DRAGHI, AFFARI E GEOPOLITICA

Sul Manifesto Roberto Prinzi riassume con asciutto realismo geopolitico i termini della questione: «”È un momento unico per ricostruire un’antica amicizia e una vicinanza che non hanno mai conosciuto interruzioni”. Le parole di Mario Draghi pronunciate ieri a Tripoli al premier del Governo transitorio di unità nazionale libico Dabaiba non lasciano spazio a dubbi: l’Italia vuole giocare la parte da leone nella ricostruzione della “nuova” Libia, riportando le lancette dell’orologio (dirà in seguito Dabaiba) al Trattato di amicizia italo-libico del 2008. Allora a Palazzo Chigi c’era Berlusconi mentre a reggere le sorti del paese nordafricano il rais Gheddafi, allora grande amico di Roma scopertosi nemico solo tre anni dopo al punto da essere deposto dalle bombe della Nato […] Affinché ciò accada, ha spiegato il premier italiano, è necessario però che regga il cessate il fuoco. Ma su questo punto ha ostentato sicurezza: “Mi sono state date rassicurazioni durante il nostro incontro straordinariamente soddisfacente, caloroso e ricco di contenuti”. La lista di aggettivi positivi non è apparsa affettata: Roma si sfrega le mani pensando a come la “stabilità libica” potrà tradursi favorevolmente sia nel contrasto all’immigrazione (incubo dell’intera Europa), ma anche per le aziende nostrane. La diplomazia economica italiana lavora per la transizione energetica della Libia che darà più spazio alle energie rinnovabili».

Draghi sprizza ottimismo da tutti i pori: «C’è voglia di fare, c’è voglia di futuro, voglia di ripartire e in fretta».  Certo, l’Italia dovrà vedersela con l’agguerrita concorrenza russa, turca, egiziana, francese e inglese, ma il Presidente del Consiglio ostenta sicurezza circa le capacità del nostro Paese di riconquistare e consolidare le importanti posizioni economiche e strategiche perse in Libia negli ultimi anni. Per il presidente di Federpetroli Italia Michele Marsiglia «gli argomenti all’ordine del giorni non vertono solo sull’energia ma sul piano operativo ci sono temi come infrastrutture e flussi migratori nonché la tanto chiacchierata Autostrada della Pace. E questo vuol dire che la missione di oggi vuol portare l’Italia ad essere sempre più presente nel paese con un ruolo decisivo nelle politiche del Mediterraneo». Secondo Sandro Fratini, presidente di ILBDA (Italian Libyan Business Development Association), «le aziende italiane possono e devono avere un ruolo centrale nell’accompagnare [quanto siamo gentili!] i libici verso la costruzione di uno Stato moderno ed avanzato. In Libia, si sta aprendo un ventaglio di opportunità per tantissimi giovani. Non solo nel settore petrolifero ed energetico, ma anche per chi opera nei settori dell’edilizia, commercio, comunicazione, tecnologia, aviazione, scienza, farmaceutica, fino alla ristorazione. I libici ci chiedono materiali e prodotti italiani, ma hanno anche bisogno di ingegneri ed architetti per completare i progetti architettonici ed infrastrutturali in stallo da anni». Insomma, c’è una grassa fetta di torta che il capitalismo italiano deve intercettare con assoluta necessità e rapidità, perché di certo la concorrenza di “amici” e nemici dichiarati non starà a guardare senza coltivare il “nostro” stesso ambizioso disegno economico e geopolitico. Il fatto che Mario Draghi abbia scelto la Libia per la sua prima missione all’estero dal suo insediamento la dice lunga sull’importanza che il “Sistema-Italia” attribuisce alla presenza italiana nel Paese africano che in larga misura è una “nostra” creazione.

«Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi. Nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia. Il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario. Da questo punto di vista l’Italia è forse l’unico Paese che continua a tenere attivi i corridoi umanitari» (M. Draghi). E che fa la Libia per i salvataggi? È presto detto: la cosiddetta Guardia Costiera libica, che l’Italia finanzia e arma, intercetta i disperati che cercano di arrivare sulle coste siciliane e li riaccompagna, per così dire, nei lager libici «dove le donne vengono violentate, le famiglie depredate di tutto, gli uomini torturati, seviziati e persino uccisi» (Notizie Geopolitiche, febbraio 2020). Peraltro, molti libici che lavorano per la Guardia Costiera libica organizzano i viaggi della disperazione. Altro che «corridoi umanitari», signor Presidente del Consiglio!

Molti progressisti hanno espresso un’indignata riprovazione per l’elogio della cattura e della tortura confezionato da Draghi per ingraziarsi la controparte libica. Leggo da qualche parte su Facebook: «Draghi esprime soddisfazione alla Libia per i salvataggi. Forse era una barzelletta. I migranti vengono uccisi o messi in lager. I diritti umani sono sottozero. Si vergogni per quello che ha pronunciato. In quanto volontaria impegnata al servizio degli umili e fragili nativi e stranieri, non posso che sentirmi tradita da un governo che mi umilia!!!». Ecco, io non mi sento in alcun modo tradito, offeso e umiliato da un governo che ovviamente lavora per conto del capitalismo e dell’imperialismo tricolore, non certo per difendere e promuovere i cosiddetti «diritti umani», né per sostenere la causa degli umili, nativi o stranieri che siano. Mi piacerebbe molto che l’indignazione delle persone umanamente sensibili sposasse un punto di vista radicalmente anticapitalista.

Com’è noto, l’inchiesta della procura di Trapani nella quale sono state ascoltate le conversazioni di numerosi giornalisti e avvocati hanno avuto l’input dell’ex Ministro dell’Interno Marco Minniti (*). «L’ordine di indagare sulle Ong partì dal Viminale. Il 12 dicembre del 2016, all’esordio del governo Gentiloni, Angelino Alfano lascia il Ministero dell’Interno passando il testimone a Marco Minniti.Lo stesso giorno parte una lunga informativa. Dopo avere indicato le Ong come “fattore di attrazione”, viene precisato che è stata avviata “un’attività di raccolta informazioni circa le modalità di salvataggio dei migranti in mare, svolte dalle navi di proprietà delle Ong”. Nell’informativa vengono segnalati quattro casi di sconfinamento nelle acque libiche, da parte di alcune organizzazioni umanitarie: Moas e Medici senza frontiere» (Domani). Come scriveva qualche giorno fa Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, si trattò (e si tratta) della «prosecuzione di una guerra (politica) con altri mezzi (giudiziari)». Si trattava di controllare e screditare chiunque denunciasse la criminale gestione dei flussi migratori affidata dal governo italiano alla Guardia Costiera libica. «Intercettateci tutti!», amano dire i manettari che, dicono, non hanno nulla da nascondere. E lo Stato è ben contento di accontentarli. Con escrementizia coerenza, il principe dei giustizialisti duri e puri, colui che sprizza manette da tutti i pori, insomma Marco Travaglio, direttore del Fascio Quotidiano, difende “senza se e senza ma”, e sulla scorta della Sacra Costituzione Italiana, la strategia investigativa della procura Trapani. Escrementizia coerenza, appunto.

(*) «Domenico (Marco) Minniti, ministro dell’Interno tutto rigore e sicurezza. Il controllo dell’immigrazione diventa una questione di vita o di morte per il dirigente dem. L’intero mandato di Minniti al Viminale è incentrato sull’argomento. Fin dal primo giorno, quando comincia a lavorare sul “Memorandum di intesa tra Italia e Libia” mentre Angelino Alfano non ha ancora portato le sue cose alla Farnesina, dove è stato spostato dal nuovo premier Paolo Gentiloni. L’esponente del Pd ha già tutto in mente e a due mesi dal suo insediamento è già pronto l’accordo con i libici per bloccare i migranti alla fonte. Poco importa come. L’importante è la firma di Fayez al Serraj, primo ministro del governo di unità nazionale di Tripoli, sul documento controfirmato dal presidente del Consiglio italiano. Obiettivo prioritario del Memorandum: “Arginare i flussi di migranti illegali e affrontare le conseguenze da essi derivanti”. In cambio l’Italia avrebbe fornito “supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina”. In altre parole: addestramento, mezzi e attrezzature alla forza di sicurezza comunemente definita Guardia costiera libica, formata da un ambiguo coacervo di milizie dismesse e trafficanti. Senza parlare dei campi dove i migranti vengono trattenuti, considerati da tutte le organizzazioni internazioni per i diritti umani come dei veri e propri centri di tortura, dove i “prigionieri” subiscono violenze di ogni tipo. Del resto, Minniti è persona abituata a ragionare secondo la neutra logica dei costi/benefici. Perché per perseguire un obiettivo ci vuole disciplina e un certo pelo sullo stomaco. Per raggiungere uno scopo non bisogna fermarsi, come gli avrà probabilmente insegnato Francesco Cossiga, l’amico con cui nel 2009 dà vita ad Icsa (Intelligence culture and strategic analysis) una fondazione dedicata all’analisi dei principali fenomeni connessi alla sicurezza nazionale. E Minniti non si ferma mai» (Il Dubbio).

Aggiunta dell’8 aprile 2021

 «Da quando il governo italiano guidato da Paolo Gentiloni, con ministro dell’Interno Marco Minniti, ha firmato nel febbraio 2017 il Memorandum con il governo di Tripoli, le industrie aerospaziali e di armamenti hanno fatto affari d’oro con i ministeri degli stati membri e con Frontex.  Aziende come Airbus, le israeliane Iai e Ebit e l’italiana Leonardo Finmeccanica hanno ottenuto commesse per milioni di euro. Minniti ora è entrato in Leonardo, nominato poche settimane fa a capo della fondazione MedOr, nuovo soggetto creato dalla ex Finmeccanica che si occuperà anche di Libia. Dell’accordo ha beneficiato anche l’Agenzia Frontex, diventata uno degli organismi più finanziati dell’Unione, con un budget attuale di 500 milioni e di oltre un miliardo nei prossimi sei anni. […] A febbraio scorso Minniti è stato nominato nella fondazione MedOr di Leonardo. Di cosa si occupa MedOr? “Permetterà in particolare di consolidare le relazioni con gli stakeholder dei paesi di interesse, al fine di qualificare Leonardo come un partner tecnologico innovativo nei settori dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza”. Settore di investimento, quest’ultimo, che ha risentito positivamente dell’accordo Italia-Libia firmato dall’ex ministro. Minniti, contattato, esclude che si possa parlare di conflitto di interesse: “Da ministro non trattavo appalti e non ho avuto alcun ruolo nei contratti di cui parlate”. Poi ci tiene a precisare che la fondazione di Leonardo non ha scopi di business: “Ha altre finalità, costruire un punto di vista comune su aree strategiche per l’Italia, come può essere il Mediterraneo, come del resto fanno molti altri paesi da tempi lontanissimi”» (Domani). Non c’è dubbio.

L’onesto Minniti, degnissimo discendente dell’italico “comunismo” (leggi stalinismo con caratteristiche togliattiane), ha illustrato una prassi sintetizzabile con un “vecchio” concetto: IMPERIALISMO. E anche l’Italia “nel suo piccolo”…

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Limes

Aggiunta dell’11 Aprile 2021

La scottante frase draghiana ormai è arcinota: «Con questi dittatori, di cui uno ha bisogno, bisogna essere pronti a cooperare». Altrettanto noto è che la realpolitik di Mario Draghi ha potuto brillantemente esercitarsi anche con la Libia: «Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi». Ormai abbiamo capito: ci sono dittatori e aguzzini «di cui uno ha bisogno» e con cui «bisogna essere pronti a cooperare». Molti si sono indignati dinanzi al cinico realismo del Presidente del Consiglio, ma si tratta di un’indignazione che non spiega niente e che testimonia piuttosto quanto chi la esprime comprenda pochissimo il mondo che ci tocca subire.

Scrive Francesca Sforza (La Stampa): «Oltre agli americani, tradizionalmente su questa posizione, il premier Draghi incontra il sostegno dell’opinione pubblica e dell’intero arco parlamentare italiano – ostile alla Turchia in chiave anti-islamica a destra e filo-curda a sinistra». Qui urge una mia precisazione, se non altro in quanto componente «dell’opinione pubblica» (dell’«arco parlamentare italiano» non dico niente per non destare l’attenzione di qualche zelante Procura della Repubblica): dal mio punto di vista il democratico Premier italiano e l’autoritario Presidente turco pari sono sotto ogni punto di vista. Mi correggo: in quanto anticapitalista italiano la mia ostilità politica è esercitata soprattutto nei confronti del Presidente del Consiglio italiano. A casa mia l’orgoglio nazionale è messo malissimo.

Il ministro turco dell’industria Mustafa Varank ha dichiarato che la Turchia non può prendere lezioni da un Paese che «ha inventato il fascismo» (vero!) e che «lascia morire i richiedenti asilo» (verissimo!).  «Il portavoce dell’Akp, il partito di Ergogan, ha usato parole durissime: “Hanno chiamato il nostro presidente dittatore e poi hanno aggiunto che devono collaborare con noi sull’immigrazione. È il massimo dell’ ipocrisi [giustissimo!]. Queste persone che trattano i migranti in maniera dittatoriale e immorale [verissimo!], pensano di doverci dare lezione di democrazia”» (La Repubblica). Diciamo pure, con il poeta, che la più pulita di «queste persone», italiane o turche che siano, ha la rogna.

Perché l’Italia ha bisogno del dittatore turco? In primo luogo per una ragione di interscambio economico: ci sono in ballo 17/20 miliardi di euro l’anno. Buttali via, soprattutto in tempi di crisi! Ambienti politici vicini a Leonardo hanno subito temuto per la commessa in ballo con la Turchia. Non a torto: «La prima a finire nel mirino è stata Leonardo, la holding tecnologica a controllo statale. Dopo due anni di trattative, proprio in questi giorni era prevista la firma del contratto per l’acquisto di dieci elicotteri d’addestramento AW169. Una commessa del valore di oltre 70 milioni di euro, che doveva essere la prima trance di un accordo per sostituire i vecchi Agusta-Bell 206 della scuola delle forze armate turche: l’importo complessivo per l’azienda italiana potrebbe superare i 150 milioni. Dopo le parole di Draghi i turchi hanno fatto sapere che “al momento” l’operazione è sospesa. Avvisi simili sono stati recapitati anche ad altre compagnie nazionali attive in Anatolia. Tra loro ci sono almeno due società private e Ansaldo Energia, proprietaria del 40 per cento di un gruppo che da un anno sta negoziando con banche e autorità turche la gestione dei debiti per centinaia di milioni accumulati dalla centrale elettrica di Gebze, nella zona industriale di Istanbul. È chiaro che Ankara intende far valere la rilevanza delle relazioni economiche tra i due Paesi. Prima del Covid, l’interscambio era arrivato a toccare 17 miliardi l’anno con quasi 1500 società italiane impegnate in Turchia: una delle più importanti è Ferrero, che produce lì una parte consistente delle nocciole con un business da centinaia di milioni l’anno» (La Repubblica).

L’esperta diplomazia italiana è al lavoro per chiudere la crisi politica con la Turchia e assicurare all’Italia la continuità delle relazioni economiche con quel Paese, il quale peraltro è attraversato da una grave crisi economica che minaccia di destabilizzare il già fragile quadro politico-sociale turco. La continua svalutazione della lira turca è un termometro di questa pessima situazione. L’altro termometro è squisitamente politico-sociale, e registra un’azione sempre più repressiva da parte dello Stato turco nei confronti di tutte le opposizioni sociali e politiche del Paese. Questo sempre a proposito di “fascismo” e di “democrazia”.

Come sappiamo la Turchia è per l’Italia (ma anche per la Francia) sia un partner economico e geopolitico, sia un avversario geopolitico e, soprattutto in prospettiva, economico. Discorso diverso si deve fare per la Germania, che non ha alcun interesse nel pestare i calli al dittatore turco, il quale oltretutto assicura la stabilità nell’area del Mediterraneo  Orientale, anche per quanto riguarda i flussi migratori che partono da quell’area. Ormai da decenni le relazioni tra la Germania e la Turchia hanno una connotazione davvero “speciale” – anche per la forte presenza dei lavoratori turchi nel Paese leader dell’Unione Europea. Nel Mediterraneo Orientale e in Nord’Africa gli interessi economici e geopolitici di Italia, Francia, Grecia e Turchia entrano in reciproca frizione, e qualche scintilla diplomatica (e non solo: vedi l’esercitazione navale greco-cipriota dell’agosto 2020 chiamata Eunomia) si è pure vista nei mesi scorsi. Non a caso la Grecia e Cipro, che con l’Italia stanno cercando di arginare l’aggressiva proiezione turca nel Mediterraneo Orientale, hanno subito mostrato “comprensione” per il premier italiano.

D’altra parte non bisogna sottovalutare il nuovo pensiero strategico adottato dalla Turchia e sintetizzato nel concetto, elaborato fin dal 2006 dagli ammiragli turchi, di Patria blu: «Siamo orgogliosi di proteggere il nostro vessillo glorioso in tutte le acque. Siamo pronti a proteggere con forza ogni fascia dei nostri 462 mila chilometri quadrati di Patria blu» (R. T. Erdoğan). È sufficiente guardare la carta geografica del Mediterraneo Orientale per farsi un’idea della posizione strategica che la Turchia occupa in quell’area sempre più importante anche dal punto di vista energetico – produzione e distribuzione di petrolio e di gas. In questo contesto, «Ogni scintilla può portare alla catastrofe», come disse usando un’immagine perfetta il ministro degli Esteri Heiko Maas nell’agosto del 2020, nel pieno della crisi greco-turca. Allora la ministra della Difesa Florence Parly dichiarò: «Il nostro messaggio è semplice: priorità al dialogo, alla cooperazione e alla diplomazia affinché il Mediterraneo orientale sia uno spazio di stabilità e di rispetto del diritto internazionale e non un terreno di giochi di potenza»: per gli imperialisti europei i cattivoni sono sempre gli altri, i “dittatori” della concorrenza.

La posta in gioco descritta da Angelo Panebianco: «In Libia Draghi è stato tre giorni fa. Allo scopo di riannodare i legami (spezzati o, quanto meno, assai logorati) fra l’Italia e un Paese le cui sorti hanno uno stretto legame con il nostro interesse nazionale: si tratti di rifornimenti energetici, della presenza in Libia delle nostre imprese, di flussi migratori, di contrasto al terrorismo o di sicurezza militare. Una Libia che è oggi spartita fra russi e turchi. Gli uni e gli altri ritengono di essersi conquistati sul terreno il diritto di essere lì, avendo partecipato, su fronti opposti, alla guerra fra la Tripolitania e la Cirenaica. L’Italia è impegnata ad appoggiare gli sforzi dell’attuale governo libico di riconquistare l’unità del Paese. Se coronati da successo danneggerebbero gli interessi sia di Erdogan che di Putin. La Libia non potrà essere davvero riunita se l’esercito turco e i mercenari russi non se ne andranno. Quello italiano è un tentativo necessario ma difficile. Puntiamo sui rapporti economici per ricostituire i nostri legami con la Libia. Ma può la capacità di offrire cooperazione economica sconfiggere le posizioni di forza di coloro (come appunto Erdogan) che hanno soldati e armi sul terreno? I precedenti storici non sono incoraggianti. In ogni caso, il governo Draghi è impegnato, in Libia, in una partita i cui esiti saranno assai importanti per l’Italia. In sintesi: di quanta sicurezza disporremmo (non solo noi, anche il resto dell’Europa), se il Mediterraneo diventasse stabilmente un mare russo/turco? Alzare il tiro della polemica con Erdogan, serve forse a perseguire diversi obiettivi. È un messaggio implicito alla Nato (di cui la Turchia fa tuttora parte), un messaggio che dice: non possiamo più trattare Erdogan con i guanti, come se la Turchia fosse ancora l’alleato di un tempo. È un richiamo agli Stati Uniti, è la richiesta di un loro rinnovato impegno nel Mediterraneo. Potrebbe essere anche un messaggio alla Germania: lo scambio denaro contro controllo delle frontiere forse dovrebbe essere rinegoziato in modo più favorevole per l’Europa. È infine, certamente, un messaggio indirizzato agli italiani: non possiamo evitare di cooperare col dittatore di turno quando ciò serva a tutelare certi nostri vitali interessi ma dobbiamo anche essere consapevoli del fatto che ci sono grandi differenze fra noi e il suddetto dittatore, dobbiamo monitorare con attenzione le conseguenze spiacevoli che da queste differenze possono in ogni momento derivare» (Il Corriere della Sera).

