ACCELERAZIONISMO E FETICISMO TECNOLOGICO 2.0

cinecitta-sbsbf-324767Ieri ho finalmente colmato una grave lacuna teorico-politica: ho infatti letto il Manifesto per una politica accelerazionista firmato da Alex Williams e Nick Senicek. A questo Manifesto mi ha portato Toni Negri *, che in un suo articolo ne ha tessuto le lodi, sebbene mitigate da «qualche critica» finale che tuttavia non inficiano l’apprezzamento di fondo. «Che dire di questo documento? Alcuni di noi lo sentono come un “complemento” post-operaista, nato sul terreno anglo-sassone, meno disponibile a riedizioni dell’umanesimo socialista, più capace di sviluppare un umanesimo positivo. Il nome “accelerazionismo” è senz’altro infelice, dà un senso “futurista” a quello che futurista non è. Il documento ha indubbiamente un sapore di attualità, non solo nella critica del socialismo e della social-democrazia “reali”, ma anche nell’analisi e nella critica dei movimenti 2011 e seguenti. Pone con estrema forza il tema della tendenza dello sviluppo capitalistico, della necessità di una sua riappropriazione e della sua rottura: insomma, su questa base, propone la costruzione di un programma comunista». Nientemeno!

Capite bene che sono stato vinto dalla curiosità. Ho dunque letto il Manifesto e qui di seguito ne do un breve e certamente limitato resoconto critico, giusto per stuzzicare la curiosità del lettore.

Debbo dire che anche a me il termine Accelerazionismo ha fatto venire subito alla mente il ben più noto Futurismo, ma a differenza di Negri personalmente non sono del tutto sicuro che tra i due “movimenti” non si possano cogliere tratti comuni. Sono anzi incline a pensare il contrario. Il feticismo tecnologico è forse il punto concettuale che li accomuna. Ma non precorriamo i tempi!

aIl Manifesto si apre con la consueta panoramica catastrofista: «All’inizio della seconda decade del ventunesimo secolo, la civilizzazione globale si trova ad affrontare una nuova progenie di cataclismi. Imminenti apocalissi appaiono ridicolizzare le norme e le strutture organizzative delle politica che furono forgiate alla nascita degli stati-nazione, agli albori del capitalismo e in un ventesimo secolo contrassegnato da guerre senza precedenti. Il più significativo è il collasso del sistema climatico del pianeta, che col tempo minaccia la sopravvivenza della stessa popolazione umana globale. Nonostante questa sia la minaccia più grave che l’umanità si trovi ad affrontare, esistono al suo fianco una serie di problemi non meno destabilizzanti che con essa interagiscono. L’esaurimento terminale delle risorse, in particolare di quelle idriche ed energetiche, indica l’imminente possibilità di carestie di massa, la crisi di interi paradigmi economici e nuove guerre calde e fredde». Naturalmente non manca il riferimento a “problematiche” di natura squisitamente economica: «La continua crisi finanziaria ha indotto i governi ad abbracciare la spirale paralizzante e mortale delle politiche di austerità, che ha comportato privatizzazione dei servizi pubblici, disoccupazione di massa e stagnazione dei salari. La crescente automazione dei processi produttivi — incluso il “lavoro intellettuale” — è la prova della crisi secolare del capitalismo, che presto renderà impossibile mantenere anche gli standard di vita delle ex-classi medie del nord del mondo». Entriamo adesso nel merito più propriamente politico del Manifesto.

«In contrasto con queste catastrofi che continuano ad accelerare, la politica di oggi è afflitta dall’incapacità di generare nuove idee e nuovi modi di organizzazione necessari per trasformare le nostre società e affrontare e risolvere tali imminenti devastazioni. Mentre la crisi prende forza e velocità, la politica langue e indietreggia. In questa paralisi dell’immaginario politico, il futuro è stato cancellato». Come si vede, «la politica» trova in questi passi una declinazione piuttosto generica, priva di contenuti sociali. Di che «politica» si tratta? Quella che «langue e indietreggia» è la politica delle classi dominanti del pianeta, o piuttosto quella delle classi dominate? D’altra parte, possono queste ultime attendersi dalla politica borghese (per usare il linguaggio della verità storico-sociale) un «immaginario politico» diverso da quello che ne attesta sempre di nuovo la cattiva condizione sociale?

