IL NOME DELLA BARBARIE

Lungi dall’essere una cattiva eccezione o un’«area grigia», il cosiddetto lavoro nero è ormai da molto tempo una realtà «strutturale» del capitalismo italiano. E non solo nel comparto agricolo: ampi settori della logistica, dei servizi alla persona, dell’edilizia ecc. chiuderebbero all’istante se non avessero manodopera “nera” da supersfruttare. E questo sia per una ragione di accessibilità a quel tipo di manodopera (pagata una miseria e sfruttata per molte ore), sia per una ragione di prezzo del prodotto/servizio offerto o richiesto: produttori, distributori e consumatori sono ben contenti di profittare di quella preziosissima manodopera, chi vendendo, chi acquistando. Guai se non ci fosse! I consumatori si regolano secondo l’aureo principio occhio che non vede, cuor che non duole. Salvo versare qualche lacrima in occasione di qualche “incidente sul lavoro” più o meno raccapricciante – come quello che ha avuto come vittima Satnam Singh, il 31enne indiano morto a Cisterna di Latina dopo aver perso un braccio in un infortunio sul lavoro ed essere stato abbandonato in strada.

I produttori (leggi sfruttatori) dal loro canto se la prendono con la grande distribuzione, la quale lascerebbe loro un margine di profitto talmente esiguo, da costringerli a trattare gli esseri umani come delle bestie da lavoro. In cuor loro, forse questi “datori di lavoro” soffrono e piangono. Forse. I sovranisti maledicono invece quei giovani italiani che non vogliono più fare certi mestieri, lasciando così campo aperto ai teorici della sostituzione etnica, i quali probabilmente stanno dietro al «turpe mercato» dell’immigrazione clandestina: «Basta con il traffico di carne umana!». Però non esageriamo: i campi vanno pur coltivati, i prodotti agricoli vanno raccolti, puliti e resi accessibili al mercato, pardon, al consumatore, il quale potrebbe rivolgersi alla concorrenza se i prezzi di frutta e verdura iniziassero a salire troppo. La Cina è sempre dietro l’angolo, anche per quanto riguarda la produzione delle fragole!

In realtà le leggi sull’immigrazione, quelle vecchie e quelle più recenti, sembrano fatte apposta per creare un vasto esercito di clandestini pronti per essere immessi nel mercato del lavoro “parallelo”. E il cerchio si chiude – intorno al collo di uomini e donne trattati peggio degli animali. Il governo ha già annunciato un inasprimento delle leggi sul caporalato, le quali peraltro sono già «molto rigorose» – ma all’opinione pubblica bisogna pur vendere qualcosa, bisogna dare in pasto qualche capro espiatorio. Si sa comunque che almeno il 40% del lavoro bracciantile del Mezzogiorno è organizzato dal caporalato: si potrebbe parlare di caporalismo. Che brutto neologismo! È forse il nome della barbarie? Intanto apprendiamo ciò che già sappiamo: «Un esercito di lavoratori, un esercito di fantasmi. Ma sfruttati, picchiati, dopati. E non poche volte morti di lavoro. Nella provincia di Latina vivono circa 30mila immigrati asiatici, tra regolari e irregolari, in gran parte indiani di etnia sikh, la maggiore comunità in Italia» (Avvenire).

Qualcuno in questi giorni ha detto che solo il «lavoro legale», quello previsto dall’articolo 1 della Costituzione Italiana, dà dignità e benessere ai lavoratori. Si tratta di una miserabile apologia del lavoro salariato (che ha nel sindacato collaborazionista il suo maggiore sponsor), il quale significa sfruttamento, mercificazione e oppressione dei lavoratori a prescindere dal livello del loro salario e dalla lunghezza della loro giornata lavorativa. Il lavoro di cui parla la «Costituzione più bella del mondo» presuppone e pone sempre di nuovo una società che rende possibile lo sfruttamento, il supersfruttamento (il peggio, com’è noto, in questa società ha una marcia in più rispetto al meglio), la sottoccupazione, i licenziamenti, la disoccupazione, gli “incidenti sul lavoro” e quant’altro. Come ho scritto qualche giorno fa, chi ragiona in termini di “lati buoni” e “lati cattivi”, non comprenderà mai il “principio di funzionamento” di questa società dominata dal Moloch chiamato Capitale. È il nome della barbarie del XXI secolo? Fate un po’ voi!