«Conseguenze spiacevoli»: che linguaggio felpato! E poi, «spiacevoli» fino a che punto? Lo scopriremo solo… Intanto, godiamoci l’orgasmo patriottico di Massimo Giannini: «Mettiamo in fila i fatti degli ultimi dieci giorni. Il capo del governo ha prima lanciato un segnale chiaro a Putin, facendo arrestare una spia che vendeva segreti a Mosca. Poi è volato a Tripoli a dare sostegno al governo provvisorio di Dbeiba e a supportare la presenza dell’Eni (anche se ha commesso il grave errore di “ringraziare” la Guardia Costiera libica per i salvataggi, mentre avrebbe dovuto denunciarne i misfatti) [sic!]. Infine ha sferrato il colpo a freddo su Erdogan. Tre atti che sembrano uniti da una sola trama: dimostrare ai russi e ai turchi che in Libia, e non solo in Libia, l’Italia c’è e vuole giocare la sua partita (La Stampa). Sia chiaro, io tifo contro!

L’ALBUM DI FAMIGLIA DI MARCO MINNITI
GROSSI GUAI NEL NOSTRO CORTILE DI CASA
PER UNA STRETTA DI MANO…
SULLA GUERRA PER LA SPARTIZIONE DELLA LIBIA
È FACILE ESSERE “BUONISTI” ACCUSANDO L’IMPERIALISMO DEGLI ALTRI!
DUE PAROLE SUL PERICOLOSISSIMO INTRIGO LIBICO
LIBIA E CONTINUITÀ STORICA
A TRIPOLI, A TRIPOLI!
L’IMPERIALISMO ITALIANO NEL“PARADOSSO AFRICANO”
IL PROFITTO È GRANDE, E L’IMPERIALISMO È IL SUO PROFETA!
TU CHIAMALO SE VUOI, IMPERIALISMO

SI RISCALDA LA COMPETIZIONE IMPERIALISTICA NEL SUD-EST ASIATICO 

Il Sud-Est asiatico è il «teatro primario del confronto che oppone gli Stati Uniti e i loro alleati alla Repubblica Popolare Cinese. Lo Stretto di Malacca costituisce il collo di bottiglia tra gli oceani Indiano e Pacifico ed è la giugulare economico-militare dell’Asia sud-orientale, presidiata da Washington. Il Sud-Est asiatico è il perno geografico del Quad, il quadrilatero difensivo anticinese a guida Usa cui aderiscono India, Australia e Giappone. Raggruppamento riesumato dal presidente Donald Trump e rinsaldato dal suo successore Joe Biden – i cui emissari hanno incontrato per la prima volta le controparti cinesi il 18-19 marzo ad Anchorage, in Alaska. Nell’Indo-Pacifico gli Stati Uniti dispongono di una rete di alleanze – formali o meno – che impedisce alla Cina di proiettarsi compiutamente nel suo estero vicino (a partite dal conteso Mar Cinese Meridionale) e sfidare il primato globale della superpotenza. Al contrario di Pechino, che in Indocina può contare solo su Cambogia e Laos, e che perciò sfrutta la leva economica – nuove vie della seta comprese – e le faglie strutturali dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) per aumentare la propria influenza» (L. Di Muro, Limes).

Limes

Il Celeste Imperialismo Cinese userà tutti i mezzi necessari (per adesso sta usando soprattutto la potentissima “leva economica”) per indebolire, nel breve periodo, e poi eliminare del tutto l’influenza dell’imperialismo statunitense dal suo «estero vicino» –  o cortile di casa che dir si voglia. «Non vogliamo conflitti con voi, ma non ci spaventa una ruvida concorrenza», ha detto Jake Sullivan, il Consigliere per la sicurezza americano, alla delegazione cinese nel corso dell’infuocato vertice Usa-Cina di Anchorage. «Ruvida concorrenza»: chissà cosa intendeva dire…

Gli amici italiani del “popolo cinese” (leggi: del Partito-Regime cinese) non comprendono la «pervicace volontà degli Stati Uniti di mantenere ad ogni costo il proprio primato, che è sempre più in discussione per effetto di processi oggettivi ed inarrestabili» (Contropiano); ma è realistico pensare che Washington accetti con pacifica rassegnazione «i processi oggettivi ed inarrestabili»? E poi, non è stata ancora scritta l’ultima parola sulla  primazia imperialistica mondiale.

IL MYANMAR E IL «RISPETTO DELLA LEGGE» SECONDO PECHINO

Domenica di sangue

«Nella sola Yangon, le forze di sicurezza birmane hanno ucciso ieri 59 manifestanti e ferito altri 129. Lo riferisce il sito di informazione birmano Myanmar Now, citando fonti di tre ospedali dell’ex capitale e aggiungendo che gli stessi dottori credono che il bilancio sia ancora più alto. Se confermato, la giornata di ieri sarebbe la più sanguinosa dall’inizio delle proteste contro il golpe del primo febbraio» (ANSA).

Se il movimento di protesta pesta la coda del dragone

«La legge marziale è stata introdotta dalla giunta militare del Myanmar in due distretti di Yangon dopo assalti e saccheggi in alcune fabbriche di proprietà cinese. L’annuncio è giunto domenica, al termine di una giornata di scontri tra manifestanti e reparti dell’esercito e della polizia. Secondo Myanmar Now, agenzia di stampa con sede a Yangon che trasmette in birmano e in inglese, la legge marziale è stata introdotta nei distretti di Hlaing Tharyar e Shwepyitha. Stando all’ambasciata di Pechino, “fabbriche sono state saccheggiate e distrutte e molti dipendenti cinesi sono stati feriti e bloccati”. In un messaggio diffuso sui social network la rappresentanza diplomatica ha chiesto alla giunta “di adottare misure efficaci per fermare tutte le azioni violente, punire i responsabili nel rispetto della legge e garantire la sicurezza delle aziende e del personale cinese in Myanmar”» (Avvenire). A quanto pare il regime militare birmano ha subito accolto la richiesta cinese.

Per dirla alla “vecchia” maniera:

Contro la dittatura militare sostenuta dalla Cina! Contro il sistema capitalistico birmano (in ogni sua configurazione politico-istituzionale)! Contro il capitalismo/imperialismo cinese! Contro ogni forma di xenofobia (ad esempio, nei confronti dei lavoratori cinesi impiegati nelle zone industriali del Myanmar)! Per l’unità di classe dei lavoratori birmani e cinesi!

Aggiunta del 27 marzo 2021

Myanmar. Ieri la giunta militare ha mietuto altre 90 vittime, potendo ancora contare sull’appoggio di Cina e Russia. «Le vittime totali della repressione seguita alla protesta potrebbero oggi raggiungere quota 400, in una delle giornate più sanguinose tra quelle seguite al colpo di Stato del primo febbraio» (Il Messaggero).

Mentre in questi giorni Pechino cerca di mantenere un profilo basso nella crisi birmana, che disturba non poco la sua “pragmatica” linea politica (fare affari con chiunque), Mosca ci tiene invece a far sapere al mondo che la sua “amicizia” nei confronti del “popolo birmano” è più forte che mai.

«Il Paese guidato ora dalla giunta militare si candida a diventare l’ennesimo punto di attrito tra Occidente e Russia. Mosca ha mandato il suo viceministro della difesa Alexandr Fomìn a incontrare il capo delle forze armate birmane, Min Aung Hlaing nella capitale birmana, Naypyitaw, dove ha precisato che per la Russia, il Myanmar dei generali è un “alleato affidabile”. E sempre Fomin ha aggiunto che “la Russia aderisce a una linea strategica per intensificare le relazioni tra i due paesi”, oltre a sottolineare un particolare non trascurabile: il generale birmano ha “preso parte alla nostra parata lo scorso anno, per il 75esimo anniversario della vittoria sovietica nella Seconda Guerra Mondiale”. Parole di un certo peso dopo il colpo di stato del primo febbraio 2021 e anche dopo che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Australia e l’Unione Europea hanno imposto sanzioni al consiglio militare al potere e alla vasta rete di imprese legate all’esercito» (askanews).

«SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) conferma che le importazioni di armi del Myanmar per il 2010-19 hanno raggiunto i 2,4 miliardi di dollari, di cui 1,3 miliardi di dollari in armi fornite dalla Cina e 807 milioni dalla Russia. Gli aerei da combattimento russi, tra le nuove risorse militari del Myanmar, sono MiG-29, SDu-30MK e JF-17 e i velivoli da addestramento K-8, Yak-130 e G 120TP. Secondo fonti stampa, alcuni giorni prima del colpo di stato, il ministro della Difesa russo, generale Sergei Shoigu, ha visitato il Myanmar per finalizzare un accordo per una nuova fornitura di armi: il sistema missilistico terra-aria Pantsir-S1, droni di sorveglianza Orlan-10E e apparecchiature radar. Le importazioni di armi dalla Russia risalgono alla cooperazione tecnico-militare iniziata nel 2001 e successivamente, con l’accordo di cooperazione militare del 2016. Questo ha spianato la strada per l’addestramento in Russia di migliaia di ufficiali militari del Myanmar, oltre 6.000 fino al 2019. Molti ufficiali birmani parlerebbero fluentemente il russo» (Il Tazebao).

Sempre secondo la SIPRI, la Cina rappresenta il 50% delle principali importazioni di armi del Myanmar, «comprese navi da guerra, aerei da combattimento, droni armati, veicoli blindati e sistemi di difesa aerea», mentre la Russia ha fornito il 17% delle importazioni militari, «principalmente aerei ed elicotteri da combattimento».

Oggi questo micidiale dispositivo militare è puntato contro una popolazione inerme e sempre più disperata. L’obiettivo della giunta militare è oltremodo chiaro: terrorizzare chi è disposto a scendere in strada per protestare, ed esasperare fino al parossismo una parte della popolazione per costringerla a sostenere il regime «che lavora per il ripristino della pace e della democrazia». Anche qui, sporchi – e insanguinati – giochi di Potere (nazionale e internazionale) sulla pelle della povera gente.

Leggi: MYANMAR. AUTODIFESA E VALUTAZIONE CRITICA DELLA SITUAZIONE

MYANMAR. AUTODIFESA E VALUTAZIONE CRITICA DELLA SITUAZIONE

Deng Jia Xi

Ecco perché non possiamo più mettere
fiori nei cannoni dei soldati (T. S. Yi).

Mentre il regime militare sanguinario birmano cerca di annegare nel sangue il coraggio e la rabbia dei manifestanti, e usa i social cinesi (TikTok) (*) e russi per minacciarli («Vi uccideremo tutti»), si pone per il movimento di protesta birmano il problema dell’autodifesa e di una più radicale riflessione politica non solo su quanto è successo negli ultimi mesi, ma su ciò che ha determinato l’attuale situazione. Il secondo aspetto del problema, in linea di principio tutt’altro che scollegato dal primo, appare ai miei occhi quello politicamente più fecondo e tuttavia più difficile da collocare sui corretti binari di una valutazione critica della reale posta in gioco – interna e internazionale. Trasformare la rabbia e la disperazione di migliaia di giovani in una più consapevole e indipendente visione degli interessi sociali che entrano in reciproco urto, non è certo un’impresa facile, tutt’altro. Ma la stessa cosa si può dire dei movimenti sociali di protesta che prendono corpo in ogni parte del mondo.

Sostiene Thinzar Shunley Yi, «attivista per i diritti civili e la disobbedienza civile contro i militari golpisti»: «È impossibile controllare Internet per quanta tecnologia cinese e russa stiano tentando di usare. L’odio circola ormai nel sangue. E col sangue. Anche adesso nessuno attacca, se non per tentare di difendersi, peraltro a mani nude. Qualcuno usa fionde e sassi, piccole bombe. Ma bisogna capire il livello di rabbia accumulata. Certo temiamo per le nostre vite, nessuno è sicuro sotto questi regimi che non intendono cedere e sanno che una guerra a loro sarebbe una guerra alla Cina. […] In tutti i cortei e nei rap campeggia la figura sacra, Lady Suu Kyi, ambigua per l’Occidente ma venerata dai suoi seguaci. Per ora è solo lei la via d’uscita. Da ragazza ho per anni tenuto il suo ritratto nella mia camera. Sono con lei, anche se ne ho criticato molte scelte. Ma vedo che tra i miei fratelli e sorelle si sta facendo strada anche una consapevolezza diversa, la necessità di cambiare approccio. Oggi i soldati hanno tolto una maschera che era visibile a tutti anche prima. Ma hanno sempre oppresso specialmente le minoranze, facendo come ho detto il lavaggio del cervello religioso e patriottico a soldati e poliziotti, gente comune compresa» (Intervista rilasciata a Repubblica).

Va ricordato che anche Lady Aung San Suu Kyi e la sua Lega per la democrazia hanno usato nel recente passato il pugno di ferro contro le minoranze del Paese – vedi Rohingya. «Aung San Suu Kyi ha cercato di minimizzare la gravità dei crimini commessi ai danni della popolazione Rohingya. Non li ha neanche menzionati, né ha riconosciuto la dimensione di quei crimini. Questo tentativo di negare è deliberato, ingannevole e pericoloso. L’esodo di oltre 700.000 Rohingya che vivevano in Myanmar non è stato altro che l’effetto di una campagna orchestrata di uccisioni, stupri e terrore» (Nicolas Bequelin, direttore regionale per l’Asia di Amnesty International, dicembre 2019).

(*) «Con un improvviso salto di capacità tecnologiche i soldati usano TikTok, la piattaforma cinese attraverso la quale si coordinano e distribuiscono nei punti caldi delle rivolte per reprimerle e dare il via a chi dovrà sparare, ma anche per comunicare ogni nuovo ordine. Non a caso da settimane i network dei ribelli segnalano l’arrivo di aerei con tecnici e materiale per creare un network di comando virtuale efficace come quelli di Pechino, che non ha ancora condannato il golpe e molti ritengono sia addirittura complice dei golpisti» (La Repubblica).

Aggiunta del 10 marzo

CON OGNI MEZZO NECESSARIO

A quanto pare la giunta militare birmana non si è lasciata commuovere dal santissimo gesto della suora Ann Rosa Nu Tawng: «È successo nella stessa città dove risiede la suora, Myitkyina, capitale dello Stato etnico Kachin da decenni in conflitto con il potere centrale di militari e civili birmani. Almeno altri due manifestanti sono morti, ma molti sono stati feriti gravemente. Le vittime hanno ricevuto un colpo alla testa, sparato dai soliti cecchini dell’esercito appostati su tetti e cornicioni. Nelle stesse ore è giunta la notizia della tragica sorte di due ex leader dell’Lnd, la Lega nazionale per la democrazia, collaboratori della leader agli arresti, uccisi dopo inaudite torture viste sui loro corpi dai familiari ma negate come sempre dai media dei generali» (La Repubblica). I militari sparano anche contro le ambulanze che vanno in soccorso dei feriti.

Nonostante le uccisioni, gli arresti e le minacce di rappresaglia via TikTok, migliaia di giovani continuano a manifestare in tutto il Paese, quasi sempre in forma pacifica, qualche volta lasciando intravedere la possibilità di ricorrere a forme di lotta più incisive, diciamo così, e comunque in grado di opporre alla famigerata brutalità dei militari un minimo di resistenza. Detto en passant, pare che i militari birmani facciano uso, complici le solite “triangolazioni” mercantili, anche di pallottole Made in Italy. Pare.

«Molti temono che se prenderà piede una forma di Intifada più violenta, il movimento potrebbe cadere nella trappola certo non voluta di ritorsioni ancora più feroci, giustificate [sic!] agli occhi del mondo. Per gli esperti nel Paese esistono tutte le condizioni, se non interverranno altre potenze come la Cina che ha già annunciato una difficile mediazione tra le parti, per una guerra civile dalle conseguenze inimmaginabili. Tutti per ora si impegnano però a continuare col metodo della disobbedienza non violenta gandhiana adottata da Madre Suu» (La Repubblica). Intanto la giunta militare ha “consigliato” i Paesi asiatici (l’India e il Giappone, in primis) e occidentali interessati ad avere rapporti economici e diplomatici con il Myanmar, a non adottare nei suoi confronti la politica delle sanzioni “ispirata” da Washington, perché viceversa Naypyidaw sarebbe costretta a mettere l’intera economia del Paese e la sua sicurezza nazionale nelle mani della Cina, mettendo così fine al lungo periodo di “apertura al mondo”. È un fatto che la Malesia e l’India stanno respingendo i profughi appartenenti alle etnie che popolano i confini del Myanmar in fuga dalla fame e dalla prospettiva di sanguinose rappresaglie militari.

«Molti Rohingya stanno nel frattempo solidarizzando con il movimento di disobbedienza e la sorte che li aspetta potrebbe essere un’altra rappresaglia tragica come quella scatenata dagli attacchi di presunti terroristi islamici che giustificarono il genocidio del 2017 e l’esodo in Bangladesh. Le minacce e le sanzioni occidentali non sembrano avere avuto altri effetti che la controfferta di collaborazione con un governo impresentabile al mondo civile» (La Repubblica). Rimane da capire cosa si intende per «mondo civile»: l’imperialismo che piace di più?

Leggi: Myanmar. Per chi suona la pentola.

Il CONGO E LA SOSTANZA DI QUESTA SOCIETÀ-MONDO

Ho appena finito di ascoltare l’informativa sull’attentato in Congo del ministro degli Esteri Luigi Di Maio a Montecitorio. Riassumo la conclusione dell’intervento: per onorare e ricordare i nostri servitori dello Stato, l’Italia, che si trova al centro del Mediterraneo, deve moltiplicare i suoi sforzi per rafforzare la sua presenza in Africa, sulla scia del Partenariato con l’Africa presentato dalla Farnesina nel dicembre 2020.

Cito dal documento Il Partenariato con l’Africa: «L’Africa è da tempo un’assoluta priorità della politica estera italiana. Il rapporto con i Paesi del Continente e le sue organizzazioni è oggi basato su una partnership paritaria, orientata ad uno sviluppo condiviso e ad affrontare insieme le molteplici sfide globali, superando così la tradizionale visione donatore/beneficiario.  L’attenzione italiana verso l’Africa è orientata a garantire sia la crescita equilibrata del Continente che il nostro interesse nazionale, anche in un quadro europeo ed internazionale. La nostra posizione geopolitica al centro del Mediterraneo e la tradizionale propensione al dialogo con l’Africa, anche alla luce della crescente centralità che il Continente sta assumendo di fronte a fenomeni globali sempre più complessi, rende opportuna un’azione di politica estera coerente, articolata su: pace e sicurezza; governance e diritti umani; migrazioni e mobilità; cooperazione e investimenti; sviluppo economico sostenibile; lotta ai cambiamenti climatici; collaborazione culturale e scientifica. Tale azione si innesta sull’antica e intensa presenza dell’Italia in Africa (che ci distingue da altri attori sul Continente) articolata non solo su calibrate scelte politiche, ma anche sulle molteplici iniziative della Cooperazione allo Sviluppo italiana, sulla radicata esperienza delle nostre ONG e dei volontari, sul ruolo delle missioni religiose e di quelle archeologiche, e sulle numerose comunità di connazionali, molti dei quali imprenditori» (Ministero degli Affari Esteri).

Da ciò si evince, tra l’altro, l’importante ruolo che le ONEG e i volontari svolgono a supporto dell’imperialismo italiano. A loro insaputa? Ma certamente! Qui la buona/cattiva coscienza dei soggetti non ha alcun rilievo nello sforzo di comprendere la dinamica del processo sociale considerata nella sua dimensione internazionale.

«L’uccisione dell’Ambasciatore italiano Luca Attanasio e del Carabiniere Vittorio Iacovacci, avvenuta il 22 febbraio ad alcune decine di chilometri da Goma, capitale del North Kivu, regione orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC) al confine con il Ruanda, ha improvvisamente riacceso l’attenzione internazionale su uno dei focolai di conflitto più violenti, complessi e duraturi di tutto il continente africano. Nonostante l’enorme ricchezza naturale e mineraria, il North Kivu è una delle regioni più povere, sottosviluppate e fragili del Paese, dove le vulnerabilità sociali rappresentano il principale incentivo alla feroce conflittualità etnico-settaria. Oltre 20 gruppi etnici e relative milizie armate combattono sia contro le Forze governative e i Caschi Blu della missione ONU MONUSCO, sia e le une contro le altre per il controllo del territorio e delle sue risorse, in particolare quelle agricole e minerarie. Su tutte, oro, pietre preziose e minerali di importanza strategica per l’industria ad alta tecnologia (coltan) e per i traffici illeciti» (CESI Italia). Personalmente, e a differenza dei progressisti e dei francescani (nel senso di Papa Francesco), non ho mai fatto alcuna distinzione, tanto sul piano economico quanto su quello “etico”, fra traffici “leciti” e traffici “illeciti”: si tratta in entrambi i casi di intascare profitti e denaro, di consolidare potere politico e sociale.

