LA PESSIMA CONDIZIONE SOCIALE DEI MIGRANTI CINESI

Le foglie cadute tornano alle loro radici.
落叶归根

In Cina la condizione sociale dei lavoratori migranti rimane assai dura e precaria, nonostante l’impetuoso sviluppo capitalistico del grande Paese asiatico abbia lasciato cadere anche su questi lavoratori, considerati di serie B, qualche briciola. Per migranti alludo naturalmente ai circa 300 milioni di individui che ogni anno si spostano dalle aree rurali della Cina per riversarsi nelle sue aree urbane, formando quel gigantesco esercito di proletariato che ha reso possibile l’ascesa del Paese ai vertici del capitalismo mondiale. Per capire di cosa parliamo è sufficiente ricordare il “modello” Foxconn, la più grande multinazionale di assemblaggio di componenti elettronici: occupazione di massa, supersfruttamento, bassi salari, condizioni di vita e di lavoro che spesso hanno portato i lavoratori alla disperazione e al suicidio. Oggi circa il 51% dei migranti è occupato nel settore terziario, in linea con le trasformazioni intervenute nel corso del tempo nella struttura del capitalismo cinese.

Questo esercito di operai, di fattorini, di camerieri e di commercianti dà vita a una migrazione interna che per consistenza non ha eguali nella storia umana,  e le cui mete più ambite sono le ricche province del Guandong e dello Zhejiang e le megalopoli come Shanghai e Pechino. Durante il lungo capodanno cinese, questa laboriosa (leggi: sfruttata) «popolazione fluttuante» (in cinese 流动人口, liúdòng rénkǒu) ritorna nelle regioni rurali, per trascorrervi le meritate vacanze. A causa della nota pandemia, nel 2020 moltissimi migranti non hanno potuto riabbracciare i loro cari, e sono rimasti sequestrati nelle megalopoli, anche perché esse hanno avuto più che mai bisogno di fattorini (raider) in grado di consegnare ai clienti, velocemente e a qualsiasi ora del giorno e della notte, cibo e ogni genere di merce trasportabile in quella modalità. Il tutto, per riscuotere un salario di circa 4000 yuan (500 euro, contro i 126 offerti dalla campagna), che nelle metropoli cinesi non è certo sufficiente per vivere “decorosamente”.

Scrive Qiao Yan: «La tradizione degli emigrati cinesi rappresentata dal detto “le foglie cadute tornano alle loro radici”, nei tempi contemporanei non è più osservata come prima. Questo cambiamento di pensiero è in linea con i mutamenti sociali, economici e politici della Cina a partire dall’anno 1978» (L’emigrazione cinese, 2013). A quanto pare, le foglie cadute “desiderano” rimanere là dove le ha trasportate il vento.

«Malgrado gli effetti negativi del coronavirus sull’occupazione, i lavoratori migranti vogliono rimanere a vivere nelle città. Essi non vedono opportunità nelle aree rurali da dove provengono e sperano di poter accedere ai servizi educativi e sanitari cittadini, che sono migliori rispetto a quelli dei loro centri di origine. È quanto emerge da uno studio del Social Work Development Centre for Facilitators, pubblicato il 30 agosto. Il 58,84% dei migranti cinesi vuole continuare a vivere in un centro urbano anche se i loro figli non avranno accesso alle scuole locali. Il governo comprime i diritti dei lavoratori migranti per evitare che i costi dello stato sociale vadano fuori controllo. Il mancato riconoscimento della residenza nelle zone urbane, insieme alla mancanza di lavoro e al taglio dei salari per la pandemia, rendono sempre più difficile la vita in città per chi si è trasferito dalle campagne. Ciò non li spinge però a “tornare a casa”. Il reddito pro-capite nella Cina rurale è in calo dal 2014» (AsiaNews). Il proletariato migrante si trova quindi stretto in una morsa sociale sempre più stretta, e non è certo un caso se la maggior parte delle agitazioni operaie degli ultimi tempi hanno avuto proprio esso come loro protagonista indiscusso, anche se non esclusivo.

In Cina il salario minimo si aggira ancora intorno a 1500 yuan (185 euro). Lo stesso Premier Li Keqiang, ha ricordato in occasione dell’Assemblea nazionale del popolo della scorsa primavera che ci sono circa 600 milioni di cinesi che guadagnano meno di 140 dollari al mese. Nella conferenza stampa di chiusura del NPC, Li espresse un giudizio positivo sulla possibilità di tamponare la crisi occupazionale sviluppando nuovamente un’economia di strada fatta di bancarelle e venditori ambulanti, simile a quella emersa negli anni ’80, suscitando una forte contrarietà presso la fascia maggioritaria del Partito-Regime, sintetizzabile nello slogan: «Indietro non si torna!».

