PROFITTARE, CONTROLLARE, EDUCARE. L’INDUSTRIA DELLE FICTION TELEVISIVE IN CINA

Esattamente come accade in Occidente, anche in Cina l’opera di indottrinamento politico-ideologico (e della “conquista dei cuori e delle menti”) della cosiddetta opinione pubblica avviene anche attraverso le fiction televisive. Ma molto più che da noi, in quel Paese anche le fiction televisive sono assoggettate a una stringente azione di controllo e censura da parte dello Stato, e ciò non stupisce affatto alla luce della natura totalitaria del regime cinese, al cui centro insiste il Partito-Stato, il quale si sforza in tutti i modi (soprattutto servendosi della tecnologia più avanzata) di penetrare in ogni orifizio, anche il più piccolo, del corpo sociale – impartendo con ciò stesso preziosissimi insegnamenti agli altri regimi del pianeta, a cominciare da quelli cosiddetti democratici. Nello scritto che riporto il blog cantonese Chuang fa la storia del rapporto tra l’industria culturale cinese centrata appunto sulla produzione delle fiction televisive e lo Stato; questa storia copre circa trent’anni, ed è caratterizzata da alcuni estratti di documenti che riportano «licenze di fiction televisive e regolamenti sui contenuti della Repubblica popolare cinese, promulgati tra il 1986 e il 2015». Attraverso questi documenti è possibile osservare l’evoluzione del rapporto sopra accennato, evoluzione connessa con i mutamenti sociali e politici che hanno interessato la Cina negli ultimi tre tumultuosi (capitalisticamente parlando) decenni. Come vedremo, il Partito-Stato cerca con sempre maggiore forza di promuovere attraverso le fiction televisive stili di vita, sentimenti, comportamenti sociali e ideologie intesi a rafforzare il regime e il dominio capitalistico colto nella sua totalità sociale. Qui non ho riportato i documenti normativi citati nel testo, che sono comunque accessibili nel blog Chuang.

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Verso uno sviluppo glorioso: i regolamenti televisivi cinesi e la transizione capitalista, 1986-2015 (*).

Traduzione e Introduzione di Liju.

Durante questo periodo di circa trent’anni, la Cina ha subito cambiamenti drammatici sia nella sfera economica che in quella culturale corrispondenti alla transizione della nazione al capitalismo (1). La “censura cinese” ha giocato una posizione di rilievo nella copertura mediatica all’estero di questi cambiamenti. Piuttosto che ridurre la regolamentazione delle fiction televisive a un semplice atto di soppressione da parte dello stato, comprendiamo questi documenti politici nel contesto di un panorama mediatico di commercializzazione che, nel corso di questi decenni, è diventato sempre più finanziato dal capitale privato. Al fine di mantenere il controllo sugli interessi dei singoli capitali coinvolti, lo Stato, nella sua qualità di arbitro collettivo della classe capitalista, ha implementato un sistema in evoluzione di licenze e regolamenti sui contenuti che legittimano il Partito Comunista Cinese, il governo cinese e, più in generale, la società capitalista.

Il primo documento normativo selezionato di seguito, è del 1986: Disposizioni temporanee riguardanti l’implementazione del Ministero della radio, del cinema e della televisione (MRFT) di un sistema di licenze per la produzione di drammi televisivi. Esso mirava a garantire che solo le unità di produzione affiliate allo Stato ricevessero finanziamenti da fonti private, e affermava che «la produzione privata di drammi televisivi è vietata», costringendo così le società di produzione interamente private a lavorare al di fuori della legge. Il documento tendeva anche a inquadrare la produzione di fiction televisive come un’impresa capitalista attraverso la sua esplicita menzione di zijin 资金, letteralmente “finanziamento” ma qui serviva come eufemismo per “capitale” (资). Uno dei principali fattori utilizzati per determinare se un’unità di produzione di proprietà statale meritasse una licenza era la quantità di capitale che l’unità aveva a sua disposizione, indicando che la redditività della produzione come impresa commerciale era di fondamentale importanza per le unità che rilasciavano licenze.

