La notizia è questa: «Per via del costante calo di manodopera, le aziende giapponesi hanno preso a reclutare personale meccanico», cioè robot. Si dirà: «e la novità dove sta?». Da nessuna parte, ed io stesso da anni scrivo sull’impatto che la nuova tecnologia cosiddetta intelligente ha non solo sul mondo del lavoro (1), che, è bene ricordarlo, è sostanzialmente un mondo di sfruttamento e di alienazione, ma sulla società nel suo insieme. Tuttavia oggi mi è venuto in testa proprio il Giappone mentre rileggevo quanto scriveva Henrik Grossmann, sulla scia di Marx, a proposito della base di valorizzazione del capitale, ossia della materia prima vivente che genera valore e plusvalore. Provo a spiegarmi.
Grossmann tratta questo oggetto nel suo celebre testo del 1928 Il crollo del capitalismo, e in particolare in un capitolo intitolato Accumulazione di capitale e problema della popolazione. A pagina 351 si legge: «La popolazione costituisce un limite all’accumulazione; non però un limite nel senso di Rosa Luxemburg, cioè nel senso che il numero dei consumatori, dei compratori, limita l’accumulazione, ma per il fatto che con la popolazione è dato anche il limite di valorizzazione» (2). Ciò che sostanzia la base di valorizzazione non è la popolazione in generale, genericamente intesa, ma quella che Marx chiamava «popolazione operaia»: «Data la durata della giornata lavorativa […] la massa del plusvalore può essere aumentata soltanto aumentando il numero degli operai, cioè aumentando la popolazione operaia» (3). Alludendo polemicamente agli economisti di “scuola marxista” Grossmann scrive: «Si dimentica che tuttavia il valore e conseguentemente anche il plusvalore, può essere creato soltanto nella produzione di beni» (p. 355). Nella produzione di merci si ha la valorizzazione del capitale investito in mezzi di produzione e salari, ossia la generazione di un plus di valore che va a sommarsi al capitale iniziale; nella vendita di quelle merci si ha la realizzazione del valore (valore vecchio più plusvalore) in esse corporato, ossia quella trasformazione del valore in denaro che rappresenta il punto d’arrivo della «metamorfosi della merce».
Ora, non è nella sfera della realizzazione, come inclinano a pensare i teorici del sottoconsumo della popolazione come fondamento delle crisi economiche (4), ma piuttosto in quella della valorizzazione che bisogna individuare i limiti cui periodicamente va incontro il processo di accumulazione. Uno dei limiti più significativi riguarda appunto la base di valorizzazione, ossia la massa di capacità lavorativa a disposizione del capitale. La valorizzazione del capitale deve fare i conti con una contraddittoria e ineliminabile dialettica: per un verso essa ha bisogno di una base di valorizzazione sempre più ampia, ossia di un numero crescente di lavoratori da “mettere a valore” (leggi da sfruttare); per altro verso la ricerca del profitto, che mette i capitali in reciproca concorrenza su un campo di battaglia che oggi abbraccia l’intero pianeta, spinge il capitale ad elevare quella che Marx chiamava composizione tecnica di ogni singola impresa, ossia il suo livello tecnologico ed organizzativo, e ciò se consente di aumentare la produttività del lavoro, elevando il saggio del plusvalore, fa aumentare al contempo la composizione organica del capitale, definita dal rapporto tra il capitale investito in mezzi di produzione (che non creano valore) e il capitale investito in capacità lavorativa, la sola risorsa in grado di conservare valore vecchio mentre ne crea uno nuovo di zecca. La base di valorizzazione tende cioè a restringersi, non in assoluto, ma in rapporto al capitale investito in mezzi di produzione. «È unicamente nel modo capitalistico di produzione che si riscontra questo bisogno di un aumento assoluto del numero dei salariati nonostante la loro relativa diminuzione» (5).
Occorre dire che la fenomenologia monetaria del processo di valorizzazione (non a caso Marx parla di capitale costante e capitale variabile: il primo investito in mezzi di produzione e il secondo in forza-lavoro) occulta la sostanza del processo di valorizzazione, ossia il suo essere fondamentalmente un processo di sfruttamento di lavoro vivente, di uomini in carne ed ossa, attuato servendosi di mezzi tecnologici sempre più sofisticati. È qui che trova alimento la concezione feticistica dell’economia mercantile, la quale appare come «una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici» (6).