Poteva mancare l’attacco all’«ideologia neoliberista» in un Manifesto rigorosamente di sinistra? Certo che no. Eccola: «Fin dal 1979 in tutto il mondo l’ideologia politica egemonicaè stata il neoliberismo, di cui ritroviamo varianti nelle principali potenze economiche. Nonostante le profonde sfide strutturali che i nuovi problemi globali presentano – soprattutto le crisi creditizia, finanziaria e fiscale cominciate negli anni 2007/2008 – i programmi neoliberali si sono evoluti solo nella direzione di una loro intensificazione. L’estensione del progetto neoliberale, o neoliberalismo 2.0, ha iniziato un nuovo ciclo di aggiustamenti strutturali, in particolare incoraggiando nuove ed aggressive incursioni del settore privato in ciò che rimane delle istituzioni e dei servizi del welfare state. Questo nonostante tali politiche abbiano comportato nell’immediato effetti sociali ed economici negativi, e nonostante le nuove crisi globali abbiamo posto profonde barriere a lungo termine». Qui non si dice perché alla fine degli anni Settanta si impose la cosiddetta «ideologia neoliberista», cioè a dire quali furono le cause strutturali del suo sorgere e del suo successo, il quale viene raccontato, secondo l’interpretazione mainstream sinistrorsa, alla stregua di un complotto del privato ordito contro il pubblico. Il rapporto tra «ideologia neoliberista» e crisi capitalistica internazionale; tra rallentamento dell’accumulazione e crisi del vecchio modello di welfare state sorto a partire dagli anni Trenta del secolo scorso; tra caduta del saggio del profitto e finanziarizzazione dell’economia: tutta questa “problematica” non è nemmeno sfiorata, e quindi tutto il discorso intorno al «neoliberismo 2.0» deve necessariamente risultare superficiale e ideologico.

Affermare che con il «neoliberismo inevitabilmente si è trattato di una sublimazione della crisi piuttosto che di un suo definitivo superamento» significa rimanere nel vago e alla superficie del processo sociale.

Movimento1Pure fumoso, generico e ambiguo suona il discorso sugli «effetti sociali ed economici negativi» delle politiche neoliberali (negativi per chi? per i senza riserve? ma poteva essere altrimenti nell’ambito del vigente regime sociale? oppure per il sistema Paese?) e sulle «profonde barriere a lungo termine» generate dalle nuove crisi globali»: barriere a difesa di cosa e contro l’assalto di chi? Forse sbaglio, ma in questi passi sento un’eco del solito impotente lamento progressista (Papa Francesco incluso) circa l’aumento delle diseguaglianze sociali, ecc., ecc., ecc.

«Che le forze di destra governative, non-governative e delle multinazionali siano state capaci di promuovere il neoliberalismo in questo modo è, almeno in parte, un risultato della continua paralisi e della natura inconcludente di buona parte di quello che rimane della sinistra. Trent’anni di neoliberismo hanno reso la maggior parte dei partiti politici di sinistra spogliati di pensiero radicale, del tutto svuotati e senza un mandato popolare». Qui si capisce qual è il referente – l’interlocutore – politico privilegiato del Manifesto, ossia la «sinistra», i «partiti politici di sinistra», in poche parole, in Italia, ciò che resta del defunto PCI, cioè del partito che dai tempi della sua violenta stalinizzazione non ebbe più nulla a che fare con il progetto di emancipazione del proletariato e dell’intera umanità chiamato Comunismo. Un partito borghese a tutti gli effetti, nonostante il nome (peraltro non a caso mutato da PC d’Italia in PC italiano, a segnalarne il carattere nazionale, ossia appunto pienamente borghese). Si capisce allora perché mi vien da sorridere, sia detto senza alcuna spocchia né presunzione di superiorità (che peraltro sarebbe infondata), quando leggo passi del genere: «Trent’anni di neoliberismo hanno reso la maggior parte dei partiti politici di sinistra spogliati di pensiero radicale». Mi sembra un po’ deboluccio il «pensiero radicale» a cui il Manifesto fa riferimento con una certa nostalgia. Se facciamo un banale calcolo usando la datazione offerta dal Manifesto, arriviamo al 1984 (guarda un po’ il caso, è l’anno in cui morì l’onesto Enrico), e non mi sembra che la sinistra brillasse allora quanto a «pensiero radicale». D’altra parte, la radicalità è un concetto assai relativo, e dipende da chi lo “declina”, così che, ad esempio, a un repubblicano di destra perfino un Obama può apparire radicale fino al punti di sfiorare “l’utopia socialista”. Non ha forse detto Berlusconi che il Presidentissimo Napolitano gli fa venire in mente il film Profondo rosso?