Qui di seguito la nota che ho postato ieri su Facebook.

La sostanza di questo mondo

Nel rituale discorso di cordoglio, il Presidente della Camera Roberto Fico ha definito l’uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio e di un carabiniere della scorta «un attacco vile e inspiegabile nei confronti di due servitori dello Stato». Ora, se c’è qualcosa che possono capire anche i bambini è proprio quello che è accaduto ieri a Kanyamahoro, nella provincia congolese del Kivu del Nord. Non mi riferisco ovviamente alla dinamica dell’agguato, che rimane ancora avvolta nel mistero, ai gruppi armati locali coinvolti davvero nell’agguato, ma alla sostanza della questione, che ha come fattore centrale la spartizione del bottino: chi per continuare a incassare grassi profitti, chi per portare a casa qualche briciola di pane, magari con l’uso della forza: «Sono uomini cenciosi ma con i kalashnikov, particolare che fa la differenza tra padrone e vittima, tra uomo e insetto da schiacciare. Come ieri nell’agguato al convoglio dell’ambasciatore italiano emergono dalle foreste, occupano un villaggio, saccheggiano una miniera, attaccano soldati malvestiti, affamati, che si trascinano dietro, come nomadi, famiglie e bestie» (D. Quirico, La Stampa).

Le due parole chiave che rendono di facilissima comprensione i massacri che da vent’anni si consumano da quelle parti sono due: immensa ricchezza e immensa povertà. Tradotto in termini meno asettici e più “scientifici”: capitalismo, capitalismo e ancora capitalismo. Rinvio anche alla dinamica storica che tanto a che vedere ha con ciò di cui parliamo: capitalismo, schiavismo, colonialismo, imperialismo.

«Il contrabbando delle ricchezze del Kivu viene favorito dalle multinazionali europee e americane e dai paesi confinanti. Basti pensare che il Ruanda figura fra i primi produttori mondiali di coltan anche se ufficialmente è privo di miniere. Nella capitale Kigali hanno sede le direzioni delle multinazionali, soprattutto belghe e americane, che commerciano in minerali preziosi. L’Italia è un attore relativamente minore» (Limes). E infatti Roma lavora da tempo per conquistare qualche posizione, magari a scapito dei cugini europei – a cominciare dai soliti francesi!

Limes

Come ha scritto oggi il già citato Domenico Quirico in un bell’articolo, «Le guerre nel Kivu hanno nomi misteriosi, legati non alla geopolitica ma alla tavola di Mendeleev»: diamanti, oro, niobio, rame, cobalto, coltan, tungsteno, tantalio, stagno, manganese, piombo, zinco, carbone, uranio, petrolio. Senza parlare del legname e delle piante di eccezionale pregio. In realtà la tavola di Mendeleev in questo caso incrocia anche la tavola della geopolitica.

«Il tantalio: un metallo che resiste alla corrosione, ad esempio. Lo scavano in queste foreste da cui sono balzati fuori i killer dell’ambasciatore, lo scavano uomini e bambini con la vanga, le mani impastate di fango e di sudore. Tante piccole mani distruggono la foresta per cercarlo. Uomini armati li controllano, pronti a sparare. Il padrone della concessione, con un satellitare, tratta forniture, contratti, conti in banca e le tangenti per i funzionari e i ministri del governo. E la cassiterite? La avete mai sentita nominare? Esiste, serve per saldare e per le leghe speciali: si nasconde in questa terra nera come sangue raggrumato. […] Nei villaggi dell’alto Huelè non c’è giorno in cui bambini e bambine non vengano rapiti, trasformati in schiave sessuali e in combattenti, spie, portatori. Li marchiano sulla fronte, sul dorso e sul petto con croci disegnate con olio di karité, che i miliziani acholi chiamano “moo-ya” e dicono sia una pianta sacra. E poi ci sono milizie comandate da stregoni che promettono l’invulnerabilità con pozioni magiche e gris gris, e le bande degli antichi massacratori hutu del genocidio ruandese degli Anni novanta. Sono sfuggiti alla vendetta dei tutsi rifugiandosi nelle foreste del Kivu e si sono trasformati in una armata di spiriti, avida e feroce. E poi piccoli signori della guerra, imprenditori di milizie che le affittano per difendere le miniere, saccheggiare, offrire protezione: la guerra business, la guerra che nessuno racconta perché è un romanzo criminale» (D. Quirico, La Stampa).

Criminale è questa Società-Mondo che ha nel denaro il suo spietato Moloch assetato di sangue – metaforico e reale, realissimo: «Con il denaro posso portare in giro con me, in tasca, il potere sociale universale, la connessione sociale generale e la sostanza della società» (K. Marx). E che questa Società-Mondo abbia una sostanza escrementizia, per me è poco ma altrettanto sicuro. Sicurissimo.

MYANMAR. PER CHI SUONA LA PENTOLA…

BEAT YOUR POT! La gente la sera, dalle 20, batte le pentole dalle case come segno di protesta. Un vecchio rito popolare contro il maligno che è stato trasformato in atto di ribellione e di protesta contro il colpo di stato.

Dopo i proiettili di gomma, ora militari e polizia usano pallottole vere per fermare le proteste contro il colpo di Stato dello scorso 1º febbraio. Già si contano i primi morti e molti feriti. «Le forze armate (Tatmadaw) hanno imposto il divieto di raduni di più di quattro persone in dieci regioni e Stati, incluso Yangon, ma decine di migliaia di persone hanno ignorato l’ordine e si sono affollate per le strade. Per la prima volta da quando sono scoppiate le proteste, agenti antisommossa sono stati dispiegati per le strade di Yangon e nella capitale Naypyidaw e avrebbero aperto il fuoco sui manifestanti» (ISPI). Non «avrebbero»: lo hanno fatto. Questo è, come si dice, poco ma sicuro. I manifestanti, che rischiano fino a 20 anni di carcere, hanno deciso di fare di oggi, 22 febbraio, una grande giornata di mobilitazione e di lotta. La probabilità che l’Esercito birmano (espressione soprattutto della comunità Bamar) usi contro i manifestanti il pugno di ferro è altissima. Confessava cinicamente un militare birmano nel 1988, nel corso di una delle tante ondate repressive che hanno segnato la recente storia birmana: «L’esercito non ha la tradizione di sparare in aria. L’esercito spara per uccidere». E infatti allora tra i manifestanti si contarono centinaia, se non migliaia di morti.

Ultim’ora: «La giunta militare ha intanto diffuso una nota su Mrtv accusando i manifestanti in piazza oggi di incitamento alla “rivolta e anarchia”. Il Consiglio di amministrazione dello Stato, nome ufficiale della giunta militare, ha affermato che “i manifestanti stanno ora incitando le persone, in particolare adolescenti e giovani emotivi, a un percorso di confronto in cui subiranno la morte”» (adnKronos). La giunta militare sta mettendo in conto – e forse pianificando – un bagno di sangue?

Limes

Comprendere i motivi del colpo di Stato militare in Birmania (Myanmar) non appare, a un primo sguardo, impresa agevole, nel senso che è dal colpo di Stato “socialista” del 1962 che l’Esercito gioca in quel Paese un ruolo politico ed economico a dir poco centrale (1). Il sistema politico del Myanmar è sempre rimasto saldamente sotto il controllo del Tatmadaw (le Forze armate birmane) anche durante il «processo di democratizzazione» del Paese avviato nel 2011, e che ha visto Lady Aung San Suu Kyi diventare di fatto la leader del Paese e il suo partito (Lega nazionale per la democrazia) la principale forza politica, almeno sul piano formale-elettorale.

Secondo Soe Lin Aung, «Da un certo punto di vista, i militari non avevano bisogno di lanciare un colpo di Stato; l’esercito detiene già un notevole potere politico ed economico, nonostante abbia consentito nel 2011 a un governo formalmente civile di prendere forma dopo decenni di suo dominio. Nella dispensa post-2011, i militari si sono riservati un quarto dei seggi in parlamento, abbastanza per prevenire eventuali emendamenti alla costituzione del 2008, che in gran parte ha scritto per proteggere la propria posizione. Tre ministeri chiave sono rimasti sotto il controllo esclusivo dei militari» (Chuang). Ma negli ultimi anni il compromesso tra militari e classe dirigente civile si è indebolito, sfilacciato e incrinato, diventando sempre più precario, e il grande successo elettorale dello scorso novembre ottenuto dalla Lega nazionale per la democrazia (oltre l’80% dei voti) ha messo in allarme il gruppo dirigente del Tatmadaw, il quale ovviamente non vuole perdere il suo ruolo di perno centrale del sistema. La giunta militare, capeggiata dal generale Min Aung Hlaing, ha parlato di «brogli elettorali» e ha dichiarato di voler mettere in sicurezza la “democrazia”, compito che la Costituzione del 2008 (voluta dall’Esercito!) assegna appunto ai militari.

La posta in gioco in quel Paese non è insomma la democrazia (2), la libertà e il benessere dei cittadini, ma il potere economico e politico, dopo che la crisi economica degli ultimi anni, le tensioni etniche mai sopite e anzi sempre più accese, nonché le dinamiche geopolitiche hanno rotto l’equilibrio che si era appunto realizzato tra l’esercito e la classe dirigente “civile” – corresponsabile peraltro della dura repressione dei gruppi etnici che popolano i confini del Paese. «Le minoranze etniche del Myanmar sono state oggetto di spietate campagne di controinsurrezione per decenni. Saw Kwe Htoo Win, vicepresidente dell’Unione nazionale Karen, ha affermato: “Non importa se i militari inscenano un colpo di stato, il potere è già nelle loro mani. Per noi nazionalità etniche, sia che la NLD sia al potere o che l’esercito prenda il potere in esclusiva, non cambia nulla, perché non ne facciamo ancora parte. Noi siamo quelli che continueranno a soffrire a causa di questo sciovinismo» (Chuang).

Scrive Emanuele Giordana: «Alla fine di agosto dello scorso anno si era tenuta una Conferenza di pacificazione nazionale tra governo, esercito e minoranze etniche che sembrava aver ottenuto buoni risultati, soprattutto perché «tutte le parti hanno concordato, per la prima volta, sull’idea di costruire uno stato federale. […] Ora però questa già difficile e fragile architettura rischia di andare in pezzi e di vanificare un’operazione che è stata la vera vittoria politica nazionale di Aung San Suu Kyi e della Lega proprio in quanto rappresentanti di un governo civile in grado di far apparire i militari non più l’unico arbitro di una possibile negoziato di pace ma solo dei comprimari. Il vero pericolo per il Myanmar viene da lì. Da un possibile riaccendersi dello uno scontro etnico-identitario e da una nuova spinta verso l’autonomia secessionista. Un elemento non solo di conflitto e sofferenza interna ma un puzzle che, andando in pezzi, rischia seriamente di minare l’intera stabilità regionale in gran parte del Sud-est asiatico e al confine meridionale cinese» (ISPI).

C’è da dire che le Forze armate birmane sono molto presenti e attive anche nell’economia “informale” (o “illegale”): narcotraffico, contrabbando di pietre preziose e di legni pregiati, eccetera. Nell’angolo remoto e roccioso nel quale si uniscono le frontiere del Laos, della Thailandia, della Birmania e della Cina da moltissimo tempo è fiorente la coltivazione del papavero per il mercato dell’oppio e altri suoi derivati oggi più di moda – soprattutto nelle società occidentali.

Scrive Lorenzo di Muro: «La posta in gioco era e resta l’intelaiatura del potere in Birmania. La partita geopolitica centrata sulla sfida indopacifica tra Pechino e Washington ha fornito la cornice utile al golpe delle Forze armate (Limes). La Cina per adesso sta a guardare, e probabilmente il Partito-regime non ha gradito l’iniziativa dei militari: il mantra dell’imperialismo cinese è infatti la difesa della stabilità politico-sociale che agevola la sua penetrante iniziativa economica. «Si tratta di affari interni a quel Paese, la cui sovranità va sempre rispettata»: come no! Anche la Thailandia, fedele alleata degli Stati Uniti e retta da una giunta militare, ha parlato degli avvenimenti birmani come di «affari interni», al pari di Cambogia e Filippine – i cui regimi politici com’è noto non sono esattamente “democratici”.

Alcuni analisti pensano invece che i militari birmani hanno agito, magari solo in parte, dietro una precisa “sollecitazione” cinese. Comunque sia, a questo punto la sconfitta dei militari potrebbe rappresentare per Pechino un pericoloso precedente: la resistenza di Hong Kong è stata infatti piegata, ma non ancora spezzata, e sotto la cenere della repressione e dell’emergenza pandemica la brace continua a bruciare.

Per Giorgio Cuscito, «La Cina non gioisce per il colpo di Stato in Myanmar, ma i suoi interessi strategici la obbligano a preservare i rapporti con il governo instaurato dal Tatmadaw, le Forze armate birmane. Pechino ha tre obiettivi. Il primo è evitare che il golpe comprometta il completamento del Corridoio economico sino-birmano. Il progetto serve ad accedere all’Oceano Indiano senza passare per lo Stretto di Malacca, presidiato dagli Stati Uniti. Il secondo è preservare l’accesso alle cospicue risorse energetiche e minerarie del vicino meridionale. La Repubblica Popolare è il primo partner commerciale del Myanmar e la sua seconda fonte di investimenti esteri dopo Singapore. Infine, da tempo il governo cinese vuole servirsi dell’appoggio di Naypyidaw per accrescere il suo soft power nel Sud-Est asiatico. Allo stesso tempo la combinazione tra golpe, epidemia di coronavirus, rallentamento economico e proteste (come quelle scoppiate a Yangon) rende il contesto birmano incerto e scoraggia Pechino a schierarsi definitivamente. La Repubblica Popolare non rinnegherà esplicitamente il dialogo instaurato negli ultimi anni con Aung San Suu Kyi (leader di fatto del paese) e la Lega nazionale per la democrazia (Lnd) grazie agli investimenti e al sostegno sulla questione dei rohingya. Soprattutto, Pechino continuerà a interagire con i gruppi armati di etnia cinese del Nord del Myanmar per usarli come arma negoziale nei confronti del Tatmadaw» (Limes).

Come si sa, il Celeste Imperialismo è, sul piano politico-ideologico, molto “pragmatico” e “realista”, e alla fine esso sceglie sempre la carta che offre le più ampie garanzie ai suoi investimenti economici e geopolitici. Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Cina ha prontamente bloccato la risoluzione che condannava il colpo di Stato dell’Esercito birmano, ma questo non esclude affatto che Pechino stia lavorando nell’ombra per un compromesso accettabile dai militari golpisti e dal partito della “Lady”.

L’inno della rivolta birmana del 1988 suonava così: «Non saremo soddisfatti fino alla fine del mondo». L’inno degli anticapitalisti di tutto il mondo suona invece come segue: «Non saremo soddisfatti fino alla fine del capitalismo/imperialismo». Lo so, ci tocca essere insoddisfatti ancora per molto tempo…

Limes

(1) Allora il colpo di Stato guidato dal generale Ne Win si spiegava soprattutto come un tentativo della fragile nazione birmana di non soccombere dinanzi alle rivolte dei vari gruppi etnici e di non lasciarsi fagocitare dal conflitto interimperialistico giocato nella regione del Sudest asiatico da Stati Uniti, Russia e Cina. Soprattutto quest’ultima incuteva molto timore nella classe dirigente birmana, sia perché la presenza cinese nell’economia (soprattutto in quella creditizia) del Paese cresceva di anno in anno, e anche perché Pechino ispirava l’azione di molti gruppi politici birmani, molti dei quali sostenevano la lotta armata delle etnie che rivendicavano l’indipendenza o quantomeno una maggiore autonomia. La «via birmana al socialismo» (sic!) si concretizzò in una nazionalizzazione di industrie, banche e attività commerciali che ebbe come immediato risultato la fuoriuscita dal Paese del capitale estero  e la morte del turismo (quasi tutti gli indiani e i cinesi presenti nel Paese fecero le valigie), cosa che precipitò la Birmania in una grave crisi economica di lunga durata. Quasi tutti i generi di prima necessità (riso, pesce, sale, olio da cucina, gamberi, latte, sapone, indumenti) vennero razionati. Il crollo dell’esportazione del riso ridusse drasticamente l’afflusso di divise estere nel Paese. La Birmania ricavava allora dal riso il 70% delle sue entrate in divise estere. Il primato dell’esportazione di riso che prima le apparteneva passò nelle mani della Thailandia. La crisi economica si fece sentire molto meno nelle zone rurali, le quali potevano contare su un’economia di sussistenza in grado di fornire cibo e indumenti in quantità sufficienti. Ne Win si giustificò dicendo che la priorità del Paese era quello di irrobustire la sua fibra morale corrosa dalla fascinazione del capitalismo occidentale, il quale prometteva ai Paesi del Sudest asiatico aiuti economici e militari solo per assoggettarli  economicamente e “spiritualmente”. I «diavoli della strada» (cioè i giovani) di Rangoon facevano il possibile per seguire la moda dei loro coetanei londinesi e italiani, e questo al generale sciovinista, che rimpiangeva i giorni della guerra («Allora eravamo tutti uniti, adesso ognuno fa per conto suo»), non andava affatto bene. Egli si diceva disposto a tutto, pur di conquistare e conservare uno straccio di indipendenza nazionale. La stessa logica infernale guiderà in Cambogia i Khmer rossi.

La Birmania diventa indipendente il 4 gennaio 1948. Nel 1885 i britannici avevano fatto di quel Paese una provincia dell’India. In seguito alla rivolta contadina del 1931, nel 1937 la Birmania venne separata dall’India e si vide riconosciuta dalla Gran Bretagna un’ampia autonomia politico-amministrativa.

(2) «Il presunto collegamento tra apertura politica ed economica non sembra più così chiaro. Invece, assistiamo a una transizione capitalistica lunga decenni, intrecciata con una varietà di forme politiche. Anche una breve occhiata ai vicini del Myanmar (Cina, Thailandia, Singapore) dimostra che il capitalismo difficilmente garantisce la democratizzazione. Qui spicca una certa configurazione del potere borghese. Sia in Myanmar che nella Grande Cina, ad esempio, un apparato statale centralizzato (i militari nel primo caso, una burocrazia del Partito-Stato nel secondo) ha navigato in una relazione tesa con frazioni borghesi separate dal regime, alcune delle quali sono politicamente liberali e più collegate a Capitale occidentale. Cosa significa rompere questo allineamento? In Myanmar, i militari non avranno più lo stesso accesso al capitale occidentale. Tuttavia, la lunga transizione capitalista del Myanmar è stata sempre alimentata molto di più dai capitali dell’Asia orientale e sud-orientale, che vanno dal suo tremolante settore dell’abbigliamento alle sue industrie agroalimentari in crescita e alle principali forme di estrazione di risorse (vale a dire petrolio e gas, in particolare le riserve di gas offshore della Thailandia, e i doppi oleodotti e gasdotti che scorrono verso lo Yunnan, Cina). L’agricoltura di semisussistenza continuerà a erodersi nelle vaste aree rurali del Myanmar e nelle zone montuose di confine man mano che il lavoro precario a basso salario si espande nei centri urbani» (Chuang). Qui per «transizione capitalistica» va inteso il passaggio da un’economia fortemente controllata dallo Stato (che chiamare “socialista” è a mio avviso semplicemente ridicolo, per non dire altro) a un’economia centrata sul capitale “privato”. Sulla natura sociale del capitale, statale o privato che sia, rimando ai miei diversi scritti dedicati al tema.

 

 

 

 

 

 

CUBA. ENNESIMO ANNUNCIO DI UNA “GRANDE RIFORMA ECONOMICA”

Cuba. Annuncio dell’ennesima “riforma economica” da parte del regime. Ogni volta che l’isola caraibica si trova a un passo dal baratro, ecco spuntare all’orizzonte la prospettiva di una «più coraggiosa apertura» di Cuba al capitalismo privato. L’ultima “grande riforma” risale a 13 anni fa, e venne lanciata dall’ex presidente Raúl Castro. Risultato? La crisi che abbiamo dinanzi. Non è facile ristrutturare radicalmente un’economia senza mettere in discussione vecchi e assai radicati interessi, rendite di posizione e, soprattutto, la struttura del regime politico vigente. E infatti l’opposizione al regime cubano pensa che l’ennesimo annuncio “riformista” non sia che un segnale lanciato dall’Avana soprattutto agli Stati Uniti, per catturarne la benevolenza. «Per José Daniel Ferrer, leader dell’Unpacu, la principale associazione di resistenza dal basso al castrismo, oggi appoggiata da un numero crescente di contadini, è indubbio che “l’intenzione è quella di far innamorare il neopresidente degli Stati Uniti Joe Biden con una presunta apertura economica interna, ma l’unico obiettivo è che gli Usa eliminino le sanzioni e aprano il flusso delle rimesse, dei voli e dei viaggiatori, che poi è la formula che piace ai comunisti: farsi mantenere al potere dai soldi del capitalismo» (Il Giornale). Chi associa Cuba al comunismo, o anche a qualcosa di lontanamente assimilabile a una società non capitalista, ha in testa un concetto di “comunismo” e di “anticapitalismo”che personalmente trovo di una comicità (diciamo così) davvero irresistibile. Sulla natura nazionale-borghese della mitica Rivoluzione cubana rimando a qualche mio post dedicato al tema (*).

