Mentre “surfavo” sulle onde elettroniche del Web, ho letto da qualche parte quanto segue: «Una volta odiavano il capitalista proprietario d’imprese, adesso quello proprietario di capitali… Il mondo cambia, i comunisti no». Ma a quali «comunisti» si allude qui? In mancanza di risposta, ho scritto la breve nota che segue, un po’ come legittima difesa, un po’ come “difensore d’ufficio”. Di chi o di cosa? Fate un po’ voi!
«Il capitale monetario deve sostenere una funzione importante quando si sviluppi il sistema creditizio, e deve costituire contemporaneamente uno dei fondamenti dello stesso» (1).
Il capitolo ventitreesimo del libro terzo del Capitale (Interesse e guadagno d’imprenditore) offre a mio avviso un’eccellente griglia concettuale idonea a comprendere la fase attuale dello sviluppo capitalistico, quella dominata dal capitale finanziario. E già qui urge una prima avvertenza, tanto più utile in questi tempi di perdurante crisi economica: sviluppo e Capitalismo sono, a mio avviso, due termini inscindibili, perché la legge del profitto presuppone e pone sempre di nuovo la necessità della profonda trasformazione tanto della base economica della società, della cosiddetta struttura, quanto della sua multiforme prassi (politica, istituzionale, scientifica, culturale, ideologica, relazionale, affettiva), della cosiddetta sovrastruttura.
Detto en passant, per come la vedo io il concetto di struttura, se si intende usarlo ancora, andrebbe riferito all’insieme della società capitalistica colta nella sua dialettica (ossia contraddittoria, conflittuale, dinamica) totalità. Cosa che non solo non impedisce di cogliere nella prassi che crea e distribuisce la ricchezza sociale nella sua attuale forma capitalistica il «momento egemonico» (per dirla sempre con Marx) della totalità, ma aiuta anche a orientare il pensiero verso il punto di vista che permette di scorgere le mediazioni che mettono in comunicazione gli interessi del Capitale con le molteplici manifestazioni della vita sociale. Oggi, nell’epoca della sussunzione totalitaria e planetaria degli individui agli interessi del Capitale, più che di «momento egemone» si dovrebbe piuttosto parlare di momento dominante.
Lo stesso fenomeno della crisi, lungi dal contraddire l’intima e necessaria correlazione esistente tra sviluppo e Capitalismo, piuttosto la conferma, in più segnalandone la natura, anche qui, altamente dialettica – vedi la parentesi di cui sopra. Molto prima di Schumpeter Marx comprese che per il Capitalismo il cambiamento non è, come si dice oggi, un optional, ma una bruciante e vitale necessità. E difatti, il conservatorismo tecnologico che si impadronisce dei monopoli, degli oligopoli e delle nazioni che vantano a un dato momento un grande vantaggio competitivo sugli avversari presto o tardi deve lasciare il posto a una nuova tendenza progressiva, nell’accezione qualitativa appena delineata – sul piano storico il Capitalismo da molto tempo ha esaurito la sua funzione progressiva.
Ma veniamo brevemente al Capitolo in questione.
In che senso Marx parla di guadagno dell’imprenditore? Per capirlo occorre considerare il Capitale nella sua più astratta determinazione, cioè a dire nella sua più pregnante e peculiare determinazione storica e sociale. Le due cose sembrano doversi escludere reciprocamente (come può l’astratto presentarsi al contempo come pregnante e peculiare?), ma non è così, e d’altra parte l’economia capitalistica è piena di apparenti paradossi, semplicemente perché paradossale appare il funzionamento dell’intero Moloch economico. Come spiegava il Moro di Treviri, l’apparenza ingannevole delle cose economiche non si spiega innanzitutto chiamando in causa un difetto di pensiero, perché è essa stessa un dato strutturale dell’economia capitalistica. Per comprenderlo basta riflettere sulla relazione di compravendita che lega il lavoratore al suo acquirente, al capitalista: è, infatti, da uno scambio tra equivalenti (la vita del lavoratore in cambio del salario che la rende possibile) che prende corpo il “mistero” della valorizzazione.
