EGITTO (MA ANCHE SIRIA E LIBANO): PIOVE SANGUE SU QUELLO GIÀ VERSATO

piramidi-egittoLeggo dal blog Invisible Arabs: «Questa rivoluzione non è più tale, oggi. O forse è quel tipo di rivoluzione che prevede il sangue, tanto sangue: la rivoluzione sanguinosa di cui criticava l’assenza un giornalista francese a un fine intellettuale egiziano, due anni fa, in una conversazione tra pochi intimi. Perché, diceva, ogni rivoluzione passa attraverso un lavacro di sangue. Credevo non avesse ragione, e che la sua critica fosse originata dal suo essere francese, cresciuto nel mito di un’altra rivoluzione. E ora mi devo ricredere» (Umm al Dunya, prego per te, 14 agosto 2013). Come ho scritto nei precedenti post dedicati alle cosiddette “primavere arabe”, la “rivoluzione” egiziana (o tunisina) non è mai stata tale, almeno che non si voglia assecondare la moda per cui qualsiasi movimento sociale, soprattutto se sporco di sangue, è ipso facto “rivoluzionario”.

Diciamo subito che non è la quantità di sangue versato, né la quantità delle masse in movimento, che fanno di un evento sociale caratterizzato da lotte di strada una rivoluzione*. D’altra parte, in Egitto la sola rivoluzione che la storia, non chi scrive, ha messo all’ordine del giorno è quella anticapitalista, perché con tutti i limiti e le contraddizioni, peraltro comuni a tutte le società che insistono nella turbolenta area che va dal Medio Oriente al Maghreb,  quella egiziana è da tempo una società capitalista. Lo era, beninteso, anche quando qualche leader egiziano straparlava di «socialismo arabo», civettando con gli stalinisti e i maoisti occidentali.

Detto di passata, il Capitalismo di Stato in salsa araba, spacciato appunto per socialismo con caratteristiche egiziane, se ha promosso un certo sviluppo economico del Paese e una sua relativa indipendenza nazionale in epoca postcoloniale, ha d’altra parte generato una serie di magagne sistemiche, di natura sia economica sia politica, che alla fine ne hanno di molto rallentato l’ulteriore processo di modernizzazione.  Questa dialettica sociale, che naturalmente dev’essere vista da una prospettiva geopolitica di ampio respiro, in qualche modo segna la dinamica sociale di tutte le nazioni che insistono nel quadrante geopolitico di riferimento. In quasi tutti questi paesi l’esercito ha svolto un’importante funzione sociale (la cui natura borghese è fuori discussione) che però, a un certo punto, nel nuovo scenario mondiale creato dall’ultima ondata di globalizzazione capitalistica, ha presentato i conti in termini di arretratezza sistemica. Questa situazione ha messo all’ordine del giorno, ormai almeno da vent’anni, la transizione dal vecchio modello di sviluppo capitalistico a uno nuovo in grado di affrontare con successo le nuove sfide sistemiche. In gioco non c’è solo la stabilità sociale del Paese, ma le sue ambizioni di potenza regionale in un’area particolarmente densa di nazioni che aspirano alla leadership politica, economica, militare e ideologica regionale. Si comprende bene come il fronte interno e quello esterno siano intimamente intrecciati.

EGITTO~1Nel Paese delle piramidi stiamo dunque assistendo al dispiegarsi di fenomeni sociali che in gran parte si spiegano sulla base delle contraddittorie tendenze riconducibili a precisi interessi di classe, da conservare o da promuovere, che fanno capo a una «società civile» che, per quanto relativamente arretrata se valutata con gli standard occidentali, può ben definirsi borghese. Nell’analisi dei processi sociali non bisogna farsi sviare dalla coloritura politico-ideologica, nella fattispecie in gran parte riconducibile alla tensione inter-religiosa o allo scontro tra forze religiose e forze laiche, che gli interessi materiali cui facevo cenno assumono.

Naturalmente le tendenze sociali che spingono nella direzione del cambiamento urtano contro la resistenza degli strati sociali e dei gruppi di potere che hanno interesse al mantenimento dello status quo, o quantomeno a negoziare da posizione di forza la ristrutturazione del sistema, rendendola “più sostenibile” attraverso una serie di compromessi. Non è un caso che la crisi egiziana e la crisi siriana esplodono quando i primi risultati delle «riforme strutturali» varate dai regimi del Cairo e di Damasco intorno al 2004 hanno reso evidente come la transizione sistemica reclamasse le sue vittime, al vertice della piramide sociale come nei suoi gradini più bassi, cosa che peraltro spiega il sostegno di massa di cui godono i gruppi borghesi interessati a frenare le tendenze “modernizzatrici”.