Per accrescere la base di valorizzazione e reggere il confronto con la concorrenza internazionale, il capitale italiano investito nell’agricoltura ha messo le mani sulla materia prima vivente arrivata soprattutto dall’Africa, e qualcosa di simile, sebbene su una scala più ridotta, è avvenuto nel comparto manifatturiero. Bassissimi salari, ritmi di lavoro sostenuti e una lunga giornata di lavoro: che pacchia per il Made in Italy! Ne ricavo quanto segue: quando le anime candide ci dicono che gli africani fanno il lavoro che gli italiani non vogliono più fare, e che così ci pagano pure le pensioni messe in crisi dal calo demografico, occorre subito impugnare la metaforica rivoltella. «Metaforica?». Sì, metaforica; per la critica delle armi c’è sempre tempo, forse. D’altra parte, non avrebbe senso alcuno armare la mano senza prima armare la testa, e gli esempi, lontani e recenti, in Italia non sono mancati e non mancano. Armare la testa significa, nel caso di specie, demistificare il discorso di razzisti e buonisti gettando un fascio di luce sul funzionamento dell’economia basata sul profitto, per scongiurare la guerra tra i miserabili, materia prima vivente a disposizione del Capitale. E qui ritorniamo a Grossmann e al Giappone.
Nel capitolo Accumulazione di capitale e problema della popolazione Grossmann fa la storia del Capitalismo tedesco, e mostra come nel corso del suo sviluppo il capitale tedesco avesse via via allargato la propria base di valorizzazione per sostenere i sempre più accelerati ritmi di accumulazione. «Con la rapida espansione dell’industria e con il ritmo accelerato dell’accumulazione di capitale a partire dagli anni ’90 [del XX secolo] cessò l’emigrazione e cominciò persino l’immigrazione (polacchi, italiani) nei settori industriali dell’occidente. Soltanto questo crescente assorbimento della forza lavoro addizionale poteva formare una base sufficiente per la creazione di plusvalore, che era necessaria per la valorizzazione del capitale accresciuto. […] Dopo la crisi del 1907 il capitale è costretto a crearsi una più ampia base di valorizzazione attraverso un più elevato impiego del lavoro femminile che possiede ancora il vantaggio di essere più a buon mercato» (pp. 352-353). Come diceva Marx, i rapporti sociali capitalistici rivoluzionano continuamente non solo la struttura tecnologica delle imprese industriali e commerciali, ma anche la struttura sociale presa nel suo insieme. E degli effetti “sovrastrutturali” di questa “rivoluzione sociale” si trova traccia anche nei commenti dei moralisti: «La mascolinizzazione della donna sotto tutti i punti di vista rappresenta un grande pericolo della civiltà contemporanea». Questo scriveva P. Leroy-Beaulier (citato da Grossmann) nel 1913, che concludeva con queste parole dense di preoccupazioni (di stampo capitalistico, beninteso) tutt’altro che infondate: «Le razze europee manterranno ancora a lungo una eccedenza degna di nota delle nascite rispetto ai decessi?». Calo demografico e immigrazione: in Europa non si sta forse discutendo di questo da molti anni? Allargare la base di valorizzazione e al contempo rendere più economica la sostanza vivente che realizza quella base: un difficile problema che come vediamo ha implicazioni di vario ordine.
