LA GUERRA MONDIALE E IL FRONTE INTERNO

1. Sotto i nostri occhi si dipana uno scontro politico-sociale senza precedenti, almeno negli ultimi trent’anni. La posta in gioco è, né più né meno, la radicale ristrutturazione del potere economico e politico in Italia. Il tutto, ovviamente, in stretta relazione a quanto sta avvenendo sul piano internazionale, a partire dal Vecchio Continente, certo, ma il processo che ci coinvolge come Sistema-Paese travalica anche quei limiti geopolitici. Siamo infatti immersi al centro di una inaudita guerra mondiale tra sistemi capitalistici per la conquista della leadership economica, politica (militarismo incluso) e ideologica del pianeta. La storia ha conosciuto pochi movimenti tellurici di simile potenza e ampiezza. L’urto tra le sfere geopolitiche e geoeconomiche del mondo dà luogo a un effetto di trascinamento «a cascata», del tipo «effetto domino», che ha come suo ultimo pezzo il singolo individuo. Qui la metafora ecologista della farfalla che battendo le ali in un punto del globo, provoca eventi imprevedibili nel suo antipode è perfettamente plausibile, e ci dà la misura dell’impotenza degli individui, sussunti sotto «poligoni di forze» che sfuggono totalmente al loro controllo e alla loro stessa capacità di comprensione.

Il fatto che la guerra mondiale sistemica si dispieghi su un terreno “pacifico”, non deve né sorprenderci né rassicurarci. Infatti, da sempre il «fatto bellico» ha come suo fondamento sociale di ultima istanza gli interessi che fanno capo alla sfera economica, e difatti un blocco imperialistico (il Patto di Varsavia) è andato in sfacelo e un grande Paese (la Germania) ha potuto ricomporre il proprio storico spazio geopolitico senza l’intervento di carrarmati, di fortezze volanti e di portaerei, ma in grazia di una potente pressione originata dal processo di accumulazione capitalistica. La potenza degli Stati moderni riposa sulla potenza economica, e questa semplice verità presto o tardi deve necessariamente affermarsi, mettendo fuori corso vecchie e nuove illusioni intorno al primato della politica o, addirittura, della cultura nell’ambito della società capitalistica. Certo, il processo economico è più lento nel dare i suoi necessari effetti geopolitici, ma la sua radice è la stessa che fa germogliare il «fatto bellico». Chi definisce irrazionale il comportamento della Germania a proposito della Grecia, il cui salvataggio dilazionato e a stillicidio comporta un costo sempre crescente anche per quel Paese «oggettivamente nazista», non comprende che chi vuole vincere una guerra non bada ai suoi costi, ma ai benefici futuri che il successo porterà, ripagando con gli interessi i sacrifici del presente. Chi non risica

EFFETTO DOMINIO

Per tutte queste ragioni ciò che accade sotto i nostri impotenti occhi di italiani e di «cittadini del mondo» deve allarmarci; la continuazione della guerra economico-politica con altri mezzi è assai più che una tesi suggestiva quanto storicamente superata, tanto più che la realtà che essa esprime non cessa invece di produrre effetti che noi non controlliamo, né come singoli individui, né come «volontà politica collettiva», ossia come ordinamento statuale. La stessa possibilità di una guerra guerreggiata, oltre ad essere un eccezionale sintomo, che rimanda direttamente alla radice del Male, produce fatti concreti su diversi piani, inclusi quelli afferenti la nostra stessa percezione del mondo. Anche se non si trasforma in atto, quella possibilità ci martella alle spalle, senza che ne avvertiamo la presenza, come un fantasma sempre sul punto di incarnarsi. Non per niente l’equilibrio politico mondiale del secondo dopoguerra fu definito «del terrore».

Quando ti chiedono sacrifici, mandali a… Ci siamo capiti!

2. A proposito di spettri. Il lettore distratto ha forse visto negli scritti che dedico a Enrico Berlinguer una sorta di accanimento terapeutico antiprogressista, ovvero una mia personale antipatia nei confronti di quel personaggio politico. Niente di tutto questo. Come il lettore attento avrà capito, non ho fatto dell’archeologia politica, magari perché mosso da antipatia – tanto più che il «sardo muto» mi faceva ridere, con la sua cadenza sassarese –, ma piuttosto cronaca della più stretta attualità. Ho voluto semplicemente mostrare il retroterra sociale degli eventi che stanno mettendo a soqquadro il Bel Paese, ponendo l’accento sulla vetustà delle magagne che ancora gravano su di esso. Proprio lo scenario mondiale appena abbozzato conferisce agli annosi problemi italiani, «strutturali» e «sovrastrutturali» (persino «antropologici», a dare ascolto agli Scienziati Sociali che oggi ci amministrano con piglio decisionista), una dimensione da ultima spiaggia: di qua la Salvazione, di là l’Abisso del default!