In Egitto questi gruppi si sono finora dimostrati in grado di intercettare e mobilitare il crescente disagio sociale del proletariato urbano, del sottoproletariato e dei contadini poveri, ossia degli strati sociali che più degli altri hanno subito i colpi dall’ondata “riformista” che, sotto l’egida della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, ha interessato il Paese.

Scrive Janiki Cingoli, direttore del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente: «Il compromesso raggiunto da Morsi con i nuovi “giovani ufficiali” guidati da el-Sisi, che portò alla deposizione del Maresciallo Tantawi e al consolidamento del potere di Morsi, nell’agosto 2012, sancì un nuovo equilibrio: Morsi si sottraeva al controllo dei militari, a cui però veniva garantita la conservazione di quella larga area di potere economico, sociale e di privilegio cui erano assuefatti. L’errore di Morsi è stato quello di considerare il compromesso raggiunto come consolidato e definitivo, mentre per l’esercito esso era un punto d’equilibrio da sottoporre a verifica e condizionato» (Apprendisti stregoni e sepolcri imbiancati, L’Huffington Post, 17 agosto 2013).

Il ruolo politico-istituzionale dell’esercito egiziano è radicato in una funzione economica ancora molto forte, che genera consenso negli strati sociali occupati nelle imprese industriali e commerciali gestite più o meno direttamente dall’esercito.  Scriveva Roberta Zunini sul Fatto Quotidiano del 5 luglio scorso: «Una cosa è certa: l’esercito pesa enormemente sull’economia egiziana fin dall’inizio dell’Ottocento quando furono aperte numerose fabbriche militari per la produzione di uniformi e armi. Da allora la spa militare non ha mai dovuto fronteggiare momenti di crisi. Nemmeno durante questo anno e mezzo di collasso finanziario del Paese dovuto alla transizione dall’era Mubarak a quella della Fratellanza musulmana. L’esercito egiziano controllerebbe circa il 30% dell’economia. Le imprese di proprietà dei militari realizzano la maggior parte dei beni di consumo: dai computer ai televisori, dai frigoriferi alle lavastoviglie. Dominano settori essenziali come l’alimentare producendo e vendendo, nei propri supermercati, olio, pane, carne. Sono entrate in partnership con compagnie automobilistiche come la Jeep per realizzare Cherokee e Wrangler. Hanno partecipazioni nelle compagnie energetiche e nell’industria alberghiera. Le società controllate dai quadri dell’esercito fanno lauti affari anche e soprattutto nel campo delle costruzioni dove i soldati hanno diritto di lavorare da quando stanno per andare in pensione. È cosa loro il nuovo complesso dell’Università del Cairo, la costruzione delle principali arterie stradali e la maggior parte degli alberghi sul Mar Rosso […] In questo ultimo anno scosso da un’inflazione alle stelle, nei negozi gestiti dall’esercito i beni di sua proprietà, come l’acqua minerale Safi, la più popolare del Paese, la carne e il pane sono stati venduti a metà prezzo rispetto alle catene private. Il ministero della produzione militare impiega inoltre da solo circa 40mila lavoratori civili».

islamisti-egittoChi oggi deplora il ruolo dell’esercito, magari dopo averlo sostenuto quando si trattò di sbarazzarsi di Morsi, deve fare i conti con questa realtà strutturale che trova un preciso riscontro politico-istituzionale al vertice del potere egiziano e nelle sue sanguinose convulsioni. A mio avviso sbaglia anche chi vede nella gigantesca polveriera araba solo la mano dell’imperialismo occidentale, a cominciare ovviamente dal «Grande Satana» e dal suo «perfido» alleato mediorientale, Israele. Un antiamericanismo e un terzomondismo sempre più sclerotizzati per un verso non consentono di valutare adeguatamente le contraddizioni e gli interessi radicati nei singoli paesi sconvolti dalla guerra civile e nell’area geopolitica in questione (basti pensare al ruolo che l’Iran, la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar stanno giocando nel decorso della crisi in Egitto e in Siria), e per altro verso, spingono le «masse diseredate» del Sud e del Nord a schierarsi con una delle fazioni (lealisti versus ribelli, laici versus religiosi, statalisti versus liberisti, filo-arabi versus filo-occidentali, ecc.) coinvolte nel bagno di sangue.

