Lo scorso 11 aprile Massimo Gramellini commentava su La Stampa la notizia che «il Parlamento ucraino ha approvato a larghissima maggioranza una legge che equipara il comunismo al nazismo come regimi criminali»; evento che, proseguiva Gramellini, «costringe chi è stato svezzato nel secolo scorso a fare i conti con una questione irrisolta. Il nazismo pianificava il dominio di una razza in seguito a stermini di massa, mentre il comunismo predicava la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. A livello teorico qualsiasi accostamento tra i due sarebbe dunque una bestemmia. Ma se le utopie vanno valutate sul terreno dell’applicazione concreta, non c’è dubbio che il comunismo realizzato sia stato ovunque un sistema oppressivo, violento e liberticida. Nella storia non esiste traccia di comunismi senza carri armati e polizie segrete. Per un ucraino o un ungherese che hanno avuto i figli torturati e uccisi dal Kgb, il comunismo rappresenta il male assoluto, accomunabile nella condanna al regime che organizzò l’infamia eterna dell’Olocausto. Invece gli italiani il comunismo lo hanno molto predicato ma, grazie al cielo e agli americani, mai sperimentato. In compenso hanno conosciuto gli orrori dell’occupante nazista contro la comunità ebraica e non solo. Una legge come quella ucraina farebbe fatica a essere approvata. Da noi il nazismo sarà sempre considerato peggiore del comunismo. Per fortuna, aggiungerei. Perché, per poterci permettere di pensarla diversamente, avremmo dovuto sorbirci anche quello». Non c’è dubbio. Ma di che «comunismo» stiamo parlando, signor Gramellini?
Naturalmente il significato politico-ideologico e geopolitico dell’operazione architettata da Kiev non mi sfugge (vedi la divisione tra la maggioranza ucraina, schiettamente “anticomunista”, e la minoranza russofona, ancora legata all’epopea stalinista, quando l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti gareggiavano alla pari per il dominio sul mondo), né è sfuggito al virile Putin, il quale difatti si è premurato a prendere le difese del «comunismo», al netto delle sue «deformità e repressioni». Né mi sfuggono le preoccupazioni del mondo ebraico circa il rischio di relativizzare il significato della Shoah considerato come Male Assoluto. Ma qui non è su questi aspetti della questione che intendo brevemente intrattenere il lettore.
Ieri ho fatto un salto dalle parti di Sinistrainrete e ho incrociato subito un post dedicato proprio all’articolo di Gramellini che equiparava nazismo e comunismo. «Per fortuna c’è ancora gente disposta a difendere il buon nome del comunismo», ho pensato nella mia infinita ingenuità, della quale mi scuso in primo luogo con me stesso. E con eccellente disposizione d’animo ho letto il “pezzo” firmato Infoaut. Alla fine la delusione è stata tanta. Infatti, anziché gridare ai quattro venti che quello che Gramellini chiama «comunismo» fu in realtà una variante russa (e poi cinese) di Capitalismo di Stato e di Imperialismo; invece di denunciare il fatto che mentre lo stalinismo «predicava la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo», esso lo praticava nel modo più brutale (vedi, ad esempio, lo stacanovismo); anziché dire che i carri armati e le polizie segrete dello stalinismo agivano per conto di interessi e di finalità storiche contrarie alle classi dominate, Infoaut se ne esce con questa blanda (sì, faccio della diplomazia, o dell’ironia) obiezione: «esiste nella storia traccia di stati senza carri armati e polizie segrete? A ben vedere, no». Insomma, l’articolo in questione dà per scontato il carattere comunista dei regimi stalinisti: una gran bella difesa del comunismo, non c’è che dire.
Ciò che davvero conta nel giudizio che diamo sulle società del Novecento, scrive Infoaut, non è la quantità di violenza che esse hanno messo in campo o il numero dei morti che hanno prodotto, ma l’obiettivo strategico che queste società intesero perseguire, la causa sociale sull’altare della quale fu esercitata la violenza e fu versato il sangue. Ma ecco la citazione: «Tanti stronzi che ci opprimono e ci sfruttano oggi hanno tutte le ragioni per continuare a demonizzare uno spettro dato per morto tante volte, perché sarebbero, se esso realizzasse i desideri di molti, sen’altro in disgrazia e senz’altro oppressi. Fulcro non è “l’utopia”, né la violenza, bensì la direzione politica e sociale che diversi progetti politici hanno e assumono, e l’interesse materiale cui tentano di dar organizzazione e sostanza pratica, visione e strategia. Oppressione di chi? Libertà di chi? Queste sono le domande cui il liberale finge di non dover rispondere. L’efficacia effettiva che un progetto ha nel divaricare il futuro dal passato, i nuovi rapporti sociali da quelli vecchi, che sono quelli liberali: questo fa la differenza per chi non ha vissuto lo sfruttamento e le polizie di ieri, ma sta vivendo e affrontando quelli di oggi». Insomma, la violenza e il sangue del “comunismo” di ieri si spiegano con la rivoluzione sociale e con la transizione dal capitalismo al comunismo, mentre la violenza e il sangue del nazismo si spiegano con la controrivoluzione e con gli interessi che fanno capo al capitalismo, il quale, a differenza del “comunismo novecentesco”, non ha ancora tirato le cuoia. «Per fortuna», aggiungerebbe Gramellini – io no, mi si creda sulla fiducia.
