KAZAKHSTAN. IL GIORNO DOPO

Cerchiamo di fare, assai sinteticamente, il punto della situazione dopo il “fraterno” intervento russo in Kazakhstan a sostegno del traballante regime messo sotto fortissima pressione da un’ondata di proteste a sfondo sia “economico” che “politico”. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, è bene ricordare che nel Paese centroasiatico è severamente vietato organizzare il dissenso politico, e che quindi necessariamente la “dialettica politica” deve svolgersi soprattutto all’interno dello stesso regime: di qui le “guerre di palazzo” che vi divampano a scadenza quasi regolare. Bisogna insomma dare per scontato che le fazioni interne al regime sfruttino il malessere sociale per darsi battaglia, e non certo per migliorare le condizioni di vita delle classi subalterne (1). Ma il malessere sociale esiste, non è, ovviamente (2), un’invenzione dell’Occidente, il quale peraltro si è ben guardato dal fare la voce grossa contro i massacratori dei manifestanti, limitandosi al solito ipocrita piagnisteo sui “diritti umani violati”. In ogni caso, e come ho scritto l’altro ieri, si tratta di cani imperialisti che abbaiano l’uno contro l’altro.

Il fatto che le fazioni capitalistiche usino il disagio sociale delle classi subalterne per farsi battaglia getta un fascio di luce sulla questione che più interessa gli anticapitalisti: come realizzare l’autonomia politica, ideale e psicologica di quelle classi. Si tratta di una questione di fondamentale (decisiva) importanza che ovviamente non riguarda solo la società kazaka. Ma non è questa la sede per approfondire il problema, anche se l’averlo semplicemente evocato è sufficiente, credo, a dare un preciso taglio a questo scritto.

Le ragioni che stanno dietro l’atteggiamento “accomodante” di Bruxelles e delle capitali europee sono di facile comprensione, e inducono a parlare senza peli diplomatici sulla lingua soprattutto coloro che vorrebbe la rapida formazione di un forte e unitario imperialismo europeo in grado di competere non solo con la Russia e la Cina, ma anche con gli Stati Uniti, sempre più concentrati nell’area del Pacifico e alle prese con una difficile situazione sociale e politica interna. La presenza sempre più forte e “globale” (economica, militare, politica, ideologica) di Paesi come la Cina, la Russia e la Turchia in Africa, in Medio Oriente e nei Balcani è fonte di una crescente preoccupazione da parte di Parigi, Berlino e Roma, sfidati anche in aree che fino a qualche anno fa consideravano parte del loro cortile di casa “allargato”.

«Petrolio, uranio e terre rare: è la mappa dei tesori strategici del Kazakhstan. Non può permettersi di avere nemici, il Kazakhstan. Dotato di immense e varie ricchezze minerali, è incastonato al centro dell’Asia, il più grande Paese al mondo senza accesso al mare. O meglio il suo mare, il Caspio, è chiuso: per esportare, il Kazakhstan deve contare sui vicini e sugli accordi di transito stretti con loro. Per questa ragione, il Paese che nel 1991 si dichiarò indipendente dall’Urss per ultimo ha cercato di mantenere buoni rapporti con tutti: Europa e Stati Uniti, che hanno investito molto nel Paese» (A. Scott, Il  Sole 24 Ore). È particolarmente significativa la presenza in Kazakhstan di multinazionali britanniche e tedesche. Sappiamo l’importanza delle cosiddette terre rare nella produzione delle merci “intelligenti”, preziose anche nella politica di controllo e repressione (qui la Cina si offre come modello agli Stati di tutto il mondo) e nell’industria spaziale e militare.