Effetto farfalla

La crisi strutturale del Paese ha messo in moto processi di ampia portata che investono tutti i livelli del potere sociale: dalla sfera economica a quella politica, dalla Confindustria al Sindacato, e persino il sismografo del Vaticano avverte le scosse che crepano il vecchio assetto politico-sociale della Nazione. La ridicola disputa intorno al colore politico del cosiddetto «governo dei tecnici» (è di «destra» o di «sinistra»?) e al futuro del suo leader («non dobbiamo regalare Monti alla destra», dice la “sinistra”; «non dobbiamo regalare Monti alla sinistra», dice la “destra”) ci fa capire quanto inessenziali e oziosi siano i ragionamenti della «vecchia politica», costretta a manifestare tutta la propria impotenza dinanzi a necessità che fanno capo alla prassi sociale chiamata a sorreggere l’intero edificio. Alludo ovviamente all’economia.

Come ho già scritto diverse volte, se non riparte l’accumulazione capitalistica in grande stile, la crisi del debito si avviterà in un circolo sempre più vizioso, il Welfare esalerà l’ultimo respiro, l’occupazione non crescerà, nemmeno nel lungo periodo, e il Bel Paese sprofonderà nell’irrilevanza economica e politica. Per riprendere la metafora «olistica» della farfalla, un operaio che produce un computer in Cina, o un nigeriano che spinto dalla disperazione lascia il suo Paese per «cercar fortuna» (vedete quanta ironia c’è nel Male?), generano uno “spostamento d’aria” che ci investe sempre più immediatamente.

Effetto farfalla

3. Che questa dialettica sociale di respiro storico mondiale non debba avere delle pesanti conseguenze sull’economia, sulla politica, sulle istituzioni e sulla stessa esistenza dei singoli individui del nostro Paese, soprattutto su quella di chi campa di salario, può pensarlo solo uno sciocco. E difatti Mario Monti non lo pensa, e di certo non lo pensa Marchionne, come peraltro dimostra il suo appoggio alla candidatura del «falco» Bombassei a futuro presidente di una Confindustria sempre più lacerata, mentre Bersani e la Camusso, per ragioni facilmente comprensibili, fanno finta di non cogliere la radicalità dei processi sociali in atto sul fronte interno e su quello internazionale – una distinzione che peraltro vacilla ogni giorno di più: vedi la Grecia!

In tempi di crisi anche chi collabora rischia il licenziamento.

La ristrutturazione del potere politico e sociale del Paese non può non coinvolgere il Sindacato, da sempre importante stampella delle classi dominanti, ma legato a un assetto sistemico e a una dimensione geopolitica e geoeconomica da tempo superati. Soprattutto la reazione della CGIL si spiega, certo con l’esigenza di controllare le spinte che la crisi genera sul mondo dei salariati; ma soprattutto con la paura di perdere il suo rilevante potere politico, che ha permesso a quel Sindacato collaborazionista di avere voce in capitolo anche su importanti scelte di natura economica (dalla politica di programmazione economica dello Stato alla struttura del Welfare, tanto per fare due soli esempi), cosa facilmente comprensibile anche alla luce del «perverso intreccio» tutto italiano (nell’ambito dell’«Occidente liberale»)fra Stato ed economia. La disputa intorno all’Art. 18 dello Statuto del lavoro ha soprattutto questo significato politico, e ha poco a che fare con i reali interessi dei lavoratori.

Guardati dal padrone socialdemocratico!

La forte presenza del Sindacato in ogni sfera della società italiana non si spiega con la forza del «Movimento Operaio», né con la natura democratica della «Repubblica nata dalla Resistenza», ma appunto con la funzione conservatrice dello status quo che quell’organizzazione parastatale ha avuto nel corso del mezzo secolo che ci sta alle spalle. Proprio la forza di quel tipo di Sindacato testimonia l’estrema debolezza politica e sociale dei lavoratori salariati, legati mani e piedi all’imperativo categorico della «politica nazionale» sancito nell’Art. 49 della Santissima Costituzione Democratica di questo Paese. Chi non vuole «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» è, con piena legittimità democratica e con pieno Diritto, qualificato come Nemico della Nazione e trattato come tale. È la guerra sociale, appunto.