Leggo su un giornale di “destra”: «Una critica a tutto campo alle idee della cosiddetta “sinistra radical-chic”, quella di Rampini, concentratasi soprattutto sul tema dell’immigrazione, dipinta superficialmente come una risorsa e una ricchezza, quando già Marx nell’Ottocento, analizzando la grande migrazione dall’Irlanda, ne aveva messo in luce gli effetti negativi sulle classi popolari dei paesi di accoglienza, in particolare l’abbassamento dei salari causato dall’arrivo di ingenti quantità di manodopera a basso costo. “L’immigrazione incontrollata l’hanno sempre voluta i capitalisti: lo scriveva un certo Karl Marx nel 1870 a proposito della questione irlandese”». Quello che l’ex “radical-chic” Rampini non dice (non può, non spetta a lui dirlo) è che da quella semplice constatazione il comunista di Treviri non ricavò l’idea che bisognasse contrastare l’immigrazione dei lavoratori provenienti dal resto del mondo, ma l’idea che tutti i lavoratori, a prescindere dalla loro nazione di provenienza, dal colore della loro pelle e così via, dovessero organizzarsi in un sindacato di classe per evitare la concorrenza fra gli stessi lavoratori e muovere guerra come un solo esercito contro i capitalisti, perché «la cosa si riduce alla questione dei rapporti di forza delle parti in lotta». Marx ed Engels criticarono sempre le Trade Unions proprio per il loro spirito corporativo, grettamente economicista, il quale non permetteva al sindacalismo inglese di afferrare il nocciolo sociale e politico della questione operaia: l’esistenza dei rapporti sociali capitalistici e la necessità «della liberazione definitiva della classe operaia attraverso l’abolizione definitiva del sistema del lavoro salariato» (1).
L’immigrazione di manodopera a basso costo rappresenta certamente «una risorsa e una ricchezza» per il capitale, il quale cerca in tutti i modi di accrescere il saggio del profitto, ad esempio «abbassando il tenore di vita dei lavoratori inglesi a quello dei lavoratori irlandesi», perché «profitto e salario stanno in proporzione inversa» (2). Non solo, ma anche «quando la situazione materiale dell’operaio è migliorata» ciò si realizza «a scapito della sua situazione sociale. L’abisso sociale che lo separa dal capitalista si è approfondito» (3). Rimanendo sul mero terreno economico-sindacale i lavoratori lottano «contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti».
Ci vuole molta faccia tosta, diciamo così, nel reclutare Marx (anche) nella lotta contro gli immigrati.
Scriveva qualche settima fa Ezio Mauro: «Nell’interpretazione della destra il lavoro si riduce alla prestazione nella produzione, e la produzione al suo puro valore economico, in una paradossale conferma fuori tempo di Marx» (La Repubblica). Diciamo pure che la “destra” è meno ipocrita e “politicamente corretta” della “sinistra”, la quale ama nascondere la disumana realtà del lavoro (salariato) dietro miserabili fumisterie ideologiche. Il “tempo” di Marx è l’epoca capitalistica, ed è per questo che la sua critica del capitalismo trova puntuali conferme per ciò che riguarda la sostanza di questo modo di produzione e della società che gli corrisponde.
(1) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, p. 117, Newton Ed., 1976. «Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un equo salario per un’equa giornata di lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”» (p. 116).
(2) Ibidem, p. 110.
(3) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 68, Newton Ed., 1978.