«Nel migliore dei casi essi [i partiti di sinistra] hanno risposto alle crisi attuali con appelli per un ritorno ad una economia keynesiana». Ma mi sembra abbastanza scontato per dei partiti borghesi ancorché “di sinistra”. Personalmente da quei partiti non mi sarei mai aspettato una diversa risposta: infatti, fin da bambino ho imparato che l’iniziativa anticapitalista può venire solo da soggetti politici che negano in radice (radicalmente) il rapporto sociale capitalistico di dominio e di sfruttamento, e sono purtroppo questi soggetti che latitano. Purtroppo dal mio punti di vista, si capisce. Da partiti borghesi, di “destra” e di “sinistra”, mi aspetto la difesa dello status quo sociale, l’atteggiamento che ad esempio portò Keynes negli anni Trenta a teorizzare il massiccio intervento dello Stato nell’economia per salvare il Capitalismo da un crollo che allora appariva probabile, e per non pochi economisti e sociologi borghesi addirittura imminente. La Seconda carneficina mondiale, nella sua preparazione e nel suo sanguinoso e distruttivo dispiegamento, si rivelò essere la sola misura sociale in grado di ripristinare le virtuose condizioni per la ripresa in grande stile dell’accumulazione capitalistica. Quando il neokeynesiano Paul Krugman invoca ironicamente, come strada maestra per uscire dal tunnel della crisi capitalistica di lungo periodo, l’invasione aliena e la necessaria contro risposta sul modello dell’ultima guerra mondiale, probabilmente egli dice la sola cosa intelligente che è in grado di proferire. Chiudo la parentesi.

«Anche i regimi neosocialisti della Rivoluzione Bolivariana sudamericana, seppure rincuorano nella loro capacità di resistere ai dogmi del capitalismo contemporaneo, rimangono, in maniera deludente, incapaci di avanzare un’alternativa che vada aldilà delle forme del socialismo della metà del ventesimo secolo». Cosa ci si può aspettare sul piano dell’elaborazione teorica e politica da persone che si sono fatte delle illusioni perfino sui «regimi neosocialisti»? Il Capitalismo di Stato basato sulla rendita petrolifera concepito come “neosocialismo”: la cosa non mi sorprende affatto, e conferma piuttosto la tesi a cui ho sempre tenuto fermo secondo la quale i rimasugli dell’esperienza “comunista” (alludo non solo al PCI, ma anche ai gruppi che lo contestavano “da sinistra”) rimangono “strutturalmente” legati al vecchio impianto stalinista-maoista, quello appunto che spacciava per socialismo, ancorché “reale”, il Capitalismo di Stato in Russia e in Cina. Non a caso il Manifesto parla di superamento del «socialismo della metà del ventesimo secolo», dando per scontata la sua esistenza. Cosa che chi scrive nega da sempre – non esageriamo: dalla fine degli anni Settanta.

Ma veniamo al concetto di accelerazione. «Contrariamente ad una critica già molto nota e all’atteggiamento di alcuni marxisti contemporanei, dobbiamo ricordare che lo stesso Marx utilizzò i dati empirici a lui disponibili e gli strumenti teorici più avanzati nel tentativo di comprendere appieno e trasformare il suo mondo. Non fu un pensatore che resisteva alla modernità, ma piuttosto un pensatore che cercava di analizzarla e intervenire all’interno di essa, capendo che nonostante tutto lo sfruttamento e la corruzione, il capitalismo rimaneva il sistema economico più avanzato del tempo. I suoi vantaggi non dovevano essere invertiti, ma accelerati oltre le restrizioni della forma valore capitalista». Intanto non esiste la «modernità» astrattamente intesa, ma la modernità capitalistica, quella che appunto Marx penetrò criticamente e dialetticamente per mostrare che sulla base del Capitalismo per la prima volta l’umanità poteva immaginare e, soprattutto, praticare la strada che poteva (che può) emanciparla da ogni forma di asservimento naturale e sociale: dal Regno della necessità l’uomo poteva (può) passare al Regno della libertà, la sola dimensione esistenziale che rende possibile il respiro dell’uomo in quanto uomo. Anziché sognare impossibili ritorni indietro verso modi di produzione ritenuti meno disumani (ad esempio quelli basati sul lavoro artigiano o sulla piccola produzione industriale e contadina), si trattava di superare il capitalismo con uno scatto rivoluzionario in avanti. Di qui, la sua critica del socialismo piccolo borghese. Questo in primo luogo.

In secondo luogo Marx scriveva in un tempo in cui il Capitalismo non aveva ancora sviluppato tutte le sue enormi capacità produttive, un capitalismo che non aveva prodotto le distruzioni della prima e della Seconda guerra imperialista, mentre noi ci troviamo a che fare con un regime sociale che non ha più nulla da dare in termini di progresso storico.

