SUL PERONISMO DI PAPA FRANCESCO

peronismo-revolucionarioHo letto il breve saggio dello storico Loris Zanatta, pubblicato dalla Rivista il Mulino (2/16), dedicato al Santissimo Padre, icona vivente del progressismo mondiale (da Sanders a Corbyn, per non parlare di Bertinotti: «La rivoluzione la fa il papa»*) e bestia nera dei cattolici integralisti (vedi Antonio Socci) e degli atei devoti (vedi il solito Giuliano Ferrara). Un papa peronista? è il titolo del saggio, il quale invita il lettore a rispondere con un perentorio «sì» a quella domanda tutt’altro che provocatoria. 

La punta della critica di Zanatta, il cui ultimo libro s’intitola La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio (Laterza, 2014), è rivolta appunto contro ciò che egli considera un anticapitalismo in salsa peronista, lo stesso “anticapitalismo” che tanto successo sta riscuotendo in una non piccola fetta della cosiddetta “sinistra anticapitalista”. In questo caso potremmo forse parlare di atei devoti e in adorazione. L’articolo in questione, di cui offro un’ampia sintesi, è interessante soprattutto perché aiuta a comprendere meglio il fenomeno politico e sociale rubricato solitamente come Populismo, la cui matrice ideologica ha solidi agganci tanto nel patrimonio ideale e politico di “destra” (fascismo e nazismo, in primo luogo) quanto in quello di “sinistra” (in primis in quello che Zanatta chiama «comunismo» e che personalmente, e di certo assai più modestamente, trovo più corretto chiamare stalinismo, inteso come un anticomunismo allo stato puro mascherato e veicolato attraverso una fraseologia pseudo comunista). A ben vedere, l’autore offre anche una buona chiave di lettura per interpretare molti tic psicologici e molti pregiudizi ideologici tipici degli “anticapitalisti” che militano a “sinistra”. La precisazione “politico-topologica” va fatta perché anche nell’estrema destra prospera una forte retorica “anticapitalista”**.

Inutile dire che chi scrive non condivide neanche un po’ l’impianto politico-ideologico che sorregge l’interessante critica che Zanatta muove al peronismo francescano: la pretesa superiorità della democrazia liberale su ogni forma di autoritarismo basato sul dirigismo statale; la superiorità del «metro laico e disincantato» che invita a ricercare un «approccio pragmatico» ai problemi del mondo rispetto alla «visione manichea del mondo tipica del populismo», la quale orienterebbe il pensiero verso una concezione apocalittica che rappresenta il fertile terreno su cui attecchiscono le pericolose «utopie redentive»: vedi appunto i fascismi e i “comunismi” del XX secolo.

Scrive Zanatta: «Non sarà eccessiva l’ostilità del papa per il mercato? Il più intrigante nodo del pensiero sociale di Francesco ci riporta però alla sua riflessione sui poveri, intesi come categoria sociologica, e sul Povero, inteso in senso spirituale. Il dilemma è presto detto: da un lato, il papa lancia strali contro l’ingiusto sistema economico, causa della diffusa povertà nel mondo; dall’altro lato, però, indica nel Povero la quintessenza delle virtù da preservare. Francesco sottoscriverebbe la famosa frase di Olof Palme: il nostro nemico non è la ricchezza, ma la povertà? O dinanzi al rischio che con la povertà svaniscano le virtù cristiane del Povero, prediligerebbe un mondo di poveri? Così farebbe pensare la sua esplicita vena pauperistica. Non è chiaro: Bergoglio forse pensa, come Fidel Castro, che quando la ricchezza “comincia a corrompere, a contaminare” il popolo, allora c’è qualcosa di “più potente del denaro” da preservare, “e si chiama coscienza”. Peccato che ciò presupponga l’esistenza di uno Stato etico che si arroghi il diritto di plasmare la “coscienza” del popolo e di stabilire ciò che è bene e ciò che è male per esso». Tutto questo presuppone soprattutto, almeno per come la vedo io, un modo di pensare la ricchezza, la povertà, la politica e la “coscienza” (sic!) che rimane confinato ben dentro lo status quo sociale, non importa se approcciato e “declinato” in termini liberaldemocratici o statalisti/populisti. Il mio nemico è la ricchezza nella sua odierna configurazione storico-sociale, è quel Capitalismo che il socialdemocratico Olof Palme si “illudeva” di poter sfruttare a vantaggio dei poveri («la pecora capitalistica va ingrassata e tosata, non macellata!») e che il Papa Peronista desidera condurre sulla retta via della moderazione («il profitto non deve superare certi ragionevoli limiti») e dell’umanesimo («l’economia deve servire l’uomo, non l’uomo deve servire l’economia»). Non penso che lo stesso Zanatta si rifiuterebbe di sottoscrivere subito e di buon grado quest’ultima “umanissima” perorazione. Ecco perché a questo punto della breve presentazione un altro bel sic! sparato contro i critici e contro gli adulatori del Santo Padre non sfigurerebbe. Almeno credo. In ogni caso, buona lettura!