Il Capitale, nella sua qualità di potenza sociale (di qui la c maiuscola), ha un solo inderogabile e vitale obiettivo: la propria continua valorizzazione, ossia la creazione, attraverso una determinata attività materiale o immateriale, di un plus di valore, di un’eccedenza di valore rispetto all’ammontare del capitale investito in una delle tante imprese (industriali, commerciali, finanziarie, ecc.) presenti nel famoso “mercato”. Questo plus può prendere diversi nomi, ma per il Moloch la cosa appare indifferente: esso si nutre con bulimica indifferenza di profitti industriali, di profitti commerciali, di profitti finanziari, di rendite, e via di seguito.
Ma l’apparenza delle cose deve fare i conti con la triste realtà del processo di valorizzazione, ossia con la circostanza che vede il profitto dell’imprenditore industriale essere la relativamente esigua fonte che alimenta ogni altra tipologia di profitto: da quello commerciale a quello finanziario, e la stessa stratosferica montagna di ricchezza virtuale che rende possibile la speculazione finanziaria è un colosso dai piedi d’argilla che nei periodi di crisi economica è costretto a confessare la propria dipendenza dal volgare e sudaticcio mondo dell’economia “reale”. La feticistica apparenza delle cose deve periodicamente lasciare il posto alla realtà dei crolli azionari, della svalorizzazione d’ogni sorta di “prodotto finanziario”, dei fallimenti delle “industrie finanziarie”, dei suicidi di qualche ex gnomo della finanza (giustamente indisponibile a recitare il ruolo di capro espiatorio) e via di seguito.
Scrive Marx: «L’interesse appare in origine, è in origine e rimane in realtà nient’altro che una parte del profitto, ossia del plusvalore che il capitalista operante, industriale o commerciale, in quanto impiega non il proprio capitale ma capitale preso a prestito, deve pagare al proprietario che gli ha prestato questo capitale. Se egli impiega soltanto il proprio capitale, questa ripartizione del profitto non avviene; tale profitto gli appartiene integralmente» (2). Qui è fissata la derivazione dell’interesse dal plusvalore smunto dal «capitalista operante» alla vacca sacra salariata.
C’è da dire, per non ingenerare fraintendimenti, che Marx mette giustamente insieme il capitalista industriale e quello commerciale non perché anche dalle attività commerciali sgorga plusvalore primario (o basico), ma piuttosto perché le diverse attività di movimentazione e di vendita della merce, pur non generando alcun plusvalore di quel tipo (anzi, per il capitalista industriale esse costituiscono un mero costo: di qui la loro “esternalizzazione” dall’impresa industriale (3), pure sono parte integrante del processo di produzione della merce. Per Marx «con il capitale commerciale abbiamo a che fare con un capitale che partecipa al profitto, senza partecipare alla produzione», e naturalmente «quanto maggiore è il capitale commerciale in rapporto al capitale industriale, tanto minore è il saggio del profitto industriale».
Possiamo allora dire, per rimanere agli esempi marxiani, che il plusvalore primario alimenta tre tipologie di capitalisti: l’industriale, il commerciante e il finanziere. Il primo sfrutta immediatamente la capacità lavorativa degli operai industriali, il secondo drena parte del plusvalore generato da essai servendosi (sfruttando) altra capacità lavorativa, quella dei lavoratori del commercio, e il terzo, dulcis in fundo (e qui è proprio il caso di dirlo!), si appropria di un’aliquota di quello stesso plusvalore semplicemente nella sua qualità di prestatore di capitale. In ogni caso il soggetto è sempre lo stesso: il Capitale. Stesso è il punto di partenza: il Capitale. Stesso, ovviamente, l’obiettivo: il profitto, ossia la valorizzazione del Capitale variamente investito.
