QUANDO MAO DIFESE STALIN

Invece di trattare Stalin come un compagno,
l’hanno trattato come un nemico (Mao).

Andando a spasso su un noto “social”, del tutto casualmente mi sono imbattuto nella copertina di un saggio di Mao Tse-tung del 1963 (Sulla questione di Stalin) ripubblicato nel 2017 dalla casa editrice La città del sole. Si tratta di uno scritto che ho letto molto tempo fa e che consiglio a chi volesse farsi un’idea, anche solo approssimativa, dei rapporti russo-cinesi negli anni Sessanta del secolo scorso. Sono stato incuriosito da quanto riportato sulla copertina del libro in questione: «Nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre, la valorizzazione critica dell’opera di Stalin da parte di Mao per riprendere un dibattito chiave per il movimento operaio e comunista de XXI secolo». Già la «valorizzazione critica dell’opera di Stalin da parte di Mao» ha suscitato in me una certa ilarità, diciamo così; questa ilarità si è poi trasformata in una sghignazzata quando ho continuato a leggere: «per riprendere un dibattito chiave per il movimento operaio e comunista del XXI secolo». Lasciamo perdere «il movimento operaio e comunista del XXI secolo» della cui esistenza chi scrive nutre qualche dubbio; ma cosa c’entrano Stalin e Mao con il movimento  operaio e con il comunismo (rettamente intesi)? Niente. Assolutamente niente. A meno che per «movimento operaio e comunista» non si voglia intendere la soggettività politica legata alla tradizione stalinista, anche nella sua variante cinese – maoista.

Pubblicare «Nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre» uno scritto che valorizza, seppur “criticamente” (sic!), la figura di Stalin significa fare l’apologia della controrivoluzione che nella seconda metà degli anni Venti del secolo scorso spazzò via ciò che rimaneva dell’esperienza rivoluzionaria che ebbe nella direzione bolscevica dei Soviet la sua massima espressione come punta avanzata – avanguardia –  di un movimento proletario di portata internazionale. Un’esperienza che non potè sopravvivere all’isolamento cui la costrinse la controrivoluzione capitalistica internazionale, tanto più in una società, come quella russa, economicamente arretrata che per sopravvivere alle devastazioni causate dalla guerra imperialistica e dalla guerra civile contro le armate bianche foraggiate dall’imperialismo occidentale doveva spalancare porte e finestre all’accumulazione capitalistica “originaria”. Ho scritto accumulazione capitalistica, non socialista, come teorizzarono molti esponenti di prestigio di un Partito che stava imparando a nascondere la triste realtà dietro una fraseologia “marxista”. Il nome Stalin bisogna associarlo alla controrivoluzione che non a caso porta il suo nome, non certo alla rivoluzione che ebbe in Lenin e Trotsky i suoi protagonisti decisivi.

Aver posto in una sostanziale continuità storica e sociale la Russia di Lenin, che per un brevissimo momento rappresentò l’avanguardia della rivoluzione proletaria internazionale, e la Russia di Stalin, che rappresentò invece uno dei motori più importanti della controrivoluzione capitalistica internazionale che chiuse il ciclo rivoluzionario aperto dalla Grande Guerra, è un madornale errore di prospettiva che ha avuto catastrofiche conseguenze sul piano della prassi politica orientata all’emancipazione dell’umanità dal dominio sociale capitalistico. Ancora oggi sono ben visibili gli effetti di quell’errore. Su questo tema rinvio chi legge a diversi scritti pubblicati su questo Blog (1).

Ho dunque riletto dopo tanti anni lo scritto di Mao dedicato a Stalin, e ne riporto alcuni passi, accompagnandoli con qualche mia considerazione. C’è da dire che questo testo ha sempre imbarazzato i simpatizzanti occidentali del pensiero maoista, interessati a sottolineare piuttosto le differenze tra stalinismo e maoismo. Le differenze fra le due ideologie ovviamente ci sono, essendo esse l’espressione di due diverse realtà storico-sociali; ma è anche e soprattutto vero che il cuore ideologico pulsante del maoismo è da ricercarsi proprio nello stalinismo in quanto mistificazione dei rapporti sociali di produzione capitalistici mediante l’uso di una fraseologia pseudomarxista e pseudo anticapitalista. Ma qui è meglio non andare oltre nella “comparazione”.    

