IL MONDO CAPOVOLTO DELLA SCIENZA ECONOMICA2.0

1. Finanzchecosa?

«Bisognerebbe rendere obbligatorio a sinistra, e anche altrove, la lettura di Finanzcapitalismo di Luciano Gallino». Così scriveva, col solito piglio decisionista, Alberto Asor Rosa sull’editoriale pubblicato dal Manifesto il 23 gennaio scorso. Non essendo di «sinistra» e non nutrendo per il celebre professorone grande stima politico-dottrinaria, mi sono sentito dispensato dall’obbligo. Ma la curiosità non mi difetta, e mercè un amico progressista sono riuscito a mettere gli occhi sul fondamentale libro. Apparirò un tantino prevenuto, ma devo confessare che non vi ho trovato nulla di originale, niente che non sia stato già scritto, non solo negli ultimi dieci anni, ma praticamente a ogni seria crisi economica degli ultimi cent’anni. Il solito mantra contro la brutta e cattiva speculazione finanziaria, e la solita concezione feticistica del Capitale e del denaro. Sempre il solito ritornello: «Questa volta è diverso!» Invece è sempre la stessa coazione a ripetere della tragedia sociale che vede gli individui aggirarsi confusamente, ciechi e impotenti, sulla scena.

Scrive Gallino: «Come macchina sociale il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua penetrazione capillare in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona» (L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, p. 5, Einaudi, 2011). Ora che bisogno c’era di inventare un così brutto neologismo, quando i fenomeni citati sono già sussunti sotto il concetto di Capitalismo?  È infatti immanente al concetto stesso di Capitale la sua espansione in ogni poro della società e del pianeta. La natura sociale e mondiale del Capitalismo è ad esempio un cardine della marxiana teoria del valore. Nel 2012 continua a ritmi sempre più accelerati la naturale tendenza del Capitale a mettere a valore cose e individui, la cui sofisticazione consumistica e somatica (la loro «composizione tecnologica»), cresce in rapporto diretto alla sussunzione reale dell’intera esistenza sotto le imperiose leggi del profitto. Il corretto concetto di globalizzazione deve a mio avviso dar conto di questi tre aggressivi movimenti espansivi del Capitale: 1. conquista di ogni zolla di terra del pianeta, 2. sussunzione di ogni attività, anche quelle ricreative, sotto la sfera economica allargata orientata al profitto, 3. produzione di un individuo a immagine e somiglianza degli interessi economici. È il Capitalismo, sans phrase. È da oltre un secolo che in Occidente – e in Giappone – il Capitale Finanziario domina la scena economica, a motivo dello stesso gigantesco sviluppo della cosiddetta «economia reale», e rimanere sconcertati a ogni sua periodica e necessaria accelerazione testimonia una mancanza di comprensione dei sui presupposti storico-sociali e delle sue funzioni attuali.

Dacci oggi il plusvalore quotidiano!

Ma è a proposito della teoria del valore che Gallino mostra la sua assenza di originalità, dal momento che ripete il solito mantra della fine della «vecchia teoria marxiana del valore», avendo il Capitale trovato il modo di «fare denaro a mezzo di denaro», inverando i sogni più spregiudicati degli alchimisti. Signori, la Cornucopia è servita!

Una volta, scrive lo scienziato economico, ai bei tempi un cui dominava l’economia reale, il valore veniva prodotto: ecco una casa, ecco un’automobile. Oggi il valore viene estratto: ecco la speculazione finanziaria che fa alzare il prezzo della casa e dell’automobile per scontare bei sovraprofitti. E dove insiste la novità? Basta leggere Il Capitale per capire come da sempre sulla solida base del valore il capitale ha inventato mille modi per costruire un immane edificio di valore fittizio, reso possibile dalla natura di equivalente generale del denaro. Ma il denaro, nel Capitalismo, può avere quella natura solo in quanto espressione del lavoro sociale, e questa sua miserabile condizione, a lungo celata dietro la fantasmagorica e feticistica circolazione di valore fittizio, si rende palese – a chi ha occhi per vedere, ovviamente – proprio nei momenti di acuta crisi economica, quando la gigantesca bolla speculativa si sgonfia, lasciando vedere il filo che la lega alla realtà: l’estrazione del plusvalore dal cosiddetto «capitale umano» sfruttato in ogni angolo del pianeta. Ecco perché non è in crisi la Civiltà del denaro, ma la Civiltà del Capitale.