Marx contempla anche un’altra suddivisione del profitto netto (o plusvalore primario o basico, come lo definisco io): «Ad esempio, alcuni capitalisti industriali si associano nella gestione di una nuova impresa e si ripartiscono poi il profitto tra di loro in base ad accordi giuridicamente stabiliti. Altri gestiscono la loro impresa da soli, per conto proprio, senza soci. Questi ultimi non computano il loro profitto sotto due voci, una parte come profitto individuale, una parte come profitto di società per i soci che non esistono» (p. 441). In questo caso è una suddivisione che rimane confinata nell’ambito della produzione immediata del plusvalore.
Per ciò che Marx intende porre in luce in questa parte fondamentale della sua opera, questo caso, ossia la differenziazione “endogena” del plusvalore in differenti tipologie di profitto, è poco significativo, e difatti egli passa subito a considerare l’«effettivo punto di partenza della formazione dell’interesse; ossia partire dall’ipotesi che il capitalista monetario e il capitalista produttivo stiano effettivamente l’uno di fronte all’altro, non soltanto come diverse persone giuridiche, ma come persone che hanno nel processo di riproduzione funzioni completamente diverse, o nelle cui mani il medesimo capitale percorre effettivamente un movimento duplice e sostanzialmente diverso. L’uno lo dà soltanto in prestito, l’altro lo impiega nella produzione» (pp. 441-442). Tanto chi dà il capitale in prestito in vista dell’interesse, quanto chi lo usa per acquistare i «fattori della produzione» in vista del profitto, entrambi “lavorano”, per così dire, la stessa materia prima: il capitale, appunto.
La sfera creditizia agisce come una sorta di pompa che da una parte drena capitali da mille rivoli, mentre dall’altra li spinge in altrettanti rivoli, sempre di nuovo, in modo che il liquido possa toccare la magica vacca sacra salariata, la sola che può garantire, in ultima analisi, la stessa esistenza di una simile pompa.
Qui il dualismo tra il capitale colto nella sua forma creditizia (finanziaria) e il capitale considerato nella sua determinazione produttiva (industriale) non ha alcuna ragion d’essere, e finalmente appare dietro l’apparenza (il dualismo appena accennato) l’unità funzionale del Capitale, la sua effettiva natura sociale. Che il punto di partenza del processo di creazione del plusvalore sia il capitalista monetario oppure il capitalista produttivo, nulla di essenziale cambia in quel processo. Di più: nella misura in cui, per un verso il lavoro sociale astratto è la base oggettiva che rende possibile l’esistenza del denaro in quanto «equivalente universale», la cui enigmatica natura è fonte di continue aberrazioni feticistiche per il pensiero economico borghese; e, per altro verso, la formazione del capitale monetario ha a che fare con i capitali depositati nel sistema creditizio – generalmente inteso – dopo aver sfruttato lavoro salariato, si può senz’altro affermare che è nella la sfera creditizia, e non in quella industriale, che con maggiore nitidezza si appalesa la natura sociale del Capitale. In questo ristretto senso è corretto considerare il capitale monetario come il capitale per eccellenza. A patto però che si tenga sempre fermo, all’opposto di quanto fa l’economia volgare che si perde nell’apparenza del Capitale sociale, il punto circa la reale genesi dell’interesse, la quale va cercata nella sfera della valorizzazione primaria del capitale (cioè a dire là dove il capitale estorce direttamente plusvalore al lavoro vivo), essendo l’interesse «una semplice parte del profitto lordo» (ossia del plusvalore). Addirittura Marx considera il capitalista industriale che lavoro con capitali propri, che cioè non ha bisogno di prestiti per avviare il processo produttivo, anche nella sua qualità di capitalista monetario, «in quanto intasca egli stesso l’interesse invece di pagarlo ad altri». Questa figura di capitalista industriale è, insieme, capitalista monetario (è proprietario di capitale) e capitalista operante (sfrutta direttamente forza-lavoro), e in questa doppia qualità egli intasca l’intero plusvalore. Questa doppia natura di capitalista conferma nella testa dell’imprenditore che non ha bisogno di prestiti l’idea secondo la quale la parte del profitto lordo che avrebbe dovuto pagare al capitalista monetario, e che incamera lui, è «un plusvalore che il capitale produce in sé e per sé, e che perciò produrrebbe anche senza un impiego produttivo». Al pari del capitalista monetario, egli non comprende che l’interesse (in questo caso solo virtuale) è solo una parte del plusvalore (o profitto lordo), e cade nell’assurdità più assoluta, crede cioè «che alla base del sistema capitalistico di produzione il capitale produrrebbe interesse senza operare come capitale produttivo, ossia senza creare plusvalore, di cui l’interesse è solo una parte» (p. 447).