Intanto cerchiamo di ricostruire in termini assai sintetici il contesto storico e politico nel cui seno si colloca lo scritto polemico di Mao. Siamo agli inizi degli anni Sessanta, in piena epoca di “destalinizzazione” (in Unione Sovietica e quindi nei Partiti di osservanza moscovita, Pci in testa) e “distensione” (nei rapporti tra le due Super Potenze che si erano spartite il mondo come conseguenza della Seconda carneficina imperialistica). La Cina teme, a giusta ragione, di finire invischiata nella rete di interessi tessuta dall’imperialismo russo, tanto più che Mosca, peraltro sulla scorta delle riflessioni “teoriche” di Stalin, fa di tutto per presentare all’opinione pubblica internazionale l’esperienza rivoluzionaria cinese come un evento storico di portata assai meno rilevante se paragonata all’esperienza russa del 1917, e inquadrabile nel generale movimento anticoloniale/nazionale del tempo. Analisi peraltro corretta sul piano storico, sebbene posta a supporto della politica egemonica dell’imperialismo russo, interessato a presentare l’Unione Sovietica come il «Paese socialista modello», come il Paese guida del proletariato mondiale, cinese compreso. Mentre in Unione Sovietica il “socialismo” era una solida realtà (questo secondo Stalin e i suoi degni eredi, beninteso), la Cina muoveva i primi passi nella direzione di uno sviluppo economico che l’avrebbe fatta uscire dalla condizione di società largamente feudale e semifeudale (Mao dirà che nella sua valutazione della rivoluzione cinese Stalin sottovalutava il ruolo dei contadini, un’accusa che Bucharin aveva lanciato a Trotsky nel periodo in cui il primo si trovò a fungere da stampella dottrinaria della politica di Stalin); per conseguire questo fondamentale obiettivo storico, Pechino doveva mettersi sotto l’ala protettiva della potenza sovietica, ricca di esperienze, di prestigio internazionale e di risorse – soprattutto militari!

Dopo dieci anni di “aiuto” tutt’altro che “fraterno” da parte sovietica, il regime maoista capisce che l’Unione Sovietica avrebbe fatto di tutto per frustrare le legittime ambizioni nazionali dei cinesi, per impedire cioè la crescita della Cina come grande nazione, come Paese economicamente forte e politicamente indipendente, in grado quindi di giocare un ruolo da protagonista sulla scena mondiale. Il cosiddetto “aiuto fraterno” rischiava di fare della Cina un Paese a sovranità limitata, a rimorchio, di fatto, dell’imperialismo russo. La teoria stalinista delle «vie nazionali al socialismo», complementare a quella che dà come possibile e certamente auspicabile la «costruzione del socialismo in un solo Paese» (due bestemmie, marxisticamente parlando), entrava in stridente conflitto con la pratica dello Stato sovietico che spingeva i “Paesi fratelli” ad adottare il modello economico stalinista per poterli meglio controllare e sfruttare. E questo Mao non mancherà di rinfacciarlo ai “compagni” russi. È a questo punto che Pechino decide di reagire, prima allentando e raffreddando i suoi rapporti con Mosca, e poi rompendo platealmente con i “compagni sovietici”. Rallegrandosi per il suo sessantesimo compleanno, nel dicembre del 1953 Krusciov aveva definito Mao un «grande teorico del marxismo-leninismo»; dieci anni dopo gli darà del «nazista». Questo per dare il senso del “dissidio” fra i due Cari Leader del “socialismo mondiale”.