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Da non credente, mi impressiona vedere le sberle che volano nella Chiesa; da storico provo disagio al rivedere nelle trincee gli eserciti che si batterono al Concilio: il mondo è così cambiato, da allora! Da studioso ventennale della Chiesa argentina trasecolo vedendo la figura di papa Francesco tirata di qua e di là. Credo perciò utile riflettervi partendo da dove proviene: il cattolicesimo argentino. E farlo da lontano, schivando le dispute che agitano la Chiesa. Senza pretesa di insegnare nulla: solo di segnalare il contesto storico e culturale entro cui si colloca la parabola di Bergoglio.  Prima, due premesse. Una riguarda la celebre etichetta di papa peronista che dal primo momento Bergoglio si porta addosso. Molti ci hanno scherzato, pochi si sono sforzati di capirla. Sarà che del peronismo si hanno da noi nozioni vaghe, che si pensa sia fenomeno esotico di luoghi remoti. A torto: poiché il peronismo è il più tipico caso di populismo latinoamericano e il populismo è nostro pane quotidiano, faremmo bene a prenderlo sul serio. Bergoglio è peronista? Assolutamente sì. Ma non perché vi aderì in gioventù. Lo è nel senso che il peronismo è il movimento che sancì il trionfo dell’Argentina cattolica su quella liberale, che salvò i valori cristiani del popolo dal cosmopolitismo delle élite. Il peronismo incarna perciò per Bergoglio la salutare coniugazione tra popolo e nazione a difesa di un ordine temporale basato sui valori cristiani e immune da quelli liberali. Bergoglio, in breve, è figlio di una cattolicità imbevuta di antiliberalismo viscerale, erettasi, attraverso il peronismo, a guida della crociata cattolica contro il liberalismo protestante, il cui ethos si proietta come un’ombra coloniale sull’identità cattolica dell’America Latina.

Ma allora Bergoglio è populista? Assolutamente sì, purché tale concetto sia inteso a dovere. Che si chiami peronismo o in altro modo, i tratti ideali del populismo antiliberale sono sempre gli stessi. Difatti il populismo del papa non ha nulla di originale, salvo la proiezione globale che la sua carica gli conferisce. […]

1737565La nozione di pueblo è l’architrave del suo immaginario sociale. Non c’è niente di male: pueblo è una bella parola, potente ed evocativa. Ma anche scivolosa e ambigua. Qual è l’idea di pueblo di Francesco? Il suo popolo è buono, virtuoso e la povertà gli conferisce un’innata superiorità morale. È nei quartieri popolari, dice il papa, che si conservano saggezza, solidarietà, valori del Vangelo. Lì sta la società cristiana, il deposito della fede. Di più: quel pueblo non è per lui una somma di individui, ma una comunità che li trascende, un organismo vivente animato da una fede antica, naturale, dove l’individuo si scioglie nel Tutto. Come tale, quel pueblo è il Popolo Eletto che custodisce un’identità in pericolo. Non a caso l’identità è l’altro pilastro del populismo di Bergoglio: un’identità eterna e impermeabile al divenire della storia, di cui il pueblo ha l’esclusiva; un’identità cui ogni istituzione o Costituzione umana deve piegarsi per non perdere la legittimità che le conferisce il pueblo.