La funzione sociale del capitalista monetario è quella di mettere a disposizione capitale a chi voglia investirlo in qualsivoglia attività, e a titolo di riconoscimento, per così dire, egli riceve un profitto sottoforma di interesse. La funzione sociale del capitalista «operante» è invece quella di sfruttare direttamente, senza altra mediazione che i mezzi di produzione, la capacità lavorativa, e in cambio di questa fondamentale attività egli incamera un profitto che gli appare «come guadagno d’imprenditore», una sorta di “salario” che gli deriva dalla sua qualità di sfruttatore diretto della forza-lavoro. «Il capitale produttivo d’interesse è il capitale come proprietà contrapposto al capitale come funzione» (p.449).
In effetti, il capitalista industriale (quando parlo di industria mi riferisco anche alle attività agricole) non è che un’agente del Capitale sociale; a lui spetta la rognosa incombenza di avere a che fare direttamente con la razza dei salariati, mentre il capitalista monetario si gode solo il lato piacevole dello sfruttamento. Naturalmente solo un idiota può dare credito alle lamentele del primo circa le «esorbitanti pretese» del secondo, e può assimilare lo “sfruttamento” del primo da parte del secondo allo sfruttamento dei lavoratori per opera del Capitale sociale. Ma il mondo è pieno di idioti: essi abbondano soprattutto nelle Università di economia e negli ambienti politici e culturali che amano contrapporre «il duro ma virtuoso lavoro» del «ceto produttivo» (il «capitalista operante» e i suoi salariati, pardon: i suoi “collaboratori”) alle «fin troppo comode» attività di chi si arricchisce senza versare una sola goccia di sudore. A questi personaggi neanche sfiora l’idea che la funzione di capitalista industriale «consista nel produrre plusvalore ossia lavoro non pagato, e di produrlo nelle condizioni più economiche […] Per l’operaio è assolutamente indifferente se egli lo intasca tutto o se ne deve pagare una parte a un terzo» (pp. 450-51). È anche vero che il sudore traspirato frustando il lavoratore ha, cambiando quel che c’è da cambiare, la stessa composizione chimica di quello secreto dallo stesso lavoratore durante la sua attività lavorativa. Nella notte buia del Capitalismo tutti i sudori sono uguali! O no?
Vediamo come risponde Marx: «Il lavoro consistente nello sfruttare è lavoro allo stesso modo come il lavoro che viene sfruttato. L’interesse diviene la forma sociale del capitale, ma espresso in una forma neutrale ed indifferente; il guadagno d’imprenditore diviene la funzione economica del capitale, ma spogliato del carattere determinato, capitalistico di questa funzione» (p. 453). Qui Marx per un verso ribadisce la natura sociale del Capitale monetario, rispetto alla quale il Capitale operante appare come una funzione meramente tecnica («economica»), al punto che «il lavoro consistente nello sfruttare ed il lavoro sfruttato sono entrambi identici in quanto lavoro» (4); e per altro verso egli coglie l’aspetto oggettivamente feticistico del rapporto capitalistico, il quale appare allo sguardo di chi rimane a contemplare la superficie dei fenomeni economici come un rapporto neutro, indifferente, spogliato del suo peculiare carattere sociale, il quale si sostanzia in una prassi di dominio e di sfruttamento.