Ho pensato al Giappone leggendo le pagine dell’assai istruttivo libro di Grossmann perché quel Paese oggi si confronta con una dinamica demografica molto più problematica di quella europea. Cito, e mi scuso, un mio post del 2015 dedicato appunto al Giappone:
«I giapponesi vantano il non invidiabile primato mondiale per quanto riguarda la loro età media: 44,7 anni. Quella giapponese è, infatti, la popolazione più vecchia del mondo, davanti a quella tedesca e italiana. Alla fine della Seconda guerra mondiale l’età media giapponese si aggirava intorno ai 22,5 anni: esattamente la metà di quella attuale. E se ancora a metà degli anni Settanta del secolo scorso il tasso di natalità in Giappone oscillava sopra il 2%, oggi il Paese deve fare i conti con una decrescita che fa registrare una contrazione della popolazione totale. Sulla scorta di dati basati sulla proiezioni del trend demografico degli ultimi anni, la popolazione giapponese potrebbe passare dagli attuali 125 milioni circa di abitanti a poco più di 80 milioni entro il 2060. La popolazione attiva del Giappone rappresenta una percentuale via via decrescente della popolazione del Paese. Oggi in quel Paese si va in pensione a 70 anni con il 35% dell’ultimo stipendio. L’incidenza delle pensioni sulla spesa pubblica attualmente non supera il 20% del PIL, ma secondo recenti stime questa incidenza potrebbe oltrepassare il 35% entro il 2035. […] Com’è noto, la società del Sol Levante è storicamente chiusa nei confronti di acquisti di popolazioni “barbare”: l’unico gruppo etnico non giapponese che vive nel Paese è quello Ainu, che conta circa 25.000 persone concentrate quasi interamente sull’isola di Hokkaido e sulle Isole Curili. “L’altissimo livello di coesione sociale e razziale della popolazione, che ha sperimentato pochissimi matrimoni misti con etnie diverse”, è alla base di “una coesione che si palesa non solo in un fortissimo senso di identità nazionale e in una specificità culturale, quanto anche – ed è questo che maggiormente impressiona gli occidentali – in una marcata enfasi su principi quali armonia sociale, ricerca del consenso, deferenza generazionale e subordinazione dei desideri individuali al bene collettivo” (P. Kennedy, Verso il XXI secolo, Garzanti, 1993). […] Insomma, la politica della purezza della razza oggi mostra tutti i suoi limiti, e la demografia del Giappone si è incamminata da anni lungo un sentiero molto problematico. Naturalmente qui non si fa riferimento a un’astratta demografia, alla demografia in sé, per così dire, ma alla questione demografica come viene configurandosi nel contesto di una società capitalistica collocata in un pianeta dominato dai rapporti sociali capitalistici. Insomma, una lettura malthusiana di questo problema è, almeno per chi scrive, del tutto priva di senso».
Ritorniamo adesso, per concludere rapidamente, al punto di partenza. Scriveva ieri Cristian Martini Grimaldi sulla Stampa: «Oggi i tassi di natalità più bassi hanno generato un invecchiamento precoce della popolazione e una diminuzione della forza lavoro che hanno messo in serio pericolo la futura crescita economica del Paese. […] Al momento tra le soluzioni contemplate non c’è quella di utilizzare l’immigrazione per compensare il declino. Basti considerare che l’anno scorso sono stati accolti appena 28 richiedenti asilo e 27 nel 2015. Non sorprende dunque se nella relazione annuale sulla politica estera pubblicata ogni anno dal ministero competente si legge già alla seconda pagina: “Il numero di persone che attraversano le frontiere è drammaticamente in crescita a causa della globalizzazione, questo fatto pone una grave minaccia per lo scoppio e la diffusione di malattie infettive”. Nessun cenno quindi alle risorse che potrebbero rappresentare i migranti, si parla solo di un loro potenziale pericolo». E come pensa di supplire all’assottigliamento della base di valore il capitalismo giapponese? È subito detto: automatizzando ogni settore dell’economia, dall’industria, com’è ovvio, ai servizi d’ogni tipo. «Ed ecco allora che lo staff dell’Henna Hotel di Nagasaki è stato rimpiazzato da un’eclettica schiera di robot, tra i quali una signora umanoide che annuisce e regala sprazzi di realistiche espressioni. Ora, per via del costante calo di manodopera, le aziende giapponesi hanno preso a reclutare personale meccanico alla stessa maniera di quello strano hotel».
Se non è possibile estendere fisicamente la base di valore, prosciugando sacche di lavoro umano non ancora “messo a valore”, è necessario intensificare lo sfruttamento di quella stessa base, la quale peraltro tende a restringersi, sia per una questione di calo demografico, sia perché l’intensificazione dello sfruttamento nel Capitalismo avanzato si traduce presto o tardi in un’espulsione di capacità lavorativa divenuta superflua ai fini della valorizzazione. Scriveva Marx: «Nel caso della sottomissione reale del lavoro al capitale, […] si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro e, con il lavoro su grande scale, si sviluppa l’applicazione di scienza e macchina nel processo di produzione immediato» (7). Oggi parlerei di sottomissione totale del lavoro al capitale; di dominio totale e totalitario degli uomini e della natura da parte dei rapporti sociali capitalistici.