La crisi ricorda al denaro la sua umile e gretta origine: il lavoro salariato che tanto piace ai progressisti. E difatti Gallino si batte affinché la BCE diventi «un mezzo fondamentale di sostegno dell’economia reale». Altre soluzioni in vista per superare il finanzcapitalismo e tornare con i piedi per terra, dopo l’ubriacatura speculativa? Come no! Eccone tre: abbandonare la maligna strada della deregulation (dai tempi della Thatcher e di Reagan l’economista progressista non può fare a meno di pronunciarsi contro la deregulation: è il minimo sindacale del keynesismo!), riformare e democratizzare il Sistema Finanziario Internazionale, democratizzare la globalizzazione. Signori, qui in crisi non è solo la «Civiltà del denaro», ma anche il pensiero economico impigliato nel carattere di feticcio del Capitale (in ogni sua fenomenologia: merce, denaro, tecnologia, scienza, lavoro, ecc.) e della Democrazia.

D’altra parte, cosa ci si deve aspettare da uno Scienziato Sociale che, dopo averci spiegato che il vecchio Capitalismo (e con esso il suo critico per eccellenza, Marx) è stato superato dal nuovissimo Finanzcapitalismo, la cui peculiarità risiederebbe nella sottomissione dell’esistente alla logica del Capitale, scrive che «il lavoro non è una merce»? Nel suo precedente libro Gallino associa il concetto di lavoro-merce, non al lavoro salariato tout court, come avevano fatto gli economisti “classici” incuranti del politicamente corretto, ma esclusivamente al lavoro a basso costo, flessibile e privo di «reali diritti», come può esserlo il «lavoro nero» nei Paesi occidentali, o il lavoro sfruttato in Cina, in India e così via. Solo gli apologeti del Capitalismo non associano il Capitale al lavoro salariato in quanto merce, «merce speciale», per dirla marxianamente. E in che consiste la «specialità» della capacità lavorativa venduta e acquistata sul mercato del lavoro alla stregua di una qualsiasi merce? Nel generare quel valore che rende possibile la moltiplicazione dei pani e dei pesci (sotto forma di ammiccanti «prodotti finanziari») che tanto sgomenta la Scienza Economica del XXI secolo. Posta l’esistenza del Capitale, il lavoro deve essere una merce. È proprio questa indigenza teorica che spiega il punto di vista dello Scienziato a proposito del Finanzcapitalismo e della legge del valore.

Scrive Gallino: «La pressione volta ad abbassare i salari e le condizioni di lavoro nell’ultimo quarto di secolo [in Usa come in altri paesi] è ben più d’un riflesso della competitività crescente, del declino americano, o di mercati del lavoro ingolfati […] È in parte il risultato d’una strategia concertata del capitale, del governo e della destra politica per tagliare i guadagni ottenuti dal movimento dei lavoratori a metà del XX secolo» (Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, 2008). Per il progressista doc, il diavolo della «destra politica» è sempre al centro del complotto ai danni dell’umanità in generale e dei lavoratori in particolari.  Che l’aumento della produttività del lavoro e la sua relativa svalorizzazione siano l’alfa e l’omega del Capitale, a prescindere dal colore politico dei governi protempore, allo Scienziato sociale è qualcosa che sfugge. Il responsabile del complotto contro l’umanità e i lavoratori ha un solo nome: Capitale. La politica ovviamente non rispecchia meccanicamente i processi che si sviluppano a livello «strutturale», ma in ultima analisi essa non può fare a meno di assecondarne la possente spinta, cercando di gestire al meglio le contraddizioni sociali e le molteplici magagne che necessariamente il Moloch economico genera sempre di nuovo. L’imbrigliamento del Capitale da parte della «buona ed etica politica» è la chimera che il progressista non si fa mai mancare.