Il secondo documento normativo qui tradotto, Regulations for the Management of Television Drama Production Licenses (1995), rivela che il capitale che le società di produzione e i conglomerati commerciali sviluppati dagli inserzionisti hanno portato all’industria delle fiction televisive avrebbe presto portato l’MRFT a rivedere le leggi sulle licenze. In questo documento, redatto quando la commercializzazione si era diffusa e la transizione al capitalismo era quasi completata, i requisiti di licenza non menzionano alcuna differenza tra unità di produzione private e statali. Ciò è probabilmente dovuto alla riconosciuta redditività delle produzioni di unità private sul mercato delle fiction televisive. Il processo richiesto per ricevere queste licenze divenne un esame, il cui obiettivo finale era determinare se un’unità di produzione fosse degna di entrare nel mercato. Il lato materiale di questa misura del valore risiedeva nella gestione del capitale. I regolamenti richiedevano la verifica del «capitale dall’esterno dell’unità richiedente» sotto forma di una «lettera di interesse per la sponsorizzazione o l’investimento e un rapporto sull’utilizzo del fondo». Piuttosto che tentare di limitare il flusso di capitale privato nelle mani delle unità di produzione statali, lo Stato ora permetteva alle unità private di utilizzare fonti di capitale interamente private. Questo segna la piena commercializzazione dell’industria della produzione di drammi televisivi, alla quale ha fatto seguito la piena commercializzazione in un certo numero di industrie di beni di consumo, e ha preceduto la completa commercializzazione delle industrie pesanti alla fine degli anni ‘90.

La misura del valore di mercato segna anche l’intersezione tra il mercato e la mutevole ideologia dello Stato, particolarmente marcata dopo la fine del millennio. Mentre i meccanismi di controllo dello Stato sull’industria delle fiction televisive si stavano attrezzando per gestire il flusso di capitali privati, i sistemi di esame dell’industria alla fine abbandonarono il sistema di licenze. Invece, le unità di produzione erano ora tenute a presentare per l’esame i singoli drammi. Solo i drammi che avessero superato gli esami dei contenuti avrebbero ricevuto il permesso di andare in onda. Questi esami dei contenuti hanno utilizzato una serie di divieti di contenuto delineati negli ultimi due documenti normativi estratti qui, rilasciati nel 2006 e nel 2016. Entrambi questi documenti sono stati promulgati dopo il completamento della transizione capitalista della Cina, ma segnano due diverse fasi degli sforzi dello Stato per comporsi [strutturarsi] in accordo con il nuovo contesto sociale. Delineano il tipo di messaggio ideologico necessario affinché un dramma possa entrare nel mercato. Come per i precedenti meccanismi di controllo dei media, entrambi mirano a rafforzare la legittimità del Partito e dello Stato, anche se ora questo obiettivo è intrecciato con un’ideologia che sostiene la nuova classe di capitalisti che era stata appena reclutata in quelle istituzioni politiche. L’applicazione dei divieti circa il contenuto delle fiction crea drammi che normalizzano, convalidano e commercializzano il modo di produzione capitalista. Ciò comporta la riproduzione di un’ideologia che propaga alcune norme sociali per istituzioni non statali come il matrimonio e la famiglia, e per il nazionalismo.

Il documento del 2006 (Disposizioni temporanee per la regolamentazione dei contenuti televisivi), collega i contenuti proibiti a questa ideologia emergente. Le differenze tra questo documento e quello del 2015 (Regole generali per la produzione di contenuti televisivi), mostrano l’evoluzione dell’ideologia per soddisfare le mutevoli esigenze dello Stato mentre cercava di ristrutturarsi in un modo «adeguato al compito» – la riproduzione sociale a lungo termine. In generale, ci sono due categorie di divieti: quelli intesi a legittimare l’autorità dello Stato e quelli volti a promuovere uno stile di vita benefico per la riproduzione della società capitalista.