«Il Paese è leader nella produzione di uranio, il 40% a livello globale, la metà della quale è destinata al mercato più importante, quello cinese. Peraltro la capacità kazaka di affermarsi come leader mondiale nell’estrazione e fornitura di uranio dipende anche dalla sua particolare “fortuna” geologica: tutte le miniere infatti sono sfruttabili attraverso la lisciviazione (o recupero) in situ, una modalità d’estrazione che consente di abbattere di gran lunga i costi. Per questo Pechino guarda con attenzione ai disordini in Kazakistan. I siti di produzione non sono stati ovviamente interessati ma la principale via di esportazione passa attraverso la regione di Almaty, dove invece gli scontri ci sono stati eccome. E le apprensioni tra gli industriali della Repubblica popolare non riguardano solo l’uranio ma pure il gas naturale: tra gennaio e novembre 2021 le società cinesi in affari con il Paese dell’Asia centrale hanno importato dal Kazakhstan quattro milioni di tonnellate di gas attraverso l’oleodotto Cina-Asia centrale. […] La ricchezza mineraria kazaka contribuisce al 20% del suo prodotto interno lordo e al 19% del suo export. E non si riduce solo all’uranio che, per quanto strategico, ha un mercato di riferimento circoscritto. Il Kazakistan è il quarto produttore globale di rame. Ma la lista del tesoro minerario kazako è lunga: si stima che il sottosuolo “nasconda” il 30% delle riserve mondiali di cromo, indispensabile nelle leghe metalliche, una su tutte l’acciaio inossidabile. E poi il 25% di manganese, il 10% di minerale di ferro, il 13% di piombo e di zinco. Per non parlare dell’oro: le stime parlano della nona riserva accertata più grande al mondo. È poi un serbatoio di vanadio, bismuto, fluoro, bauxite, carbone, fosfato, titanio e tungsteno. Il Kazakistan perciò, per la sua ricchezza mineraria, può tranquillamente competere con Canada, Australia, Russia e altri Paesi nelle forniture di beni ormai divenuti il baricentro di tensioni geopolitiche dai risvolti difficilmente prevedibili, come l’Afghanistan insegna. Tuttavia, proprio come l’Afghanistan, paga una grave arretratezza infrastrutturale, vie di trasporto poco sviluppate, siti e miniere mal connesse, un ambiente normativo ancora poco favorevole alla attività produttive, conoscenze e competenze ancora non all’altezza del tesoro che custodisce» (Huffington Post). 

È ovvio che cotanto “tesoro naturale” debba ancor più rimarcare l’estrema povertà che caratterizza le condizioni di vita dei diseredati kazaki, i quali non partecipano affatto alla spartizione della ricchezza nazionale – salvo che per una politica di pidocchioso assistenzialismo inteso a procurare al regime un certo, ancorché precario (come abbiamo visto), sostegno popolare. Come insegna la storia lontana e recente, le magagne riconducibili alla legge dell’ineguale sviluppo capitalistico sono foriere di fenomeni sociali di vasta portata sia su scala interna come su quella internazionale.

Pechino sta sostenendo apertamente la linea dura del regime kazako, lodandone la fermezza e l’intransigenza nei confronti di “terroristi e banditi”. Il Partito Capitalista Cinese fa sapere che «chi istiga rivoluzioni deve essere fermato con tutti i mezzi necessari»: gli anticapitalisti di tutto il mondo sono avvisati! Gli italici sostenitori del Celeste Imperialismo e della Nuova Russia possono invece dormire tranquilli e sereni. «La Cina», ha dichiarato il Presidente Xi Jinping, «è disposta a offrire l’aiuto di cui il Kazakistan ha bisogno per superare le attuali difficoltà». Come sempre in questi casi si tratta di un aiuto “fraterno”, lo stesso che Pechino sta offrendo in questi giorni al regime militari del Myanmar, dove gli oppositori vengono arrestati, torturati, uccisi e infine bruciati per rendere più difficile il loro riconoscimento da parte delle famiglie. Diciamo che si tratta di un “aiuto fraterno” con caratteristiche cinesi nella Nuova Era – quella della Cina che aspira alla primazia capitalistica mondiale.

Scrive Anna Zafesova: «Si capisce perché Xi Jinping ha applaudito a quello che sembra sempre più un golpe di Tokayev, ritenuto molto filocinese rispetto a un Nazarbaev attento ad avere amici a Est come a Ovest. Una neutralità che una Cina sempre più assertiva non vuole più accettare, commenta Aleksandr Baunov di Carnegie Moscow. Trovandosi in singolare sintonia con Putin, che nel frattempo sta sfidando Washington per riavere le sue sfere d’influenza ex sovietiche»  (A., La Stampa). Qui la Zafesova lascia immaginare una “dialettica” geopolitica tra la Russia e la Cina tutt’altro che scontata e pacifica. Staremo a vedere.

Il Ministro degli Esteri turco non solo ha ribadito il pieno appoggio della Turchia alla repressione delle manifestazioni, ma ha anche offerto assistenza tecnica al ristabilimento e al mantenimento dell’ordine in Kazakhstan, la cui stabilità «è essenziale per tutta la regione, e in particolare per i suoi vicini».  Da parte sua, Il Presidente Recep Tayyip Erdogan, sempre più terrorizzato da un effetto di emulazione, ha ripetuto gli stessi concetti e ha rinnovato le minacce rivolte a un’opposizione politica sempre più in ascesa nei sondaggi, potendo anche contare sugli effetti sociali di una crisi economica (secondo gli economisti indipendenti turchi l’inflazione reale è già oltre l’86 per cento) che morde i salariati e impoverisce le classi medie.  