Per La Stampa, «La nuova Revolución [sic! ] non guarda più al Che, ormai un monumento per i turisti, il modello è la Cina di Xi Jinping»; dal fatiscente e sgangherato capitalismo con caratteristiche cubane al capitalismo ultra organizzato e tecnologizzato con caratteristiche cinesi? Sarebbe davvero una miracolosa transizione!

Ma di “modello cinese” (e vietnamita) per Cuba si parlò già nel 2012: «Nei piani di Raúl Castro la transizione a Cuba seguirà il modello di Pechino e Hanoi: apertura al capitalismo ma non alla democrazia. La Cina sta abbracciando il capitalismo e da anni invita Cuba a fare lo stesso – addirittura lamentandosi privatamente della lentezza con cui il regime dell’isola caraibica introduce i cambiamenti. La cooperazione cinese è da anni improntata anche alla creazione di capacità industriali e di un tessuto imprenditoriale a L’Avana. Pechino è da qualche anno il secondo partner commerciale di L’Avana, dopo il Venezuela di Hugo Chávez. L’espansione dell’economia di mercato è da sempre una priorità della politica estera statunitense; come non gioirne se si verifica a pochi chilometri dalle coste della Florida? La Cina non farebbe per Cuba quanto fece a suo tempo l’Unione Sovietica. Per Pechino una relativa stabilità nei rapporti con gli Usa è più importante della solidarietà dettata da ormai sbiadite affinità ideologiche; dal canto suo L’Avana dovrebbe aver imparato subito dopo il collasso dell’Urss quanto sia rischiosa la dipendenza economica da un solo partner. Per quanto gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese possano collaborare però, ci saranno aree e temi nei quali – pur non arrivando necessariamente a un confronto armato – resteranno rivali» (Limes, 11/07/2012). Dopo undici anni, siamo ancora a parlare di una “via cinese al capitalismo” per Cuba. La transizione di Cuba verso un capitalismo più moderno e prospero è davvero lenta, fin troppo lenta.

L’arretrata società cubana è tormentata da una lunga e grave crisi economica, aggravata dalle sanzioni imposte dall’ex presidente americano Donald Trump e, ancor più recentemente, dalla pandemia. «Dopo anni di stagnazione, nel 2020 l’economia cubana ha conosciuto una contrazione dell’11 per cento (il peggior calo in quasi tre decenni) e la popolazione ha dovuto fare i conti con scarsità di beni di base e file interminabili per ottenerli. Ad oggi, il cosiddetto settore “non statale”, con l’esclusione dell’agricoltura tenuta in piedi da centinaia di migliaia di fattorie, è composto principalmente da piccole cooperative attive nel turismo, nell’artigianato e nel trasporto locale. Secondo la ministra Feito, citata da Granma, l’organo di stampa del Partito comunista [rido!], si tratta di circa 600 mila lavoratori, ossia il 13 per cento della popolazione attiva. La nuova riforma dovrebbe aprire ai privati quasi tutti i settori dell’economia: “Soltanto 124 rimarranno parzialmente o del tutto controllati dallo Stato”, ha riferito ancora la ministra Feito, senza però specificare quali» (La Stampa). Di certo c’è che l’umore della popolazione cubana si fa di giorno in giorno sempre più nero. Nell’ultimo mese l’inflazione ha dimezzato il potere d’acquisto del 90 per cento dei cubani, ossia di tutti quelli che non possono spendere in dollari. Il peso cubano è una valuta nazionale sempre più leggera, mentre il velleitario CUC (convertibile in perfetta parità con il dollaro) creato negli anni Novanta è stato eliminato.  «Il CUC seppellirà l’egemonia del dollaro», aveva detto allora il mitico Fidel, subito festeggiato dai castristi di mezzo mondo – i quali ancora oggi associano Cuba alla Revolución, costringendo in tal modo il modestissimo personaggio che scrive a immaginarsi un genio della scienza sociale: tutto è relativo! Per fortuna di solito mi confronto con persone che mettono in riga il mio principio di realtà, riconducendomi alla modesta dimensione intellettuale che mi compete: mannaggia!

«Cuba non fa parte della Banca Mondiale né del Fondo Monetario Internazionale, per cui non ha accesso ad alcun finanziamento. Con un probabile avvicinamento, gli Stati Uniti potrebbero presentarsi come un “consigliere” in materia finanziaria. E le attività economiche private potrebbero accedere a fondi americani per operare e crescere sull’isola. Ma saranno vere le intenzioni del regime castrista? Secondo il Financial Times, John Kavulich, presidente del Consiglio economico e commerciale Usa-Cuba, se Cuba promuove la liberalizzazione del tasso di cambio ed espande il settore privato, ciò creerebbe incentivi per Washington a impegnarsi: “La chiave è che l’amministrazione Biden deve credere che l’amministrazione Díaz-Canel sia seriamente intenzionata a ristrutturare l’economia. L’unico modo per dimostrare serietà è sopportare i sacrifici della trasformazione”» (Formiche.net). Si tratta anche di vedere la postura che la Russia e la Cina assumeranno nei confronti di un seppur piccolo riavvicinamento tra Cuba e Stati Uniti. Di certo possiamo dire che, “trasformazione” o meno, sono tanti e gravosi i sacrifici che i senza riserve di Cuba stanno sopportando.

«Secondo Harold Cárdenas Lema, professore universitario, analista e fondatore del blog La joven Cuba, però si è rotto “il contratto sociale” per cui “la gran maggioranza della popolazione cubana chiudeva gli occhi di fronte alla repressione dell’opposizione e del dissenso ritenuti annessionisti o nel libro paga degli Usa”» (Il Manifesto, 12/12/2020). D’altra parte il regime è stato chiaro circa il trattamento che verrà riservato agli oppositori politici e sociali che minacciano di scendere in strada: «All’interno della Rivoluzione tutto, contro la Rivoluzione niente». Abbasso la “Rivoluzione”! Viva la Rivoluzione!

(*) Riflessioni sulla rivoluzione cubana; Fidel Castro; Sul fallimento del “laboratorio politico-sociale” latinoamericano.
Per quanto riguarda Ernesto “Che” Guevara, al di là della sua fraseologia pseudo-rivoluzionaria che tanto ammaliò i “marxisti” europei della sua epoca (e purtroppo anche di quella successiva, fino ai nostri giorni), egli a mio avviso va collocato interamente dentro l’esperienza ultrareazionaria del cosiddetto “socialismo reale”, ossia del reale capitalismo vigente in Unione Sovietica, in Cina e negli altri Paesi “socialisti”. Questo senza nulla togliere al suo ruolo nella rivoluzione nazionale-borghese cubana. La sua ideologia piccolo-borghese risalta soprattutto nella strategia guerrigliera che egli propose a tutti i Paesi dell’America Latina, anche a quelli forniti di un proletariato urbano e di un contadiname salariato interessati, almeno potenzialmente, a una lotta di classe autenticamente anticapitalista – la sola che si possa definire antimperialista in senso proletario, non nazionale-borghese. «Ecco la prima impressione del Che in visita in Urss: “Anche io, arrivando in Unione Sovietica, mi sono sorpreso perché una delle cose che si nota di più è l’enorme libertà che c’è (…) l’enorme libertà di pensiero, l’enorme libertà che ha ciascuno di svilupparsi secondo le proprie capacità ed il proprio temperamento.” (E. Guevara, Scritti, discorsi e diari di guerriglia, Einaudi 1969, pag. 946). Queste parole furono pronunciate nel 1961, cinque anni dopo la repressione della rivoluzione operaia ungherese da parte delle truppe di Mosca. E sulla strategia di sviluppo del socialismo, parlando ancora dell’Urss, si può notare quanta confusione era presente nelle idee del rivoluzionario argentino: “Mi ascolti bene, ogni rivoluzione, lo voglia o no, le piaccia o no, sconta una fase inevitabile di stalinismo, perché deve difendersi dall’accerchiamento capitalista.” (K. S. Karol, La guerriglia al potere, Mondadori 1970, pag.53). Lo stalinismo qui viene trattato come una malattia dell’infanzia. In realtà è stato un processo di controrivoluzione politica [e sociale, aggiungo io] portato avanti da una casta, la burocrazia di cui Stalin era appunto il rappresentante, che non si esaurì affatto con la morte di quest’ultimo. Comportò l’eliminazione fisica di tutta la vecchia guardia bolscevica, quella della rivoluzione d’Ottobre» (R. Sarti, Note sul pensiero del Che). A mio avviso lo stalinismo fu, nell’essenza, l’espressione di una controrivoluzione capitalistica che si spiega anche, se non soprattutto, alla luce del contesto internazionale dell’epoca; l’esistenza di una «casta burocratica» posta al servizio del capitalismo e dell’imperialismo con caratteristiche “sovietiche” si spiega alla luce di quella controrivoluzione antiproletaria, e non viceversa. Ma questo è un altro discorso.

IL MONDO “CAPOVOLTO” DEL WORLD ECONOMIC FORUM

È sufficiente leggere gli interventi dei protagonisti del World Economic Forum di quest’anno, per capire chi oggi sta vincendo la partita della competizione capitalistica/imperialistica mondiale. Sto forse alludendo alla Cina? Soprattutto al grande Paese asiatico, com’è ovvio di questi tempi; ma è tutta la regione dell’Asia-Pacifico che si conferma sempre più come l’area capitalisticamente più strutturata, forte e dinamica del mondo. Certo, anche quella più “resiliente” ai cigni neri (incluse le pandemie), tanto per civettare anch’io con il lessico modaiolo.

Mentre i leader occidentali ostentano pessimismo e perplessità sul futuro dell’attuale modello di Capitalismo (ovviamente non sul Capitalismo in quanto tale, come peculiare modo di produzione fondato su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento storicamente determinati: questa è roba vecchia!), accusato di generare contraddizioni, conflitti (anche generazionali), disuguaglianze mai viste prime, ingiustizie sociali d’ogni tipo, degrado ambientale e quant’altro; mentre accade questo «solo Xi Jinping, il presidente cinese, resta ancorato alla globalizzazione di prima della pandemia, come se nulla fosse accaduto, forte dei successi economici che i brandelli del multilateralismo, ancora rimasti sul terreno dopo il tornado Trump, ancora gli concedono. Nessuna riflessione o aggiustamento da parte del leader cinese» (Businnessinsider.com). Qualche commentatore particolarmente spiritoso (e arguto) ha scritto che più che a Davos (ancorché virtuale, causa Coronavirus), per certi versi sembra di trovarsi al Forum sociale di Porto Alegre, tra i nemici dell’onnipotenza del potere del denaro e degli eccessi dell’ultra-liberalismo della scuola dei Chicago Boys. Perfino il Presidente francese Macron non ha voluto fare mancare la sua personale critica: «Il modello capitalista non può più funzionare»; ma ha subito aggiunto che in ogni caso «il capitalismo e l’economia di mercato non si possono certo liquidare in fretta»: e che premura c’è? Per Macron bisogna insomma emendare il «lato oscuro» del Capitalismo, non fare di esso una caricatura per buttare, come si dice, il bambino insieme all’acqua sporca. Personalmente non vedo che acqua sporchissima e un Moloch che si nutre della vita degli individui. Occorre, ha concluso il Presidente francese, «mettere al centro del problema la risposta alle problematiche del modello capitalista»: chissà che voleva dire.

Come sempre la Cancelliera Tedesca ha cercato di rassicurare sia Washington («Dobbiamo lavorare insieme ma con trasparenza»: vedi le responsabilità cinesi sulla genesi della pandemia) che Pechino («Chiudersi non serve, il multilateralismo è centrale. Non si deve guardare solo indietro, ma anche avanti»). Il senso di questo guardare avanti è probabilmente anche contenuto nell’accordo Cina-UE del 30 dicembre scorso. Ancora la Cancelliera (rivolta alla Cina): «Quando iniziano le interferenze? e quando finiscono se si sostengono valori fondamentali? Il presidente della Cina si è impegnato a rispettare la dichiarazione delle Nazioni Unite (sui diritti dell’uomo, ndr). Bisogna discutere questa questione, non importa da quale sistema sociale proveniamo» (Il Sole 24 Ore). Tranquilla, Angela: «proveniamo» dallo stesso sistema sociale, quello capitalistico – ovviamente.

Dopo aver esternato la sua – solita – apologia della globalizzazione capitalistica (che oggi vede appunto vincente la Cina), Xi Jinping ha voluto lanciare alla concorrenza (soprattutto agli Stati Uniti) un messaggio forte e chiaro: «Chi crea clan o inizia una nuova guerra fredda, chi rifiuta, minaccia o intimidisce gli altri, chi imporre l’allontanamento tra i popoli, o interrompe le catene di appalti con le sanzioni, al fine di indurre l’isolamento, sta solo spingendo il mondo alla divisione e persino allo scontro». La nuova Amministrazione statunitense è avvertita. Il punto più caldo della competizione capitalistica globale oggi si trova nell’area dell’Est-Pacifico, e non è un caso se le strategie militari della Cina e degli Stati Uniti sono sempre più focalizzate su quell’area.

Aveva detto Xi Jinping al Forum di Davos del 2017: «La Cina ha fatto passi coraggiosi per abbracciare il mercato globale. Abbiamo affrontato le onde più alte, ma abbiamo imparato a nuotare»: la concorrenza, soprattutto quella che oggi boccheggia, se n’è accorta, eccome!

 Leggi anche:

Accade nella Cina capitalista. Il lavoro forzato non macchia, arricchisce; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

MAKE AMERICA BREAKING BAD

«Io dubito che sarei qui se non fosse per i social media, sarò onesto» (D. Trump, 22 ottobre 2017).
«Il rischio di consentire al presidente di continuare a usare il nostro servizio in questo momento è semplicemente troppo grande. Per questo estendiamo il blocco che abbiamo deciso sui suoi account Facebook e Instagram a tempo indeterminato e per almeno le prossime due settimane, fino a quando una pacifica transizione di potere sarà completata» (Mark Zuckerberg). Lei non sa chi sono io! Io sono il Presidente degli Stati Uniti, nientedimeno! «Shut up!»
La Comunità che ci apparecchiano i capitalisti del Web è sempre più intransigente circa ciò che può essere definita comunicazione politicamente corretta. E allora un maligno sospetto mi viene, pensando ai miei post pubblicati su Facebook e rilanciati su Twitter…

Ho appena finito di leggere un articolo molto interessante che Raffaele Alberto Ventura scrisse nel 2016 per dar conto del “fenomeno-Trump” con un approccio inteso ad andare oltre le comode interpretazioni che su di esso allora circolavano nel cosiddetto mainstream politico e giornalistico, diviso in tifosi e avversari del “populismo”. I concetti chiave che informano l’artico sono sostanzialmente due, intimamente legati tra loro: declassamento sociale e povertà relativa. «La minaccia del declassamento ti spinge a fare cose davvero pericolose».

Che titolo possiamo dare al grottesco spettacolo andato in scena lo scorso 6 gennaio a Washington? Tentato colpo di Stato? Rivolta? Rivoluzione («Siamo rivoluzionari», ha proclamato un barbuto assalitore di Capitol Hill, noto “suprematista” bianco)? Populismo? Fascismo? Isteria e idiozia di massa? Teppismo? Volgare carnevalata? Colpo di coda finale? Trumpismo (magari a riassumere tutti gli altri)? Ognuno può scegliere il titolo che più gli aggrada, tanto più che oggigiorno parole e concetti si guardano in cagnesco evitando di frequentarsi – e più spesso di quanto si creda, anche alle nostre spalle, ai nostri danni. Certo è, che ripensando ai fatti americani
dell’Epifania a me vengono in testa due concetti: crisi del sistema sociale americano e miseria sociale/esistenziale; si tratta, come si vede, di due concetti che si danno la mano, che rinviano a una stessa cosa. Ma di questo scriverò, forse, un’altra volta.

Nel suo editoriale di oggi Stefano Feltri ha colto, a mio avviso, un aspetto fondamentale della vicenda americana di questi giorni, sebbene egli la osservi da una prospettiva che mi è completamente estranea e ostile. Scrive Feltri: «Zuckerberg ha dimostrato di poter imbavagliare un presidente degli Stati Uniti in carica, forse nella speranza di ottenere favori da quello entrante, forse per il bene della democrazia, o per un’esibizione muscolare di forza. Poco importa: anche il peggiore dei presidenti, quale è senza dubbio Trump, ha alle spalle milioni di elettori. Zuckerberg risponde soltanto a sé stesso, visto che è amministratore delegato di Facebook ma anche primo azionista. Mentre Zuckerberg cerca facili applausi contro Trump, cambia in modo unilaterale le regole della privacy di WhatsApp, mettendo i dati del servizio di messaggistica a disposizione di Facebook. Esattamente quello che aveva promesso di non fare quando, nel 2016, aveva chiesto l’autorizzazione alla fusione. Zuckerberg è un pericolo per la democrazia assai maggiore di Jack Angeli, lo sciamano con le corna che ha assaltato il Congresso, e anche del suo mandante, cioè Trump» (Domani). Ma a sua volta, cosa incarna (di cosa è «rappresentante personificato», avrebbe detto lo sciamano di Treviri) Zuckerberg? Del Capitale, si capisce! Del Capitale nelle sue diverse forme, a partire da quelle che afferiscono alla vasta costellazione tecnoscientifica che permette al democratico e progressista padrone di Facebook di intascare grassi e facili profitti.

Dinanzi alla potenza del Capitale, il Presidente degli Stati Uniti, probabilmente l’uomo più potente esistente oggi sulla faccia della Terra, o quantomeno ritenuto tale, ha fatto la miserrima figura di un utente internettiano qualunque. La valigetta con i codici dei missili nucleari evocata da Nancy Pelosi evidentemente non ha impaurito nessuno, e la Borsa di New York ha festeggiato da par suo l’uscita di scena della vecchia Amministrazione mentre la «feccia trumpiana» assaltava il Campidoglio, il tempio della democrazia (capitalistica/imperialista) venerato da tutti i sinceri democratici del pianeta. E di fatti, a Pechino, a Mosca, a Teheran e a Istanbul si sprecavano le «maligne battute» sulla fragile e caotica democrazia americana che non riesce a difendere nemmeno i suoi più prestigiosi santuari: «Si venga a lezione da noi, anziché pretendere di darci lezioni di efficienza istituzionale e di democrazia!» Hong Kong insegna, appunto.

Lucio Caracciolo suggerisce cautela ai nemici, più o meno dichiarati, dell’Impero Americano: «Non si può escludere che per ricompattare la nazione e rinsaldare il primato nel mondo alcuni poteri americani siano pronti a scatenare una guerra, possibilmente breve e vittoriosa, che punisca almeno uno fra i tre supernemici [Cina, Russia, Iran]. Di sicuro l’imprevedibilità degli Stati Uniti destabilizza il sistema delle cosiddette relazioni internazionali, già in entropia. […] Fra qualche anno, forse, scopriremo negli attuali soci [Germania e Francia, in primis] in via di emancipazione dal controllo americano una lancinante nostalgia per i tempi in cui dovevano tacere, ubbidire e godersi la vita sotto l’ombrello a stelle e strisce» (La Stampa). Federico Rampini esprime concetti simili: «Nella nuova guerra fredda Usa-Cina, gli europei sono convinti di potersi ritagliare una posizione intermedia, scegliendo di volta in volta da che parte stare, in base ai propri interessi geo-economici e strategici. Non accettano che la riscoperta solidarietà occidentale sia un pretesto per subordinarli alle priorità di Washington, neanche sotto un nuovo presidente atlantista e multilateralista. Pensano perfino di poter insegnare a Biden la giusta via per estrarre concessioni da Xi. A loro volta, gli europei non dovranno scandalizzarsi se l’agenda Biden sarà segnata dal nazionalismo economico. Meno rozza nei modi, rispetto all’agenda Trump, ma non del tutto diversa» (La Repubblica).

