SULLA CRIMEA E SUL MONDO

spalancano-porte-cremlino-244195Una lettrice del mio post È scoppiata una nuova guerra fredda? ha così commentato su Facebook: «La Crimea non ha mai fatto parte dell’Ucraina – prima di Krusciov che essendo di origini ucraine gliel’ha regalata». Approfitto del commento per chiarire, o comunque ribadire, in modo sintetico il mio punto di vista sulla scottante questione ucraina, in particolare, e sul processo sociale in generale.

Al netto delle tante considerazioni che si possono fare intorno al cosiddetto diritto di autodeterminazione dei popoli nell’epoca della sussunzione totalitaria del mondo al Capitale, tanto più quando tale diritto trova il tipo di implementazione che abbiamo avuto modo di osservare in Crimea (con la Russia che ne ha “vivamente caldeggiato”, per dir così, la secessione dall’Ucraina); al netto di questo il lettore deve prendere atto che, condivisibile o meno, il punto di vista che orienta tutte le mie riflessioni e tutte le mie posizioni politiche è radicato non sul principio di nazionalità, bensì su quello, diametralmente opposto al primo, di classe. A mio avviso, infatti, il principio di nazionalità è un principio che emana dagli odierni rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, mentre il principio di classe è ostile in modo irriducibile a questi rapporti sociali, e quindi si sforza di demistificare l’ideologia borghese che da sempre cerca di far primeggiare gli interessi nazionali sul conflitto di classe, secondo il noto adagio: «Siamo tutti figli della stessa Patria».

Il principio di nazionalità ebbe una sua funzione storicamente progressiva nell’epoca ascendente e rivoluzionaria della borghesia, quando anche il concetto di popolo appariva pregno di istanze antifeudali e anticoloniali, mentre a mio avviso oggi esso ha necessariamente ed esclusivamente un carattere ideologico e ultrareazionario. Su questo punto rimando alle più autorevoli parole di Lenin citate anche nel mio post 1914-2014. Naturalmente agli occhi di chi pensa che non si dia alcuna radicale alternativa alla vigente società-mondo (magari pensando alla miserabile fine del cosiddetto «socialismo reale»), e che dunque bisogna prendere atto con realismo di come va il mondo, salvo apportare ad esso le “migliorie” realisticamente praticabili (perché com’è noto «il meglio è nemico del bene»), il mio punto di vista deve necessariamente apparire quantomeno bizzarro.

Che le classi subalterne della Crimea preferiscano il bastone russo a quello ucraino, cosa che sono lungi dal contestare, ebbene questo fatto ai miei occhi mostra tutta la loro impotenza politica e sociale (che, detto en passant, esse condividono con le classi subalterne del mondo intero), e conferma la tesi marxiana secondo la quale l’ideologia dominante (non importa se “ispirata” da Kiev o da Mosca) è l’ideologia della classe dominante. Naturalmente questo vale anche per il proletariato ucraino che si batte contro la secessione della Crimea: impiccarsi all’albero di Kiev o a quello di Mosca? È l’alternativa del Dominio, che rimane tale anche quando si presenta sottoforma di «referendum popolare», anche quando a “sorvegliare” sulle democratiche operazioni di voto fosse Papa Francesco in persona, e non i cosacchi russi.