Mi permetto una citazione da Eutanasia del Dominio (2008): «L’economia basata sul calcolo comunista lascia immaginare il soddisfacimento dei bisogni umani al più alto livello qualitativo possibile, e col minore dispendio di energie umane e naturali possibile. Le più avanzate tecnologie informatiche dei nostri tempi lasciano intuire quanto possa essere facile quel calcolo in termini puramente organizzativi. D’altra parte già oggi esistono tecnologie produttive a bassissima dissipazione energetica e a bassissimo inquinamento, e nuovi materiali poco inquinanti (ad esempio, già oggi la plastica potrebbe essere sostituita da sostanze di origine vegetale, come quelle derivanti dalla soia, ma sono ancora troppo costose per il “calcolo capitalistico”) il cui uso non è ancora economicamente razionale. Per questo più che sviluppare in senso quantitativo le forze produttive sociali, come legittimamente potevano pensare Marx o Lenin a partire dal grado di sviluppo del capitalismo che avevano dinanzi, si tratterà piuttosto di mettere un freno a questo tipo di sviluppo, e di riorientarlo in senso qualitativo. Sotto questo aspetto il pensiero ecologista, nella sua critica anticonsumista e antisviluppista, coglie nel segno, ma deraglia completamente quando immagina una economia “a misura d’uomo e di natura” sulla base degli attuali rapporti sociali, che sono per definizione rapporti nichilisti nei confronti dell’uomo e della natura. Questa critica si risolve, nei fatti, in una feconda sollecitazione per il capitalismo, stimolato a dotarsi di tecnologie sempre più sofisticate, in grado di risparmiare risorse energetiche e umane. Non è un caso che i cosiddetti standard qualitativi siano diventati negli ultimi venti anni un eccezionale strumento di lotta nella competizione tra le più grandi multinazionali mondiali, nonché un peso insopportabile per le imprese di piccole e medie dimensioni (infatti la “qualità” costa molto)».

Per il Manifesto in questione, invece, si tratta di portare alle estreme conseguenze le tendenze accelerazioniste immanenti al Capitalismo e da esso stesso in qualche misura frenate. «Infatti, come anche Lenin scrisse nel testo del 1918 sull’infantilismo di sinistra: “Il socialismo è inconcepibile senza l’enorme macchina capitalista basata sui più recenti progressi della scienza moderna. Non è concepibile senza un’organizzazione statale che prevede di sottoporre decine di milioni di persone alla più rigorosa osservanza di un’unica norma di produzione e di distribuzione. Noi marxisti, questo lo abbiamo sempre detto, e non vale neanche la pena di perdere nemmeno due secondi a parlare con gente che non lo ha capito (anarchici e una buona metà dei rivoluzionari della sinistra socialista)”». Ma Lenin polemizzava con il punto di vista anarcoide e piccolo borghese nel momento in cui per l’arretrata Russia rivoluzionaria del 1918 il «capitalismo di Stato tedesco» si offriva agli occhi dei bolscevichi come il modello da seguire in vista della transizione al socialismo: «Finchè in Germania la rivoluzione ancora tarda a “nascere”, il nostro compito e di metterci alla scuola del capitalismo di Stato tedesco, di cercare di assimilarlo con tutte le forze, di non rinunciare ai metodi dittatoriali per affrettare questa assimilazione ancor di più di quello che fece Pietro I» (p. 309). Qui Lenin esprime il punto di vista della rivoluzione proletaria considerata dalla prospettiva di un Paese che egli non si perita di definire «barbaro», socialmente arretrato, bisognoso di svilupparsi in senso capitalistico. Di notevole nella posizione di Lenin c’è l’idea che non bisogna ingannare e auto ingannarsi quando si tratta di fare i conti con la realtà: «Nessun comunista ha negato, a quanto pare, che l’espressione “repubblica socialista sovietica” significa che il potere dei soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici» (p. 305). Questa lucidità analitica e politica in parte fu persa per strada durante il cosiddetto Comunismo di guerra, per rifare drammaticamente capolino alla fine della guerra civile, quando le illusioni “accelerazioniste” del periodo precedente si infransero contro la dura realtà di una rivoluzione entrata in pericolosa, e alla fine mortale, sofferenza. Sulla mia lettura della sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre rimando il lettore a Lo scoglio e il mare.

Che senso ha dunque, tirare in ballo quella posizione leniniana oggi, nell’epoca della sussunzione totalitaria del pianeta al Capitale? «L’enorme macchina capitalista» non è già sufficientemente… enorme? Ciò che in Lenin suona come storicamente fondato, nel Manifesto suona invece come apologetico. Esagero? Vedete un po’ voi: «Come Marx era ben consapevole, il capitalismo non può essere identificato come l’agente della vera accelerazione. Ma allo stesso modo valutare la politica di sinistra come antitetica all’accelerazione tecnosociale è, almeno in parte, un grave travisamento. Se davvero la sinistra vuole avere un futuro, deve essere quello in cui essa stessa abbracci al massimo la sua repressa tendenza accelerazionista».