C’è un aspetto fondamentale della questione che bisogna considerare, e che qui mi limito a sfiorare. Elevando la composizione organica del capitale, espressione monetaria della composizione tecnologica di un’impresa, si innesca un meccanismo che da virtuoso (si eleva il saggio di sfruttamento del lavoro, definito marxianamente come saggio del plusvalore) tende a trasformarsi in vizioso (si abbassa il saggio del profitto, ossia il rendimento dell’intero capitale investito in una produzione di beni). Infatti, il robot può rendere più produttiva la forza-lavoro ma non può creare plusvalore nel processo produttivo di merci, plusvalore che rappresenta la base reale, la “struttura” che sorregge ogni tipo di profitto e di rendita, ogni superfetazione a carattere speculativo. «Non esiste un capitalista il quale applichi di buon grado un nuovo metodo di produzione quando questo, pur essendo assai più produttivo ed aumentando considerevolmente il saggio del plusvalore, provoca una diminuzione del saggio del profitto. Ma un tal metodo fa diminuire il prezzo delle merci» (8), e ciò consente al capitale tecnologicamente più avanzato, per così dire, di battere la concorrenza.
Insomma, i robot non potranno mai diventare la base di valorizzazione del XXI secolo, e questo non per un limite tecnologico o antropologico, ma per un irriducibile limite storico-sociale.
(1) Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.
(2) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, Jaca Book, 1976.
(3) K. Marx, Il Capitale, I, p. 345, Editori Riuniti, 1980.
(4) E come teorizzava la stessa Rosa Luxemburg in un saggio del 1913: «La realizzazione del plusvalore è a priori legata in quanto tale a produttori e consumatori non-capitalistici. L’esistenza di acquirenti non-capitalistici del plusvalore è dunque condizione diretta di vita per il capitale e per la sua accumulazione, e rappresenta perciò il punto decisivo del problema dell’accumulazione del capitale» (R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 361, Einaudi, 1980).
(5) K. Marx, Il Capitale, III, p. 317, Editori Riuniti.
(6) K. Marx, Il Capitale, I, p. 103.
(7) K. Marx, Il Capitale, capitolo VI inedito, p. 63, Newton, 1976.
(8) K. Marx, Il Capitale, III, p. 318.
Commenti da Facebook
Gabriele:
Si, ok l’analisi. Ma il punto qual è? Dovrebbero importare umanità da valorizzare o possono automatizzare? Devono fare figlioli oppure riarmarsi? Altro? Cioè, le analisi vanno bene, ma le soluzioni pratiche?
Sebastiano Isaia:
Ti ringrazio Gabriele per il giudizio che dai sulla mia analisi («ok»). Quanto al Che fare?, alle «soluzioni pratiche», ebbene non uso dare consigli al Capitale, né allo Stato che ne serve e che ne difende gli interessi. Nella mia concezione la teoria è una forma della prassi, e viceversa. Mettere a nudo l’essenza disumana dell’economia che ha nello sfruttamento del lavoro il suo fondamentale (vitale) movente, mi appare qualcosa di sommamente pratico. Ma questa è solo la mia opinione, ovviamente. Ciao!
Pascal:
In Giappone, perlomeno lì, in fondo il passo non è così abissale; solo un ribaltamento di binomi: da uomini/macchine a macchine /uomini.
Alberto:
Con la robotizzazione aumenterà a livelli esponenziali la miseria crescente nel mondo sino a rendere intollerabile il modo capitalistico di produzione. Il capitalismo perirà in conseguenza del sul moto di valorizzazione!
Jakczy:
Basta aspettare insomma?!
Michele:
Se non c’è capitale umano da sfruttare e dal robot alla lunga non se ne cava niente, la guerra è pur sempre una buona opzione per ripartire; non sono anche al riarmo i giapponesi?!?
Antonio:
Qualche appunto al discorso. a) l’entità della valorizzazione avviene nel mercato e non nella produzione. Quindi anche FB ha un rapporto capitalistico con i dipendenti, non ha importanza quanti sono i lavoratori nella composizione organica (ad alta automazione). Come pure nelle industrie chimiche ma con minore rapporto. b) In tutte le società evolute, gli addetti ai settori produttivi occupano meno del 40% dei lavoratori. Se questa è automatizzata in gran parte il capitalismo, secondo la tua interpretazione di Marx, sarebbe crollato da un pezzo. c) Come suggeriva Marx nella riproduzione allargata, la società sarà composta da capitalisti tagliatori di cedole da un lato e lavoratori dall’altro. In altre parole abbiamo un mondo diviso tra creditori e debitori. ed è questo che abbiamo di fronte. (Senza tante menate sulla formazione del plusvalore e caduta tendenziale del saggio medio di profitto).