Scriveva Alessandra Colarizi nell’aprile del 2020: «Sebbene, stando agli ultimi dati ufficiali, a marzo il tasso di disoccupazione si è stabilizzato a quota 5,9%, in discesa rispetto all’incremento record del 6,2% riportato nei primi due mesi dell’anno, statistiche indipendenti calcolano il numero reale dei cinesi senza un’occupazione tra i 60 e i 200 milioni se si includono i migranti (mingong), esonerati dalle stime ufficiali ma rilevanti in termini numerici, rappresentando un terzo dei 442 milioni di lavoratori urbani» (Il Manifesto). Pur «rilevanti in termini numerici», i lavoratori migranti non compaiono nemmeno nelle statistiche ufficiali, che infatti vanno sempre lette criticamente e confrontate con i dati forniti da fonti “informali”.

«La parola cinese usata per indicare i lavoratori migranti è 农民工 nóngmíngōng, dove nóngmín significa contadino, e gōng lavoratore. Il termine si riferisce appunto a coloro nati nelle zone rurali del paese, ma emigrati verso le aree industriali in cerca di occupazione. L’etimologia della parola riflette accuratamente il ruolo ambivalente del lavoratore migrante, in equilibrio tra la città di destinazione e la terra di origine a cui è legato. L’origine di questa contraddizione giace nell’esistenza del sistema di registrazione familiare cinese, comunemente noto come 户口 hùkǒu. Secondo questo peculiare meccanismo, l’accesso ai diritti civili e legali di ogni cittadino è vincolato al luogo di nascita di quest’ultimo. Nato nei primi anni ’50 su emulazione della Propiska sovietica, lo hukou è un documento fondamentale nella vita di ogni abitante cinese; ancora oggi, resta indispensabile per ottenere l’accesso a istruzione, cure sanitarie, pensione e assicurazione. Tutti questi servizi vengono garantiti esclusivamente nel proprio paese natale, da cui lo hukou viene rilasciato. Il mancato possesso dello hukou locale costituisce quindi un ostacolo alla libera circolazione della popolazione. Ma non solo. Il sistema cinese ha portato alla creazione di una società diseguale, che nega il diritto all’istruzione e cure mediche a milioni di cittadini. Basti pensare che, nonostante sulla carta l’istruzione sia un diritto garantito, molte scuole pubbliche chiedono ai genitori migranti il pagamento di tasse aggiuntive salatissime. Queste richieste proibitive costringono molti bambini migranti a fare ritorno al proprio villaggio o ad iscriversi in scuole private non riconosciute dal sistema scolastico statale. Davanti a queste premesse, è evidente come l’emarginazione istituzionale e sociale generata dal sistema dello hukou abbia influenzato le vite dei migranti cinesi; a causa della loro identità rurale, essi sono percepiti dai loro concittadini come individui senza cultura ed una minaccia alla stabilità collettiva. Esclusione sociale e mancanza di opportunità hanno condannato i migranti alla segregazione di mercato e all’immobilità di classe, in virtù di uno Stato padre di due cittadinanze distinte: urbana e rurale. […] L’ultima riforma dello hukou prometteva la cittadinanza urbana a 100 milioni di residenti rurali. Tuttavia, sembrerebbe che il piano tenda a favorire ancora una volta l’entrata di capitali, rimanendo in silenzio di fronte alle richieste della popolazione fluttuante» (Bridging China ). Un Paese perfettamente capitalista, non c’è che dire.

Scrive Simone Pieranni, autore di Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (e qui faccio gli scongiuri!): « Il caso Huawei riporta il discorso sull’economia cinese e sul modello del “socialismo di mercato”. Un apparente ossimoro, ma non per Pechino. La Cina non si chiede cosa sia il suo modello, ma se funzioni o no. E ugualmente fa con tutto il resto. Chiedersi inoltre se il paese sia più capitalista o più socialista trovo sia una nuova forma di orientalismo. Neanche i cinesi sanno come definire il loro sistema, ma pescano dalla cassetta degli attrezzi della storia per trovare le soluzioni che sembrano funzionare meglio. Per loro». Qui siamo ancora al gatto di Deng Xiaoping («Non importa il colore del gatto, purché questo acchiappi il topo»)! Per quanto mi riguarda, è del tutto ininfluente il giudizio che il regime cinese, e la stessa “opinione pubblica” cinese danno sul loro modello sociale.Come diceva qualcuno, nei peridi di “pace sociale” l’ideologia dominante è l’ideologia che fa capo alle classi dominanti.

Il «socialismo di mercato» non è affatto «un apparente ossimoro», ma piuttosto una gigantesca balla ideologica che può affascinare solo chi non conosce la natura del rapporto sociale capitalistico di produzione e ha in mente un concetto assai miserabile di “socialismo” – del genere impallinato da Marx già un secolo e mezzo fa.

Sulla natura capitalistica della Cina, tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ai miei diversi scritti dedicati al grande Paese asiatico. Solo alcuni titoli: Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese;; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        

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