Né poteva mancare nel Manifesto una strizzatina d’occhio a Gramsci, riletto sempre in termini accelerazionisti: «La sinistra deve sviluppare egemonia sociotecnologica: sia nella sfera delle idee, che nella sfera delle piattaforme materiali». La tecnologia come strumento di lotta anticapitalista? Tenendo conto che la tecnologia capitalistica è l’espressione di peculiare rapporti sociali, che significa, in concreto, «sviluppare egemonia sociotecnologica»? Significa, forse, muoversi sullo stesso terreno della tecnoscienza capitalistica per conseguire obiettivi anticapitalistici? A occhio, mi sembra un’impresa quantomeno azzardata. Diciamo così.

«Il capitalismo ha iniziato a reprimere le forze produttive della tecnologia, o almeno, a dirigerle verso fini inutilmente limitati». Ancora una volta: in che senso «fini inutilmente limitati»? Ciò che nel Capitalismo decide dello sviluppo tecnologico è, in ultima analisi, la legge del profitto, che regola l’accumulazione e i momenti essenziali dell’economia capitalistica colta nella sua complessa totalità. Più che alle forze produttive della tecnologia, bisogna dunque por mente al grado di sfruttamento del lavoro vivo, il quale notoriamente ha molto a che fare con la composizione tecnica del capitale.

«Le guerre dei brevetti e la monopolizzazione delle idee sono fenomeni contemporanei che indicano sia il bisogno del capitale di superare la concorrenza, ma soprattutto l’approccio sempre più retrogrado del capitale alla tecnologia». Qui apro una piccola parentesi. Una volta Lenin parlò del conservatorismo tecnologico del Capitalismo maturo (vedi l’Inghilterra del suo tempo) giunto nella sua fase monopolistica. Come sempre, egli ne parlò in termini di tendenza generale, la cui complessa e contraddittoria fenomenologia andava indagata Paese per Paese, fase per fase. Se è indubbio che il monopolio giocò allora un ruolo importante nel fenomeno di “raffreddamento tecnologico”, la causa più profonda di questo fenomeno va ricercata tuttavia in una insufficiente valorizzazione del capitale che colpisce i settori più maturi dell’industria, là dove l’alta composizione organica del capitale tende a schiacciare il saggio del profitto. Quando ciò accade, il capitale industriale non solo tende a conservare la vecchia base tecnica della produzione, ma può anche decidere di abbandonare, in parte o integralmente, quei settori per penetrare in nuove sfere produttive, oppure nel mercato creditizio, in patria o all’estero, ossia là dove c’è la promessa di rendimenti migliori. Il rapporto tra accumulazione e propensione alla modernizzazione del sistema produttivo attirò l’attenzione dello stesso Adam Smith, il quale notò che il ritmo di accumulazione era tanto più veloce, quanto meno ricche e meno tecnologicamente avanzate erano le nazioni che si mettevano sulla scia dell’Inghilterra.

«L’approccio sempre più retrogrado del capitale alla tecnologia» non solo non è una “legge assoluta” nel Capitalismo del XXI secolo, ma essa non è sempre corrispondente alla realtà dei fatti, i quali mostrano piuttosto un continuo sviluppo della tecnoscienza. Uno sviluppo che, come sempre nel Capitalismo, è strettamente connesso alla bronzea legge del profitto. Di qui, accelerazioni, decelerazioni, battute d’arresto, nuove accelerazioni e via di seguito. Ho quasi l’impressione che gli autori del Manifesto vogliano essere più realisti del re, più capitalisti dei capitalisti: per loro la “distruzione creativa” non è ancora al giusto livello. Personalmente ritengo che ci sia già fin troppa distruzione…

Ma i nostri amici accelerazionisti sono assai più esigenti rispetto a chi scrive; per loro di Capitalismo, tecnoscienza inclusa, non ce n’è mai abbastanza. «Gli accelerazionisti intendono liberare le forze produttive latenti. In questo progetto, la piattaforma materiale del neoliberismo non ha bisogno di essere distrutta. Vogliamo accelerare il processo dell’evoluzione tecnologica. Ma ciò di cui argomentiamo non è tecno-utopismo. Mai credere che la tecnologia sia sufficiente a salvarci. Necessaria sì, ma mai sufficiente senza azione socio-politica. La tecnologia e il sociale sono intimamente legati l’uno all’altra, e il mutamento dell’uno potenzia e rinforza il mutamento dell’altra. Laddove i tecno-utopisti sostengono che l’accelerazione automaticamente eliminerà il conflitto sociale, la nostra posizione è che la tecnologia debba essere accelerata proprio perché necessaria per vincere i conflitti sociali stessi». Ma «accelerata» dove? quando? come? Si sta parlando della vigente società capitalistica, oppure si allude a una possibile società futura postcapitalistica? Non è forse a questa ipotizzata e auspicata società che spetterà il compito di regolarsi come meglio crederà circa la tecnologia? Domanda dirimente: che tipo di società “postcapitalistica” hanno in mente gli autori del Manifesto? Di che razza di «accelerazione umana» si parla?