I divieti che rientrano nella prima categoria possono essere ulteriormente suddivisi in quelli che normalizzano l’esistenza dello Stato e quelli volti a oscurare gli effetti dello sfruttamento capitalista. Un esempio letterale del primo è il divieto di danneggiare «l’immagine dell’esercito popolare, della polizia armata (武警), della pubblica sicurezza e del personale giudiziario e di altre carriere designate nelle Disposizioni temporanee del 2006». Ciò impedisce alle unità di produzione di criticare i metodi dello Stato di esercitare il potere sui suoi cittadini. Un esempio meno esplicito potrebbero essere i divieti di contenuti che divergono da una data narrazione storica. Ciò include il divieto di elementi che ritraggono «la storia, in particolare la storia rivoluzionaria, in modo eccessivamente divertente e simile a un gioco» (Regole generali per la produzione di contenuti televisivi, 2015). Sottolineare l’importanza degli eventi del XX secolo che hanno portato il Partito al potere ha l’obiettivo di normalizzare il potere del Partito ai giorni nostri, indipendentemente dalle differenze tra il Partito nella prima metà del XX secolo e la sua attuale incarnazione. In tal modo, le relazioni sociali capitalistiche, sostenute dal Partito e dallo Stato, sono naturalizzate come il migliore e unico status quo possibile.

Un esempio di divieti volti a oscurare i risultati sociali dello sfruttamento capitalista sono i divieti esposti nelle Disposizioni temporanee del 2006, relativi ai contenuti che non «distinguono chiaramente tra reale e falso, buono e cattivo, bello e brutto, confondendo la demarcazione tra giusto e sbagliato». Questo divieto copre le rappresentazioni del crimine, le «attività malsane» e l’«arretratezza sociale», che sono tutte incluse nelle sottosezioni del documento. Questi divieti vorrebbero drammi che ritraggono la società cinese come libera da queste malattie. Questo nasconde sia il dissenso che le conseguenze dello sfruttamento capitalista, dell’espropriazione e dell’esclusione dei lavoratori e delle minoranze etniche. Le Regole generali del 2015 tentano di giustificare questi divieti sostenendo che si tratta di «cattive pratiche sociali che influenzano negativamente i minori», e hanno l’obiettivo di rappresentare un’utopica Repubblica Popolare e di nascondere gli impatti negativi del capitalismo, così da legittimare il regime per le generazioni future.

La seconda categoria di divieti promuove modi di vita che avvantaggiano il modo di produzione capitalista. Molti dei divieti che rientrano in questa categoria (vedi i Divieti temporanei del 2006) sostengono la vita coniugale eterosessuale e monogama e vietano i ritratti di «punti di vista e situazioni riguardanti l’amore e il matrimonio che non sono in accordo con una sana etica e una sana morale», tra cui l’apertura sessuale e la convivenza prematrimoniale. Lo Stato si basa sulla monogamia eterosessuale per alleviare le ansie sul calo del tasso di natalità della nazione e per rafforzare le norme di genere e familiari in un’era di crescente anomia sociale. Una ragione per l’ansia causata dal calo del tasso di natalità è che un minor numero di nascite porterà a una forza lavoro più piccola nei prossimi decenni, aumentando i costi sociali della cura degli anziani, mettendo a dura prova lo Stato e minando proprio il fattore che in precedenza aveva assicurato la competitività cinese sul mercato globale. L’intensificazione di tale ansia è evidente nel divieto del 2015 sull’omosessualità come forma di «relazione sessuale innaturale». Questo stigmatizza la comunità queer mentre enfatizza la monogamia eterosessuale come standard sociale. Oltre a promuovere alcuni modelli familiari, le Regole generali del 2015 hanno anche aggiunto un divieto di contenuti ritenuti colpevoli di «propagare uno stile di vita stravagante». Questo è un modo per mitigare l’alienazione proletaria, oscurando parzialmente la disuguaglianza sociale e suggerendo ai lavoratori a rimanere soddisfatti del proprio stile di vita, intrinsecamente limitato dal salario.