È dentro questo quadro, che chiama in causa la legge dello sviluppo ineguale del capitalismo (su scala nazionale e internazionale) e la contesa interimperialistica mondiale, che dunque si colloca lo scontro ideologico tra i “comunisti” russi e i “comunisti” cinesi; un conflitto, veicolato, come si diceva, attraverso una ripetitiva quanto odiosa fraseologia pseudo marxista, che contrapporrà fra loro anche i “comunisti” europei, divisi in filo-stalinisti e filo-maoisti, in sostenitori degli interessi russi e sostenitori degli interessi cinesi. Una divisione tutta interna al campo capitalista/imperialista – non esistendo, allora come oggi, alcun «campo socialista». Gli argomenti propagandistici del “dissidio” tra Cina e Unione Sovietica non toccano insomma minimamente la sostanza storica e sociale di quel conflitto, le cui cause vanno appunto ricercate sul terreno degli interessi capitalistici come essi si danno nella fase imperialistica del capitalismo mondiale.

Il 5 marzo del 1953 moriva Stalin. Dal 14 al 25 febbraio del 1956 si tenne a Mosca il XX Congresso del Partito plasmato interamente da Stalin. Alla fine dei lavori di quel Congresso, in una riunione a porte chiuse, Kruscev lesse ai dirigenti sovietici il famoso – e giustamente famigerato per gli stalinisti di stretta osservanza – rapporto segreto in cui si denunciavano «il culto della personalità di Stalin» (2) e i molti misfatti da questi perpetrati. Per la classe dirigente sovietica si trattò di attribuire a una sola persona, a Stalin nella fattispecie, la responsabilità non solo delle violente e sanguinose ondate repressive che regolarmente si abbattevano sul Partito-Regime e sul Paese; non solo del clima di vero e proprio terrore che dominava sull’intera società russa (a cominciare dalla popolazione ebraica) (3), ma anche, se non soprattutto, la responsabilità delle tante magagne economiche e sociali che non potevano più essere nascoste agli occhi dell’opinione pubblica interna e internazionale dietro lo sventolio di bandiere rosse, l’esposizione di missili a carri armati nel corso delle parate militari celebrative e l’esibizione nelle stesse dei ritratti di Marx e di Lenin – i quali se avessero potuto saltar fuori dalla tomba per prendere a calci i sedicenti epigoni, l’avrebbero fatto molto volentieri!

Cosa pensava Mao di Stalin? È presto detto: «Dopo la morte di Lenin, Stalin non fu solo dirigente del partito e del governo dell’Unione Sovietica, ma anche guida universalmente riconosciuta del movimento comunista internazionale. I meriti che Stalin si è guadagnato durante la sua vita, come pure gli errori che ha commessi, sono fatti oggettivi della storia. Se si mettono a paragone i suoi meriti e i suoi errori, sono i suoi meriti che predominano perché nell’attività di Stalin l’aspetto essenziale è costituito dalle sue giuste azioni, mentre i suoi errori non occupano che un posto di secondaria importanza. Quando si tratta di fare un bilancio di tutta l’attività ideologica e di tutto il lavoro pratico di Stalin, ogni comunista onesto e che rispetti la storia sa riconoscere prima di tutto ciò che fu essenziale in Stalin. Allo stesso modo quando si tratta di conoscere e di criticare correttamente gli errori di Stalin e di superarli, ogni comunista deve salvaguardare ciò che è stato essenziale nella sua vita, salvaguardare cioè il marxismo leninismo che Stalin ha difeso e sviluppato» (4). Questo a proposito della «valorizzazione critica dell’opera di Stalin da parte di Mao» di cui parla il libro pubblicato nel 2017. Mao non nega la fallibilità di Stalin, anche perché sarebbe stata un’operazione impossibile, poco credibile anche in Cina (5); ma crede che in sede di bilancio storico i meriti del leader russo sopravanzino di gran lunga i suoi demeriti: «Gli errori di Stalin occupano solo un posto secondario». Del resto, osserva Mao, anche August Bebel e Rosa Luxemburg commisero degli errori, ma questo non impedì a Lenin di riconoscerli come «grandi rivoluzionari proletari». Su questo esempio, su questi “improbabili” accostamenti storici e politici è meglio stendere un pietosissimo velo e far finta di niente.