È presto detto: «Qualsiasi trasformazione della società deve coinvolgere sperimentazione economica e sociale. Il progetto cileno Cybersyn è emblematico di un simile atteggiamento sperimentale, fondendo tecnologie cibernetiche avanzate con sofisticati modelli economici e una piattaforma democratica materializzata nella sua stessa infrastruttura tecnologica. Esperimenti simili furono condotti negli anni ’50 e ’60 anche nell’economia sovietica: la cibernetica e la programmazione lineare furono impiegate nel tentativo di superare i nuovi problemi affrontati della prima economia comunista. Che entrambi gli esperimenti non abbiano avuto successo si può ricondurre ai vincoli politici e tecnologici in cui questi pionieri cibernetici operavano». Ora, prescindendo da ogni altra considerazione, si può dar credito a persone che credono che l’economia sovietica degli anni ’50 e ’60 fosse la «prima economia comunista» della storia? Se poi a questa invitante concezione del “comunismo” sommiamo il palese feticismo tecnologico che traspira da tutti i pori del Manifesto, capite bene che la società prospettata dagli accelerazionisti non mi piace neanche un poco.

Per rendersi conto dell’ambiguità, sempre per rimanere sul terreno dell’eufemismo, che caratterizza il discorso politico del Manifesto è sufficiente leggere quanto segue: «Per raggiungere ognuno di questi obiettivi, a livello più pratico riteniamo che la sinistra accelerazionista debba pensare più seriamente ai flussi di risorse e denaro necessari alla costruzione di una nuova ed efficace infrastruttura politica. Al di là della formula del people power e dei corpi nelle strade, abbiamo bisogno di finanziamenti, sia da parte di governi che istituzioni, think tank, sindacati o singoli benefattori. Riteniamo che la localizzazione e l’indirizzamento di tali flussi di finanziamento siano essenziali per iniziare a ricostruire una efficace ecologia delle organizzazioni della sinistra accelerazionista». Un «potere di classe» finanziato dal nemico di classe ancora non si era mai visto. Ma quanto sono pragmatici e astuti questi accelerazionisti! A loro la rodata e sempre di nuovo confermata (anche dal presente Manifesto) astuzia del Dominio fa un baffo.

Eccone un esempio: «Abbiamo bisogno di promuovere una riforma dei mezzi di comunicazione su larga scala. Nonostante l’apparente democratizzazione che offrono internet e le reti sociali, i mezzi di comunicazione tradizionali rimangono cruciali per selezionare e definire narrazioni, assieme al possesso delle risorse economiche necessarie per continuare a promuovere il giornalismo investigativo. Portare questi organi il più vicino possibile al controllo popolare è cruciale per disarticolare lo stato attuale delle cose». Come questa auspicata «riforma dei mezzi di comunicazione su larga scala» possa in qualche modo produrre «nuovo potere sociale» resta per me un mistero, e forte rimane la sensazione che i riformisti dell’Accelerazione continua e permanente lavorino, loro malgrado (“a loro insaputa”) per il Re di Prussia. La sindrome della mosca cocchiera qui fa capolino.

«Il futuro ha bisogno di essere costruito. È stato demolito dal capitalismo neoliberista e ridotto ad una promessa al ribasso di maggiori disuguaglianze, conflitto e caos. Questa crisi dell’idea di futuro è sintomatica della situazione storica regressiva della nostra epoca, e non, come i cinici di tutto lo spettro politico vorrebbero farci credere, un segno di maturità scettica. Ciò che l’accelerazionismo propone è un futuro più moderno — una modernità alternativa che il neoliberismo è intrinsecamente incapace di generare. Il futuro deve essere infranto e riaperto ancora una volta, sganciando i nostri orizzonti verso le universali possibilità del Fuori». Detto che il nemico di tutto ciò che odora, anche alla lontana, di umano non è il «capitalismo neoliberista» ma il Capitalismo tout court; detto questo occorre ripetere che ciò che ha demolito il futuro è stata soprattutto la più grande menzogna del XX secolo: il “comunismo” in Russia, in Cina e negli altri Paesi cosiddetti “comunisti” e “socialisti”. L’esistenza del «socialismo reale», ossia di un miserabile Capitalismo di Stato aggressivo all’interno della società come all’estero, ha annichilito l’idea stessa di una comunità umana, di una comunità finalmente libera da miseria, violenza e coazioni di varia natura, e ha convinto milioni di sfruttati nel mondo che, dopo tutto, il sistema capitalistico non è poi così schifoso se paragonato  al “comunismo”. Per questo il «futuro più moderno» proposto dagli accelerazionisti non mi sembra poi così alternativo rispetto all’escrementizia realtà che ci tocca subire tutti i giorni.