E l’Italia come si pone in tutto ciò? «Occhi puntati sulle rivolte in Kazakistan anche in Italia: quasi 6mila chilometri separano Roma da Nur-Sultan, ma il nostro Paese è il primo partner commerciale europeo del più grande fra gli Stati centro-asiatici nati dalle ceneri dell’Unione sovietica. Un rapporto privilegiato iniziato già trent’anni fa, all’indomani della dissoluzione dell’Urss, che si è cementato attorno alla radicata presenza dell’Eni, e che ha via via attratto in Kazakistan un crescente numero di aziende italiane accanto a quelle russe e cinesi. Fondamentale partner per le importazioni italiane di energia visto il ricchissimo sottosuolo di petrolio e gas (il Cane a sei zampe è presente nei mega-giacimenti di Karachaganak, nel nord-ovest, e di Kashagan, nel Mar Caspio), negli ultimi tempi il Kazakistan sta anche puntando a diversificare la propria economia. Dalla meccanica all’agroalimentare, dall’energia alla logistica, secondo i dati della nostra ambasciata a Nur-Sultan diffusi dal ministero degli Esteri attualmente sono circa 250 le aziende e le joint venture a capitale italiano che operano nel Paese dell’Asia Centrale (una quarantina delle quali con una sede stabile). Insomma, quello kazako adesso messo in crisi dalla protesta legata alla corsa dei prezzi del carburante che si è presto trasformata in contestazione politica è in realtà da anni un mercato piuttosto stabile e in piena espansione anche per gli investitori italiani, con esportazioni-record pari a 1,1 miliardi di euro all’anno nel 2018 e nel 2019. Interlocutore diplomatico di Roma e delle altre cancellerie Ue nelle ore dell’evacuazione dei profughi dall’Afghanistan, questa estate, il Kazakistan è stato anche il primo Stato della regione centro-asiatica a firmare un Accordo di partenariato e cooperazione rafforzata con l’Ue» (G. Rosana, Il Messaggero).

«Da Parigi, nel frattempo, l’oligarca in esilio, Mukhtar Abljazov, ha rivendicato la guida della protesta. L’ex banchiere e ministro ha invitato l’Occidente a schierarsi contro la Presidenza del suo Paese. Se ciò non avverrà “il Kazakistan si trasformerà in una Bielorussia e Putin imporrà metodicamente il suo programma, ossia la ricostruzione dell’Unione Sovietica» (G D’Amato, Il Messaggero). «Speriamo!» Ho dato voce ai nostalgici dei “bei tempi che furono”, i quali peraltro possono usare le parole dell’oligarca dissidente per portare acqua al mulino della teoria delle “rivoluzioni colorate”. In attesa (probabilmente vana, almeno nel breve e medio periodo: voglio essere ottimista!) che la rivoluzione sociale se li porti via insieme agli ultrareazionari regimi che sostengono. «Volesse Dio!» Ho dato voce alla speranza, la quale è, come si dice, l’ultima a morire. Speriamo!

L’Opinione Pubblica ci suggerisce di «non confondere la lotta di classe con le trame imperialiste»; infatti, «Quello in corso in Kazakistan è un attacco ibrido tramato dall’imperialismo e dalle sue forze alleate all’interno dell’ex repubblica sovietica». Detto che in fatto di «lotta di classe» sono molto esigente, come dimostrano i miei tanti post scritti all’epoca delle cosiddette “Primavere Arabe”; detto questo, in ogni caso non mi schiererei mai dalla parte degli Stati, non sosterrei mai il loro punto di vista, i loro interessi. Ad esempio, non condivido affatto il nazionalismo catalano che predica l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna (sono per l’unità del proletariato spagnolo e internazionale), ma di certo non appoggio la repressione del movimento catalano da parte del governo centrale di Madrid. Mi sa che più che di Opinione Pubblica qui dovremmo piuttosto parlare dell’opinione di Mosca e Pechino. Quando gli amici dell’imperialismo (ovunque basato) blaterano propagandisticamente di “lotta di classe”, o di “pace nel mondo”, di “diritti umani” e via discorrendo, occorre subito mettere mano alla pistola – se proprio non si ha l’accesso all’arma fine di stronzo, pardon, di mondo.