Insomma, anche con la nuova Amministrazione i tempi non cessano di essere “interessanti”, e lo stesso Sleepy Joe sembra già un po’ più arzillo. Diciamo.

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SULL’ACCORDO CINA-UE DEL 30 DICEMBRE 2020

Qui di seguito cercherò di dare una mia prima valutazione sul significato del Comprehensive Agreement on Investment (CAI) firmato il 30 dicembre scorso dalla Cina e dall’Unione Europea, e lo farò come sempre riportando le considerazioni di analisti e politici che mi sono sembrate più interessanti – non necessariamente più condivisibili, soprattutto sul piano dell’interpretazione politica di fondo, com’è ovvio.

Sul terreno propriamente economico, il Comprehensive Agreement on Investment appare come un netto successo per l’UE (e, sembra quasi inutile precisarlo, soprattutto per la Germania), la quale strappa a Pechino una serie di importanti concessioni, come l’accesso agli investitori europei di diversi settori dell’industria, dei servizi e della finanza cinesi, compresi alcuni di quelli considerati strategicamente “delicati”, come le telecomunicazioni. Scrive Alessia Amighini: «Le aziende europee avranno ora un migliore accesso ai settori manifatturiero, ingegneristico, bancario, contabile, immobiliare, delle telecomunicazioni e della consulenza. I negoziatori della Commissione sono riusciti a inserire una clausola secondo la quale i loro investimenti non devono essere “trattati in modo meno favorevole” rispetto ai concorrenti nazionali. I funzionari dell’UE hanno anche convenuto che la Cina deve essere più trasparente riguardo ai sussidi statali. In cambio di un migliore accesso al mercato europeo ancor più grande di quello che ha oggi, Pechino sarà obbligata a pubblicare ogni anno una lista di sussidi forniti ai settori designati» (ISPI). Inutile dire che su quest’obbligo molti analisti nutrono forti dubbi. «Sul lavoro forzato, una questione che aveva minacciato i negoziati, l’UE ha dichiarato: “La Cina si è impegnata ad attuare efficacemente le convenzioni dell’ILO che ha ratificato, e ad adoperarsi per la ratifica delle convenzioni fondamentali dell’ILO, comprese sul lavoro forzato“» (South China Morning Post, Hong Kong). Anche su questo “impegno” è lecito nutrire qualche dubbio, diciamo così. Infatti, è dal 2001, anno di ingresso della Cina nel WTO, che Pechino fa “melina” sui suoi impegni riguardanti il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei cittadini. L’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, oggi parlamentare europeo, ha dichiarato: «Le storie che escono dallo Xinjiang sono puro orrore. In queste circostanze, qualsiasi firma cinese sui diritti umani non vale la carta su cui è scritta». Sull’orrore che caratterizza la situazione nello Xinjiang, siamo d’accordo (esclusi ovviamente i miserabili sostenitori del capitalismo con caratteristiche cinesi, soprattutto quelli che si definiscono “comunisti”); sui «cosiddetti diritti umani» (Marx) usati dagli Stati come arma di lotta sistemica (economica, ideologica, geopolitica), personalmente stendo un velo pietosissimo, e il richiamo ai “diritti” mi serve solo per ribadire, per quel che vale, la mia radicale ostilità all’Imperialismo Unitario (ma non unico, tutt’altro!) colto nella sua compatta e disumana totalità (1).

L’accordo del 30 dicembre per un verso si limita a prendere atto di un fatto: oggi l’interscambio commerciale tra l’Unione Europea e la Cina è più intenso di quello che stringe gli europei agli Stati Uniti: secondo l’Eurostat il sorpasso della Cina sugli Usa come principale partner commerciale dell’UE si è consumato a luglio 2020; nei primi dieci mesi del 2020 il volume degli scambi tra UE e Cina si è assestato a 477 miliardi di euro (582,8 miliardi di dollari USA), il 2,2% in più rispetto allo stesso periodo del 2019. «Al contrario, il commercio di merci con gli Stati Uniti nel periodo gennaio-ottobre è sceso a 460,7 miliardi di euro, in calo dell’11,2% su base annua. A ottobre, l’Unione Europea ha esportato beni per 178,9 miliardi di euro, in calo del 10,3% su base annua, e ha importato 150,8 miliardi di euro, con una diminuzione del 14,3% rispetto al mese di ottobre del 2019» (Il Sole 24 Ore). Il trend di crescita nell’interscambio commerciale UE-Cina ha subito una netta accelerazione nel 2009, nel momento in cui gli Stati Uniti facevano ancora fatica a trovare un sentiero di crescita dopo la nota crisi.

Par altro verso il CAI pone le premesse per una serie di sviluppi a medio/lungo termine che superano di molto la semplice dimensione economica, andando a investire direttamente i rapporti e gli equilibri geopolitici tra le grandi potenze capitalistiche del mondo. Ed è proprio su questo terreno, tutt’altro che limpido e di facile lettura, che si è focalizzato l’interesse di politici e di analisti geopolitici.

Francia e Germania sembrano aver rilanciato insieme il tradizionale asse strategico Parigi-Berlino che detta l’agenda agli altri Paesi dell’Unione, ma la realtà è che ancora una volta è Berlino che guida le danze, mentre Parigi deve fare buon viso a cattivo gioco per rimanere sulla scia della potenza europea egemone, tanto più che adesso non può più giocare di sponda come prima con la riottosa Gran Bretagna. Controllare la potenza sistemica tedesca per la Francia diventa più difficile che nel passato, e per mascherare la propria debolezza nei confronti della Cancelliera tedesca Macron ha fatto di tutto per strappare a Berlino e a Bruxelles la sua presenza alla videoconferenza del 30 dicembre, cosa che ha fatto irritare soprattutto l’Italia, sempre più fragile e isolata nel contesto europeo e internazionale. Il sottosegretario agli Esteri Ivan Scalfarotto, notoriamente molto legato a Washington, ha espresso le “perplessità” con cui il governo italiano ha seguito le fasi conclusive dell’accordo: «Devo esprimere la mia più grande sorpresa per il formato. Era ovvio che ci fossero Von der Leyen e Michel e per le istituzioni Ue e Merkel come presidente di turno. Ma avere Macron, la scelta di un solo Paese sugli altri 26, non credo si giustifichi. È un formato irrituale che segna anche una sconfitta per noi italiani. E ci dice che quello sciagurato accordo sulla Via della Seta che il precedente governo ha concluso nel 2019 è stato un fallimento completo. Non solo non ci ha aiutato nel rapporto commerciale e ci ha fatto pagare un prezzo politico: non ci ha dato neanche la credibilità per essere leader in questa negoziazione. Fu una mossa sbagliata, che non vincolava i cinesi a nessun obbligo commerciale, ma dava loro un enorme dividendo politico. Tutto questo rivela la nostra debolezza» (Il Corriere della Sera). Una debolezza che l’Italia di oggi esibisce anche nel suo storico cortile di casa, e basta pensare a cosa accade in Libia per averne un immediato riscontro. Per il “nostro” Paese non sarà facile conservare (o riconquistare?) lo status di media potenza regionale.

L’italica irritazione nei confronti della Germania si esprime senza infingimenti “europeisti” soprattutto a “destra”; scrive ad esempio Gianni Micalessin «L’obbiettivo politico ed economico della Cancelliera è emerso in tutta la sua spregiudicata evidenza il 30 dicembre quando, nel penultimo giorno di Presidenza tedesca dell’Unione, è arrivato l’annuncio dell’intesa con Pechino sul trattato per gli investimenti. Il trattato, messo a punto dopo sette anni di negoziati, dovrebbe in teoria garantire ad Europa e Cina un terreno comune per i reciproci affari. In verità rappresenta un meschino e stupido apparentamento con una potenza comunista pronta a farsi beffe dei diritti umani e a venderci merci prodotte grazie al lavoro a costo zero di centinaia di migliaia di musulmani uiguri deportati nei lager e utilizzati alla stregua di schiavi. Dietro l’intesa sugli investimenti ci sono i calcoli di una Cancelliera convinta che il futuro dell’economia tedesca sia strettamente e inevitabilmente legato a Pechino. Dal suo punto di vista non ha torto. L’Europa piegata, ancor prima che dal Covid, dal surplus commerciale teutonico ben difficilmente potrà assorbire ulteriori crescite produttive di Berlino. E ben difficilmente accetterà di farlo un’America decisa, fin dai tempi di Obama, a contrastare la rapacità di una Germania sorda ad ogni richiesta di riequilibrio commerciale». (G. Micalessin, Il Giornale).

Per Carlo Pelanda, docente di Geopolitica economica all’Università Guglielmo Marconi ed esperto di Studi strategici, «al momento, l’accordo è una finzione che evita una restrizione all’export tedesco in Cina da cui dipende una parte rilevante del Pil della Germania (e dell’Italia che fornisce componenti all’industria tedesca). Ma anche una finzione utile a negoziare con gli Stati Uniti. In sintesi, il problema dell’Ue è non riuscire ancora a formulare una strategia di collocamento dell’Ue stessa entro il conflitto tra Cina e America. Merkel lo ha risolto provvisoriamente con una tattica di finzione e rinvio, nonché cerchiobottismo, facendo comunicare al proxy Valdis Dombrovskis che l’accordo con la Cina non impedisce un trattato euroamericano. Ma evidentemente la formulazione di una strategia di collocamento internazionale stabile dell’Ue non è più rinviabile» (La Verità). Non dimentichiamo che appena un anno fa Bruxelles ha definito la Cina «rivale sistemico», offrendo agli Stati Uniti la sponda europea nel suo sforzo di contenimento della Cina.

Interessante questa riflessione “analogica” di carattere storico sempre di Pelanda: «Un fatto curioso mostra la difficoltà di Berlino. Merkel ha usato la tattica cinese, codificata da Sun Tsu (L’arte della guerra) nel 500 avanti Cristo, di usare l’estensione del tempo e la finzione per risolvere un problema contingente, mentre Xi ha adottato lo schema (1831) del prussiano Carl von Clausewitz con enfasi sulla massima rapidità – compressione del tempo, blitz – per raggiungere un obiettivo». Come si spiega, secondo Pelanda, la tattica adottata dal Presidente cinese? «Anche Xi è in difficoltà. Deve contrastare l’isolamento della Cina e, soprattutto, un accordo economico forte euroamericano che creerebbe il nucleo imbattibile di un impero e mercato delle democrazie molto più grande e potente del suo. Ha usato una megacarota, ma anche un megabastone: il ricatto di restringere l’export tedesco se l’accordo non fosse stato firmato entro fine 2020 perché voleva chiuderlo prima che Joe Biden entrasse nei pieni poteri (il 20 gennaio). I collaboratori di Biden, infatti, agli inizi di dicembre hanno dato forti segnali di irritazione nei confronti dell’Ue». E difatti il Financial Times riportava pochi giorni prima dell’accordo una dichiarazione rilasciata da un membro dello “staff di transizione” statunitense, secondo cui «l’amministrazione Biden-Harris ha intenzione di consultarsi con la UE in un approccio coordinato sulle pratiche economiche corrette e altre importanti sfide». La Merkel ha voluto bruciare i tempi e mettere la nuova Amministrazione americana di fronte a un fatto compiuto, un fatto che in ogni caso non preclude nulla e che si segnale piuttosto per la sua molteplicità di interessi e di significati, non necessariamente univoci e coerenti tra loro, tutt’altro.

Per Pelanda, che giudica il CAI «un accordo che apparentemente offre un grande successo al Partito comunista cinese e al suo regime autoritario, aggressivo, repressivo, schiavista e bugiardo», la giusta strategia per l’UE deve necessariamente parlare il linguaggio della forza, il solo che capiscono i “comunisti”: «Stringere con l’America un accordo economico fortissimo, ravvivando quello militare».

Anche per Federico Rampini l’accordo di dicembre segna un punto a favore della Cina: «Nell’applicazione concreta Xi potrà continuare a privilegiare il suo “capitalismo politico”, i campioni nazionali dell’industria di Stato, e a discriminare contro gli imprenditori europei. Le promesse più vaghe sono quelle che riguardano ambiente, diritti umani, trattamento dei lavoratori. Biden può ancora sperare di far deragliare questo accordo nella fase di ratifica all’Europarlamento, dove le obiezioni americane troveranno consensi. Ma non si fa illusioni. Il presidente eletto ha troppa esperienza di politica estera per non capire il segnale che arriva da Bruxelles. L’Ue lo accoglierà a braccia aperte, felice di chiudere il capitolo Trump. Ma un conto saranno le buone maniere, altro è la sostanza» (La Repubblica). E la sostanza è fatta, oggi come ieri e come sempre in regime capitalistico, dagli interessi sistemici e dai rapporti di forza, nient’altro che da questo. Tutto il resto è fumisteria propagandistica venduta ai politici e agli intellettuali di serie B, nonché, soprattutto, all’opinione pubblica interna e internazionale.

«Nella nuova guerra fredda Usa-Cina», continua Rampini, «gli europei sono convinti di potersi ritagliare una posizione intermedia, scegliendo di volta in volta da che parte stare, in base ai propri interessi geo-economici e strategici. Non accettano che la riscoperta solidarietà occidentale sia un pretesto per subordinarli alle priorità di Washington, neanche sotto un nuovo presidente atlantista e multilateralista. Pensano perfino di poter insegnare a Biden la giusta via per estrarre concessioni da Xi. A loro volta, gli europei non dovranno scandalizzarsi se l’agenda Biden sarà segnata dal nazionalismo economico. Meno rozza nei modi, rispetto all’agenda Trump, ma non del tutto diversa». Sulla sostanziale continuità della politica estera americana attraverso l’alternarsi delle Amministrazioni presidenziali non è possibile nutrire alcun serio dubbio, anche se sarebbe sbagliato, a mio avviso, pensare al sistema sociale capitalistico americano nei termini di un blocco unico privo di contraddizioni interne, con quel che ne segue anche sul terreno della “dialettica politica” nazionale (2). Mutatis mutandis, e non è davvero poco, analogo discorso vale anche per il sistema sociale capitalistico cinese.

La Commissione europea ha cercato, prima e dopo l’accordo con la Cina, di rassicurare gli “alleati” americani circa l’impegno dell’UE nella comune politica di contenimento del “nemico strategico”: «L’accordo non influirà sull’impegno del blocco per la cooperazione transatlantica, che sarà essenziale per affrontare una serie di sfide create dalla Cina». Ma non saranno certo le dichiarazioni diplomatiche che potranno convincere Washington, e probabilmente non passerà molto tempo per assistere alla contromossa americana. Comunque l’accordo non entrerà in vigore immediatamente, ma dovrà attendere il superamento di non pochi e complessi passaggi politici e tecnici, e questo darà agli europei (soprattutto ai tedeschi) il tempo di aggiustare la loro linea di condotta nei confronti della Cina e degli Stati Uniti. La ratifica da parte del Parlamento Europeo è infatti prevista per il 2022/2023.

Danilo Taino teme una pericolosa “deriva bipolarista”: «Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli accordi bilaterali, o tra blocchi (la sola Ue ne ha firmati 72). Così, il commercio non è più un veicolo per la collaborazione tra Paesi ma diventa sempre più spesso strumento di alleanze, di divisioni e in certi casi viene “militarizzato” a scopi geopolitici. Se affrontato in una dimensione bilaterale, il rapporto con Pechino è destinato a favorire la divisione del mondo in rapporti preferenziali, nel tempo fondamento di conflitti. Solo in una dimensione multilaterale la relazione con la Cina può avere un carattere proficuo. L’accordo Ue-Cina non va in questa direzione» (Il Corriere della Sera). Che il commercio internazionale sia «un veicolo per la collaborazione tra Paesi» può crederlo solo un bambino o un ingenuo “idealista” di stampo liberale-liberista.

A proposito di ideologia liberale-liberista, vale la pena riportare il pensiero del Caro e Celeste Leader: «Il presidente cinese ha sottolineato che l’accordo avrà una grande forza trainante per la ripresa economica post-pandemica, promuovendo la liberalizzazione e la facilitazione del commercio e degli investimenti globali, intensificando la fiducia della comunità internazionale verso la globalizzazione economica e il libero commercio e dando importanti contributi cinesi ed europei alla costruzione di un’economia mondiale più aperta» (Formiche.net). Non sono commoventi queste parole? Per il resto, qui è solo il caso di ricordare che la politica della porta (leggi mercato mondiale) aperta è storicamente la politica seguita dalle potenze in ascesa che sanno di poter rivaleggiare con successo con le potenze concorrenti più o meno declinanti. Non dimentichiamo che la firma del Comprehensive Agreement on Investment segue quella che ha suggellato un altro importante accordo commerciale, il Regional Comprehensive Economic Partnership, sottoscritto tra i paesi dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. In ogni caso, ancora nel 2021 non bisogna dare come definitivo il declino assoluto della potenza statunitense, la quale possiede tutti i mezzi (compreso ovviamente quello militare) per frenare quantomeno la tendenza a essa sfavorevole.

La crisi pandemica ha proiettato la Cina ancora più in alto nella gerarchia imperialista del pianeta, essendo stato il suo sistema sociale, capitalistico al 100 per 100 (3), quello che è riuscito a subire meno danni rispetto agli altri Paesi concorrenti (Stati Uniti, in primis) e ad avvantaggiarsi di più delle altrui disgrazie. Come in ogni guerra, c’è chi vince e c’è chi perde – e poi ci sono quelli che, pur perdenti, recitano la parte dei vincenti: ogni riferimento alla Francia e all’Inghilterra del 1945 è puramente voluto.

Scrive il “marxista” David Harvey: «L’altro lato che è importante da un punto di vista anticapitalista, è che la Cina è ancora impegnata nella sua posizione marxista. È ancora governata da un partito comunista, e se molti diranno che il Partito Comunista è in realtà un partito di classe capitalista, è comunque un partito nominalmente comunista in cui i pensieri di Marx, Lenin, Mao, Deng Xiaoping, e ora Xi Jinping, sono considerati come centrali per le loro ambizioni. L’ultimo congresso del partito ha dichiarato che prevede di diventare un’economia pienamente socialista entro il 2050» (L’importanza della Cina nell’economia mondiale, Antiper). Se è per questo, io dichiaro di diventare bellissimo e intelligentissimo entro il 2030, salvo incidenti di percorso sempre possibili nelle ambiziose “fasi di transizione”. Beninteso, si tratta di una mera previsione… «Il nome d’una cosa è per sua natura del tutto esteriore. Se so che un uomo si chiama Jacopo, non so nulla sull’uomo» (K. Marx). Certi “marxisti” amano attenersi feticisticamente alla «natura del tutto esteriore» delle cose: contenti loro!

Marx, Lenin, Mao, Deng Xiaoping, Xi Jinping: che bell’ammucchiata! «Io non sono un marxista!», disse una volta il comunista di Treviri: che saggezza! che lungimiranza!

A proposito: che fine ha fatto Jack Ma?

(1) Questo concetto cerca di esprimere una realtà (l’imperialismo mondiale del XXI secolo) altamente complessa, composita e conflittuale. Esso non ha dunque nulla a che vedere con il Super Imperialismo di kautskiana memoria. Necessariamente conflittuale al suo interno, l’Imperialismo Unitario è radicato in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che domina l’intero pianeta, e si rapporto con le classi subalterne come un solo Moloch sociale. Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Il concetto di Sistema Mondiale del Terrore è stato invece da me “elaborato” anni fa con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità): rimando al PDF intitolato La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.
(2) L’imperialismo americano tra realtà e “narrazione”; Gli Stati Uniti tra “isolazionismo” e “internazionalismo”.
(3) Sulla natura capitalistica della Cina, tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ai miei diversi scritti dedicati al grande Paese asiatico. Solo alcuni titoli: La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        

 

 

 

 

 

 

 

LA “DOPPIA CIRCOLAZIONE” DELLA CINA CAPITALISTA

Dal 26 al 29 ottobre si è tenuto a Pechino il 5° Plenum del 19° Comitato centrale del Partito Capitalista Cinese che aveva il compito di stabilire le linee guida del 14° Piano quinquennale (2021-2025), e quelle di una strategia di medio termine ribattezzata Visione 2035. Cerchiamo di capire di cosa si è discusso in questo Plenum che molti analisti ed esperti di “cose cinesi” hanno già definito storico, districandoci, come sempre in questi casi, tra dichiarazioni realistiche dei Cari Leader e propaganda politico-ideologica a uso interno e internazionale. Si tratta di una prima impressione “a caldo”, e quindi tutta da verificare.