Il futuro immaginato degli accelerazionisti appare ai miei occhi fin troppo decrepito, ossia incapace di oltrepassare concettualmente l’odierna dimensione del Dominio, e tutto il gran parlare di cibernetica, di algoritmi piegati alle esigenze del «nuovo potere sociale» e di «un’accelerazione che sia anche ‘navigazionale’, processo sperimentale di scoperta all’interno di uno spazio di possibilità universale» può impressionare e affascinare solo il pensiero irretito in quel feticismo tecnologico che ancor prima di essere una “sovrastruttura” ideologica, è in primo luogo esso stesso struttura del dominio capitalistico.

Probabilmente anche il Manifesto per una politica accelerazionista paga un tributo alla lettura ideologica che i teorici del Capitalismo cognitivo** hanno fatto del general intellect, concetto che in Marx ha una pregnanza teorica e politica potentemente dialettica (rivoluzionaria), mentre nei teorici di cui sopra esso svolge una funzione ideologica chiamata a supportare chimerici programmi comunardi da realizzarsi hic et nunc, nell’ambito stesso del Capitalismo, nonché intellettualistiche congetture intorno a supposti «nuovi soggetti rivoluzionari» generati sempre di nuovo dalle trasformazioni strutturali che intervengono nel Capitalismo avanzato. In questo senso si può davvero parlare di “cattivi maestri”.

PoleVault-Marey_movimento_immagini-e1354693194945* Scrive Negri: «Abbiamo bisogno di specificare quanto comune sta in ogni connessione tecnologica, sviluppando un approfondimento specifico dell’antropologia produttiva» (Riflessioni sul Manifesto per una Politica Accelerazionista, Uninomade, 7 febbraio 2014). Il Capitalismo (il «comune perverso») e la sua alternativa (il comune della supposta autonomia sociale e dell’altrettanto  immaginaria virtuosa cooperazione sociale) coesisterebbero l’uno accanto – e intrecciato – all’altro in un rapporto conflittuale che strutturerebbe, al contempo, la nuova società capitalistica e la nuova lotta di classe. È come se vivessimo dentro un dualismo di potere sociale permanente, il cui esisto appare sempre a un passo dal poter arridere alle forze dell’emancipazione, salvo vedere puntualmente trionfare le forze della conservazione sociale.

È evidente che all’interno di questo quadro concettuale la gramsciana egemonia, declinata secondo i noti canoni postmodernisti di Negri (sintetizzabili nei concetti di «democrazia dal basso», «autogoverno», «produzione di soggettività»), e perciò caricata di nuove ambiguità teoriche e politiche, viene a giocare un ruolo fondamentale.

Toni Negri sostiene che «Il comune non è un ideale (può anche esserlo) ma è la forma stessa nella quale la lotta di classe oggi si defi­ni­sce». Potrei pure condividere questa tesi. Ma solo in questo ristrettissimo senso: lo sfruttamento è il destino comune di chi sopravvive vendendo il proprio tempo ai funzionari del Capitale. Il dominio sempre più totalitario e globale (nell’accezione più vasta del concetto) del capitale è il destino comune di tutti gli individui che vivono su questo pianeta. L’essere sfruttati a vario titolo e in modi diversi dal Moloch capitalistico è ciò che accomuna tutti gli individui ridotti alla stregua di «capitale umano» da mettere a valore, per dirla con l’economia volgare.

Insomma, nell’accezione eterodossa che ne do io il comune non è che un altro modo di nominare il capitalismo, mentre per Toni negri le cose stanno in modo affatto diverso: «”Comune” come prin­ci­pio che anima sia l’attività col­let­tiva degli indi­vi­dui nella costru­zione di ric­chezza e della vita, sia l’autogoverno di que­ste attività» (La metafisica del comune).

Irretito ormai da decenni in una falsa dialettica che gli fa vedere sempre incinta la madre delle “rivoluzioni” (di qui il suo mediaticamente accattivante “ottimismo della rivoluzione”), Negri individua l’alternativa al Capitalismo come qualcosa che già vive dalle nostre parti, qualcosa che non si dà sotto la forma della possibilità, ma piuttosto come processo già in atto, come attualità, sebbene un’attualità gravata delle contraddizioni che le derivano dalla persistenza dei rapporti sociali capitalistici.

** «Siamo in una diversa fase di sviluppo dello sfruttamento capitalistico, quella che Carlo Vercellone – a proposito del rapporto fra capitale cognitivo e lavoro cognitivo – non chiama già più post-industriale, ma decisamente informatica. Una fase che ormai comincia a trovare il suo equilibrio, e in cui il rapporto di sfruttamento – nella attuale figura estrattiva – diventa assai difficile da definire, perché in quest’ambito c’è sicuramente confusione ed ibridazione di capitale fisso e lavoro vivo, forse riappropriazione di capitale fisso da parte dei soggetti stessi, e c’è un’emergenza di cooperazione sociale che probabilmente deve essere considerata come un dispositivo di autonomia» (T. Negri, La comune della cooperazione sociale). Probabilmente però le cose non stanno affatto così.