(1) «Non dobbiamo neanche idealizzare l’attuale movimento di protesta. Sì, è un movimento sociale di base, con un ruolo pionieristico dei lavoratori, sostenuto dai disoccupati e da altri gruppi sociali. Ma ci sono forze molto diverse al suo interno. I lavoratori non hanno il loro partito, i sindacati di classe, un programma chiaro che risponda pienamente ai loro interessi. I gruppi di sinistra esistenti in Kazakistan sono più simili a circoli e non possono influenzare seriamente il corso degli eventi. Forze oligarchiche interne ed esterne cercheranno di impadronirsi del movimento e di usarlo a loro vantaggio. Se vincerà, inizierà una redistribuzione della proprietà e un confronto aperto tra le varie fazioni della borghesia, una “guerra di tutti contro tutti”. Ma, in ogni caso, i lavoratori potranno conquistare alcune libertà e ottenere nuove opportunità, tra cui la creazione di propri partiti e sindacati indipendenti, che renderanno più facile la lotta per i loro diritti in futuro» (A. Kurmanov, co-presidente del Movimento Socialista del Kazakistan, Matrioska).

(2) «Expert, un autorevole settimanale moscovita non certo di sinistra, sostiene che le dimensioni della rivolta ad Alma Ata sono determinate dal fatto che “ci sono molti giovani sfaccendati e spesso disoccupati. Infatti secondo un censimento dell’autunno scorso il 53,69% della popolazione ha meno di 28 anni. Ed è proprio tra questi strati che la disoccupazione è particolarmente alta”. […] Del resto non sono solo la classe operaia e il sottoproletariato a essere stanchi di un potere che – forse unico insieme all’Azerbaigian – vanta una filiazione diretta dall’ex Urss, essendo stato Nazarbaev anche l’ultimo segretario del Pcus kazako fino proprio al 1991. In questi anni mentre la forbice delle ricchezze sociali si allargava a dismisura si è formato nelle grandi metropoli (Alma Ata e Astana – ora Nur-Sultan) un piccolo strato di classe media urbana che ha mostrato sempre più stanchezza per la corruzione, il nepotismo, l’autoritarismo e la scarsa mobilità sociale che affascia il paese. Questi strati sociali sono anche quelli più sensibili alle argomentazioni prettamente politiche come il fatto che non se ne poteva più di Nazarbaev, l’insoddisfazione per il governo di Tokayev, per un sistema di partiti rigido e antidemocratico, per l’esistenza di leader locali non eletti e così via. […] Del resto anche i media occidentali hanno evitato – almeno finora – di suonare la grancassa della propaganda antirussa e i motivi sono evidenti: ci sono grandi investimenti stranieri nel paese che ora rischiano di sfumare o di subire pesanti perdite a causa del clima interno del paese – tra cui quelli dei Paesi Bassi, che rimangono il più grande investitore del paese con 3,3 miliardi di dollari, seguiti da Stati Uniti (2,1 miliardi di dollari), Svizzera (1,3 miliardi di dollari), Russia (704. 9 milioni di dollari), Cina, con i suoi 508,7 milioni di dollari» (Y. Colombo).

3 pensieri su “KAZAKHSTAN. IL GIORNO DOPO

  1. Segnalo l’interessante analisi di Mario Giro sulle vicende kazake, approcciate dal politologo dal punto di vista geopolitico, apparsa sul Domani di oggi.