Ora, se non si è in grado di capire che lo stalinismo, nelle sue diverse varianti nazionali (dal togliattismo al maoismo), non ebbe mai niente a che fare con “l’utopia” dell’emancipazione umana, ma ne fu anzi la più cruda (e ingannevole: infatti si spacciava per comunismo!) negazione, che razza di alternativa al capitalismo si pensa di offrire oggi al mondo? Per come la vedo io, chi ha demonizzato lo spettro dell’emancipazione è stato soprattutto il falso comunismo degli stalinisti, meritevoli di una statua d’oro per i servizi che essi hanno reso alla conservazione del Dominio capitalistico. Gramellini e gli altri «sicofanti della borghesia» (Marx) hanno facile gioco nel dimostrare che l’alternativa al capitalismo è un regime sociale ancora meno gradevole, diciamo così, di quello fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
La critica che Infoaut sviluppa intorno al «capitalismo liberale», correttamente individuato come il padre del fascismo e del nazismo (e poi della «Repubblica democratica nata dalla Resistenza»!), si esaurisce necessariamente, visti i suoi presupposti teorici (anche storici, mi sembra di capire), in un cortocircuito concettuale e politico che taglia completamente fuori la stessa possibilità di immaginare la Comunità degli «uomini in quanto uomini» a partire dalle condizioni sociali del XXI secolo e in un modo che non riproduca il cattivo presente – o il cattivo passato, come sembrano adombrare le tesi “anticapitalistiche” di alcuni nostalgici della Guerra Fredda*. C’è gente che continua a opporre il chavismo, o «socialismo del XXI secolo» [sic!], al «modello liberale degli anni Novanta» come se si trattasse della cosa più rivoluzionaria che l’anticapitalista possa concepire in questi difficili tempi. Invece si tratta di una truffa tentata ai danni di sé stessi,in primo luogo. Qui non parlo di Infoaut, che non ho il piacere di conoscere, ma di una posizione che circola nel vasto universo del cosiddetto anticapitalismo/antimperialismo.
Chi parla della necessità storica della violenza e dell’oppressione (pensando magari alla marxiana «dittatura rivoluzionaria del proletariato»), ma non è in grado di cogliere la radice sociale (capitalismo/imperialismo) che rende del tutto legittimo il confronto tra stalinismo e nazismo ha in testa un “comunismo” che, stronzo come sono, non posso non demonizzare.
«”Chi è la feccia della Terra?” chiese Hitler a Stalin nel settembre 1939. “Il sanguinario assassino dei lavoratori” rispose il geniale georgiano». Poi i due tiranni, «Blood brothers», stapparono una bottiglia di champagne. «In questo brillante modo», scriveva Nigel Jones sul Telegraph dell’agosto 2014, «David Low ha riassunto nel cartone animato Rendezvous la visione del mondo dell’alleanza apparentemente innaturale tra i poteri totalitari gemelli d’Europa, un’alleanza che ha consentito l’invasione della Polonia e quindi l’inizio della Seconda guerra mondiale 75 anni fa»**. Apparentemente innaturali, appunto.
* «Oggi dobbiamo riconoscere, anche noi di scuola luxemburghiana, che la grande sconfitta subita dall’Unione Sovietica ha colpito a morte non solo i comunisti ma l’anticapitalismo in generale. C’è bisogno di una vera e propria resurrezione». Così il «socialista luxemburghiano» Fausto Bertinotti alla presentazione del suo ultimo capolavoro editoriale (Colpita al cuore, Castelvecchi editore), praticamente un’apologia del lavoro (salariato) posto a fondamento della Repubblica Italiana. «Un lungo ciclo di impoverimento dei diritti conquistati che è culminato, nel puro linguaggio gauchista, “nel rovesciamento del conflitto di classe”. La rivincita delle classi dirigenti, l’affermazione del “pensiero unico” hanno ucciso l’articolo 1. Ma Bertinotti continua a sperare in un secondo tempo» (La Repubblica.it, 16 febbraio 2015). E magari nei supplementari, e poi nei rigori. La partita dei sinistri, ancorché di «scuola luxemburghiana», non finisce mai?
Qui il lettore può farsi un’idea circa la mia interpretazione dello stalinismo come espressione/strumento della controrivoluzione antiproletaria (“antisovietica”) e come formidabile strumento posto al servizio 1) dell’accumulazione capitalistica a ritmi accelerati e 2) degli interessi della Russia in quanto potenza imperialistica di rango mondiale – in assoluta continuità con la storia dell’Impero zarista. «E se il cosiddetto Libro nero del comunismo non fosse, in realtà, che un capitolo particolarmente tragico del Libro nero del capitalismo?».
** «In realtà, i due dittatori non si incontrarono mai, e la firma formale di Mosca del trattato di non aggressione fu effettuata, sotto lo sguardo di approvazione di Stalin, dai loro fedeli tirapiedi: dal Ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop, un venditore di champagne fallito e da Vyacheslav Molotov, soprannominato “Stone-ass” per la sua abilità e capacità di resistenza nelle trattative».