Il sistema di regolamentazione e di esame che governa l’industria delle fiction televisive è stato così perfezionato nel corso della transizione capitalista cinese e dei successivi sforzi di costruzione dello Stato. Oggi, quando le unità di produzione creano drammi all’interno dei parametri dell’ideologia dominante, influenzano il loro pubblico a conformarsi a quei parametri nelle loro vite e creazioni. La transizione da un sistema di licenze al sistema di esame dei singoli contenuti teatrali è indicativa della transizione da un sistema esplicito a un meccanismo di controllo più sottile ma più efficace. La differenza tra i documenti del 2006 e del 2015 riflette appunto un tipo più ampio di raffinamento all’interno dei meccanismi statali, segnando il passaggio da forme di intervento più pesanti a metodi più sottili di arte di governo volti a incanalare gli interessi privati nel quadro normativo dello Stato. Molti di questi sforzi sono stati dedicati a distogliere l’attenzione dei proletari dalle proprie condizioni di vita, siano esse definite dallo sfruttamento sul posto di lavoro o dall’esclusione da esso. Ciò avviene a livello esplicito, come il nuovo divieto di «propagare uno stile di vita stravagante» menzionato nel paragrafo precedente. Si verifica anche a un livello più sottile, sotto forma di promozione del nazionalismo. La promozione del nazionalismo non solo legittima il Partito e lo Stato, ma reindirizza anche l’antagonismo proletario lontano dai capitalisti interni e verso aspiranti nemici stranieri. L’articolo 3 del documento del 2015 sostiene che l’industria dovrebbe «portare avanti vigorosamente l’eccellente cultura tradizionale cinese» e «contribuire alla realizzazione del sogno cinese del grande ringiovanimento della nazione cinese». Queste righe esprimono il nazionalismo degli anni 2010 attraverso l’uso della frase “Sogno cinese”, così come l’attenzione per la cultura cinese “tradizionale”. Dal 2012 Xi Jinping ha regolarmente utilizzato entrambi questi temi per delineare gli obiettivi materiali e di modernizzazione della sua amministrazione. La promozione di questo tipo di nazionalismo facilita l’affinamento degli sforzi per mantenere il sistema di controllo capitalista attraverso la deviazione dell’antagonismo proletario, incoraggiando i cittadini cinesi a sostenere questo affinamento senza fare affidamento su leggi o regolamenti.

In questo senso, la regolamentazione dei drammi televisivi cinesi negli anni Dieci fa parte della tendenza al perfezionamento in una direzione specifica. I documenti del 1986 e del 1995 provengono dal periodo iniziale e finale della transizione capitalista, quando nuove imprese e capitali inondarono l’industria delle fiction televisive ancora in erba. Rappresentano quindi i tentativi iniziali (1986) e più avanzati (1995) di codificare l’intervento statale nella sfera ideologica sotto la rubrica in continua evoluzione di «riforma e apertura», che era il termine ufficiale usato per rappresentare la sottostante transizione al capitalismo. Una volta completata questa transizione, gli interventi ideologici hanno avuto luogo in un nuovo contesto. I metodi esplorativi del documento del 2006 rappresentano un passo provvisorio, con il sostegno ai nuovi ruoli dello Stato intesi a rafforzare la produzione ideologica privata e allo stesso tempo a garantire la riproduzione delle relazioni capitalistiche in generale. Il documento del 2015 rappresenta una solidificazione e riaffermazione nella direzione sia della regolamentazione delle fiction televisive che del sostegno al sistema capitalista. Insieme, questi quattro documenti mostrano come la regolamentazione delle fiction televisive rifletta la transizione capitalista della Cina e il definitivo radicamento del sistema capitalista. Avendo accesso alla traduzione di queste informazioni, spero che i lettori possano acquisire una comprensione più profonda della “censura cinese”. Nel contesto della transizione capitalista e della commercializzazione dell’industria televisiva, queste informazioni rivelano che lo Stato non è una forza esterna che interviene all’interno del settore dei media privati, ma è invece il mezzo con cui la società capitalista si riproduce, in questo caso attraverso la formazione dell’ideologia popolare. Questo fatto è al centro della censura in Cina.

