NON C’È PACE SENZA GIUSTIZIA. NON C’È GIUSTIZIA SENZA UMANITÀ. NON C’È UMANITÀ NELLA SOCIETÀ CLASSISTA

Si deve costruire un mondo migliore e l’unico modo
in cui lo si costruirà sarà con metodi estremi. Quanto
a me, mi unirò a chiunque, non mi interessa di quale
colore sia, purché voglia cambiare la miserabile
condizione di questa terra (Malcolm X, 1964).

Chiunque parli in favore della pace senza esporre
con precisione le condizioni di questa pace non può
andare esente dal sospetto di parlare soltanto del
genere di pace che torni ad esclusivo vantaggio suo
e del suo gruppo, il che non appare certo azione di
merito (W. Heisenberg, 1958).

 

Diversi lettori del Blog mi hanno chiesto di spiegare il senso della locuzione «punto di vista umano» che compare sulla sua testata. Provo a farlo con piacere prendendo spunto da una dichiarazione di Bernice Albertine King, la figlia minore di Martin Luther King, rilasciata ai media italiani qualche giorno fa.

Cito dall’Avvenire: «Ora più che mai, credo che mio padre incoraggerebbe l’umanità sulla strada dell’unione, dell’armonia del sostegno verso il prossimo, percorrendo la strada della nonviolenza. Essa non cerca una falsa pace che accetta l’ingiustizia, ma una pace vera; come diceva mio padre: “La vera pace non è una mera assenza di tensioni; la pace vera è la presenza della giustizia”. Se rimaniamo nella morsa del nazionalismo, del conflitto di classe, del razzismo, continueremo ad essere disumanizzati e distrutti dalla povertà, dal genocidio, dalla schiavitù e dalla guerra». Che dire? Provo ad articolare una breve riflessione.

« La vera pace non è una mera assenza di tensioni (se ricordo bene Martin Luther King parlava di conflitti); la pace vera è la presenza della giustizia»: questo  mi sembra un concetto di grande pregnanza sociale e ideale che personalmente ho sempre “declinato” nei termini classisti e anticapitalistici che mi derivano da una particolare (la “mia”!) interpretazione del discorso marxiano.

Non c’è pace senza giustizia! Imporre la “pace” là dove manca la giustizia significa difendere uno status quo illiberale, violento e disumano. Detto altrimenti, non c’è pace senza umanità. La pace sociale nel contesto della comunità divisa in classi è una pretesa che da sempre le classi dominanti legittimano ideologicamente e impongono materialmente ai dominati. Non c’è Stato, democratico o autoritario che sia, che non operi affinché nella comunità regni la “pace” e l’”armonia” fra i cittadini, nonché  fra questi e i loro amministratori politici. Chi in qualche modo, anche senza volerlo e suo malgrado, turba la “pace sociale” è considerato dal Leviatano come un personaggio meritevole della sua tutt’altro che benevole attenzione indirizzata a preservare la «serena convivenza degli onesti e laboriosi cittadini». Storicamente, il carcere e il manicomio sono sorti sulla base di questa fondamentale esigenza d’ordine che sorge spontaneamente sulle maligne fondamenta della società classista.

Può la giustizia regnare in una società che conosce la divisione classista degli individui? Per come la vedo io, la cosa è assolutamente impossibile, e ciò prescinde dalla stessa volontà dei politici che di volta in volta ci amministrano. Come suggerivo prima, è la società classista “in sé”, in quanto tale che genera sempre di nuovo sfruttamento (anche della natura), disumanizzazione, razzismo, nazionalismo (oggi anche in chiave sovranista), povertà (materiale ed esistenziale), guerre, schiavitù (salariale ed esistenziale), genocidi, pregiudizi d’ogni sorta e quant’altro. Di più: lo sfruttamento dell’uomo e della natura costituisce il presupposto fondamentale della società capitalistica, la quale si serve soprattutto della tecno-scienza per rendere più razionale ed efficace la pratica intesa a creare profitti dal lavoro umano e dalla trasformazione (o saccheggio) delle risorse naturali. Eppure, la stessa tecno-scienza ci suggerisce la possibilità di un assetto davvero umano del mondo; tuttavia, come scrisse una volta Simone Weil «Noi non abbiamo da sperare nessuna felicità dallo sviluppo della tecnica, finché non sapremo impedire agli uomini di usare la tecnica per dominare i propri simili invece che la natura» (*).

Certo, la nostra società genera anche il «conflitto di classe», ma ciò per un verso è qualcosa che si sviluppa, appunto, necessariamente sul fondamento dell’ingiustizia sociale oggi creata dai rapporti sociali capitalistici; e per altro verso esso è il solo fenomeno che sotto peculiari circostanze potrebbe mettere in moto un processo di eccezionale (rivoluzionaria) portata in grado di portarci fuori dal regno dell’ingiustizia, ossia nella Comunità che non conosce la divisione classista degli uomini, né alcun altro genere di divisione formalizzata, cristallizzata, istituzionalizzata – quella, ad esempio, basata sulla professione o da ogni altra inclinazione personale. L’utopia cessa di essere tale nell’esatto momento in cui gli uomini decidono di realizzarla.