Ancora il Grande Timoniere (tanto per non far torto al culto della personalità con caratteristiche cinesi): «Il ripudio totale di Stalin da parte della direzione del PCUS ha fini inconfessati. Stalin è morto nel 1953: tre anni dopo, al ventesimo Congresso, la direzione del PCUS ha lanciato violenti attacchi contro la sua persona. Otto anni dopo, al ventiduesimo Congresso, la direzione del PCUS si è accanita ancora una volta contro Stalin, ne ha tolto la spoglia mortale dalla tomba e ha dato ordine che venisse cremata. Kruscev lanciando la “lotta contro il culto della personalità” ha messo in atto unicamente una ignobile macchinazione politica». Personalmente sono favorevole alla cremazione della mummia di Lenin, ma questo è un altro discorso. Battute a parte, qui Mao ha ragione da vendere, nel senso che la «lotta contro il culto della personalità» serviva a nascondere l’essenziale: la struttura sociale dell’Unione Sovietica, compresa la sua “sovrastruttura” politica, istituzionale e ideologica, non era opera di una sola persona, magari dalla personalità forte ed eccentrica, per così dire, ma una costruzione collettiva che chiamava in causa tutto il Partito-Regime. Come scrisse a metà degli anni Cinquanta lo storico e politologo statunitense Walter Lippman, coniatore fra l’altro della formula geopolitica Guerra Fredda, «Lo stalinismo è quel regime che forza la industrializzazione in un Paese agricolo e primitivo. La causa dello stalinismo non è quindi da attribuirsi alle particolari qualità di un uomo o a un incidente militare, o a una guerra vittoriosa, oppure a montature propagandistiche che possono far popolarissimo un uomo che non lo merita. La causa dello stalinismo è economica e va ricercata negli interessi delle classi». Una considerazione che fa impallidire le analisi di molti sedicenti “materialisti storici”.

Se mettiamo insieme l’arretratezza della società russa e il fallimento della rivoluzione proletaria internazionale, otteniamo la formula dello stalinismo in quanto fenomeno storico-sociale. Mentre chi scrive colloca questo fenomeno interamente ed esclusivamente sul terreno del processo sociale capitalistico considerato nella sua dimensione mondiale, Mao al contrario lo considerava in un modo affatto diverso, anzi opposto, avendo Stalin apportato, con le sue teorie e le sue opere, «un contributo incancellabile al movimento comunista internazionale». E già solo questa semplice affermazione la dice lunga sulla natura “comunista” di quel movimento.

Krusciov usava dunque un cane morto (Baffone, appunto) come capro espiatorio da usare nella lotta tra le fazioni di una classe dirigente alle prese con i problemi posti al “Paese dei Soviet” da uno sviluppo capitalistico tutt’altro che privo di limiti e contraddizioni (6). Lo stalinismo, come ideologia e come pratica politica, rappresentò la forma concreta che assunse nella Russia cosiddetta Sovietica il processo di sviluppo e di modernizzazione capitalistica a tappe forzate, un presupposto fondamentale per fare in breve tempo dell’Unione Sovietica una potenza di rango mondiale, la sola strada da praticare per non finire nell’orbita delle potenze più forti dell’epoca. La mostruosa macchina politica messa in piedi dal regime stalinista serviva a rendere possibile quel processo, e Stalin, comprese le sue paranoie, il suo detestabile carattere e le sue magagne esistenziali, si dimostrò il più adatto a servire quella causa; del resto l’accumulazione capitalistica, soprattutto se deve compiersi a tappe forzate, non è mai stata, in nessuna parte del mondo, un pranzo di gala, e Mao ne seppe qualcosa.

Ciò che senz’altro si può dire è che la cosiddetta destalinizzazione rappresentò in realtà per la Russia la continuazione dello stalinismo, in quanto fenomeno sociale oggettivo e impersonale, nelle mutate condizioni interne e internazionali. I limiti della “destalinizzazione” appariranno evidenti agli inizi degli anni Settanta, quando l’approfondirsi della crisi economica spingerà il regime sovietico a stringere i bulloni del controllo sociale e della repressione.