(*) A  differenza dell’autore e del collettivo Chuang, io penso che la Rivoluzione Cinese culminata nel 1949 con la proclamazione della Repubblica Popolare non avesse affatto un carattere socialista, trattandosi piuttosto di una rivoluzione nazionale (antimperialista) borghese, e questo giudizio va esteso a tutte le rivoluzioni che nel Secondo dopoguerra punteggiarono il processo di decolonizzazione. Per questo non ho alcuna recriminazione da rivolgere al – cosiddetto – Partito Comunista Cinese, il quale, adattando il metodo stalinista alle condizioni della Cina, svolse ai tempi di Mao un’eccezionale funzione al servizio della nazione cinese e del capitalismo – cinese e mondiale. Per me in Cina non c’è stata alcuna «precedente era socialista», alcuna «restaurazione capitalistica», ma un’edificazione del capitalismo attraverso un processo sociale estremamente complesso, contraddittorio, violento e, sembra quasi inutile dirlo, pieno di sofferenze per le classi subalterne cinesi. La costruzione del capitalismo non è un pranzo di gala! In questo senso a mio avviso esiste una sostanziale (e “dialettica”) continuità storico-sociale tra il “Partito di Mao” e il “Partito di Xi”. In ogni caso si tratta di partiti che nulla hanno a che fare con il comunismo e il socialismo. Se di «transizione della Cina al capitalismo» si può parlare, ha senso farlo con riferimento a quella ampia parte di economia precapitalistica che caratterizzava soprattutto la campagna cinese, e che il “Partito di Mao” cercò in tutti i modi, e con esiti non sempre positivi (anzi, spesso catastrofici: vedi il cosiddetto Grande balzo in avanti), di mettere al servizio dell’«accumulazione capitalistica originaria». Ciò che Chuang definisce come «completamento della transizione capitalista della Cina», che se ho ben compreso il collettivo cantonese colloca nella seconda metà degli anni Novanta, io lo interpreto invece come processo di sviluppo capitalistico, come processo di “modernizzazione” capitalistica – ovviamente con “caratteristiche cinesi”. Rinvio ai miei scritti dedicati alla Cina: Chuang e il “regime di sviluppo socialista”Sulla campagna cinese; Centenari che suonano menzogneri; Tutto sotto il cielo – del CapitalismoŽižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese.

(1) «La transizione capitalista della Cina dal 1970 ai primi anni 2000 è esplorata nell’articolo “Polvere rossa” (Chuang 2, 2019). Chuang caratterizza il periodo successivo (dopo il completamento della transizione) come segnato dalla trasformazione delle vestigia dello stato socialista improvvisato in uno “adeguato al compito” della riproduzione a lungo termine delle relazioni capitaliste. Questa analisi è introdotta in “Uno stato adeguato al compito” (Chuang 2) e “La peste illumina la grande unità di tutti sotto il cielo” (Social Contagion, 2021), e sarà arricchita nella parte 3 della loro storia economica (in arrivo in Chuang 3). Il primo documento politico (1986) qui tradotto corrisponde alla fase iniziale provvisoria della transizione, la seconda (1995) alla fase finale più brusca. Il terzo (2006) è apparso dopo il completamento della transizione mentre lo stato stava ancora esplorando modi per adattarsi, e il documento finale (2015) segna l’alba del periodo attuale, poiché la direzione della ristrutturazione dello stato stava diventando più saldamente stabilita».

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