno per chi scrive, per i russi come per gli ucraini – e domani, eventualmente, anche per gli italiani. È dall’amor di patria che le classi subalterne d’ogni nazione devono disertare, per unirsi in una comunità di donne e uomini in lotta contro la Società-Mondo dominata dai rapporti sociali capitalistici, i quali rendono possibile l’oppressione e lo sfruttamento degli individui, la distruzione della natura, le carneficine belliche, le crisi economiche e pandemiche e ogni altra sciagura. Solo così la tragedia può annunciare davvero «il principio di una stagione diversa». Pensare e sperare in un mondo fraterno e pacificato sul fondamento di questa società mondiale è quantomeno illusorio, come attesta peraltro oltre ogni ragionevole dubbio la storia lontana e recente. Ma per avere contezza di questa evidenza storica e sociale bisogna armarsi di una coscienza davvero rivoluzionaria, in grado di emanciparsi dall’odiosa idea secondo la quale l’umanità non può liberarsi in alcun modo dalla disumana condizione classista. È dall’ideologia dominante, comunque essa si esprima, che dobbiamo innanzitutto disertare.
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