Scrivevo il 7 luglio a proposito di Samir Amin, sostenitore di «un’alleanza tra l’Egitto e paesi come la Cina, l’India, la Russia, l’Iran, l’India, il Brasile e la Nuova Turchia»: «È anche contro questa logica di collaborazione “tattica” tra masse diseredate e borghesia “progressista e antimperialista”, uno schema ideologico qualificabile come reazionario già negli anni Settanta del secolo scorso e che oggi puzza di rancido lontano un miglio, che bisogna lottare, a Sud come a Nord – si tratta della “triade Stati Uniti/Europa/Giappone” (Samir). Inutile dire che chi scrive non ha nulla a che fare con la “sinistra radicale” evocata da Samir, la quale si orienta ancora sulla base della vecchia bussola maoista centrata sulla pseudo-dialettica “nemico principale/nemico secondario”. A mio modesto avviso le classi dominate del pianeta devono fronteggiare un solo nemico di classe: il dominio capitalistico colto in tutte le sue molteplici “declinazioni” sociali – comprese le forme che cadono sotto l’occhio indagatore del geopolitico. Nel XXI secolo non si dà autentica lotta all’Imperialismo senza un’assoluta e tetragona autonomia di classe. Tutto il resto è contesa interimperialistica».

Conference on youth unemployment in Europe in BerlinA proposito di contesa interimperialistica: «E gli americani, che tanto avevano puntato sui Fratelli musulmani allo scoppio delle “primavere”? A Obama va bene tutto, purché sia scongiurato il fantasma dell’ennesima guerra civile, a massacro siriano ancora in corso, che rischierebbe di risucchiare gli americani nei conflitti mediorientali da cui cercano in ogni modo di districarsi, per dedicarsi alla sola priorità: la Cina» (L. Caracciolo, Il rebus arabo, La Repubblica,  5 luglio 2013). Gli Stati Uniti devono sempre più fare i conti con gli interessi dei loro alleati nella regione, la quale appare assai più fluida e contraddittoria che ai “bei tempi” della guerra fredda, quando il mondo bipolare rendeva possibile strategie di dominio e di controllo abbastanza facili da applicare e prevedibili sul piano analitico. Per quanto riguarda l’Europa, un titolo di un articolo della Frankfurter Allgemeine Zeitung del 30 luglio dedicato alla crisi egiziana rende bene la situazione circa la politica estera dell’Unione: Catherine Ashton, mediatrice utile ma non decisiva. Utile ma non decisiva! In realtà non esiste una politica estera dell’Unione, ma tante politiche estere quanti sono i paesi dell’Unione, almeno di quelli più importanti. Anche l’Italietta in quello scottante quadrante geopolitico ha qualche carta da giocare autonomamente, magari per prevenire una nuova sortita anglo-francese. Della serie: fratelli coltelli!

«È vero che l’Ue accorda generosi aiuti finanziari all’Egitto (5 miliardi di euro in crediti e aiuti solo per il 2012-2013), ma tradizionalmente non se ne serve come leva nelle trattative politiche. Il denaro serve da sostegno alla protezione dei diritti umani, della democrazia, dell’istruzione e al progresso del paese» (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Quanto è “umano” l’Imperialismo europeo! Quasi mi commuovo. Quasi. Anziché commuoversi, è forse meglio predisporsi a rispondere alla nuova «guerra umanitaria» che già si prepara a pochi chilometri dalla Sicilia.

imagesDal suo mitico blog Grillo tuona: «Per l’Occidente la democrazia è un concetto relativo, che si applica caso per caso, quando gli conviene. Per i militari egiziani non si applica» (Egitto, massacri e democrazia). Diciamo piuttosto che la democrazia è, in politica interna come in politica estera, un eccezionale strumento di controllo, di dominio e di propaganda politico-ideologica che non esclude affatto l’uso della violenza. Proprio la secolare prassi sociale occidentale ci ammaestra in questo senso. «La polveriera Egitto», continua lo statista di Genova, «rischia di travolgere ogni equilibrio in Medio
Oriente e in tutto il Mediterraneo mentre l’Italia fa da comparsa. Il ruolo che le riesce meglio». Qui insiste il vecchio pregiudizio ideologico, di matrice fascio- stalinista, dell’Italia «serva sciocca» di qualcuno, di solito degli Stati Uniti. Eppure da sempre il Bel Paese ha cercato di ritagliarsi un ruolo geopolitico autonomo, naturalmente nei limiti posti alla sua politica estera dalla sua reale forza sistemica e dall’alleanza imperialistica cui esso è parte, nell’area balcanica e nel quadrante che va dal Medio Oriente alla Libia. Ma, si sa, si può fare di meglio e di più. «Italiani!»

