L’ENIGMA DEL CAPITALE (DI MARX)

David Harvey legge almeno da quattro lustri Il Capitale, ma a giudicare dalla sua ultima fatica letteraria continua a rimanergli, per l’essenziale, qualcosa di enigmatico.

«Il solito presuntuoso, ‘sto Nostromo! E per soprammercato non può esibire nemmeno uno straccio di titolo Accademico!»

Colpito, non c’è che dire.

Mettiamola così allora: il Professore della City University di New York ed io abbiamo due differenti opinioni intorno alla teoria «economica» di Marx e alla natura del processo economico-sociale. Da quale parte sta la ragione? Chi mostra di avere le carte in regola in fatto di «marxismo»? Per quanto riguarda la prima domanda, rispondo che tocca agli altri la poco ardua sentenza (può il profano competere con lo Scienziato? Secondo Freud sì, ma l’opinione pubblica non è stata mai freudiana). Sulla seconda, ebbene mi chiamo fuori, e siccome Harvey ci tiene molto a passare per «marxista-leninista» (anche a giudicare dai busti e dai ritratti di Marx e di Lenin che riempiono il suo meraviglioso studio), lascio di buon grado a lui il Certificato di Autenticità Marxista.

Ho appena finito di leggere L’enigma del capitale. Un libro interessante e stimolante, senza dubbio; ma che non contiene nulla di nuovo, niente che non sia stato detto dai detrattori del «liberismo selvaggio» negli ultimi venti anni. Il saggio dell’Inglese si caratterizza, semmai, per un sovrappiù di ideologia «neocomunista» che sembra trovare molti favori tra gli ex stalinisti e maoisti, alla ricerca di nuove «soluzioni anticapitalistiche». Un motivo in più per stare in allerta, con la mano pronta a impugnare la metaforica pistola.

Qui di seguito intendo criticare solo due punti, peraltro fondamentali, del libro.

Vediamo il primo, relativo al cosiddetto «flusso di capitale», inteso come generatore di ricchezza sociale, dalla cui interruzione deriverebbe, «in ultima analisi», la crisi economica che dalla fine del 2007 imperversa nei paesi a capitalismo avanzato. Scrive Harvey: «Se volessimo fornire una visione sinottica dell’attuale crisi, potremmo dire che il suo epicentro si trova nelle forme tecnologiche e organizzative del sistema creditizio e nel connubio Stato-finanza; e tuttavia, il vero problema di fondo consiste nell’eccessivo potere del capitale rispetto al lavoro e nella conseguente compressione dei salari. Questo, infatti, pone un problema di debolezza della domanda effettiva, che viene celato da un consumismo alimentato dal credito e spinto fino all’eccesso in una parte del mondo» (L’Enigma del Capitale, p. 126, Feltrinelli, 2011).

Un punto di vista schiettamente – e dichiaratamente – sottoconsumista, non c’è che dire. Niente di male: nessuno è perfetto (non lo era Rosa Luxemburg e non lo è soprattutto chi scrive!). Faccio solo rilevare che per il Capitale il proprio potere di dominio e di sfruttamento sul lavoro salariato non è mai eccessivo, mentre è vero il contrario, e difatti esso non si stanca un minuto di cercare soluzioni tecnologiche e organizzative idonee a saziare questa cieca smania di potere, che rappresenta poi da sempre una sua vitale necessità. Continuo la critica citando da un mio scritto del 2008 sulla crisi economica (È il capitalismo, bellezza! Notare che ho scritto capitalismo, non «liberismo selvaggio» e aggettivazioni analoghe, molto di moda presso l’intelligenza «altermondista». Capitalismo tout court).