Val:
Ciao Sebastiano, due domande. La prima, che necessita di un “cappello” introduttivo: non avendo dimestichezza, quanto te, con Marx, in quanto, pur avendo usufruito di tutti i benefici derivanti dalla sua lettura, continuo a prenderlo e poi ad abbandonarlo, molto probabilmente a causa dei tempi e dello stile di vita che conduco, mi sfugge il nesso della citazione «Nel caso della sottomissione reale del lavoro al capitale, […] si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro e, con il lavoro su grande scale, si sviluppa l’applicazione di scienza e macchina nel processo di produzione immediato» al punto in cui scrivi: “Se non è possibile estendere fisicamente la base di valore, prosciugando sacche di lavoro umano non ancora “messo a valore”, è necessario intensificare lo sfruttamento di quella stessa base, la quale peraltro tende a restringersi, sia per una questione di calo demografico, sia perché l’intensificazione dello sfruttamento nel Capitalismo avanzato si traduce presto o tardi in un’espulsione di capacità lavorativa divenuta superflua ai fini della valorizzazione.”. Hai tempo per ritornarci su e spiegarmelo? Seconda domanda (che forse, più che domanda, si potrebbe definire ‘riflessione’): nel momento in cui affermiamo che in Giappone si insiste sulla questione della razza al punto da andare contro gli interessi del Capitale e quindi della società capitalista dominante, stiamo dicendo che l’atteggiamento ideologico prevale su quello materiale. Nella fattispecie, senza addentrarci in complesse analisi teoriche sui fondamenti, come lo spieghi? Ammesso che tu lo possa fare… Sempre grazie. Un abbraccio.
Sebastiano Isaia:
Come mi capita spesso tendo a sintetizzare passaggi logici, rendendo meno chiaro il passaggio da un concetto all’altro. Di questo mi scuso. Questa volta a mia parziale “discolpa” c’è il fatto, che ovviamente solo io conoscevo, che intendo riprendere in maniera più estesa il tema abbozzato nel post parlando del decennale della crisi. Ad ogni modo si tratta di questo: posta una determinata base di valorizzazione del capitale, fondamento del valore (e del plusvalore), per aumentarne la produttività occorre introdurre mezzi tecnici (Marx parlava di modi di produzione) e nuovi modelli organizzativi in grado di intensificare lo sfruttamento della capacità lavorativa. Si tratta insomma di supplire alla relativa scarsità della base di valorizzazione con un approfondimento del suo sfruttamento, che si può ottenere o allungando in modo assoluto la giornata lavorativa, oppure, come accade nei capitalismi più maturi, allungando quella parte della giornata lavorativa che genera il pluslavoro. A parità di giornata lavorativa cresce il pluslavoro, base vivente del plusvalore. Marx dice che nell’epoca della sottomissione reale del lavoro al capitale è caratteristica l’estorsione di «plusvalore relativo», mentre nella sottomissione solo formale era caratteristica l’estorsione di «plusvalore assoluto». Nel secondo caso si estende in modo appunto assoluto la giornata lavorativa, nel primo caso si allunga solo il tempo di pluslavoro (lavoro erogato gratuitamente), mentre la giornata lavorativa può anche diminuire in termini assoluti. E qui un ruolo fondamentale lo gioca appunto la tecno-scienza. Quando Marx scrive che «la sottomissione reale del lavoro al capitale è il modo di produzione specificamente capitalistico», allude proprio all’uso sempre più invasivo della tecno-scienza per forzare sempre di nuovo i limiti imposti al capitale da qualsivoglia evenienza. Ma questo mostruoso (disumano) sforzo crea nuove contraddizioni, perché l’aumentata composizione organica del capitale (cresce il capitale investito in mezzi di produzione, decresce, in termini relativi o assoluti, il capitale investito in salari: più robot sfruttano meno lavoratori) ha un effetto estremamente problematico sul processo di accumulazione. Sì, alludo alla famosa caduta tendenziale del saggio generale del profitto, un tema che appunto intendo affrontare prossimamente.
Per quanto riguarda la seconda questione, non c’è dubbio che non pochi retaggi, mantenuti per facilitare il controllo sociale da parte della classe dominante, per mantenere coesa la società in vista della contesa interimperialistica (che coinvolge anche aspetti non immediatamente economici: il nazionalismo giapponese si confronta con il nazionalismo cinese, ecc.), possono entrare in contraddizione con gli interessi del capitale, il quale reagisce come può e come sa. Ad esempio, nella fattispecie, spingendo sull’acceleratore della cosiddetta automazione spinta, che a sua volta genera altre magagne, e così via. Come ben sappiamo il Capitalismo è un sistema sociale altamente contraddittorio e dinamico. Non so se sono riuscito a spiegarmi, ma almeno ci ho provato. Ciao!
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