Feticismo che si manifesta anche nei passi che seguono: «Si poteva pensare, e molti lo hanno fatto, che la stessa crisi avrebbe spinto le classi dirigenti dei paesi ricchi ad apportare dei mutamenti rilevanti nei meccanismi di funzionamento della macchina finanziaria, che non apparivano chiaramente più adeguati ad una marcia ordinata delle cose; ma tali mutamenti, che pure non sono mancati, sono indubbiamente risultati, almeno sino ad oggi, pochi, tardivi e modesti. Sino a questo momento viene così smentita la indubbia capacità del sistema capitalistico, sempre manifestatasi in passato, di rispondere alle crisi e alle difficoltà con rinnovata energia e mettendo comunque in campo tutte le innovazioni necessarie ad innescare nuovi cicli di accumulazione» (5). A parte ogni altra considerazione sul reale rapporto che insiste tra la politica e l’economia, qui si manifesta l’illusoria idea che basti imbrigliare i «meccanismi di funzionamento della macchina finanziaria», così da mettere quest’ultima al servizio della cosiddetta «economia reale», per «innescare nuovi cicli di accumulazione». In realtà, tutto il processo capitalistico allargato di produzione e distribuzione della ricchezza sociale dipende, in ultima analisi, dallo stato di salute del saggio di profitto. La stessa febbre speculativa non è che un sintomo della cattiva condizione attraversata dal processo di generazione del plusvalore primario, e non esistono «mutamenti rilevanti nei meccanismi di funzionamento della macchina finanziaria» che possano mutare la realtà, ossia la dipendenza della società capitalistica dallo sfruttamento sempre più scientifico e stringente della capacità lavorativa vivente.
Il capitalista monetario appare estraneo e indifferente allo sfruttamento dei lavoratori, e sembra intascare un interesse solo in quanto proprietario di capitale; a sua volta, il lavoro che sfrutta altro lavoro appare identico a quest’ultimo, ed entrambi sembrano avere un identico interesse nei confronti del capitalista monetario. Appunto: appare e sembra. In realtà, nella misura in cui tanto il capitalista monetario quanto il capitalista operante si nutrono di lavoro altrui non retribuito (secondo la nota filiera del valore pluslavoro → plusprodotto → plusvalore), i lavoratori sfruttati dal Capitale sociale, attraverso il processo che ho cercato di mostrare in queste pagine seguendo le orme di Marx, hanno un solo interesse: lottare contro lo sfruttamento capitalistico, tanto nella sua forma mediata (indiretta), quanto nella sua forma immediata (diretta). Ed è ovvio che la seconda forma è quella con cui essi si trovano a dover fare i conti ogni giorno e direttamente. Si tratta di partire, concettualmente e politicamente, da questo livello immediato per giungere al livello superiore: il rapporto sociale capitalistico. Questa, beninteso, è un’aggiunta “faziosa” che mi sono permesso di fare alle spalle del noto Tedesco.
(1) K. Marx, Il Capitale, II, pp. 296-297, Editori Riuniti, 1980.
(2) K. Marx, Il Capitale, III, p. 439, Editori Riuniti, 1980.
(3) «La divisione del lavoro, l’autonomizzarsi di una funzione, non rende formatrice di prodotto e di valore se essa non lo è in sé, cioè già prima del suo autonomizzarsi (Il Capitale, II, p.138). È appunto il caso, “classico”, del commerciante – qui genericamente inteso –, il quale «assolve una funzione necessaria, poiché il processo di riproduzione stesso comprende funzioni improduttive». Lo stesso lavoratore del commercio «lavora quanto un altro, ma il contenuto del suo lavoro non crea né valore né prodotto. Egli stesso appartiene ai faux frais [costi improduttivi, ma necessari]della produzione. La sua utilità non consiste nel trasformare in produttiva una funzione improduttiva, ovvero in produttivo un lavoro improduttivo. Sarebbe un miracolo, se una simile trasformazione potesse venir effettuata mediante un siffatto trasferimento di funzioni» (p. 136). Com’è noto, i teorici del Capitalismo Cognitivo credono in miracoli di questo genere…
(4) «La concezione del guadagno d’imprenditore come salario di sorveglianza del lavoro […] trova ulteriore conferma […] nello stipendio del dirigente, in quei rami d’attività la cui estensione ecc. permette una divisione del lavoro sufficiente a consentire un particolare salario per un dirigente […] La produzione capitalistica stessa ha fatto sì che il lavoro di direzione, completamente distinto dalla proprietà di capitale, vada per conto suo. È diventato dunque inutile che questo lavoro di direzione venga esercitato dal capitalista» (Il Capitale, III, p. 453). Capi reparto e altre figure intermedie addette alla sorveglianza del lavoro completano la rognosa gerarchia che ha come suo terminale aguzzo lo sfruttamento del lavoro vivo.