Mi rendo conto che questo modo di ragionare suona strano, ma non è sempre stato così. Ad esempio (correva l’anno 1914), quando i socialisti serbi si rifiutarono di votare i crediti di guerra richiesti da Belgrado per fronteggiare l’invasione austroungarica, e parimente spedirono al mittente l’«aiuto fraterno» offerto alla Serbia dallo zar Nicola di Russia in nome della comune appartenenza slava, essi di colpo diventarono l’orgoglio di tutti i marxisti rivoluzionari (naturalmente Lenin in testa), i quali in sfregio ai socialnazionalisti e «socialtraditori» della Seconda Internazionale li additarono al proletariato mondiale come l’esempio da seguire. Scriveva Rosa  Luxemburg nel 1916: «In realtà i serbi Lapscevic e kazlerovic non solo si sono iscritti a lettere d’oro nella storia del socialismo internazionale, ma hanno insieme dimostrato un’acuta visione storica delle reali implicazioni della guerra. […] Ad ogni modo, la Serbia  ufficialmente combatte una guerra di difesa nazionale. Ma la sua monarchia e le sue classi dirigenti, come le classi dirigenti di tutti gli Stati attuali, tendono all’espansione, senza curarsi dei confini nazionali, ed acquistano con ciò un carattere aggressivo. […] La Serbia stessa non è che una pedina nella grande partita a scacchi della politica mondiale ed un giudizio sulla guerra in Serbia che prescindesse da queste importanti connessioni, dal contesto della politica mondiale in generale non può essere che campato in aria» (La crisi della socialdemocrazia, 1916). Mutatis mutandis, questo schema interpretativo, che non è geopolitico in senso stretto ma squisitamente critico-rivoluzionario (perché orientato a mettere in discussione non lo status quo nell’equilibrio interimperialistico ma piuttosto lo status quo sociale), è applicabile alle crisi internazionali di oggi.

Per me lo straniero (l’Alieno) è già passato: si chiama Capitale.

Per me lo straniero (l’Alieno) è già passato: si chiama Capitale.

Quando i nazionalisti italici, precursori del fascismo, mietevano vasti e facili consensi popolari gridando l’irredente binomio Trento e Trieste!, l’ala sinistra del socialismo italiano non si peritò di esclamare, a rischio di carcere e patriottiche pistolettate, Abbasso Trento e Trieste! Altri tempi, si dirà. Non c’è dubbio. Difatti oggi c’è molto più Capitalismo/Imperialismo di ieri, ovunque nel mondo. Diciamo che è la coscienza di classe che lascia un po’ più – ma solo un po’, intendiamoci! – a desiderare. Diciamo. Riflettendo sul significato politico del referendum secessionista del Veneto, oggi il patriota Marcello Veneziani scrive sul Giornale che «la patria non si sfascia». Che peccato!

Scriveva Herman Gorter nell’autunno 1914: «Tutti gli Stati cercano piazze di smercio per i loro prodotti, cercano fonti di alti interessi pei loro capitali. L’imperialismo non vuole solo colonie, vuole anche sfere d’influenza per il commercio e un monopolio industriale finanziario. […] Tutte le chiacchiere dei partiti borghesi e socialisti e dei loro organi, che si fa una guerra di difesa, e che si è stati costretti a farla perché si era aggrediti, non sono che un inganno, destinato a nascondere la propria colpa sotto una bella apparenza. Dire che la Germania o la Prussia o l’Inghilterra è la causa della guerra sarebbe tanto stolido e falso, quanto l’affermare che la crepa nata in un vulcano è la causa dell’eruzione. Da anni ed anni tutti gli Stati europei si armavano per questo conflitto. Tutti vogliono soddisfare la propria rapace avidità. Tutti sono egualmente colpevoli» (Herman Gorter, L’imperialismo, la guerra mondiale e la socialdemocrazia). Tutti egualmente colpevoli, “aggressori” e “aggrediti”, perché tutti assoggettati alla Potenza sociale, anonima e dall’evidente «carattere aggressivo» (a tutti i livelli: dalla sfera economica, a quella politica, da quella culturale, a quella psicologica, ecc.), chiamata Capitale.

tritacarnePiù si rafforza la tendenza del Capitale a mettere ogni cosa e ciascuno nel tritacarne del processo economico-sociale chiamato a generare profitti, e più si rafforzano le spinte identitarie d’ogni tipo: politiche, culturali, linguistiche, religiose, etniche, razziali, sessuali, e quant’altro. È questa maligna dialettica che bisogna comprendere per evitare di finire intruppati sotto questa o quella bandiera ultrareazionaria, in questa o quella tifoseria nazionale o/e imperialista. Per quanto mi riguarda mi batto unicamente per l’identità dell’uomo in quanto uomo. Vasto programma? Non c’è dubbio. D’altra parte pensare in piccolo non ha avuto altro risultato che renderci piccoli, perfino ai nostri stessi occhi, con grande soddisfazione per i professionisti dell’anima e della psiche.