Diversi economisti mettono in relazione la scarsa capacità di consumo delle masse con la crisi economica (teoria sottoconsumista). Coloro che invocano un generalizzato rialzo dei salari come mezzo per espandere la domanda, e per questa «virtuosa» e «politicamente corretta» via superare la «bassa congiuntura», evidentemente non sanno che per il capitale industriale il problema non è in primo luogo vendere le proprie merci, ma soprattutto venderle con profitto, con un profitto che giustifichi largamente il suo sforzo d’impresa. Se la produzione cessa di essere profittevole per il capitale, non c’è «capacità di spesa» che tenga, ed esso preferisce di gran lunga mandare in malora le merci già prodotte e il macchinario che le ha prodotte, piuttosto che continuare a sfornare merci esangui, anemiche di plusvalore. Si tratta di quella svalorizzazione o «distruzione di capitale» che secondo Marx, alla fine, contribuisce in modo essenziale al ristabilimento delle condizioni di profittabilità. L’anoressia del saggio di profitto, non del mero flusso di liquidità, è la chiave del «fenomeno-crisi», e scambiare la causa con l’effetto – il quale ovviamente agisce a sua volta come concausa interagendo su altri fattori e momenti del ciclo economico allargato – è tipico dell’economia «volgare».

La ristretta capacità di consumo delle masse operaie in rapporto alle straordinarie capacità produttive del capitalismo è un dato naturale e permanente, non è qualcosa che si realizza a un dato momento del ciclo economico provocandone la crisi. Se quella contraddizione fosse, «in sé e per sé», la causa della crisi economica, non si avrebbe mai alcuna espansione del ciclo, mai alcuna accumulazione, e la crisi sarebbe il dato «strutturale» del vigente modo di produzione. Il che evidentemente non è, non può essere. Solo a date condizioni, come abbiamo visto sopra, quella necessaria «disarmonia» tra consumo e produzione diventa patologica. «È pura tautologia dire che le crisi provengono dalla mancanza di un consumo in grado di pagare o di consumatori in grado di pagare… Il fatto che merci siano invendibili non significa altro se non che non si sono trovati per esse dei compratori in grado di pagare, cioè consumatori. Ma se a questa tautologia si vuol dare una parvenza di maggior approfondimento col dire che la classe operaia riceve una parte troppo piccola del proprio prodotto, e che al male si porrebbe quindi rimedio quando essa ne ricevesse una parte più grande, e di conseguenza crescesse il suo salario, c’è da osservare soltanto che le crisi vengono sempre preparate appunto da un periodo in cui il salario in generale cresce e la classe operaia realiter riceve una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinato al suo consumo. Al contrario, quel periodo – dal punto di vista di questi cavalieri del sano e “semplice” buon senso – dovrebbe allontanare la crisi. Sembra quindi che la produzione capitalistica comprenda delle condizioni indipendenti dalla buona o cattiva volontà, che solo momentaneamente consentono quella relativa prosperità della classe operaia, e sempre soltanto come procellaria di una crisi» (Marx, Il Capitale, II). Marx fa notare come nei momenti di prosperità «non cresce soltanto il consumo dei mezzi necessari di sussistenza; la classe operaia (in cui è entrato ora attivamente il suo intero esercito di riserva) partecipa anche momentaneamente al consumo di articoli di lusso, che in generale le sono inaccessibili». E tuttavia, a un certo punto del ciclo economico, e con una necessità che toglie il respiro ai professionisti della Scienza Economica, subentra la crisi.

