PER LA CRITICA DEL KEYNESISMO 2.0

R. J. Samuelson

Sul Washington Post dell’altro ieri Robert J. Samuelson ha sferrato l’ultimo attacco a Paul Krugman. La contesa tra i due pezzi grossi della Scienza Economica statunitense ruota intorno a questa scottante domanda: è possibile oggi negli Stati Uniti e in Europa una politica keynesiana, più o meno ortodossa, tesa a «stimolare» la crescita economica con la leva della spesa pubblica? Il primo risponde invariabilmente che quel tipo di politica non è più praticabile nel mondo globalizzato di oggi, nel quale peraltro si muovono Stati nazionali molto più grandi (anche in termini di Debito Sovrano) e complessi rispetto a quelli che si trovarono a fare i conti con la Grande Crisi del ’29. Plausibile negli anni Trenta del secolo scorso, oggi l’economia keynesiana merita la definitiva eclissi. «Se Keynes vivesse oggi, egli certamente riconoscerebbe i limiti delle politiche keynesiane» (Bye-bye, Keynes, W. P. del 19 Dicembre 2011).  Il secondo, altrettanto tenacemente, sostiene che solo una politica keynesiana può salvarci dalla spirale della recessione, la quale mena alla più cupa delle depressioni.

Su questo Blog ho più volte polemizzato con le posizioni, a volte espresse in modo davvero bizzarro – ma assai sintomatico: vedi Cercasi Alieni, disperatamente! – del premio Nobel per l’economia. Adesso pubblico un capitolo di un mio vecchio studio (scaricabile da questo Blog: Sviluppo e crisi nel capitalismo, II, 1997) per contribuire a far luce su un dibattito teorico e politico che ha un enorme rilievo nella vita di tutti noi, benché trovi spazio solo in alto loco.

J. M. Keynes

In generale, non critico tanto le teorie di John Maynard Keynes, il quale dopotutto fu un onesto militante del Capitale in un momento particolarmente travagliato della sua burrascosa – e sanguinosa – esistenza, nonché il becchino della vecchia teoria liberale del laissez-faire; quanto piuttosto le elucubrazioni dei suoi tardi epigoni attivi nel XXI secolo, soprattutto per l’odiosa ideologia statalista in salsa progressista che li anima, e che l’economista inglese almeno si risparmiò. Le pagine che seguono sono quindi anche un contributo alla critica del “keynesismo 2.0”.

Il circolo virtuoso-vizioso keynesiano

Secondo Keynes, e nel pieno della crisi economica mondiale dei primi anni Trenta secondo tutti gli economisti ovunque essi vivessero, lo Stato doveva salvare il capitalismo dalla follia di coloro che inseguivano il profitto a discapito degli interessi generali, ossia degli interessi degli stessi capitalisti privati. Lo Stato rispose alla bisogna, e il capitalismo si salvò. Tra l’altro, al di là della sempre verde ideologia del Bene Comune (che cela il Bene del Capitale in quanto rapporto sociale di dominio e di sfruttamento), qui viene in luce la funzione dello Stato come espressione degli interessi generali della classe dominante, funzione che non rare volte si traduce in un attacco del Leviatano a interessi particolari che fanno capo a quella stessa classe. Sacrificare fazioni borghesi sull’altare del «Bene Comune» è un esercizio che esalta lo Stato come riserva di ultima istanza dello status quo sociale.

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4 pensieri su “PER LA CRITICA DEL KEYNESISMO 2.0

  1. Ciao Sebastiano, tra le pag 3 e .4 del doc. tu accenni ad una “concezione che individuava nella circolazione l’origine della crisi”, potresti spiegarmi meglio a cosa ti riferisci? Grazie, Valeria

    • Molto in breve, e mi scuso se non sarò troppo chiaro (mi garba risponderti a caldo!), si tratta di questo. A mio avviso la crisi economica di vasta portata, come quella del ’29 e come quella che stiamo vivendo, si spiega soprattutto – non esclusivamente – con una sofferenza a livello dell’accumulazione capitalistica primaria, ossia industriale (agricoltura compresa, ovviamente). C’è un momento – sempre latente e incombente – critico nell’accumulazione (ossia nell’investimento di capitale nella produzione di merci) in cui la massa di plusvalore estorto alla capacità lavorativa non riesce più a reggere il ritmo della stessa accumulazione. Tieni presente che accumulare significa destinare parte del plusvalore intascato in un nuovo ciclo produttivo. Se il saggio del profitto (in termini marxiani è il rapporto tra il plusvalore e il capitale interamente investito nella produzione), tende a scendere, significa che a fronte di un grande capitale investito nella produzione il capitalista (individuale o collettivo: vedi le SPA e le multinazionali) intasca un magro profitto. Per vincere la concorrenza, il Capitale è costretto a innovare sempre di nuovo la base tecnologica della produzione e l’organizzazione del lavoro, in modo da rendere più produttiva (di plusvalore, non solo di merci) la capacità lavorativa. Questa competizione tra capitali concorrenti è assai dispendiosa, e per questo i capitalisti che non riescono a tenere il passo escono di scena, o si fanno assorbire da analoghi ma più forti capitalisti. Il circolo virtuoso della produttività, proprio perché presuppone un investimento sempre più grande di capitali (di qui, da un lato il ricorso delle imprese al finanziamento offerto dal Sistema Finanziario, e dall’altro il bisogno del Capitale, industriale, commerciale e finanziario, di pompare i bisogni e la capacità di spesa dei consumatori con il marketing e il finanziamento dei consumi: «Vuoi questa bella automobile? E che problema c’è! Ecco i soldi: prendi oggi e paghi tra sei mesi!». Salvo magagne…); proprio perché presuppone questa crescita esponenziale di capitale sempre fresco da gettare nella fornace dell’accumulazione, a un certo punto tende a diventare vizioso. Non è possibile stabilire empiricamente quale sia questo punto, mentre se ne possono individuare post festum i sintomi. Tra breve pubblico un lavoro di carattere “economico” (nota le virgolette, mi raccomando!) che cerca di spiegare questa dialettica dell’accumulazione.
      Coloro che non aderiscono a questa impostazione (marxiana), individuano la crisi in un difetto del «Mercato» o nell’avidità degli individui («La colpa è del Vampiro che specula!», ovvero nell’incapacità dei politici di governare l’economia. Questa è la sfera della circolazione. Per concludere, mentre per me la magagna fondamentale (non esclusiva) è nella produzione di valore, per questi personaggi il problema è da individuare nella circolazione di questo stesso valore. Sarò più chiaro la prossima volta. Forse! Ti ringrazio per l’attenzione.

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