Attaccando la politica della “distensione” e della “coesistenza pacifica”, Pechino intese attaccare soprattutto l’Unione Sovietica, interessata a entrare nel circuito delle relazioni economiche internazionali largamente dominato dagli Stati Uniti. La Cina per un verso temeva di rimanere schiacciata nella morsa costruita dalle due “Super Potenza” ai danni degli altri Paesi del mondo – in Europa, in Asia, in Africa, ovunque; e per altro verso vedeva nell’Unione Sovietica, con la quale peraltro divideva un esteso confine, il suo nemico principale, e questo la convinse ad avvicinarsi gradualmente agli Stati Uniti e ai Paesi dell’Europa occidentale. Ma ritorniamo alla polemica, tutt’altro che immotivata (si tratta piuttosto di capirne il reale significato oltrepassando la superficie della fuffa ideologica e propagandistica), di Mao.

«Se Kruscev non ha la memoria corta dovrebbe ricordare che proprio lui, durante una conferenza tenuta a Mosca nel gennaio del 1937, condannò a ragione quelli che attaccavano Stalin dicendo che “attaccando il compagno Stalin, ci attaccano tutti, attaccano la classe operaia e il popolo lavoratore! Attaccando il compagno Stalin, attaccano le dottrine di Marx, di Engels e di Lenin!”. Dovrebbe ricordarsi che proprio lui, svariate volte, ha lodato Stalin dicendo che era “un grande amico e compagno d’armi del grande Lenin”, “il più grande genio, educatore e capo dell’umanità”, “il grande maresciallo sempre vittorioso”, “l’amico sincero del popolo” e il suo proprio “padre”». Anche in Italia molti stalinisti incalliti diedero allora prova di avere una memoria cortissima: «Chi, io? Mai stato stalinista! Personalmente ho anzi sempre criticato il culto della personalità». Come no!

Mao invece non si pente, non cambia idea, e dinanzi a chi improvvisamente “scopre” in Stalin «un “assassino”, “un criminale”, “un bandito”, “un despota tipo Ivan il Terribile”,“il più grande dittatore della storia russa”, “un imbecille”, “un idiota”, “un giocatore”», si mostra fedele al suo maestro, e ne rivendica la funzione storica e l’eredità politico-ideologica, tanto più che la destalinizzazione stava riportando  in auge i peggiori nemici del “comunismo”: i trotskisti! «La folle campagna della direzione del PCUS contro Stalin ha avuto l’effetto di rianimare i trotskisti che da tempo non erano che dei cadaveri politici». Che scandalo! Di più: che crimine! «Nella lotta contro gli opportunisti di qualsiasi sfumatura, contro i nemici del leninismo, trotskisti, zinovievisti, bukhariniani e altri agenti della borghesia è stato Stalin che ha difeso lo sviluppo del marxismo-leninismo». Com’è noto, «contro gli opportunisti di qualsiasi sfumatura» Stalin usò il pugno di ferro: arresti, torture, fucilazioni, piccozze, esilio in Siberia e quant’altro; e in questa benemerita (faccio della facile dell’ironia) azione a difesa del «marxismo-leninismo» egli fu caldamente appoggiato dagli stalinisti di tutto il mondo, a cominciare da Togliatti, alle prese con i perfidi seguaci di Amadeo Bordiga. Ora la destalinizzazione promossa dall’infido Kruscev rischiava di beneficare tutti questi personaggi al servizio del capitalismo e dell’imperialismo: qualcosa di inconcepibile per Mao, che accetta di raccogliere la sfida lanciata dai “revisionisti”.