* «Rivoluzionario è il processo sociale che mette in discussione non un regime politico, ossia la mera forma politico-istituzionale di un dominio sociale, bensì questo stesso dominio, i peculiari rapporti sociali che lo rendono possibile. Come dimostra, ad esempio, la transizione italiana dal fascismo alla democrazia dopo la Seconda carneficina mondiale, i regimi passano, il dominio capitalistico continua. Salvo, appunto, l’irruzione sulla scena storica del processo sociale chiamato Rivoluzione, un evento che, marxianamente, presuppone il farsi “classe per sé” delle cosiddette masse, ossia la metamorfosi dell’oggetto (materia prima vivente) del Capitale in soggetto politico-sociale autonomo, in cosciente produttore di nuova storia. Già lo stesso parlare di “masse”, anziché di classe nell’accezione qualitativa appena accennata, contraddice il concetto di rivoluzione sociale anticapitalista. Per questo, per fare altri due noti esempi, la cosiddetta rivoluzione komeinista del ’79 non fu una rivoluzione (sebbene probabilmente ce ne fossero i cosiddetti presupposti materiali), né fu rivoluzionario il crollo del cosiddetto “socialismo reale” dopo il fatidico ‘89» (dal post Egitto e dintorni).

2 pensieri su “EGITTO (MA ANCHE SIRIA E LIBANO): PIOVE SANGUE SU QUELLO GIÀ VERSATO

  1. PER UNA POLITICA RIGOROSAMENTE IPERURANICA

    Mi scrive Nuova Alba su Facebook a proposito del mio post di oggi sull’Egitto:

    Un’analisi certamente stimolante, ma che a mio avviso vive un po’ isolata nell’iperuranio delle idee. Ogni volta che dobbiamo fare una scelta, tanto sul piano individuale, e a maggior ragione collettivo, dobbiamo, concretamente, individuare e distinguere tra contraddizioni principali e secondarie (ovviamente tenendo sempre presente quella fondamentale tra capitale e lavoro).

    Allo stesso modo, e anche qui possiamo averne o meno coscienza, ci saranno amici, nemici, alleati tattici e strategici che vanno attivamente individuati, scelti, indicati, sempre che non vogliano cadere nella passività anche se analitica. La Politica è tale se è attiva, cioè se si è capaci di scegliere, distinguere ed indicare, assumersi responsabilità facendo l’analisi concreta della situazione data, tra contraddizioni principali e secondarie, di mettere in connessione la teoria e la pratica, la tattica con la strategia, come farebbe altrimenti “la classe a diventare per sé” se non attraverso un processo, in fieri quindi, in divenire?

    Scattare qualche foto a casaccio non ci servirà a costruire la teoria della prassi, abbiamo bisogno di riconoscere i movimenti e le tendenze delle contraddizioni in sviluppo. Dobbiamo essere capaci di leggere le stratificazioni delle classi oppresse e le trasformazioni interne ad esse. La proletarizzazione delle classi intermedie è un dato di fatto, se non si è capaci di riconoscerlo come possiamo posizionarci nella realtà?

    Ecco la mia risposta:

    Ringrazio per l’attenzione e per lo «stimolante». Conosco l’obiezione “realistica” che mi muovete. Capirete, è dalla fine degli anni Settanta che “faccio politica”! Nelle mie scelte non ci sarà mai l’alleanza, seppur “tattica” e “strumentale” (come la sappiamo lunga noi “rivoluzionari”, nevvero?) né con una fazione della classe dominante nazionale (e internazionale, va da sé) né con uno schieramento imperialistico.

    La classe dominante e l’Imperialismo mondiale vanno rigettati in blocco, non per questioni di purezza teorica o per paura di “sporcarsi le mani” entrando nel merito delle questioni (questi infantilismi appartengono solo alla fantasia dei realisti e dei “dialettici” che criticano la mia posizione), ma semplicemente perché la prassi storica ha dimostrato che la politica che voi proponete porta sempre, puntualmente e necessariamente alla sconfitta del movimento operaio. La mia posizione “astratta” e “settaria” (vedete, me lo dico da me!) non ha mai avuto un peso nella lotta anticapitalista e antimperialista, eppure non mi pare che il proletariato mondiale se la passi bene. Piuttosto, che risultato ha avuto la vostra ricetta politica nell’ultimo mezzo secolo?

    Qui non si tratta di fare politica ovvero mera testimonianza: si tratta piuttosto di elaborare una politica autenticamente di classe, e a questo progetto intendo dare il mio piccolo contributo. L’attivismo politico che voi proponete può forse darvi l’illusione d’incidere sulla realtà solo perché esso supporta gli interessi di una parte della classe dominante mondiale (la Russia?, il Venezuela?, Cuba? la Cina?, la Siria?), interessi che certamente generano dei fatti ben concreti, come stiamo vedendo in Egitto e in Siria, ad esempio. Peccato che questa concretezza sia tutta dalla parte del Dominio contro i dominati!

    Ecco, io non voglio essere una mosca cocchiera, e soprattutto non voglio che i miei fratelli e compagni proletari di questo o quel Paese versino il loro e l’altrui sangue per sostenere le cause più reazionarie del mondo.
    Nuovamente vi ringrazio e vi saluto.

  2. Pingback: RIFLESSIONI AGOSTANE INTORNO AL BELLICOSO MONDO | Sebastiano Isaia

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