Secondo l’Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace [sic!] basato a Stoccolma (SIPRI), tra il 2009 e il 2013 il commercio internazionale delle armi convenzionali è salito del 14% rispetto al periodo 2004-2008. A guidare la classifica dei maggiori importatori è l’India (+ 119%), seguita da Cina e Pakistan. Principale fornitore di armi all’India è la Russia che conquista il 75%, seguita dagli Stati Uniti con appena il 7%, per la prima volta secondi nel mercato indiano. Gli Usa però occupano il 27% del mercato pakistano, supportato al 54% dalla Cina, che fornisce anche armi per l’82% al Bangladesh. Secondo il rapporto SIPRI (trends in international arms transfer) reso noto il 17 marzo, il protagonismo di Russia, Usa e Cina nell’Asia meridionale ha notevoli implicazioni economiche e politiche sulla regione in termini di influenza. La cosa appare di assai facile comprensione.
Nonostante la crisi della sua industria bellica nel dopo guerra fredda, la Russia ha esportato armi tra il 2009-2013 in 52 Stati. In crescita del 23% anche le importazioni di armi nei Paesi del Golfo, principale fornitore qui sono gli Usa con il 45% di esportazioni nell’area.
Ecco la classifica dei maggiori Paesi esportatori di armi (% del mercato mondiale): Stati Uniti d’America 29, Russia 27, Germania 7, Cina 6, Francia 5, Regno Unito 4, Italia 3.
I rapporti di forza vigenti nel mercato mondiale delle armi convenzionali sono dunque evidenti; Stati Uniti e Russia da soli si spartiscono il 56% di questo mercato. Tutti i maggiori produttori di armi valgono l’81% del mercato mondiale. C’è da dire che gli Usa arretrano di un punto percentuale rispetto al periodo 2004-2008 (dal 30 al 29%), mentre la Russia avanza di tre punti (dal 24 al 27%). Alla Russia va il primato delle consegne di navi: i cantieri russi hanno fornito il 27% di tecnologia e materiale navale del periodo 2009-2013, inclusa una portaerei finita all’India e l’unico sottomarino nucleare censito in questo periodo.
«Per avere un’idea di cosa significhi in soldoni il commercio mondiale di armi, bisogna risalire a un precedente report di Sipri, che indicava in 1.750 miliardi di dollari il valore delle spese militari globali, l’equivalente del 2,5% del Pil mondiale o grossomodo il valore di quello italiano» (La Repubblica, 19 marzo 2014).
Nel suo piccolo, per così dire, anche l’industria bellica italiana ha fatto registrare un progresso, perché la quota italiana del mercato mondiale è cresciuta di un punto (dal 2 al 3%). India, Emirati Arabi e Stati Uniti sono i «main clients» dell’industria della morte Made in Italy, il cui export vale intorno ai 2,8 miliardi di euro. «”Nonostante le lamentele, non pare proprio che il comparto militare italiano si trovi in una situazione problematica, soprattutto rispetto ad altri settori produttivi”, osserva il responsabile della Rete Disarmo, Francesco Vignarca. “Il problema è che le nostre armi continuano a finire nei luoghi più problematici del globo: siamo proprio convinti che in questo modo la nostra politica estera, cui l’export di armi è sottoposta per legge, contribuisca alla pace a livello internazionale?”» (da Il Fatto Quotidiano del 12 luglio 2013). Non so se in queste dichiarazioni, che vorrebbero essere critiche, alligni più ingenuità o più stupidità. Non so decidermi!
La «nostra» politica estera, come quella degli altri Paesi, è orientata a servire gli interessi del Capitalismo e dello Stato nazionale che questa potenza sociale esprime, e non certo per contribuire «alla pace a livello internazionale». Fomentare illusioni “pacifiste” nella testa della gente non ha mai rafforzato la battaglia antimilitarista, anzi l’ha sempre gravemente indebolita.
Scrive l’economista Tilman Brück introducendo il rapporto SIPRI Yearbook 2013: «Il ricorso alla forza fisica è, purtroppo, uno degli elementi chiave nel repertorio dei comportamenti umani. Benché l’uso intenzionale della forza o della violenza sia rilevante e persistente nelle relazioni umane, nelle condotte di gruppo e nelle azioni di stato, sorprende quanto rimanga ancora limitato il livello di conoscenza dell’argomento. Restano pertanto inadeguate molte delle politiche indirizzate alle azioni violente, potenziali o concrete».
Come si vede, «l’uso intenzionale della forza o della violenza» appare qui come una caratteristica antropologica che marchia la nostra esistenza, pubblica e privata, e non come il prodotto dei vigenti rapporti sociali capitalistici, i quali oggi hanno una dimensione mondiale. Dalla clava al missile intercontinentale a testata atomica, dalla tribù primitiva alla Metropoli Imperialista è tutta una maledetta storia di forza e di violenza. E allora, non è meglio prendere atto della realtà e cercare di rendere più razionale possibile il nostro rapporto con la violenza? La tesi quasi mi convince. Quasi. Manca un fiato, una virgola. Un’altra acuta riflessione di Tilman Brück e il gioco è fatto: anch’io mi convertirò alla Realpolitik. Non c’è altro da fare! Forse. Intanto termino con un’esorcistica citazione: «La ragione è ormai completamente aggiogata al processo sociale; unico criterio è diventato il suo valore strumentale, la sua funzione di mezzo per dominare gli uomini e la natura» (Max Horkheimer, Eclisse della ragione). È un invito all’irrazionalità? Non di certo. Vuole essere piuttosto un invito a mettere in questione la Realpolitik su basi critico-radicali, ossia ponendosi dal punto di vista umano.