Va da sé che tale nozione romantica di pueblo sia discutibile e che altrettanto lo sia la superiorità morale del povero. Non ci vuole un antropologo per sapere che le comunità popolari hanno, come ogni comunità, vizi e virtù. E lo riconosce, contraddicendosi, lo stesso Pontefice, quando stabilisce un nesso di causa ed effetto tra povertà e terrorismo fondamentalista; un nesso peraltro improbabile. Ma idealizzare il pueblo aiuta a semplificare la complessità del mondo, cosa in cui i populismi non hanno rivali. Il confine tra Bene e Male apparirà allora così diafano, da sprigionare l’enorme forza insita in ogni cosmologia manichea. Ecco così il papa contrapporre il pueblo buono e solidale a una oligarchia predatrice ed egoista. Un’oligarchia trasfigurata, priva di volto e nome, essenza del Male come cultrice pagana del Dio denaro: il consumo è consumismo, l’individuo egoista, l’attenzione al denaro adorazione senz’anima. Tale è il nemico del pueblo per Bergoglio; sì, nemico, come un tempo definiva la «razionalità illuminista», la «pretesa liberale» di omogeneizzare il creato.

Qual è il peggior danno arrecato da tale oligarchia? La corruzione del pueblo. L’oligarchia ne mina le virtù, l’omogeneità, la spontanea religiosità, come un Diavolo tentatore. Viste così, le crociate di Bergoglio contro di essa, per quanto emulino il linguaggio della critica postcoloniale, sono eredi della crociata antiliberale che i cattolici integralisti conducono da un paio di secoli in qua. Cosa per nulla strana: l’antiliberalismo cattolico che sul piano secolare simpatizzò per le ideologie antiliberali di turno, fascismo e comunismo in primis, è naturale abbracci oggi con ardore la vulgata no global. Certo, v’è nella storia del cattolicesimo una robusta tradizione cattolico-liberale, votata alla laicità politica, ai diritti dell’individuo, alla libertà economica e civile. Ma non è tale la famiglia che vide crescere Francesco. Se il Sacro Collegio avesse eletto un papa cileno, chissà, forse avrebbe pescato in quell’universo culturale. Ma la Chiesa argentina è la tomba dei cattolici liberali, uccisi dall’onda nazionalpopolare. È fondata la visione populista del mondo di Bergoglio? Sarà efficace per ridare alla Chiesa e al suo messaggio la rilevanza perduta? Per resistere alla progressiva secolarizzazione del mondo? Non è detto. […]

Su tale idea di pueblo poggiano gli altri pezzi del populismo di Francesco. L’idea, in primo luogo, che la democrazia sia un concetto sociale, solamente sociale. E che democratico sia perciò l’ordine che rispetti il Vangelo realizzando la Giustizia Sociale: ammesso che esista. In tal caso, la forma del regime politico è secondaria: un’autocrazia popolare che distribuisca la ricchezza e sia rispettosa della religiosità del pueblo sarà senz’altro una democrazia; quand’anche dovesse esagerare nel porre sotto controllo media, tribunali, Parlamento, finanze pubbliche e così via. La dimensione politica e istituzionale della democrazia, il delicato equilibrio di poteri dello Stato di diritto, la tutela giuridica delle libertà individuali non sono temi cui Bergoglio sia mai stato molto sensibile. Le rare volte che ne tratta, suole riproporre l’antico distinguo tra democrazia formale e sostanziale. Eppure proprio la violenta storia latinoamericana dovrebbe avere insegnato che la forma, in democrazia, è sostanza. In quanto alle «democrazie partecipative» latinoamericane dei nostri tempi, sono ennesime riedizioni del più retrivo patrimonialismo di Stato, con corollario di abusi clientelari, autoritarismo politico, disastro economico. Il dramma venezuelano sta lì a ricordarlo. […]

A proposito di Cuba, un viaggio che meriterebbe un capitolo a sé, taluni passaggi spiccano. Il primo è il discorso di Bergoglio ai giovani cubani. Non solo non vi è cenno a libertà e democrazia, ma il papa li ha allertati: attenti al consumismo, ha detto a chi a malapena sa che cos’è il consumo; guardatevi dall’individualismo, ha ammonito dove l’individuo è costretto a pregare ciò che impone lo Stato, pena la galera. Parrebbero scherzi da prete, se non rispondessero alla sua idea di pueblo: sa bene che il castrismo è figlio legittimo della tradizione populista; che il comunismo di Castro è una deviazione secolare dal messaggio evangelico, fenomeno diffuso in tutta la cattolicità latina. Difatti, ciò che dice il papa ricorda i lunghi discorsi in cui Fidel Castro illustrò la trasformazione di Cuba in riduzione gesuitica dei nostri tempi. Ciò che preme a Bergoglio è tenere Cuba nell’ovile populista, evitando che il pueblo perda la religiosità che quel regime così austero ha preservato, benché sotto altro nome. L’imperativo non è liberarlo, ma salvarlo dalle sirene capitaliste, dal contagio liberale. […]