È insomma sul fondamento del “normale” e legale sfruttamento dei lavoratori da parte del capitale che fiorisce il supersfruttamento, e non capire questo significa non capire la società capitalistica, con ciò che ne segue in termini di illusioni e di iniziative politiche ultrareazionarie. Per comprendere i problemi che più colpiscono la nostra sensibilità e per formulare un adeguato giudizio politico su questi problemi, dobbiamo afferrarne le radici, cogliere il fondamento sociale che li rende possibili, oltre la cattiveria, reale o presunta, degli stessi individui. È così che si dà una chance all’emancipazione dei lavoratori e dell’umanità.   

QUANTI MORTI HA FATTO OGGI IL MOLOCH?

QUEL CHE NON DICE IL TRATTORE

IL CAPORALATO È AL SERVIZIO DEL CAPITALE

IMPIGLIATA NEL RULLO CAPITALISTICO. OVVERO LA BELLA E LA BESTIA

ROSARNO E DINTORNI

UOMINI, CAPORALI E CAPPELLI

3 pensieri su “IL NOME DELLA BARBARIE

  1. Tutto giusto. Ma nel frattempo, non lei che se ne lava le mani con l’impossibilità soggettiva, ma chi ci sta nel processo di lotta, cosa dovrebbe fare? Non un opportunista come me, ma la risposta ce la da la Luxemburg: la lotta per i diritti borghesi negati, per la legalità borghese, per la repubblica fondata sul lavoro, prepara la rivoluzione. Perché? Perché l’impossibilità di realizzare la legalità borghese è la leva che il proletariato deve usare, perché la lotta dimostra che solo la rivoluzione è la riforma necessaria. Lei dice e dimostra che la legalità borghese è un inganno. Vero! Ma lo sappiamo io e lei, ma deve saperlo il proletariato! Come? Con la lotta, ma una lotta che abbia il fondamento tra diritto garantito ma non attuato. No? Allora lei non conosce i proletari. Prima di ogni atto illegale, essi provano quelli legali, ed ancora di più se non sono organizzati, isolati. L’organizzazione! È una lotta costruirla, ed è la lotta che la costruisce. Lei che fa per costruirla? Pontifica attraverso banalità che ogni marxista coerente conosce. Da consigli perché teme di dare cattivo esempio? No? Allora entri nel SI COBAS, non è di Genova lei? Ma no, meglio non dimostrare ciò che si è. E non risponda con la solita falsa modestia: mi dovrebbe rispondere non a parole ma con l’azione. Tacere o agire.

  2. ITALIANI? BRAVA GENTE!

    Giorgia Meloni: «Sono atti disumani che non appartengono al popolo italiano, e mi auguro che questa barbarie venga duramente punita». Magari al «popolo italiano» no, ma certamente appartengono al capitalismo italiano. Il Made in Italy agroalimentare ne sa qualcosa.

  3. La deregolamentazione non è un accidente immorale di questo sistema. Essa è funzionale al capitalismo e va di pari passo con il ruolo che lo stato assume per la borghesia. Lo stato, lungi da svolgere una funzione di coordinamento di interessi collettivi e men che meno di difesa dei diritti degli sfruttati, formalizza con le leggi il controllo di classe che i padroni esercitano nei confronti dei lavoratori, italiani e stranieri che siano. E’ uno strumento che è utilissimo per imporre il controllo sociale ma fastidioso per gli stessi borghesi che lo utilizzano.

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