La sovrapproduzione di merci non è la causa della crisi, ma ne è piuttosto la fenomenologia più appariscente, se così posso esprimermi, quella che più colpisce l’occhio dell’economista e del – potenziale – consumatore, e che per questo si presta molto bene a recitare la parte della Causa Ultima. La sovrapproduzione non è mai assoluta, ma sempre relativa: e precisamente relativa al livello del saggio del profitto, la cui salute non coincide notoriamente con gli interessi dei lavoratori, ossia col livello dei loro salari e con le loro condizioni di lavoro – sempre più scosse dall’imperativo categorico della produttività. Ecco perché il capitale finanziario che cerca di allargare la sfera del consumo fino al parossismo, lungi dal rappresentare una sorta di anomalia nell’ambito stesso del capitalismo, ne costituisce all’opposto un momento naturale, come aveva capito Marx analizzando il momento genetico del Capitale Finanziario attraverso le rivoluzioni tecnologiche che gli si dipanavano sotto gli occhi (vedi il capitolo quindicesimo, II, sul «tempo di rotazione del Capitale»). La crisi economica mostra in modo evidente – certo, a chi ha coscienza critico-radicale per capire – come la catastrofe che si realizza nella sfera della circolazione, che la prospettiva (tutta capitalistica!) del profitto obeso e di facili costumi ha trasformato in una sorta di Las Vegas planetaria, ha, «in ultima analisi», molto a che fare con il processo che crea plusvalore attraverso l’uso sempre più intensivo (razionale, scientifico) della capacità lavorativa che sforna merci a getto continuo. Il circolo del profitto (in ogni sfera dell’economia) rimane virtuoso fino a quando rimane in salute il saggio di profitto basato sul caro e vecchio sfruttamento dei salariati. È, questo, il solo limite invalicabile che conosce il Capitale, anche nel XXI secolo.

Veniamo, assai rapidamente, al secondo punto critico. Molte intelligenze e molte speranze sono rimaste impigliate nello scoglio del «socialismo reale», vuoi per infrangervisi contro e naufragare nelle fetide acque dello stalinismo internazionale (il PC di Togliatti ne fu la sezione italiana), ovvero per impaludarsi nell’altrettanto poco allettante – almeno per chi scrive – mito del capitalismo come il migliore dei mondi possibili. Occorre doppiare lo scoglio e liberare lo sguardo.

Il libro di Harvey conferma come questo compito sia tutt’altro che anacronistico. Scrive il «marxista-leninista» quotato assai bene alla Borsa valori del Pensiero Scientifico Mondiale: «Molti sognano da tempo che si possa definire e pervenire razionalmente a un’alternativa alla (ir)razionalità del capitalismo, incanalando le passioni umane verso il perseguimento collettivo di una vita migliore per tutti. Queste alternative – chiamate storicamente socialismo e comunismo – sono state sperimentate in diversi tempi e in diversi luoghi. Negli anni trenta questi ideali, nelle loro diverse declinazioni, rappresentavano un faro di speranza, ma recentemente hanno perso tutto il loro lustro e sono stati accantonati; e questo non soltanto perché gli esperimenti storici del comunismo non hanno tenuto fede alle promesse dei regimi comunisti e si sono dimostrati inclini a coprire i propri fallimenti con la repressione, ma anche perché i loro presupposti nella natura umana e sulla potenziale perfettibilità della personalità e delle istituzioni umane si sono rivelati apparentemente infondati» masse» (L’Enigma, p. 226).

Da almeno trent’anni mi sforzo di dimostrare (che parola grossa!) come non si possa parlare di fallimento degli «esperimenti storici del comunismo» semplicemente perché ciò che è passato alla storia come «socialismo reale» non solo non aveva nulla a che fare con «l’utopia marxiana», ma ne era piuttosto l’esatta negazione (si trattava, in Russia e in Cina, di un capitalismo di Stato assai aggressivo sul piano della contesa imperialistica mondiale). Ecco perché quando Harvey parla di «strategia rivoluzionaria di grande respiro», di «Partito dell’indignazione [ahi!] e dello sdegno morale [ahi, ahi!] per l’economia dell’espropriazione», e scrive che «Bisogna evitare di ripetere gli errori commessi in passato nella costruzione del socialismo e del comunismo», non posso fare a meno di estrarre la pistola (della critica, maresciallo: trattasi di metafora) dal fodero e sparare. Per adesso in aria, domani si vedrà.

2 pensieri su “L’ENIGMA DEL CAPITALE (DI MARX)

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