Ecco perché è sbagliato, dal mio punto di vista, mettere il «conflitto di classe» sullo stesso piano del nazionalismo, del razzismo, della xenofobia e quant’altro. È proprio di quel tipo di conflitto che le classi subalterne avrebbero invece bisogno come il pane per sbarazzarsi di ogni maledetta idea ultrareazionaria radicata nella disumana condizione sociale che peraltro riguarda, a diverso titolo e a diversi gradi, tutti gli individui, in modo “trasversale”, come s’usa dire oggi. Ma questa trasversalità esistenziale non deve farci perdere di vista l’essenziale, vale a dire l’esistenza delle classi sociali, con tutto quello che ciò presuppone e pone sempre di nuovo con una necessità che non va misconosciuta ma spezzata, radicalmente.

Va da sé che nella mia “declinazione” «conflitto di classe» sta per lotta di classe, la quale non ha nulla a che fare, ad esempio, con la guerra tra i poveri che dilaga come la peste nei piani bassi e bassissimi dell’edificio sociale, né ha a che vedere con la cieca invidia sociale che straripa sui cosiddetti “social”, anche se solo le anime belle possono scandalizzarsi osservando l’abisso di miseria esistenziale che vi fa capolino. Oggi insomma il conflitto sociale si dà come guerra sistemica che il Capitale, considerato in ogni sua fenomenologia («Il Capitale è un rapporto sociale»), conduce contro le classi subalterne in particolare, e contro l’umanità in generale. Dico di più: è l’assenza del «conflitto di classe» che incattivisce in modo distruttivo e autodistruttivo chi oggi vive il disagio sociale in modo più diretto e violento: amico, non somatizzare, lotta!

E qui mi viene in mente la battuta morettiana che, se ricordo bene, si trova nel film Caro diario (1993): «Caro Moretti, la sua malattia è psicosomatica. In altri termini, tutto dipende da lei». Moretti: «Se dipende da me, allora non c’è proprio speranza». In effetti, se aspettiamo che qualcuno venga da chissà dove a salvarci, siamo fottuti in partenza. E infatti siamo già fottuti, senza se e senza ma. Fino a prova contraria, si capisce. I Megarici, sulla scorta del grande Parmenide, dicevano: «Ciò che è possibile si realizza, ciò che non si realizza non è possibile». Sta all’uomo, a cominciare da chi non si sente in armonia con i tempi, decidere come risolvere il problema che ruota intorno alla dialettica di realtà (Dominio) e possibilità (Liberazione). L’attuale tragedia può anche avere un esito liberatorio. Ma, appunto, può, è data solo la possibilità.

In conclusione e riepilogando: la strada dell’unione, dell’armonia e della nonviolenza di cui parla Bernice Albertine King a mio avviso non può essere realizzata nella società che genera la massima disunione, la massima disarmonia e la massima violenza – fisica, psicologica, “biopolitica”. Farsi delle illusioni su questa società radicalmente disumana impedisce al pensiero che non vuole adeguarsi alla cattiva realtà di uscire dal cerchio stregato del “male minore” e incominciare a camminare sul terreno, certo ignoto, certo difficile e pericoloso, delle possibilità più splendide e ardite. L’umanità non ha certo bisogno di “sano realismo”.

Commentando entusiasticamente la recente (e pare sensazionale) scoperta circa il momento in cui le prime stelle iniziarono a formarsi e a inondare di luce l’Universo (pare 180 milioni dopo il Big Bang), Peter Kurczynski, Program Director della National Science Foundation del Governo degli Stati Uniti, ha conclusola la sua apologetica esaltazione della Scienza con le seguenti poetiche parole: «Siamo nel bel mezzo di un uragano e abbiamo sentito il battito d’ali di un colibrì». Che precisione! Ecco, fra tanta accuratezza e potenza tecno-scientifica e immersi come siamo nel più prosaico ma a noi assai più prossimo e cogente uragano chiamato processo sociale, non riusciamo neanche a immaginare il battito d’ali di «un’umanità socialmente sviluppata» (Marx), di «un’umanità al suo livello più alto» (Schopenhauer). No, vedere la fotografia di Dio (o chi per Lui) nell’attimo in cui creò l’Universo (almeno quello oggi conosciuto: anche la Creazione deve fare i conti con la Relatività speciale e la Teoria quantistica!) non mi dà alcuna gioia.

Sull’uso della violenza nella lotta politica rinvio al post Mezzi e fini considerati dal punto di vista umano.

(*) S. Weil, Riflessioni a proposito della teoria dei “quanta”, in Sulla scienza, p. 171, Borla editori, 1971.

Un pensiero su “NON C’È PACE SENZA GIUSTIZIA. NON C’È GIUSTIZIA SENZA UMANITÀ. NON C’È UMANITÀ NELLA SOCIETÀ CLASSISTA

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