«Prendendo la difesa di Stalin il Partito comunista cinese difende ciò che in Stalin vi è stato di giusto, difende la gloriosa storia della lotta del primo Stato della dittatura del proletariato instaurato nel mondo dalla Rivoluzione d’Ottobre, difende la gloriosa storia della lotta del PCUS, difende la fama del movimento comunista internazionale di fronte ai popoli e ai lavoratori del mondo intero, in una parola difende sia la teoria che la pratica del marxismo-leninismo». Cioè dello stalinismo. È bene ripeterlo: si tratta di mera fuffa ideologica e propagandistica che ha questo preciso significato: prendendo le difese di Stalin, Mao intese fornirsi di un’arma politico-ideologica da usare contro l’Unione Sovietica nella sua battaglia al servizio degli interessi nazionali cinesi, potendo anche contare sul prestigio di cui godeva la figura di Stalin, il condottiero che rese possibile «la grandiosa vittoria nella guerra antifascista», su una parte dell’opinione pubblica internazionale, soprattutto nel cosiddetto Terzo Mondo

Allora molti intellettuali europei di orientamento “comunista”, delusi dal grigio, oppressivo e miserrimo “socialismo sovietico”, troveranno una valida alternativa nel più fresco, giovane e “movimentista” modello cinese, a ulteriore dimostrazione del fatto che senza coscienza di classe gli insegnamenti offerti dalla storia e dal processo sociale sono come acqua che scorre sulla plastica senza lasciare alcuna traccia, senza dissetare alcuna intelligenza.  

Siamo così giunti, sperando di non aver troppo annoiato i lettori, alla fine del saggio di Mao. «Kruscev può approfittare della sua posizione privilegiata per apportare questa o quella alterazione al marxismo-leninismo, ma mai raggiungerà il suo scopo se vuole approfittare di questa posizione privilegiata per abbattere il marxismo-leninismo che Stalin e i marxisti-leninisti del mondo intero hanno difeso. Noi vogliamo dare un consiglio sincero al compagno Kruscev. Eccolo: noi speriamo che voi correggiate i vostri sbandamenti e che, abbandonata la via totalmente sbagliata, riprendiate il cammino del marxismo-leninismo. Viva la grande dottrina rivoluzionaria di Marx, Engels, Lenin e Stalin». E qui balza alla mente un nostalgico ricordo giovanile, quando nei cortei studenteschi si gridava, agitando minacciosamente il pugno chiuso: «Viva Marx, viva Engels, viva Lenin, viva Stalin, viva Mao Tse-tung!».

(1) Alcuni titoli: L’ultima battaglia di LeninLa costruzione del capitalismo nella Russia Sovietica. Dalla Nuova Politica Economica alla collettivizzazione forzataLenin e la profezia smenaviekhistaIl Grande AzzardoLo scoglio e il mare. Rinvio anche allo scritto Lenin e la questione ebraica in Russia.

(2) Fin dall’inizio del suo discorso Kruscev denunciò che nell’Urss si era giunti a fare di Stalin «un superuomo fornito di qualità soprannaturali a somiglianza di un dio, in grado si saper tutto, veder tutto, pensare per tutti, fare tutto ed essere infallibile». Togliatti, non a caso definito il migliore degli stalinisti in circolazione sul palcoscenico mondiale, paventò subito il rischio di una «arbitraria e falsa generalizzazione», il «rischio di giudicare cattiva, da respingersi, da criticarsi tutta la realtà economica, sociale e culturale sovietica, secondo le tesi proprie delle consuete idiozie reazionarie» (P. Togliatti, Opere scelte, p. 705, Editori Riuniti, 1974). Insomma, non bisognava gettare via il bambino del “socialismo reale” insieme all’acqua sporca dello stalinismo. 