Il comunicato ufficiale rilasciato il 29 ottobre sostiene che entro il 2035 il Pil pro capite della Cina dovrà raggiungere il livello delle «nazioni moderatamente sviluppate» e la sua classe media espandersi in modo significativo (oggi essa ammonta a circa 400 milioni di persone). «L’autosufficienza tecnologica, principale fronte della sfida con gli Stati Uniti, viene definita come il “supporto strategico” decisivo per lo sviluppo. Arriveranno massicci investimenti per realizzare “passi avanti maggiori” che portino la Cina “nella prima linea dei Paesi innovativi”. Il plenum ha riconosciuto che per raggiungere questi traguardi ci sarà bisogno di proseguire con le riforme, citando quella dei “diritti di proprietà”, e insistito molto su un concetto bilanciato e sostenibile di crescita. La leadership cinese vuole ridurre le disparità tra città e campagne, promuovere una nuova urbanizzazione, continuare a diminuire le emissioni (anche qui nessun numero, ma Xi ha parlato di “neutralità” entro il 2060)» (La Repubblica). Per adesso si tratta di semplici titoli, dell’enunciazione degli obiettivi che si intendono conseguire, mentre per una più concreta definizione della nuova linea politico-economica, caratterizzata da tempi certi e da numeri precisi, bisognerà attendere qualche mese. Per adesso siamo ancora alla “filosofia”, per così dire, aspettando la sua prossima “messa a terra”.

«Per la prima volta nella sua storia, il Pcc ha steso un preciso programma per creare una “grande cultura socialista” entro il 2035, tappa intermedia per arrivare a essere “una moderna nazione socialista” nel 2049. Pechino vuole promuovere il soft-power cinese, cavalcando ad esempio i successi che il regime rivendica nella lotta alla pandemia da coronavirus. La leadership del Partito è stata chiara: la vittoria contro il Covid-19 e il recupero dell’economia mostrano la superiorità del sistema politico della Cina» (AsiaNews). Se di superiorità si deve parlare, ed è tutto da vedere, almeno nel medio e lungo periodo, si tratta in ogni caso di una superiorità tutta interna al capitalismo mondiale, alla competizione interimperialistica, checché ne dicano gli anticomunisti (che non sanno nulla di comunismo, sebbene giustamente lo temono come la peste) e i tifosi del «socialismo con caratteristiche cinesi» (che di comunismo ne sanno ancora di meno), che sono poi le due facce della stessa escrementizia medaglia. Non a caso ho parlato all’inizio di Partito Capitalista Cinese, perché da Mao Tse-tung a Xi Jinping di capitalismo “con caratteristiche cinesi” si tratta, sebbene nelle diverse forme che esso ha assunto in Cina dal 1949 in poi, cioè lungo il travagliato e assai turbolento (anche in termini di conflitti politici e sociali, con relativi morti, feriti e incarcerati) processo di formazione e consolidamento della moderna nazione cinese (1).

«Le autorità non trascurano il potenziamento militare. Il piano quindicennale prevede la trasformazione delle Forze armate in una moderna macchina da guerra entro il 2027: è la prima volta che un documento del genere contiene un riferimento allo sviluppo militare. Gli analisti osservano che l’idea di Pechino è quella di avere entro tale data un esercito allo stesso livello degli Usa». A questo proposito occorre ricordare che la sessione plenaria annuale del comitato centrale del Pcc è stata preceduta da una celebrazione dei 70 anni dall’ingresso della Cina nella Guerra di Corea (ottobre 1950) davvero paradigmatica circa l’attuale postura strategica del gigante asiatico nei confronti degli Stati Uniti. Ricordando la guerra «per resistere all’aggressione americana e aiutare la Corea», il Presidente Xi Jinping ha dichiarato: «Il popolo cinese sa che bisogna usare una lingua che gli invasori possono capire, combattere la guerra con la guerra, fermare l’aggressione con la forza, guadagnare la pace con la vittoria. Gli eroici soldati cinesi hanno distrutto il mito dell’invincibilità dell’esercito americano». Naturalmente parlare del passato è servito al Presidente cinese per chiarire come oggi si configura la posizione della Cina nei confronti del suo nemico strategico principale: gli Stati Uniti d’America, appunto. E per meglio chiarire il concetto, Xi ha aggiunto: «Il popolo cinese non vuole creare problemi, ma non ha paura, le nostre gambe non tremeranno, le nostre schiene non si piegheranno». Un messaggio forte e chiaro, non c’è dubbio. Il tono particolarmente aggressivo e propagandistico del Caro Leader è tanto più significativo se si riflette sul fatto che quasi mai la celebrazione di quell’evento straordinario nella storia della Cina moderna ha toccato i livelli propagandistici e nazionalisti di quest’anno; addirittura negli anni Settanta del secolo scorso, al tempo della “distensione” tra Washington e Pechino, quella ricorrenza subì un evidente declassamento. Allora il nemico numero uno della Cina era l’Unione Sovietica. Solo dopo la sanguinosa repressione del movimento sociale del 1989 (Piazza Tienanmen) quella ricorrenza fece registrare un’impennata nazionalistica, per poi ritornare rapidamente ai toni più moderati e concilianti che abbiamo registrato nel corso della lunghissima fase di crescita economica del Paese che ha portato il Dragone ai vertici del capitalismo mondiale. Dopo molti anni di “pacifica collaborazione”, il barometro dei rapporti Cina-Usa tornano a indicare brutto tempo, e questo a prescindere dalla Presidenza Trump.

Limes

Intanto si intensifica, con alterne fortune, l’attivismo politico-militare degli Stati Uniti in un’area che la Cina considera il proprio cortile di casa: «L’ottobre appena concluso ha segnato in modo marcato l’impegno americano nell’indo-pacifico ed è stato il mese più proficuo (tra quelli recenti) per strategia e tattica statunitense, che vede l’impegno nella regione come la più logica componente geopolitica del confronto globale con la Cina. Sulla colonna delle vittorie dirette, Washington segna certamente l’accordo di cooperazione militare con Nuova Delhi. […] Nella costruzione del puzzle strategico americano nell’Indo-Pacifico manca un tassello importante: la Corea del Sud. La posizione di Seul è riassumibile nelle parole che il presidente Moon Jae-inn ha affidato a un suo consigliere: “Se gli Stati Uniti ci costringessero ad aderire a un’alleanza militare contro la Cina, sarebbe un dilemma davvero esistenziale per noi”». (Formiche, novembre 2020).

Ma ritorniamo ai risultati del Quinto Plenum, la cui discussione si è incardinata intorno a una parola chiave: shuang xunhuan (doppia circolazione). Di che si tratta?

A leggere i resoconti di molti analisti, pare che il Partito fedele al Xi Jinping-Pensiero voglia orientare il Paese in direzione di una sua chiusura autarchica (suggestione che richiama i “fasti” del maoismo), cioè verso una sorta di capitalismo in un solo Paese, a prevalenza statale, in grado di innalzare una sorta di muraglia economica e tecnologica che metta la “pacifica e armoniosa” società cinese al riparo dagli shock della globalizzazione e dall’iniziativa ostile dei cattivoni a stelle e strisce. Ma stanno davvero così le cose?

Nella sua ultima visita nel Guandong (13 ottobre, celebrazione del 40° anniversario dal lancio della Zona economica speciale di Shenzhen), Xi Jinping ha chiarito il concetto di doppia circolazione (intendendo per circolazione la produzione, la distribuzione e il consumo di “beni e servizi”): «È necessario promuovere la formazione di un nuovo modello di sviluppo in cui il grande ciclo domestico sia il corpo principale e nel quale la doppia circolazione si promuove a vicenda». Filippo Fasulo prova a chiarire meglio: «Nella visione proposta da Xi Jinping, per doppia circolazione si intende una dialettica fra la circolazione economica domestica e quella internazionale. Per visualizzare il tema si pensi che il termine cinese è lo stesso utilizzato quando si parla di “circolazione sanguigna”. In parole più semplici, viene messa in relazione l’integrazione globale – la circolazione esterna – con i consumi domestici – la circolazione interna. La dinamica da gestire, dunque, è quella fra una economia dipendente dalle esportazioni e, quindi, dalla domanda internazionale, e un ruolo più ampio accordato ai consumi interni. L’indicazione di oggi è che, nell’attuale contesto di incertezza dovuto alla pandemia e alle dispute commerciali, si debba puntare soprattutto sulla circolazione interna» (ISPI, 30/9/2020). In astratto la cosa appare abbastanza intuitiva, mentre sul piano pratico la questione si presenta oltremodo complessa e contraddittoria, a partire dal fatto che ancora oggi Cina e Stati Uniti sono molto integrati dal punto di vista commerciale, tecnologico (2) e finanziario. Il temuto o auspicato disaccoppiamento (decoupling) tra le economie dei due Paesi al vertice del capitalismo mondiale appare quantomeno “problematico”: «Secondo i leader cinesi, “protezionismo e unilateralismo” – un indiretto riferimento a Washington – sono le principali minacce esterne alla crescita economica del Paese, messa in pericolo anche dagli squilibri economici interni. Il “decoupling” (separazione) dagli Stati Uniti è visto però come “irrealistico”: nel terzo trimestre dell’anno gli scambi commerciali tra le due potenze sono cresciuti in effetti del 16%» (AsiaNews, 30/10/2020).

Anche sul piano finanziario l’integrazione tra i due Paesi ha raggiunto un livello assai rilevante, e tutto lascia prevedere che lo sarà molto di più nel prossimo futuro. Di certo il mercato finanziario cinese si sta muovendo in quel senso, come dimostra per ultimo il “caso Alibaba” (3).

«L’americanissima Bloomberg il 27 ottobre ha pubblicato un articolo in cui afferma che a settembre c’è stato un import cinese di merci americane record, 10 miliardi. Gli acquisti di beni energetici sono aumentati a settembre del 75%, con import record di petrolio. Il valore dei prodotti agricoli è aumentato del 60%, mentre l’import della soia, cuore nevralgico degli Stati agricoli americani, è aumentato del 600%. Sono aumentati enormemente anche gli acquisti di auto e cotone, ma Bloomberg fa sapere che le spedizioni, e le prenotazioni di merci americane,  a settembre, che arriveranno a ottobre o novembre, sono da record. Ricordiamo che a settembre l’import totale di merci dal mondo è aumentato del 14%, i dati delle merci americane ci dicono che gli Usa in Cina stanno enormemente sovraperfomando rispetto a rivali commerciali storici come la Germania. La strategia di Trump di reindustrializzazione degli Usa attraverso pressioni per un fair trade trova riscontro, dopo due anni burrascosi, in Cina (anche se esportano soprattutto prodotti agricoli, come un paese del terzo mondo…), che riconoscono la legittimità delle sue richieste. Forse non vedono di buon occhio un democratico, magari burattino dei guerrafondai alla Hillary Clinton, alla Casa Bianca. Preferiscono un ruvido uomo d’affari. Cosa combina all’interno del proprio paese non è affar loro, ma sono pronti a sfruttarne le debolezze. Certo, Trump strepita contro il “virus cinese” nella campagna elettorale, ma loro non ne fanno un dramma, sono solo parole. Sotto sotto si va avanti con gli accordi» (Contropiano). L’autore dell’articolo, che a quanto pare è un ammiratore, se non addirittura un fervente sostenitore, del Capitalismo/Imperialismo cinese, conclude come segue: «Perché loro possono e noi no? Perché non siamo un Paese sovrano e la classe dirigente, da decenni, è espressione di quella che altrove – in America Latina, per esempio – viene chiamata borghesia compradora. Letteralmente in vendita, subordinata oltre ogni limite, che assume le istanze delle potenze estere come espressione della sua politica (vedi Di Maio). Trump dimostra che la politica è tutt’altro, e gli affari internazionali non c’entrano niente con le sparate propagandistiche. Forse, se non crolla, dopo il 4 novembre farà una telefonata a Xi Jinping e Putin….». Vuoi vedere che i socialsovranisti di casa nostra, il cui “realismo geopolitico” ricorda molto quello della destra repubblicana statunitense, tifano, sotto sotto (ma poi non così tanto sotto), per Trump? Io lo sospettavo, diciamo così.

La “doppia circolazione” spiegata da Andrew Sheng, Distinguished Fellow all’Asia Global Institute dell’Università di Hong Kong, e da Xiao Geng, professore e direttore del Research Institute of Maritime Silk-Road dell’Università di Pechino (si tratta quindi del punto di vista cinese): «Per cominciare, la pandemia COVID-19 ha evidenziato quanto siano vulnerabili alle interruzioni le nostre catene di approvvigionamento globali “just in time”, cosa che ha alimentato le richieste di “de-globalizzazione”. Allo stesso tempo, le tensioni con gli Stati Uniti, il più grande partner commerciale della Cina, stanno aumentando. Il disaccoppiamento economico ora sembra più probabile che mai. La strategia della doppia circolazione della Cina è una risposta pragmatica alle pressioni interne ed esterne in rapida evoluzione che il Paese deve affrontare. L’obiettivo dei responsabili politici è aumentare la catena di approvvigionamento e la resilienza del mercato sfruttando l’enorme popolazione cinese di 1,4 miliardi, inclusi 400 milioni di consumatori della classe media. […] La strategia della doppia circolazione aiuterà, creando mercati nazionali più liberi e più unificati per il capitale fisico, finanziario e umano, i prodotti, i servizi, la tecnologia e le informazioni. Ma rafforzare i cicli interni di produzione e consumo non significa distruggere le reti di commercio estero, investimenti, turismo e istruzione; al contrario, la Cina è destinata a continuare ad aprire la sua economia, in particolare il suo mercato finanziario. Piuttosto, la doppia circolazione significa che gli scambi esterni saranno espansi e approfonditi in modi che completino l’economia nazionale. Se il resto del mondo vorrà cooperare in questi termini per la Cina andrà bene. In caso contrario, la Cina farà affidamento sui propri formidabili punti di forza per sostenere la propria crescita e sviluppo: un’ampia base di consumatori, capacità innovative in rapida crescita, eccetera. In poche parole, se il mondo non è pronto per la cooperazione, la Cina si adatterà alla polarizzazione» (CNA, 4/10/2020).Per Andrew Sheng e Xiao Geng il rafforzamento del mercato interno della Cina non significa dunque arrestare o sottovalutare il commercio con l’estero, ma piuttosto che gli scambi con l’estero verranno ampliati e approfonditi in modi che completino l’economia interna.

Xi Jinping da parte sua ha voluto chiarire che la doppia circolazione non ha una natura tattica di breve respiro, non è stata cioè pensata come risposta a problemi contingenti, superati i quali lo sviluppo dell’economia cinese riprenderà il cammino intrapreso nel lontano 1978, quando al III Plenum dell’XI Comitato Centrale si diede avvio alla politica di “riforma e apertura” di Deng Xiaoping; essa segna invece una vera e propria svolta strategica nella linea di sviluppo della società cinese. Detto questo, il conflitto commerciale e tecnologico con gli Stati Uniti degli ultimi anni e la pandemia che ha avuto proprio nella Cina il suo luogo di origine hanno certamente accelerato processi sociali in corso già da tempo e fatto maturare decisioni politiche di cui si parla già da qualche anno. Scrive Filippo Santelli: «Non è una novità: da tempo il Partito comunista sta cercando di pilotare la transizione dell’economia cinese dal modello low cost “fabbrica del mondo” a uno basato su innovazione e consumi. La “doppia circolazione” rilancia l’obiettivo, al momento incompiuto e reso ancora più urgente dalla recessione. virale e dalla sfida innescata dagli Stati Uniti. L’ambiente esterno presenta grandi rischi, sotto la spinta di Washington, ma non solo, il mondo prova a diminuire la propria dipendenza economica dalla Cina. L’unico modo per tenere a giri elevati il motore della crescita è dare più peso alla circolazione interna (pur senza chiudere le porte al mondo, ma anzi incentivando l’afflusso di competenze e capitali di cui il Paese ha bisogno)» (La Repubblica, 29/10/2020).

La controffensiva commerciale americana – e in parte europea – e la crisi pandemica hanno dunque accelerato processi economici e scelte strategiche maturati nel corso di oltre un decennio. Le prime avvisaglie della “grande transizione” (dal primato delle esportazioni al primato dello sviluppo interno) si possono far risalire alla crisi economica internazionale del 2008/2009, quando la contrazione della domanda mondiale costrinse la Cina a praticare una politica di massicci “stimoli economici” che ha portato l’economia del Paese sul poco virtuoso sentiero dell’indebitamento e della sovrapproduzione. Nel 2015 si è iniziato a parlare in Cina di una “Nuova Normalità”, ossia di una crescita economica basata sulla produzione di qualità (vedi il progetto Made in China 2025) e sempre più orientata al mercato interno – secondo il modello della China International Import Expo, prima fiera delle importazioni che si tiene a Shanghai dal 2018. L’anno scorso, l’interscambio commerciale con l’estero equivaleva al 32% del prodotto interno lordo cinese, esattamente la metà del picco del 64% raggiunto nel 2006. «Ma per mantenere la stabilità sociale a dispetto degli inevitabili costi sociali di una simile metamorfosi, sarà necessaria una “svolta politica”, una decisa oscillazione del tradizionale pendolo che segnala il clima politico all’interno del Partito dal mercato verso lo stato. In questa nuova fase di “instabilità” e “incertezza” i 400 milioni di persone diventati classe media negli ultimi anni non sono più sufficienti ad alimentare il “sogno cinese” promosso da Xi Jinping. Nel 2019, i consumi hanno rappresentato il 55,4% del Pil (contro il 49.3% nel 2010), ancora decisamente inferiori rispetto al 70-80% tipico delle economie avanzate. E, più che in tanti altri paesi – a causa della loro spiccata tendenza al risparmio – quella post-Covid si preannuncia come una lunga fase di stagnazione dei consumi dei cinesi, particolarmente restii a spendere nel clima d’insicurezza determinato dalla pandemia e dalla guerra commerciale-tecnologica» (M. Cocco, Centro studi sulla Cina contemporanea, 21/10/2020).

Per farci un’idea, anche solo approssimativa, della struttura sociale della Cina e della sua dinamica sono sufficienti questi pochi dati: sono circa 600 milioni i lavoratori che guadagnano meno di 140 dollari al mese, mentre la popolazione rurale ammonta a 560 milioni, pari a circa il 40% della popolazione cinese, una percentuale che distanzia ancora enormemente la Cina dai Paesi capitalisticamente avanzati. D’altra parte quella popolazione costituisce la riserva di manodopera a basso costo di cui hanno estremo bisogno soprattutto le metropoli industrializzate del Paese – a partire dalla provincia del Guandong – e le multinazionali di tutto il mondo che sfruttano manodopera cinese. «Secondo i dati della Fao, fra un lavoratore urbano e uno rurale il rapporto sulla differenza di guadagno mensile è di 1 a 10. Inoltre, questo guadagno rischia di essere ancora minore dato che i contadini non hanno il permesso di vendere la propria produzione in un mercato libero, ma devono consegnarne una parte allo Stato, che la compra a prezzi “calmierati”» (AsiaNews). Nel 2006 vivevano nelle aree rurali 737 milioni di individui, ovvero il 56% della popolazione del Paese. Ogni anno, negli ultimi 14 anni, è dunque emigrato dalle campagne in direzione delle città un esercito di oltre 12 milioni di persone. L’agricoltura impiega circa 211 milioni di lavoratori, pari al 26,5% della forza lavoro totale; i lavoratori occupati nell’industria sono 225 milioni (28,27%) e quelli occupati nei servizi 359 milioni (45,17%), per un totale di 795 milioni (dati stimati per il 2019). Come già detto, la classe media cinese ammonta a 400 milioni di persone.

Se il decollo del capitalismo cinese è avvenuto sotto il segno della sua piena integrazione nel sistema capitalistico mondiale, diventandone un nodo centrale nella cosiddetta catena globale del valore (soprattutto grazie al basso costo della forza-lavoro cinese), oggi l’enfasi è posta dunque sulla “circolazione interna”, ossia sulla produzione, la distribuzione e il consumo di “beni e servizi” interni alla società cinese. Il concetto, come abbiamo visto, è tutt’altro che nuovo, dal momento che è da almeno un decennio che il regime parla della necessità di portare lo sviluppo economico anche nelle vaste regioni interne del Paese non ancora toccate dalla modernizzazione capitalistica. Si tratta di una gigantesca riserva di caccia che offre al Capitale cinese eccezionali opportunità di profitti, anche se questa stessa possibilità promette di innescare processi e contraddizioni sociali di non facile gestione politica. Ma il Partito-Stato è abituato a confrontarsi con i complessi problemi che derivano dallo sviluppo economico, e al momento i risultati danno ragione ai sostenitori di un assetto totalitario delle istituzioni cinesi – senza peraltro azzerare del tutto le opzioni aperte a una riforma, più o meno “timida”, dell’architettura statuale cinese. Per dirla con Michelangelo Cocco, autore di Una Cina “perfetta”. La Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale (Carocci, 2020), il Partito Capitalista Cinese «si sta affermando come una sempre più efficiente macchina di governance del XXI secolo».