2. Dal possesso alla condivisione? E di cosa?

Un’analoga concezione capovolta del mondo troviamo in Jeremy Rifkin. Nel suo ultimo capolavoro il geniale sociologo americano torna a pestare i suoi soliti concetti postcapitalistici. Nei nuovi spazi distributivi e collaborativi disegnati dalla terza rivoluzione industriale l’accumulazione del capitale sociale acquisisce un’importanza e un valore pari all’accumulazione del capitale finanziario (J. Rifkin, La terza rivoluzione industriale, pp. 250-251, Mondadori, 2011). Per «capitale sociale» egli intende il patrimonio di conoscenze, di tecnologie e di pratiche che danno sostanza al cosiddetto «mondo immateriale», fatto di relazioni sociali, di transazioni economiche ultrarapide, di intrattenimento, di studio e quant’altro. Insomma, parliamo della «Net economy». Ma non solo. Mentre nel «vecchio Capitalismo» dominava il capitale industriale e il possesso dei beni, nel «nuovo Capitalismo», sempre più veloce e immateriale, si fanno largo il capitale sociale e la condivisione dei beni. La rivoluzione nelle comunicazioni e nel comparto energetico crea un mondo sempre più connesso, democratico, leggero, pulito e a basso costo, con il prezzo delle merci  e dei servizi che tende allo zero. Tende… Insomma, un suicidio sociale in piena regola: davvero astuta, la storia!

In effetti, Rifkin non fa che ripetere i concetti già espressi in un suo saggio del 2000: «Nel processo economico, la proprietà del capitale fisso – un tempo fondamento della civiltà industriale – diventa sempre meno rilevante … nella nuova era, la mente domina la materia. Prodotti più leggeri, miniaturizzazione, contrazione degli spazi di lavoro, scorte just-in-time, leasing e outsourcing sono prove della svalutazione di una visione del mondo che ha posto l’accento sulla fisicità … il capitalismo si sta allontanando dalle proprie origini materiali, per diventare sempre più una questione di tempo» (J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, pp. 7-76, Mondadori, 2000). Ma è proprio l’autore che fonda la sua concezione sulla fisicità del mondo che lo circonda, sebbene per porre l’enfasi sulla sua rapida smaterializzazione, e questa concezione «triviale» non gli permette di capire che il Capitalismo è sempre stato una questione di tempo, per l’esattezza di tempo di lavoro. La proprietà del capitale fisso era ed è lo strumento che consente al Capitale di trasformare il tempo di lavoro in una miniera di valore, vero fondamento della Civiltà Capitalistica.

Per questo tutto il gran parlare intorno alla cosiddetta «economia della condivisione» mi fa un po’ sorridere, perché osservo i sociologi e gli economisti più alla moda scoprire la famosa acqua calda (ad esempio, la condivisione o «interazione sinergica» fra diversi capitali di un determinato settore dei fattori oggettivi e soggettivi del lavoro: macchine, stabilimenti, materie prime, servizi e lavoro), e presentarla all’opinione pubblica pagante come se fosse la più grande delle scoperte scientifiche. Il carattere feticistico del pensiero sociale ed economico «postmoderno» non consente allo Scienziato Sociale che lo incarna di capire che lo «sforzo sinergico» di cui sopra, teso ovviamente a razionalizzare ed economizzare l’impiego dei fattori oggettivi e soggettivi della produzione, e quindi ad esaltare la produttività del lavoro, la razionalizzazione del processo industriale e, dulcis in fundo, il saggio del profitto; che questo necessario processo non indebolisce ma piuttosto rafforza la peculiare forma storica della proprietà borghese, che si dà, appunto, come appropriazione di lavoro altrui non retribuito. È sul fondamento di questa appropriazione del fattore immateriale per eccellenza (l’impalpabile e filosofico tempo) che riposa la proprietà in ogni sua possibile declinazione, compresa quella «triviale» e vetusta ancorata al vile corpo delle cose.

Il pensiero rovesciato di Rifkin – ma egli è in questo in buona compagnia – non gli consente di capire che non solo il «capitale sociale» (o il General Intellect, come piace chiamarlo ai «postmarxisti») non si dà come antitesi rispetto al Capitale, finanziario o meno; ma come ne sia piuttosto una tipica fenomenologia nel contesto del Capitalismo mondiale del XXI secolo. La scienza, la tecnologia e la conoscenza sono, nell’epoca della sussunzione reale dell’esistenza sotto il Capitale, esse stesse Capitale all’ennesima potenza, e lo stesso concetto di «capitale umano» la dice lunga su come stanno realmente le cose.