(5) Vincenzo Comito, Tutto quel che (non) ci ha insegnato la crisi, Sbilanciamoci, 16 gennaio 2014.
Io riguardo alla doppia figura del capitalista operante e monetario (che sembrano saldati nella “partita doppia” dell’impresa), da economista libidinale, avevo immaginato una posizione di kamasutra impossibile in cui i partner erano legati schiena contro schiena. Non credo cioè nella capacità del Capitale di riunificare certe scissioni… alla cui base c’è comunque la soppressione “tantrica” di tipologie diverse di godimento “immediato” (c’è quello del capitalista operante cui piacerebbe violentare i lavoratori e quello del capitalista monetario cui piacerebbe violentare i capitalisti operanti, senza sudare troppo…). Certamente la forma monetaria, il valore feticizzato, nell’epoca del Dominio reale, sembra “riunificare” l’intera società (e, da robot quale è, violentare tutti più o meno uniformemente), ma credo che resti una colossale e globale illusione. Sarei più propenso a lasciare aperte le contraddizioni, anche quelle interne ai detentori di capitali. Lasciare che si facciano del male anche da soli. Che credano pure che i loro problemi derivino dalla stretta al credito e se la prendano con la finanza… un po’ come chi affoga e se la prende con l’acqua in cui nuota, affogando ancora più rapidamente. Certi disfunzionamenti a catena dovranno pur contribuire a produrre disaffezione (disinvestimenti libidici) dei rapporti sociali capitalistici in qualche modo… (il punto è che questi sembrano “magicamente” riformarsi… c’è qualcosa di bacato nella produzione dei soggetti, degli individui, scissi e mediati al loro stesso interno evidentemente, in quanto prodotti sociali, monete viventi, che riproducono quasi automaticamente – specie nel momento del periglio, vero o simulato – certi rapporti… ridotti a frammenti di cinema, di spot, se non memi, icone).
Comprendo certo il rischio del riemergere di forme reazionarie all’interno della borghesia in lotta contro se stessa, ma del resto se la borghesia non comincia a puzzare, ad essere disgustosa (tentando per esempio di glorificare il capitalista operante, il “piccolo imprenditore”, che per sopravvivere affoga anche i dipendenti che gli vengono in soccorso), resta più difficile prenderne in massa le distanze e contrapporvisi (accuratamente, in maniera complessa) in qualche modo…
….crede cioè «che alla base del sistema capitalistico di produzione il capitale produrrebbe interesse senza operare come capitale produttivo, ossia senza creare plusvalore, di cui l’interesse è solo una parte»
il mito dell’ autopoiesi è il segno distintivo di ogni potenza che si manifesta come inumana
bisogna ammettere che con il crescere smisurato del lavoro sociale astratto, e del tasso di composizione organica , che il garbuglio si è fatto intricatissimo e il plusvalore si è fatto “inafferrabile”
Quasi ineffabile, nell’accezione sacrale degli ebrei. Tuttavia, parafrasando quello, mi vien da dire: eppur si estorce!
dio ha cento nomi ma sono tutti oltre il divieto ?
…quando il sacrale occulta ed esprime rovesciandolo il sociale
Perfetto! Si tratta, forse, di sfidare lo scandalo e di nominare l’innominabile. Ma qui mi fermo, perché temo di non riuscire a padroneggiare adeguatamente la metafora (?) teologica. Come diceva Quella a Quello, Conosci te stesso! Ciao!
oggi la questione la trovo svolta in maniera più feconda nel simbiontico -o parassitario?- rapporto fra oggettività e reificazione