Il mondo “post globalizzazione” di cui tanto si parla negli ultimi tempi registra certamente una battuta d’arresto, o probabilmente solo un rallentamento della macchina capitalistica mondiale, ma sarebbe errato, a mio avviso, dedurne una tendenza “regressiva” generale, ossia un ritorno indietro del capitalismo verso un suo assetto di tipo autarchico. L’adeguamento dei maggiori capitalismi mondiali alla nuova fase non avviene comunque su scala nazionale ma continentale, ed è certamente tale la dimensione non solo dell’Europa centrata sull’asse francotedesco, ma anche della Cina (in realtà di tutta l’area del Pacifico asiatico) e degli Stati Uniti, Paesi che sono sufficientemente grandi e ricchi di risorse umane ed energetiche da poter fronteggiare con buone possibilità di successo la cattiva congiuntura dell’economia internazionale e prepararsi per la nuova fase espansiva della “globalizzazione”.

La produzione e i consumi interni come volano della futura crescita economica della Cina: si tratta di una strategia di ampio respiro e dalle molteplici conseguenze (di natura interna e internazionale) i cui primi effetti si vedranno, se si vedranno, nei prossimi anni e non certo nei prossimi mesi. Infatti, non è facile né senza incognite di varia natura riorientare una macchina gigantesca qual è diventata l’economia capitalistica cinese.

Per Martin Jacques, autore nel 2009 del bestseller When China Rules the World che annunciava la prossima «fine del mondo occidentale e la nascita di un nuovo ordine globale» centrato sul Celeste Imperialismo Cinese, ha di recente dichiarato che «ricorderemo il 2020 come il momento della Grande Transizione. L’anno in cui la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come potenza leader del mondo» (Financial Times). Gideon Rachman, editorialista del Financial Times, ha obiettato a Jacques di aver fatto una previsione troppo in anticipo sui tempi che sottovaluta grandemente i fattori di debolezza che continuano a zavorrare la Cina, come le sue arretrate aree rurali interne, la sua periferia non ancora domata sotto il profilo etnico-religioso, una demografia che potrebbe sfuggire al rigido controllo di Pechino e un sistema politico-istituzionale totalitario che alla fine potrebbe non essere più in grado di controllare l’ascesa impetuosa delle classi medie. Il tempo dirà da quale parte sta la ragione – di certo non dalla parte delle classi subalterne che nutrono il Dragone, se le cose rimarranno inalterate sul terreno del conflitto sociale.

(1) Rimando i lettori ai miei diversi scritti sulla Cina; ne cito solo quattro: Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.
Scriveva Paul M. Sweezy: «Nel caso della Cina, lo sviluppo del Partito comunista cinese ebbe luogo nelle grandi città costiere e si basò soprattutto sulle loro classi operaie, sul modello dei bolscevichi prerivoluzionari in Russia. Ma dopo le sconfitte del 1927 per mano del Kuomintang e dei suoi finanziatori esteri, il Pcc fu costretto a ritirarsi nelle campagne, e dopo di allora, fino alla conquista finale del potere vent’anni dopo, la composizione del movimento rivoluzionario fu per lo più rurale (contadini, senza terra, piccoli borghesi)» (P. M. Sweezy, Il Marxismo e il futuro, 1981, p. 91, Einaudi, 1981). In realtà, il mutamento nella composizione sociale del movimento rivoluzionario cinese registrò una sua ben più radicale trasformazione: infatti, da promettente soggetto rivoluzionario proletario il Partito Comunista Cinese, sottoposto alle “amorevoli” cure dello stalinismo (espressione più emblematica della controrivoluzione in Russia e nel mondo) diventò un soggetto rivoluzionario nazionale-borghese. In altre parole, con il PCC di Mao non siamo dinanzi a un semplice cambiamento nella strategia politica dei comunisti, intesa ad adeguarla alla nuova situazione; ci troviamo piuttosto di fronte alla morte della natura proletaria (nell’accezione teorico-politica, e non meramente sociologica, del concetto) di quel Partito, nonostante esso conservasse il vecchio nome – secondo l’esempio sovietico.
(2) «Il dato che salta all’occhio, in questo ambito, è quello delle importazioni di circuiti integrati che, con un valore superiore ai 300 miliardi di dollari rappresenta la prima voce dell’import cinese, superiore ai poco meno di 250 miliardi di dollari di petrolio, di cui Pechino guida la domanda mondiale. Inoltre, gli investimenti in innovazione anche nel 2019 hanno superato un tasso di crescita del 10%, indirizzandosi, per l’83,4% allo sviluppo industriale e contribuendo, dunque, alla crescita qualitativa dell’industria cinese. Anche in occasione dello stimolo economico approvato a fine maggio una grande attenzione è stata rivolta alla tecnologia avanzata, promuovendo le cosiddette “nuove infrastrutture” (ferrovie ad alta velocità, 5G, Big Data, AI e colonnine per i veicoli elettrici) per un valore che nel 2020 potrebbe superare i 2.000 miliardi di Rmb» (F. Fasulo, ISPI, 30/9/2020).
(3) «Due giorni dopo l’Election Day negli Stati Uniti, in due borse cinesi inizierà contemporaneamente il più grande collocamento di una new entry – IPO, Initial Pubblic Offering – mai vista sul mercato mondiale. Si tratta di Ant Group, il “braccio finanziario” di Alibaba, fondata dal miliardario cinese Jack Ma poco meno di 20 fa. Si è recentemente ritirato dal management di Alibaba (non dal’azionariato), e possiede ora anche Alipay, la maggiore azienda di pagamento digitale della Repubblica Popolare. Insieme a WeChat, controllata da Tencent Holdings, detiene il 40% del mercato, Alipay il è leader – con il 55% – del pagamento “senza contanti” attraverso la lettura di un codice QR dal proprio Smartphone. Si possono fare acquisti che alle nostre latitudini solitamente vengono effettuati in contante strisciando il proprio cellulare su un quadrato bianco-nero stampato su un semplice pezzo di carta. Il sistema di pagamento attraverso le carte di credito è stato “saltato” dalla Cina, che è passata direttamente al digitale e ai relativi servizi, divenendone per quantità e qualità il leader mondiale. Si può pagare un taxi, un pasto, l’affitto o le bollette… Il suo bacino di utenza è attualmente di 730 milioni di persone al mese; ha creato in pratica un “ecosistema” economico per i beni di consumo affiancando il sistema bancario cinese a controllo pubblico, tendenzialmente indirizzato prevalentemente al finanziamento dell’industria statale e di progetti infrastrutturali. […] Si tratta di un avvenimento in qualche misura “epocale” perché mostra come l’epicentro della finanzia mondiale si stia spostando sempre più verso la Cina, ora in grado di attirare gli investimenti dei big di Wall Street – Citigroup, JP Morgan e Morgan Stanley saranno tra i maggiori beneficiari dell’offerta – e di mettere direttamente sul mercato, ad Hong Kong o nella Cina continentale, alcuni “fiori all’occhiello” della propria economia, mettendo al riparo giganti digitali delle dimensioni di Netease o JD.com da eventuali ritorsioni sui mercati nord-americani» (Internazionale).

Aggiunta

COSA CI DICE L’“INQUIETANTE ” VICENDA DI JACK MA? QUALCHE IPOTESI

La vicenda della mancata quotazione in Borsa (prevista per il 5 novembre contemporaneamente a Shangai e a Hong Kong) di Ant Group, uno dei più grandi operatori finanziari del mondo, si offre a mio avviso come un’eccellente occasione per una più chiara comprensione della dinamica capitalistica cinese, soprattutto nel sempre più dinamico, potente e problematico mercato finanziario, e di come essa impatti significativamente sull’assetto  sociale della Cina in generale, e su quello politico-istituzionale, in particolare. Tensioni sociali e rischi sistemici generati dal processo economico, che potrebbero dar luogo a vasti conflitti sociali, spesso costringono il Partito-Regime (il Partito Capitalista Cinese,il quale con evidenti richiami orwelliani si definisce “Comunista”) a usare il pugno di ferro per governare un Paese che sprizza capitalismo da tutti i pori, con ciò che ne segue – o ne potrebbe seguire – appunto sul piano della sua complessiva tenuta sociale. Le dimensioni contano, eccome, quando si tratta di governare un Paese come la Cina: ad esempio, un conto è la disperazione di qualche milione di piccoli risparmiatori traditi da investimenti non precisamente “oculati”, un conto affatto diverso sarebbe avere a che fare con centinaia di milioni di persone ridotte sul lastrico dal fallimento di una finanziaria, o non più in grado di onorare i loro debiti.

Occorre poi ricordare che dentro il Partito-Regime cinese si sono sempre confrontate e scontrate diverse anime (almeno due: la “Rossa” e la “Nera”, quella più statalista e quella meno statalista, quella più “sovranista” e quella più “globalista”), espressioni di interessi sociali diversi (sempre di stampo rigorosamente capitalistico) e di differenti linee politiche (in economia, in politica estera, nella gestione dei conflitti sociali). Spesso queste “anime” si sono date battaglia anche ricorrendo alla violenza fisica, e quasi sempre con il pretesto della lotta alla corruzione (che comunque in Cina esiste ed è diffusissima a tutti i livelli del regime) e della difesa del “bene comune” – nonché, dulcis in fundo, della sacra indipendenza nazionale. Probabilmente la vicenda di Ant non è estranea al contesto qui sommariamente abbozzato. In ogni caso l’offensiva capitalistica cinese continua su tutti i fronti della competizione interimperialistica, come dimostra per ultimo l’accordo di libero scambio fra la Cina e 15 Paesi dell’Asia e del Pacifico firmato il 15 novembre (*). Anche il fronte della moneta internazionale digitale è ben presidiato dal Celeste Capitalismo: vedremo tra qualche anno con quali risultati. Vincent Lorphellin e Christian Saint-Etienne, sostenitori di un polo imperialista europeo unitario, su un articolo pubblicato da Le Monde qualche settimana fa scrivevano che «la nuova posizione della Cina è una minaccia terminale alla supremazia tecnologica» europea e occidentale. Saprà reagire l’imperialismo occidentale a questa titanica “sfida gialla”? Di certo chi scrive non ha consigli da dare a tal riguardo…

Un articolo pubblicato dal Post il 13 novembre è utile a mio avviso a comprendere un aspetto importante della “problematica” messa in luce dalla vicenda qui ricordata. Ne pubblico ampi stralci.

(*) Secondo le stime iniziali il valore dell’intesa rappresenterà circa il 30% del Pil mondiale, il 50% della produzione manifatturiera mondiale e raggiungerà 2,2 miliardi di consumatori, cioè a dire quasi un terzo della popolazione mondiale. «Il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) è stato sottoscritto ad Hanoi, in Vietnam, con diversi leader collegati in videoconferenza a causa dell’emergenza Covid-19, e di certo avrà come conseguenza una crescita dell’egemonia commerciale cinese nell’area riducendo la dipendenza di Pechino dagli Usa e dall’occidente ad esempio i prodotti tecnologici. L’India si è chiamata fuori temendo una maggiore dipendenza dalla Cina con la quale rapporti non sono ottimali, mentre all’accordo di libero scambio, che gradualmente comporterà la riduzione della tassazione sui beni importati nell’arco di un decennio ma anche investimenti, commercio elettronico, proprietà intellettuale e appalti pubblici, hanno aderito anche Australia e Nuova Zelanda; ha tuttavia fatto scalpore la partecipazione del Giappone, nonostante le contese con la Cina per alcune isole (Senkaku e Takeshima) e soprattutto per le divisioni per motivi di carattere storico. Il ministero delle Finanze cinese ha commentato che “Per la prima volta Cina e Giappone hanno raggiunto un accordo bilaterale di riduzione delle tariffe, raggiungendo una svolta storica”» (Notizie Geopolitiche). Per Nicolas Beverez (Le Figaro), «La nascita dell’Asian Free Trade Area è una grande vittoria per la Cina, che riesce con il RCEP dove gli Stati Uniti avevano fallito con il Patto Trans-Pacifico. L’accordo dimostra che il libero scambio non è moro, e che il protezionismo, a differenza di quanto spesso si sostiene, non è morto. L’Asia, che si considera la regione del futuro, ritiene che il libero scambio è il futuro non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello geostrategico. Nel 1929 Henry Ford disse al Presidente Hoover che il protezionismo è una stupidaggine economica. Xi Jinping lo ha compreso perfettamente. È tempo che l’Europa e gli Stati Uniti riscoprano il libero scambio se intendono rispondere con successo al capitalismo totalitario cinese». Ci voleva il “compagno” Xi Jinping per rianimare i tifosi del libero scambio!

«Ant è una società di fintech, cioè un’azienda tecnologica che offre servizi finanziari per il pagamento, il credito e gli investimenti. La sua quotazione in Borsa darebbe stato il più grande debutto di sempre. […] Ma meno di 48 ore prima del debutto, la borsa di Shangai ha annunciato a sorpresa che avrebbe ritirato la quotazione di Ant. Le regolamentazioni del settore sono cambiate improvvisamente, hanno detto i funzionari di borsa, e la quotazione deve essere rimandata. Poco dopo ha fatto lo stesso anche la borsa di Hong Kong. Il ritiro della quotazione di Ant è stato un fiasco per Jack Ma, l’uomo più ricco della Cina, che ha fondato l’azienda di ecommerce Alibaba e che ha creato e controlla Ant. È stato un fiasco anche per l’economia cinese, che in Ant aveva un campione nazionale: l’ascesa dell’azienda era considerata come un segnale di forza del settore finanziario, e le sue disgrazie sono state viste all’estero come un sintomo di immaturità del mercato. La ragione per cui la quotazione è stata ritirata con così poco anticipo è ancora incerta. C’è una ragione ufficiale: appena prima della quotazione, il governo cinese ha annunciato un cambiamento molto importante delle regole per gli operatori finanziari digitali. Secondo alcuni calcoli, per rispettare i nuovi criteri Ant dovrebbe aumentare il suo capitale di 20 miliardi di dollari.

Ma le motivazioni di questo cambiamento improvviso sono difficili da comprendere, perché gran parte delle decisioni di alto livello nella politica cinese è presa in maniera riservata e non è resa pubblica. Molti media  indicano un discorso tenuto da Jack Ma il 24 ottobre a Shanghai come una delle probabili cause: durante il discorso, tenuto durante un forum al quale partecipavano le più importanti personalità politiche ed economiche del paese, Jack Ma  ha criticato con parole durissime le regolamentazioni del settore finanziario, dicendo che le autorità hanno una “mentalità da banco dei pegni” che non consente l’innovazione. Questo discorso ha fatto molto arrabbiare le autorità cinesi ed è arrivato fino al presidente Xi Jinping. Secondo il Wall Street Journal, sarebbe stato lui in persona a ordinare l’apertura delle procedure che avrebbero portato, da lì a poco, al ritiro della quotazione. Ci sono però anche ragioni più profonde, che in questi giorni sono state raccontate da analisti ed esperti del settore.

[…] Alibaba fu fondata nel 1999 da jack Ma, allora un insegnare di inglese, e non deve essere confusa come “l’Amazon cinese”. Due dei suoi prodotti più importanti sono Taobao e Tmall, due piattaforme che rispettivamente consentono la compravendita tra privati e tra aziende e consumatori. Per facilitare queste transazioni, nel 2004 Jack Ma creò Alipay, un servizio per facilitare e garantire i pagamenti sulle sue piattaforme, simile per certi aspetti a PayPal. Il successo di Alipay fu così grosso che nel 2011 Jack Ma decise di separare Alipay da Alibaba, trasformandola in un’azienda indipendente. […] Porter Erisman, ex vicedirettore di Alibaba e autore di un libro sul tema, disse che secondo Jack Ma Alipay aveva le potenzialità per diventare “la banca più grande della Cina”. In vari discorsi pubblici Jack Ma ha detto che l’obiettivo di Alipay era quello di rivoluzionare il mercato finanziario cinese. Nel 2008 disse che gli istituti finanziari non erano in grado di sostenere l’imprenditoria perché le regole erano soffocanti: “Se le banche non cambiano, cambieremo noi le banche”. Alipay, che nel frattempo è diventata Ant c’è riuscita. L’azienda ha 700 milioni di utenti e nel tempo ha creato prodotti che sono stati capaci di cambiare in maniera radicale il mercato finanziario cinese. Nel 2013 presentò Yu’e Bao, un fondo di investimento monetario con caratteristiche mai viste prima: il limite era appena di 1 yuan (cioè 0,13 euro), i rendimenti garantiti erano belli alti e si potevano ritirare i propri soldi in qualsiasi momento, senza penali. Il tutto si poteva fare comodamente, tramite app sul telefono. Nel giro di un mese i cinesi avevano già investito in Yu’e Bao 1,6 miliardi di dollari, e nel marzo del 2018 era diventato il più grande fondo di investimento del mondo, con 267 miliardi di dollari di asset. Il fondo era così grande che a un certo punto le autorità cinesi temettero che potesse costituire un rischio per la tenuta dell’intera economia (se ci fossero stati problemi con Yu’e Bao, centinaia di milioni di piccoli risparmiatori sarebbero stati rovinati), e intervennero: Ant cambiò alcune regole in Yu’e Bao a aprì la sua piattaforma ad altri, riducendo la dimesione del fondo e di conseguenza il rischio.

Episodi come questo, in cui Ant spinge al limite l’innovazione nel sistema finanziario, fino a generare possibili rischi sistemici, sono una parte consistente dell’azienda.
Secondo i documenti depositati da Ant prima della sua mancata quotazione, l’azienda opera in quattro settori principali: il credito, che genera il 39 per cento delle entrate, i pagamenti (36 per cento delle entrate), gli investimenti (16 per cento) e le assicurazioni (8 per cento). Già da qui si può capire che Ant si comporta in gran parte come una banca. Il settore di gran lunga più redditizio, quello che negli ultimi anni ha generato poco più di metà della crescita di Ant, è il credito. […] Nel settore del credito Ant ha due prodotti principali: Huabei, un sistema di carte di credito virtuali, e Jiebei, un sistema di microprestiti. Huabei fornisce credito a un tasso di interesse annuale del 15 per cento, che è appena sotto la soglia dello strozzinaggio secondo la legge cinese. I due servizi, assieme, negli ultimi 12 mesi hanno erogato credito e prestito a 500 milioni di utenti: è più di un terzo della popolazione di tutta la Cina, e la metà di tutti gli utenti di internet cinesi.

Queste cifre enormi sono giustificate dal fatto che, quando si parla di sistemi di pagamento e di finanza, la Cina è passata direttamente dal contante al digitale, senza sviluppare un sistema diffusi di carte di credito e di debito. Per i cittadini cinesi, il modo più facile per ottenere credito o piccoli prestiti è passare da servizi digitali e facilmente accessibili tramite app come Huabei e Jiebei, non dalle banche. I servizi di credito di Ant hanno avuto così tanto successo che anche le altre grandi compagnie di internet sono entrate nel mercato, e ben presto Tencent, Baidu e JD, tra le altre, hanno presentato i loro sistemi di microprestiti. […]

Una situazione del genere è già abbastanza peculiare: sarebbe come se in Occidente Amazon, Google e facebook si mettessero a offrire prestiti alle famiglie, pubblicizzandoli anche in maniera piuttosto aggressiva. La media dei prestiti concessi da Ant è di 300 dollari: sembra poco, ma bisogna ricordare che la stragrande maggioranza della popolazione cinese vive in condizioni modeste. Fuori delle grandi città della costa 300 dollari sono più o meno le entrate medie di un mese, e questo significa che molti prestiti concessi da Ant hanno un certo grado di rischio. Questo ha fatto preoccupare le istituzioni finanziarie, anche perché negli scorsi anni in Cina ci sono statti scandali pesanti che hanno coinvolto operatori finanziari rapaci o inesperti che hanno rovinato molte persone con servizi di prestiti sconsiderati. Ant inoltre aveva un’altra ragione per preoccupare il governo: da tempo le autorità sostengono che l’azienda non abbia abbastanza capitale per rendere sicuri tutti i suoi prestiti. Ant infatti non concede i prestiti dalle sue casse, ma li esternalizza in gran parte alle banche: come ha scritto il Financial Times, con 450 milioni di dollari di capitale Ant eroga 45 miliardi di dollari di prestiti.