Probabilmente ciò che Negri e i teorici del Capitalismo cognitivo registrano come «emergenza di cooperazione sociale» e «dispositivo di autonomia» altro non è che l’ulteriore espansione quantitativa e, soprattutto, qualitativa del rapporto sociale capitalistico in ogni ambito della prassi sociale. Per quanto riguarda la «tematica antropologica» ai tempi del «capitalismo cognitivo», Negri travisa analiticamente e capovolge concettualmente l’individuo capitalistico ad alta composizione organica (secondo il concetto marxiano ripreso da Adorno in Minima moralia) dei nostri tempi. La cosa appare abbastanza chiara nei passi che seguono: «L’elemento importante da considerare, qui, è che ormai il comando capitalista non opera più semplicemente una sorta di iniezione di elementi tecnologici nel corpo umano, ma ha ora a che fare in maniera altrettanto importante con una capacità di riappropriazione e di trasformazione autonoma degli elementi macchinici in strutture dell’umano. Oggi quando si parla di “passioni sociali” si deve parlare di passioni legate al consumo passivo di tecnologie ma anche e soprattutto di consumo attivo». Più che una puntuale critica dell’alienazione capitalistica e della sussunzione totalitaria dell’individuo al Capitale, troviamo nell’elaborazione teorica di Negri robusti fili che attraverso l’esaltazione del «lavoro cognitivo» la connettono direttamente al feticismo tecnologico e all’etica borghese – che tende a farsi apologia – del «lavoro buono». Persino la rivendicazione di un reddito sociale garantito, nella misura in cui è concepito come «validazione sociale e un mezzo di finanziamento di questa rete densa di attività non mercantili che la società del General Intellect crea, al di là del salariato» (L. Baronian, C. Vercellone, Moneta del comune e reddito sociale garantito), appare informata da quel tipo di etica.  La stessa cosa può dirsi circa la parola d’ordine negriana del «rifiuto del lavoro». L’ossessione lavorista, declinata “cognitivamente”, sembra un marchio di fabbrica dei teorici del Capitalismo cognitivo.

Vedi Sul concetto di miseria sociale e sui proudhoniani 2.0.

29 pensieri su “ACCELERAZIONISMO E FETICISMO TECNOLOGICO 2.0

  1. Non mi ha mai sorpreso, sin dall’inizio, la reazione di questi giovanissimi intellettuali inglesi (non a caso formatisi nelle migliori università londinesi) alla povertà prudente e alla frugalità bio-equo-solidale dei loro coetanei decrescisti che si autoflagellavano in attesa dell’Apocalisse. “Rebels without a dialectic” li chiamavo, parafrasando il titolo di un film di culto con James Dean.

    Divertenti, astuti, con un caustico senso dell’umorismo: confesso che in qualche modo – nonostante i loro enormi limiti politici – mi stavano simpatici. Bravi ragazzi, insomma. Spero solo non si lascino incantare dalle lusinghe del “cattivo maestro”.

    Ad ogni modo, per chi fosse interessato ad un approfondimento sulla loro corrente, ecco il link del podcast del simposio “Accelerationism” tenutosi alla Goldsmiths di Londra nel 2010: http://backdoorbroadcasting.net/2010/09/accelerationism/.

    Presto in stampa anche la loro “genealogia”: http://www.urbanomic.com/pub_accelerate.php

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  12. “(….) dal Regno della necessità l’uomo poteva (può) passare al Regno della libertà, la sola dimensione esistenziale che rende possibile il respiro dell’uomo in quanto uomo.” C’è però quì da aggiungere un “piccolissimo” dettaglio: per Marx, come per il marxismo conseguente, il Regno della Libertà “può fiorire SOLO sulla base di quel Regno della Necessità”. Nella frase conclusiva di questo passo del Capitale (Das Kapital), Marx mette bene in guardia il lettore: non ci si faccia illusioni che il regno della libertà sia un regime opposto a quello della necessità; esso altro non è che lo SVILUPPO di quest’ultimo, ed è pur sempre un regno della necessità. Si tratta, cioè, di un prodotto, di una diversità organica allo stesso regno della necessità e per nulla della sua negazione. Non a caso Marx ed Engels ripresero quetso tema da Hegel, che ben aveva carpito il rapporto tra libertà e necessità. Nell’accezione esclusiva di questa “fioritura” del regno della libertà sullo stesso regno della necessità sta la legge fondamentale: il regno di necessità è la base, la costituzione del regno di libertà ed ESCLUSIVAMENTE su questo esso può realizzarsi.

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