(3) «Nel 1935 Stalin proclama il socialismo reale. In ogni ambito della vita sovietica c’è un irrigidimento. Tra gli oppositori a quel che Fejtö ha chiamato il neozarismo staliniano si trovano molti ebrei. Gli ebrei diventano ben presto sospetti di spirito critico, di crimine d’ironia.  In particolare Stalin, come tutti i capi di stato totalitari, diffiderà del cosmopolitismo degli ebrei, dei loro contatti con l’estero – ed è pure ostile a ogni forma d’internazionalismo. Quindi epurò gli ebrei assieme ad altri, ma con particolare zelo e vigilanza. Gli ebrei servivano come capri espiatori anche nell’antisemitismo di Stalin. Per esempio, in Ucraina Stalin incoraggiò un certo antisemitismo popolare [in Ucraina l’antisemitismo è sempre stato particolarmente diffuso e violento]. Nel 1937 inizia la chiusura delle scuole ebraiche, l’epurazione degli ebrei dall’esercito, dalla diplomazia, dal commercio estero. Nel 1938-39, in seguito alla firma del patto russo-tedesco, la persecuzione antiebraica di Stalin giunge al suo culmine» (E. Wiesel, Gli ebrei del silenzio, Spirali, 1985). La rottura di quel “patto scellerato” da parte della Germania nazista rappresentò una momentanea boccata d’ossigeno per gli ebrei: «La seconda guerra mondiale conosce una tregua, una sosta tattica della politica antiebraica di Stalin. La Russia ha bisogno di tutti gli uomini per combattere l’invasore e in quell’occasione Mikhoels lancerà il suo famoso appello: “Madre ebrea, anche se hai un solo figlio, benedicilo e mandalo a combattere la peste nera”» (Ivi). Si trattava beninteso della stessa “peste nera” con cui il regime stalinista aveva sottoscritto un’”alleanza d’acciaio”, rotta, è bene sempre ricordarlo in faccia agli stalinisti di ieri e di oggi (ce ne sono in giro ancora tanti, e fanno il tifo per il campo imperialista guidato da Mosca e Pechino), per iniziativa dei nazisti “traditori”.

(4) Cito dalle Opere scelte di Mao, XX, Casa Editrice in Lingue Estere, 1973.

(5) Dove era ancora vivo, almeno nella classe dirigente del PCC, il ricordo della scellerata (in realtà semplicemente funzionale agli interessi della nazione russa) politica stalinista negli anni 1926-27, quando Mosca costrinse i comunisti cinesi a giocare un ruolo subalterno rispetto al Kuomintang di Ciang-Kai-shek, politica codina che ebbe come risultato il sabotaggio del movimento proletario cinese e il massacro della sua avanguardia da parte dell’esercito nazionalista sostenuto da Mosca. La natura non proletaria ma nazionale-borghese del PCC inizia a prendere copro proprio a partire da quei catastrofici eventi. Rinvio al post Centenari che suonano menzogneri. Sulla natura sociale della Rivoluzione Cinese e della società cinese rinvio ai seguenti scritti: Ai tempi di Mao la Cina era un Paese comunista?; La Cina è un paese capitalista?La Cina è un paese socialista?; Tutto sotto il cielo – del CapitalismoChuang e il “regime di sviluppo socialista”Sulla campagna cineseSocial ContagionŽižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinesePiazza Tienanmen e la “modernizzazione” capitalistica in Cina. Il ruolo degli studenti e dei lavoratori nella primavera cinese del 1989.

(6) Questi limiti e queste contraddizioni erano particolarmente visibili nel “comparto agricolo”, ormai da decenni azzoppato da bassa produttività e scarsa efficienza. Ancora negli anni Sessanta del secolo scorso nella campagna russa i rapporti sociali di produzione capitalistici convivevano con le forme economiche del passato precapitalistico, come si poteva facilmente osservare nel Kolchoz (Azienda Agricola Collettiva), caratterizzato dall’antagonismo fra la piccola produzione individuale e parcellare del kolchoziano, e la produzione collettiva (che non significa socialista) del Kolchoz in quanto grande azienda agricola capitalistica che sfrutta manodopera salariata – e dove c’è lavoro salariato c’è capitalismo: una elementare nozione marxiana che Stalin e Mao cercheranno, invano, di confutare. In vaste zone della campagna russa era insomma ancora in atto il processo di transizione da forme economico-sociali precapitalistiche a quelle tipicamente capitalistiche: altro che «transizione dal capitalismo al socialismo»! Mutatis mutandis, analogo discorso si può fare a proposito della campagna cinese. Rompere con l’Unione Sovietica per salvaguardare la propria sovranità politica significò per la Cina far leva esclusivamente sulle proprie forze nel gigantesco sforzo inteso a dotare il Paese di una moderna economia capitalistica. Di qui l’assai peculiare forma che assunse in Cina l’accumulazione capitalistica “originaria”, di cui il maoismo fu espressione – e al contempo mistificazione – ideologica.

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