Non sorprende, a questo punto, che Francesco ripeta spesso uno dei suoi mantra più cari: il Tutto è superiore alla Parte. È un modo di dire che il pueblo, entità mitica e divina, trascende l’individuo. Ancor meno sorprende che tale condanna dell’individualismo sia storicamente servita a legittimare numerose tirannie esercitate in nome del pueblo, dedite a sacrificare i diritti individuali sull’altare di una giustizia sociale di cui non s’è mai vista traccia: peronismi, castrismi, chavismi e compagnia.

È un altro passaggio dei viaggi pontifici a illustrare tale punto: in Africa, almeno due volte il papa ha avallato la subordinazione della parte al tutto, dell’individuo al pueblo, dei diritti di una minoranza alla supposta identità del popolo. Il primo in Uganda, dove Francesco non ha dato voce né udienza ai gay, minacciati di ergastolo per il «delitto» di omosessualità; misura per fortuna abrogata dalla Corte costituzionale. In ottica populista, il riconoscimento dei diritti omosessuali è tipico esempio di colonialismo ideologico, di contagio della sana religiosità del pueblo africano con le ubbie immorali del decadente occidente. In termini simili Bergoglio aveva accolto il matrimonio gay in Argentina.

Ci sono poi le stupefacenti considerazioni di Francesco sull’Aids. A un giornalista tedesco, che gli chiedeva se non varrebbe la pena che la Chiesa cambiasse posizione sul profilattico, Bergoglio ha risposto: «Il problema è più grande. La malnutrizione, lo sfruttamento delle persone, il lavoro schiavo, la mancanza di acqua potabile: questi sono i problemi. Non chiediamoci se si può usare tale o talaltro cerotto per una piccola ferita. La grande ferita è l’ingiustizia sociale». Benché l’Aids interessi milioni di individui, non è che una «piccola ferita» rispetto al titanico compito di restaurare l’impero della giustizia nel mondo. C’è un’umanità da salvare: come perdersi dietro a individui che probabilmente hanno peccato?

Se tale è il prisma ideale attraverso cui il papa interpreta il mondo, ha buon gioco chi ne fa notare la vena apocalittica, la cui altra, inevitabile faccia è la vena redentiva. È uno snodo chiave, poiché il binomio apocalissi / redenzione è l’anima della visione manichea del mondo tipica del populismo; una visione ostile agli approcci pragmatici ai problemi del mondo, in cui Francesco vede in agguato l’impero «tecnocratico» che tutti ci domina. Che dire della vena apocalittica del papa? Francesco ha ragione da vendere quando denuncia le disuguaglianze, le ingiustizie, le nuove marginalità, gli abusi contro i migranti, le guerre, la bomba ambientale. Al tempo stesso, non ricordo epoche esenti dallo spettro dell’apocalissi. Forse viviamo un tempo più tragico, decadente, malato di altri? Chissà, boh, non credo. Molto dipende dal metro usato per giudicare. Se il metro è il Regno dei Cieli, non v’è epoca che si salvi dall’ira di Dio. Ma se il metro è laico e disincantato, quest’epoca è come le altre: un bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno. Sennonché l’analisi apocalittica del mondo induce il papa a evocare un moto redentore: «fate rumore», dice ai giovani; seguite valori grandi, emulate i martiri, lottate per l’utopia evangelica. È il suo mestiere, si dirà: è vero. Ma il terreno delle utopie redentive è tra i più delicati. Checché ne dica la vulgata, infatti, gli uomini tendono a legittimare la violenza e a muoversi guerre in nome di tali utopie più che di banali interessi economici. Quanto ai tremendi effetti delle utopie redentive, così care ai movimenti sociali cui il papa tiene infiammati discorsi, la storia argentina torna in soccorso: pochi Paesi come l’Argentina ne hanno patito gli effetti. Militari, peronisti, Chiesa, guerriglieri si sono scannati in nome della nazione cattolica e della cattolicità del pueblo, con sprezzo per la democrazia borghese e lo Stato di diritto. Il risultato è noto al mondo. […]

Questo capita dove s’impone il populismo: la difesa dell’identità del pueblo, questa specie di Araba Fenice, oscura lo Stato di diritto, i cui principi sono anzi additati come indebiti strumenti delle classi coloniali contro la virtù del popolo. Il populismo riversa così il suo impulso manicheo sull’arena politica.