Considerando che Jack Ma è l’imprenditore più importante di tutta la Cina, e uno dei meglio collegati (come molti suoi colleghi, è membro del Partiti comunista), è probabile che, quando ha tenuto il suo discorso durissimo davanti alle istituzioni finanziarie cinesi il 24 ottobre, già sapesse che le autorità stavano preparando nuove regole molto onerose per le compagnie fintech. Il discorso attaccava ferocemente proprio le figure e gli enti che devono regolare ilmercato finanziario, che Jack Ma definisce obsoleti, incapaci di correre rischi e con una “mentalità da banco dei pegni”, come già detto. Attaccava particolarmente le regole che impongono che chi fa credito abbia riserve di capitale molto alte, esattamente quello che Ant non ha.

[…] Secondo il Financial Times, la quotazione dell’azienda non è stata abolita del tutto, ma soltanto rimandata. Ritarderà però almeno di sei mesi, e il suo valore di mercato potrebbe essere molto ridotto, perché le nuove regole potrebbero cambiare in maniera consistente il modello di business di Ant e le sue fonti di entrata. La vicenda dell’azienda è stata vista soprattutto in Cina come un intervento necessario, anche se tardivo, da parte del governo: alcune attività di Ant costituivano un rischio per il sistema finanziario e dovevano essere regolate. D’altro canto, soprattutto in Occidente, è stata vista come la prova dell’interventismo dannoso del governo cinese sulla libertà d’impresa».

BAJKAL. LA PERLA DELLA SIBERIA MINACCIATA DAL CAPITALE

Che mistero pervade una sorgente!
Tanto remota è la vita dell’acqua,
simile a una compagna ultraterrena
racchiusa in una brocca di cui

nessuno ha mai veduto il fondo,
solo il coperchio di vetro – come

se si guardasse a volontà nel volto
di un abisso! 

 

Confesso che fino all’altro ieri non avevo mai sentito parlare del lago Bajkal, e la cosa mi appare tanto più imbarazzante alla luce del correttore automatico che controlla il file che sto digitando: il suo algoritmo conosce quel nome! Io invece quell’esotico nome l’ho scoperto appunto da pochissimo, del tutto casualmente, leggendo un interessante libro scritto nel 1966 dall’americano Harrison E. Salisbury (1908-1993), allora «il più autorevole degli inviati e corrispondenti del New York Times». Provo a ridimensionare la grave pecca balbettando, con una lieve modifica, il celebre motto socratico: quantomeno so di non sapere!

Il libro si intitola L’orbita della Cina, e fu pubblicato da Bompiani nel 1967. Era il periodo in cui nel mondo non si parlavo d’altro che dell’escalation nella guerra d’aggressione americana contro il Vietnam e della crisi di potere che in Cina travagliava il Partito-Stato cosiddetto comunista, diviso tra maoisti e “revisionisti”, e che proprio allora stava uscendo dalle profondità delle “dialettica” interna per dilagare come un fiume in piena sotto la grottesca e violenta forma della “Rivoluzione Culturale Proletaria”. Nel ’66 Salisbury compie un lunghissimo periplo che da Hong Kong lo porta in Siberia, dopo aver visitato la Cambogia, la Tailandia, il Laos, la Birmania, la Mongolia esterna, il Sikkim, l’India, il Giappone. Ne venne fuori il punto di vista dell’americano liberal “obiettivo” e “amante della pace” su quanto avveniva nella vivacissima Asia degli anni Sessanta, polarizzata intorno agli interessi delle Potenze che si confrontavano (non solo diplomaticamente ed economicamente) in quel quadrante: Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina e India. Quel punto di vista, che rivelava al mondo la pessima coscienza dell’imperialismo americano, probabilmente impedì a Salisbury di portare a casa l’ambitissimo premio Pulitzer per l’anno 1967, dopo che nei suoi confronti il governo degli Stati Uniti (Presidenza Johnson) e la destra repubblicana imbastirono una rozza polemica intesa a far passare il giornalista del New York Times come una vittima della propaganda pacifista orchestrata da Ho Chi Minh (1). Il Presidente americano nel ’66 aveva negato il bombardamento della popolazione civile nordvietnamita da parte dell’aviazione militare statunitense: «I nostri aerei colpiscono solo l’acciaio e il cemento armato». Salisbury si limitò a descrivere quello che aveva visto con i suoi occhi durante due settimane di permanenza in Nord Vietnam: le bombe Made in USA non colpivano solo obiettivi militari, ma anche «obiettivi di nessun rilievo bellico: alcune aree residenziali di Hanoi, quartieri di negozi e di piccole botteghe, scuole. Se le bombe non sono state lanciate di proposito, l’effetto è identico a quello di un attacco intenzionale». Il vecchio Eisenhower se ne uscì con una battuta degna della sua grandissima esperienza e del suo realismo imperialista, il quale ieri come oggi, e a differenza del cosiddetto idealismo politico avvezzo a piangere solo sugli effetti, non si sforza nemmeno di addolcire l’amara pillola: «La guerra è guerra, e civili ce ne sono dappertutto». Come dargli torto! Come sempre, per evitare antipatici fraintendimenti occorre ricordare (soprattutto ai buoni di spirito) che in primo luogo cinica è la realtà (capitalistica); a mio avviso solo alla luce di questa solare verità ha un senso criticare il cinismo di chi a quella realtà dà una voce e un corpo. Ma qui si divaga! Veniamo dunque alla mia tardiva scoperta – meglio tardi…

Salisbury lasciò la capitale della Mongolia esterna Ulan Bator nell’estate del 1966, per raggiungere Irkutsk, nella Siberia meridionale, porta d’accesso al lago Bajkal, e dove fino a qualche anno prima «c’erano agevolazioni speciali per i funzionari e i turisti cinesi», mentre adesso di cinesi se ne vedevano pochissimi, segno che «la tensione tra Mosca e Pechino si sentiva anche lì». Ma, continuava il nostro corrispondente, «a Irkutsk erano assai più preoccupati per un problema che li riguardava più da vicino: l’inquinamento del lago Bajkal. Questo lago ha circa venti milioni di anni. Era un tempo una zona vulcanica ed è ancora oggi soggetta a terremoti. È sostanzialmente un’enorme catena di montagne delle quali emergono solo le punte, che nelle loro valli racchiudono quantità impressionanti di acqua dolce. È lungo circa 650 chilometri e largo un massimo di cento. La profondità massima è di 1741 metri. L’ecologia del Bajkal è particolarissima. È il più grande ammasso d’acqua dolce che esista al mondo, ed è un’acqua di purezza incredibile, ciò che esiste in natura di più simile all’acqua distillata». Salisbury ci parla insomma di un’assoluta meraviglia della natura. Ma ecco la magagna che la minaccia: «Tutto questo è ora minacciato dall’avidità del trust sovietico della carta. Sulla sponda meridionale del lago, nelle vicinanze di una zona fittamente alberata, il trust sovietico della carta sta costruendo una delle più grandi fabbriche di polpa di legno del mondo. Si prevede di completarla nel 1966 o all’inizio del 1967, e scaricherà nel Bajkal miliardi di litri di rifiuti solforosi. “Adesso capisce perché la fabbrica di polpa di legno ci preoccupa tanto”, mi disse un giovane scienziato dell’Istituto limnologico. “Al trust della carta interessa produrre e ricavare profitti. Nessuno finora sembra voler impedire questo delitto”». Maledetto capitalismo! Capite che la mia coscienza ecologica radicalmente anticapitalista si è subito alquanto irritata e allarmata, tanto più che mi è balenato alla mente il tragico destino toccato in sorte al lago d’Aral, il grande lago salato di origine oceanica, situato alla frontiera tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, Paesi che un tempo facevano parte dell’Unione Sovietica, e che oggi è ridotto praticamente a uno sputo (2).

«Che fine avrà fatto il lago Bajkal?», mi sono chiesto sinceramente preoccupato. Purtroppo la mia preoccupazione era fondata: «Il lago più profondo della Terra è in crisi. La più grave crisi che abbia mai sopportato. Le cause sono, secondo un’inchiesta dell’Agence France Press, l’eccessiva antropizzazione delle sue coste, il turismo e le attività economiche che si sono create negli anni, aumentando l’inquinamento» (Rinnovabili.it). Si scrive antropizzazione ma si legge capitalismo, oggi come negli anni Sessanta, quando il trust sovietico della carta pensò bene di costruire una cartiera sulla sponda meridionale del Bajkal: è l’odiosa legge del profitto, Greta Thunberg, e tu non puoi farci niente! A proposito: quella cartiera ha chiuso i battenti nel 2013. Si è forse trattato di una tardiva eppur apprezzabile presa di coscienza ecologista da parte di capitalisti e governanti? No: si è trattato di una bancarotta.

Il lago contiene ancora circa il 20% delle riserve d’acqua dolce del pianeta, e può ancora vantare una bellezza che toglie il fiato, un fascino che giustifica ancora il suo vecchio nome (Dalai-Nor, Mare Sacro) e una biodiversità forse senza pari (il suo ecosistema ospita più di 3.600 specie vegetali e animali, e ogni anno si scoprono nuove specie endemiche); il lago Bajkal è insomma ancora la «perla della Siberia». Ma la morte delle sue rinomate spugne, rimpiazzate dalle alghe (si tratta della spirogira, un’alga considerata indicatore di contaminazione fecale), e la drastica riduzione della popolazione di omul, un salmone presente solo nel Bajkal (e la cui pesca ora è vietata, visto che la biomassa totale dell’omul si è più che dimezzata rispetto a 15 anni fa), sono solo il sintomo più evidente di una crisi ecologica che con il tempo non può che aggravarsi, e già oggi lo stesso governo russo parla di una possibile catastrofe ecologica in tempi brevi. «Le acque del Bajkal appartengono all’intero pianeta», disse qualche anno fa il virile Vladimir Putin lasciandosi «immortalare a torso nudo mentre catturava un pesce di mezzo metro» (Corriere della Sera). Il problema, caro Vladimir, è che il pianeta è saldamente nelle mani del Moloch capitalistico, il quale vede nelle acque del Bajkal, e in tutto quello che vi vive e vi prospera da millenni, non più che fresco cibo da ingurgitare per placare la sua insaziabile fame di profitti: «Nulla di personale, amici, è nella mia natura mercificare tutto e tutti». Il mostro ci invita a considerarlo come una creatura che ha a che fare con la mera oggettività delle cose, non con la cattiva volontà soggettiva, e personalmente concordo con questo approccio.

«Certo è», scrive Marina Forti, «che il turismo sta già trasformando il paesaggio umano. Kuzhir, al centro di Olhon, dove approdano i traghetti dalla terraferma (d’estate) e l’autostrada di ghiaccio (d’inverno), era fino a una decina d’anni fa uno sperduto villaggio di poche case di legno, con l’unico ufficio postale dell’isola, la scuola elementare e un paio di negozi. Strade sterrate, gelido d’inverno e polveroso d’estate. Ora il villaggio sembra in preda a una frenesia di capitalismo selvaggio» (Internazionale). No, non si tratta di «capitalismo selvaggio»; piuttosto mi sembra più corretto dire che è il capitalismo in quanto tale ad essere selvaggio. Ma questa è come sempre una mia personalissima opinione. Certo è che chi parla di «capitalismo selvaggio» il più delle volte perora l’escrementizia causa di un “capitalismo dal volto umano”, magari chiamando la stessa Cosa con un altro nome.

«Mikhail Shapov, governatore di Irkutsk, a 70 chilometri dal lago, ha chiarito che si pensa di limitare l’accesso in alcune zone più critiche, ma in altre aree sarà aumentata l’offerta turistica. “Non c’è un ordine di importanza delle minacce al lago”, spiega Mikhail Kreindlin, di Greenpeace Russia. “È un insieme di turismo incontrollato, hotel senza impianti di depurazione, inquinamento dalle città vicine, industrie senza impianti di trattamento delle acque di scarico, navigazione senza regole, disboscamento e incendi delle foreste» (Il Corriere della Sera). Il problema ha una natura “sistemica”, come piace dire agli analisti di problemi strategici.

Inutile dire che il capitale cinese è molto attivo anche dalle parti del lago Bajkal, al punto che la popolazione locale parla apertamente di «occupazione straniera», e negli ultimi anni diverse sono state le manifestazioni di protesta contro l’apertura di Hotel e di aziende controllate dagli investitori cinesi. Scrive Anna Lotti: «La presenza cinese nella regione è esplosa dopo il crollo del rublo nel 2014 e il governo russo ha allentato le restrizioni sui visti turistici. Con la crescita del turismo e degli affari, è cresciuta anche la diffidenza locale verso i cinesi considerati come delle cavallette aliene, la cui presenza depaupera solo il territorio. Negli ultimi dieci anni gli investimenti cinesi in Russia sono aumentati di quasi nove volte, raggiungendo i 13,8 miliardi di dollari. Due terzi di tale importo sono stati destinati alle risorse naturali russe, coinvolgendo i settori minerario, forestale, della pesca e agricolo. Sul terreno, però, invece di favorire relazioni amichevoli, gli investimenti cinesi hanno alimentato risentimento e tensioni, soprattutto in Siberia e nell’Estremo oriente russo. L’attività di disboscamento in espansione ha suscitato nell’opinione pubblica il timore che i cinesi stiano distruggendo le antiche foreste della Russia, il più grande fornitore cinese di legname. Centinaia di migliaia di ettari di terreni incolti che sono stati affittati a società cinesi per l’agricoltura, hanno dato luogo a campagne mediatiche “contro l’annessione di Pechino”. Gli investitori cinesi inoltre stanno comprando gli hotel sulle rive del lago Baikal. Un progetto finanziato dalla Cina per imbottigliare l’acqua del lago Baikal in Russia ha causato un contraccolpo in Siberia, dove stanno montando le proteste per quello che è considerato come un esproprio fatto dai cinesi. Gli ecologisti e le autorità locali avevano già parlato in precedenza dell’imbottigliamento dell’acqua del lago più grande del mondo come un modo “verde” per sfruttare le risorse naturali della Siberia» (www.agcnews).

L’ho già detto: per il Capitale tutta quell’acqua, tutta quella biodiversità e tutta quella abbacinante bellezza rappresentano un imperdonabile spreco se non vengono trasformate in fonti di profitti e di successo economico. Senza parlare, nel caso specifico, degli interessi di natura geopolitica che da sempre dividono la Russia dalla Cina, la quale già negli anni Sessanta del secolo scorso si era liberata dal senso di inferiorità che nutriva nei confronti dell’imperialismo russo e rivendicava ciò che riteneva le appartenesse di diritto. Scriveva Salisbury: «Lungo l’Amur mi accorsi che i cinesi venivano presi sul serio. Nessuno pensava che la Cina intendesse soltanto fare un po’ di chiasso quando diceva che dei nove iniqui trattati che l’avevano costretta a rinunciare a parte del suo territorio tre le erano stati imposti dalla Russia. Nessuno riteneva che la Cina stesse scherzando quando attaccava la posizione sovietica in Mongolia, o quando dichiarava che metà dell’Asia centrale sovietica era sua di diritto». Allora la Cina di Mao mostrava agli ex “amici fraterni” dell’Unione Sovietica i suoi denti e i suoi muscoli (militari, politici e propagandistici), non potendo contare su un’adeguata forza dell’economia; oggi l’imperialismo cinese è capitalisticamente così forte, da permettersi il lusso di mostrarsi ai russi e al mondo intero con un bonario sorriso stampato sulla faccia (vedi il “simpatico” Xi Jinping): «La nostra economia non vuole dominare nessuna nazione. È dal libero commercio che germoglia la pace e l’armonia tra i popoli». Come no!

«La presenza umana lungo il lago di Bajkal si intensifica», scrive preoccupata la già citata Marina Forti; ma qui il problema non è affatto la presenza umana! Piuttosto si dovrebbe parlare di presenza disumana. Il problema è infatti la presenza del Capitale che «si intensifica» ovunque, con gli effetti devastanti sugli uomini e sulla natura che tutti possono vedere. Capire è tutto un altro discorso.

«”Levushka, te lo chiediamo a nome della Russia: vieni a salvare il lago Bajkal”. L’appello non esce dalle pagine di Dostoevskij e Levushka, che in russo sta per Leonardino, non è uno dei fratelli Karamazov ma Leonardo DiCaprio, che compare in un accorato post su Instagram vestito da zar. L’attore americano, che aveva raccontato di avere due bisnonni di origine russa, nei giorni scorsi ha visto il suo profilo social inondato di messaggi in cirillico. Il premio Oscar è da anni un attivista ambientale. A coloro che hanno a cuore la sorte del lago Bajkal è parso il testimonial adatto per sensibilizzare sulla sorte della maggiore riserva di acqua dolce del mondo (ghiacciai esclusi)» (Corriere della Sera). Dinanzi a Leonardo DiCaprio il mio anticapitalismo parolaio non può che arrossire e nascondersi da qualche parte. Dalle parti del Bajkal però no, patisco il freddo! Ma sì, Levushka, salva il Bajkal! Per una volta nella mia vita voglio dar credito al sano (?) realismo: che tempi!

(1) «Ho Chi Minh era l’uomo delle contraddizioni e delle sorprese, talvolta programmatiche. Si è discusso a non finire se fosse prima di tutto un nazionalista o un comunista, ma la risposta è ovvia: era l’uno e l’altro. Fu nazionalista prima che comunista, ma divenne comunista perché i comunisti gli sembravano più impegnati a lottare per la libertà e l’indipendenza dell’Indocina» (H. E. Salisbury). L’ovvietà di Salisbury non mi convince per niente: a mio avviso Ho Chi Minh non fu mai un comunista, ma piuttosto un rivoluzionario nazionalista borghese (secondo una definizione storico-sociale, non sociologica) sostenuto da chi allora si proclamava ed era considerato quasi unanimemente “comunista”. Mutatis mutandis, la stessa cosa si può dire di Mao Tse-tung e della sua rivoluzione.
(2) «Nei primi anni sessanta il governo dell’Unione Sovietica decise di prelevare, tramite l’uso di canali, l’acqua dei due fiumi che sfociavano nel lago nel tentativo di irrigare il deserto per coltivare riso, meloni, cereali, ed irrigare i neonati vasti campi di cotone delle aree circostanti. Ciò faceva parte del piano di coltura intensiva per il cotone voluto dal regime sovietico, che aveva il fine di far diventare la Russia una delle maggiori esportatrici. La costruzione dei canali d’irrigazione cominciò in larga scala negli anni quaranta. La maggior parte di essi è stata costruita in modo sbrigativo, permettendo all’acqua di filtrare o evaporare. Sin dal 1950 si poterono osservare i primi vistosi abbassamenti del livello delle acque del lago. Già nel 1952  alcuni rami della grande foce a delta dell’Amu Darya non avevano più abbastanza acqua per poter sfociare nel lago. Nel 1960 una quantità d’acqua stimabile tra i 20 ed i 60 km³ veniva deviata nell’entroterra. Dal 1961 al 1970 il livello del lago scese ad una media di 20 cm all’anno, e negli anni settanta la media triplicò arrivando a 50-60 cm all’anno, mentre negli anni ottanta la media era compresa fra gli 80 e i 90 cm annui. Il tasso di utilizzo d’acqua per scopi irrigui continuò a crescere: l’acqua deviata dai fiumi duplicò tra il 1960 e il 2000, così come la produzione di cotone. […] La progressiva scomparsa del lago non sorprese i sovietici, che avevano previsto l’evento all’inizio dei lavori e ritenevano che l’Aral, una volta ridotto ad una grande palude  acquitrinosa, sarebbe stato facilmente utilizzabile per la coltivazione del riso. Già nel 1964 Aleksandr Asarin dell’istituto Hydroproject evidenziava il fatto che il lago era condannato, spiegando che “ciò fa parte dei piani quinquennali approvati dal Consiglio dei ministri e dal Politburo”. Nessun appartenente a un livello inferiore avrebbe osato contraddire questi piani, anche se così il destino del lago fu segnato. Il piano di sfruttamento delle acque dei fiumi a scopo agricolo aveva come responsabile Grigory Voropaev che, durante una conferenza sui lavori dichiarò, a chi osservava che le conseguenze per il lago sarebbero state nefaste, che il suo scopo era proprio quello di “far morire serenamente il lago d’Aral”. Era infatti così abbondante la necessità di acqua che i pianificatori arrivarono a dichiarare che l’enorme lago era ritenuto uno spreco di risorse idriche utili all’agricoltura e, testualmente, “un errore della natura” che andava corretto. Un ingegnere sovietico ha dichiarato nel 1968: “è evidente a tutti che l’evaporazione del lago d’Aral è inevitabile”» (Wikipedia). Il capitalismo con caratteristiche “sovietiche” è stato particolarmente ostile agli uomini e alla natura, superato in questo solo dal capitalismo con caratteristiche cinesi.