    In Kazakistan si abbatte la tempesta perfetta del disordine mondiale

    In questi trent’anni di indipendenza i kazaki hanno cercato di stare in equilibrio tra varie influenze. “Multivettoriale” è stato il mantra fin dall’indipendenza nel 1991. Le polemiche con l’occidente per ciò che sta accadendo sono una cortina fumogena che cela una situazione molto più complessa. La rottura della vocazione “multivettoriale” del paese asiatico ha scatenato gli appetiti di Russia, Cina e Turchia. Sotto lo sguardo dell’occidente indebolito. Le polemiche con l’occidente per ciò che sta accadendo sono una cortina fumogena che cela una situazione molto più complessa. Più che dall’Occidente, Mosca deve guardarsi da Pechino e Ankara.
    Le narrazioni complottiste secondo le quali è la Cia a fomentare le rivolte “arancioni” in Kazakistan nascondono una realtà molto più complessa per questo paese al centro di bramosie economiche e politiche.
    L’obiettivo era rimanere in equilibrio tra Russia e Cina, ma anche con gli Usa e la Nato. Per esemplificare tale destrezza basti dire che soltanto nel dicembre 2021 i kazaki hanno confermato un accordo di cooperazione militare con gli americani e firmato un accordo di sicurezza con Mosca. Almaty ha comprato droni da un partner Nato come la Turchia e molte armi dagli Usa, partecipando a manovre militari dell’alleanza atlantica. Allo stesso tempo il Kazakistan è membro fondatore dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Csto), l’alleanza militare dominata da Mosca, e membro del Consiglio Turco e del Gruppo di Shangai, alleanza politica con Russia e Cina. Una delle principali preoccupazioni dei leader kazaki, sia del padre della patria Nazarbaev (che pare sia ora fuggito dal paese) che del suo delfino, l’attuale presidente Toqaev, è sempre stata quella di svincolarsi dalla tenaglia russo-cinese controbilanciandola mediante rapporti con i paesi occidentali ma soprattutto con l’approccio panturco, facilmente accessibile per una popolazione al 70 per cento musulmana sunnita (i russi sono quasi il 20 per cento).
    La scelta multivettoriale è un modo per sopravvivere un’area molto contesa dell’Asia centrale. Le violenze a cui stiamo assistendo in queste ore nascono anche dall’intreccio di tutte le influenze che cercano di appropriarsi delle leve del potere a Almaty. Nazarbaev ha cercato di stare il più lontano possibile da Mosca e non aveva un buon rapporto con Putin. L’equilibrismo si è rotto quando, davanti all’aumentare delle sommosse, il presidente Toqaev ha chiesto l’intervento della Csto. La rottura della trentennale multivettorialità kazaka avrà conseguenze geopolitiche. È facile prevedere che Mosca chiederà come contropartita il riconoscimento dell’annessione della Crimea. Anche Pechino ha dichiarato di sostenere il governo attuale. Il contraccambio è che Almaty smetta di dare ospitalità agli uiguri etnicamente vicini ai kazaki. L’aspetto più delicato è rappresentato dalle relazioni con la Turchia. Riemerge così il duello russo-turco che spinge la Russia a neanche troppo velate minacce di annessione del Kazakistan. Approfittando della fluidità del quadro Mosca cerca di rafforzare la sua presa sui vicini, allontanando lo spettro della Nato. Ma la questione si è complicata: oggi Mosca incontra sulla sua strada una ormai consolidata presenza cinese e i ripetuti tentativi di influenza turca che recentemente hanno preso la forma di aiuti militari.

  2. LA NOSTALGIA CANAGLIA DELL’IMPERIALISMO CON CARATTERISTICHE “SOVIETICHE”

    «È chiaro che la situazione in Kazakistan è stata una conseguenza diretta della tragedia accaduta a tutti noi trent’anni fa. Il crollo dell’URSS, il rifiuto del sistema socialista e del governo sovietico posero numerose mine sotto i nuovi stati “indipendenti e democratici”» (Partito Comunista della Federazione Russa).

    «Con il popolo del Kazakistan, noi, i rappresentanti di diciotto partiti comunisti nazionali, siamo legati da vincoli di fratellanza, grande storia e destino comune. Siamo pronti a fare ogni sforzo affinché la pace e la calma tornino nella terra kazaka. Appoggiamo quelle forze politiche della Repubblica che, difendendo la giustizia sociale, stanno combattendo risolutamente il saccheggio e l’illegalità che hanno prevalso in questi giorni di gennaio. Allo stesso tempo, i tragici eventi sono una chiara lezione per tutti noi. I colpi di stato distruttivi e le varie “rivoluzioni colorate” scuoteranno lo spazio eurasiatico fino a quando i popoli sovietici non prenderanno nelle loro mani la costruzione del loro futuro, fino a quando non daranno un feroce contrattacco a coloro che giocano scenari mortali di discordia interetnica, fino a quando non porteranno l’integrazione nel quadro dell’Unione economica eurasiatica a un livello qualitativamente nuovo. Il prossimo 100° anniversario dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nel dicembre 2022 è una buona occasione per far rivivere le vecchie tradizioni di solidarietà fraterna e assistenza reciproca!» (Unione dei Partiti Comunisti).

    Dai, Compagno Vladimir Putin, restaura la grandezza imperiale (e imperialista) della Madre Russia! Baffone, da lassù, veglia su di te.

  3. Leggo su Facebook: «I soldati kazaki da anni partecipano ad esercitazioni congiunte con i paesi NATO, finalizzate alla formazione dei propri uomini nella repressione di rivolte urbane. In pratica la Guardia Nazionale americana si esercita con i kazaki per affinare le tecniche che poi usa per reprimere le rivolte negli Stati Uniti (come quelle avvenute in seguito all’omicio di George Floyd) e i kazaki hanno fatto pratica per anni simulando rivolte urbane con i soldati statunitensi ed inglesi per essere pronti ad affrontare situazioni come quella degli ultimi giorni. Le immagini delle esercitazioni congiunte rendono chiaro che tutti gli eserciti altro non sono che il braccio armato delle borghesie nazionali e che la visione campista, di per sé sbagliata e contro-rivoluzionaria, vale ancora meno se usata come lente per capire la sollevazione kazaka in corso».

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