Risultato: la dialettica politica si trasforma in guerra tra pueblo e antipueblo; l’apocalissi è una profezia che si autoavvera; la redenzione rimane un sogno inappagato. Ciò non impedisce però a Francesco, afflitto dall’idea che la globalizzazione contagi e uccida le identità del pueblo, diverse tra loro ma tutte intrise di religiosità, di invocarne la difesa a oltranza. È ciò cui mira quando si scaglia contro l’uniformità che il capitale imporrebbe al mondo. […] Al laico malato di dubbi, però, qualche domanda sorge spontanea. La prima è se le vaghe idee che il papa espone sull’economia siano le più adeguate per ridurre le disuguaglianze sociali e la povertà. Ne dubito. E so che ne dubitano in molti. Il papa non è un economista e non è tenuto a dare ricette! Giusto. Ma dato che, com’è sacrosanto, si esprime in proposito, altrettanto lecito sarà esprimersi su quanto le sue diagnosi e le terapie cui allude siano fondate: molto meno mercato, molto più Stato, in breve; l’economia dovrebbe basarsi su principi morali invece che sulla logica del profitto. Il che non è una gran novità, diciamolo. Il fatto è che i modelli economici populisti cui in tal modo Francesco allude non hanno mai dato buona prova: né in termini di creazione della ricchezza da distribuire, né di riduzione strutturale delle disuguaglianze. Le economie populiste fabbricano povertà in nome del povero e la loro eredità suole gravare sulle generazioni future. […]

Sullo sfondo, intanto, tante cose accadono e sollevano enormi interrogativi sulla fondatezza della visione del mondo di Francesco e sulla nozione di pueblo che l’ispira; e quindi sulla sua efficacia nel restituire alla Chiesa la rilevanza perduta. Le società moderne, anche quelle del Sud del mondo, sono sempre più articolate e plurali: parlarvi di un pueblo che vi custodisce identità pure e intrise di religiosità è spesso un mito cui non corrisponde alcuna realtà. Continuare a considerare i ceti medi, cresciuti a milioni e ansiosi di più consumi e migliori opportunità, ceti coloniali nemici del pueblo, non ha senso: tanti poveri di ieri sono ceto medio oggi. Il mercato religioso è in rapida evoluzione e la secolarizzazione incalza a passi da gigante. Perfino sul piano politico, i populismi con cui il papa condivide tante affinità hanno subito duri colpi, specie in America Latina, tanto da fare sospettare che stiano rimanendo orfani del pueblo che invocano. … È con [questi problemi] che dovrà misurarsi il Santo Padre. Adorato dai fedeli ma anch’egli orfano, almeno un po’, del pueblo.

* «Al meeting di Comunione e liberazione ho trovato il popolo. Ricordo che per Gramsci l’intellettuale può pensare di rappresentare il popolo solo se con questo vi è quella che lui chiamava “una connessione sentimentale”. Lì l’ho trovata» (Il Corriere della Sera). Per fortuna a chi scrive non interessa  neanche un po’ «rappresentare il popolo», né ha mai pensato in termini di «popolo», un concetto che nel XXI secolo serve solo a occultare l’esistenza delle classi sociali e l’antagonismo che – almeno potenzialmente – ne deriva. Anche per questo «lo smarrimento dell’identità di cui soffre la sinistra» denunciato dall’ex rifondatore dello statalismo lo lascio volentieri ai cultori della «connessione sentimentale».

** Mi permetto una piccola (e provocatoria?) divagazione. Cito dal Mein Kampf di Adolf Hitler: «Il Marxismo ha creato l’arma economica che l’Ebreo internazionale utilizza per distruggere le basi economiche degli Stati nazionali liberi ed indipendenti, per rovinare la loro industria ed il loro commercio nazionali; il suo obiettivo è di rendere le nazioni libere schiave della finanza mondiale dell’Ebraismo, che non conosce confini di Stato». Ora, se al «marxismo» sostituissimo il più credibile «neoliberismo» e al posto dell’«Ebreo» mettessimo il guru della finanza, non avremmo tradotto Hitler nei termini del sovranista dei nostri giorni? Lo so, non bisogna semplificare i problemi, né, tanto meno, azzardare improbabili parallelismi storici. Però la tentazione è tanta!

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