LA GERMANIA E LA SINDROME DI CARTAGINE

Erano tempi grami per tutti, tranne forse per gli indovini, i maghi, i cartomanti e simili, che videro aumentare la clientela. Fenomeno, del resto, abbastanza spiegabile (Walter Laqueur, La Repubblica di Weimar).

Ho appena finito di leggere I due volti della Germania, un interessantissimo libro scritto nel 1932, alla vigilia dei noti eventi, dal giornalista americano H. R. Knickerbocker, inviato sul suolo tedesco per conto del Capitale statunitense (1). Ne consiglio la lettura a chi volesse comprendere meglio non solo il background sociale, nazionale e internazionale, che rese possibile l’irresistibile ascesa al potere di Adolf Hitler, ma anche i fatti che si dipanano sotto i nostri occhi, e che su questo Blog sono rubricati come La guerra in Europa. Il libro uscì in Italia lo stesso anno, pubblicato da Bompiani, e penso che si possa trovarlo solo in biblioteca, oppure in un mercatino delle pulci, com’è capitato a chi scrive.

Coincidenza quanto mai significativa, lo stesso anno Ferdinand Fried pubblicò il suo celebre libro, La fine del capitalismo, edito in Italia sempre da Bompiani, il cui tono politico e psicologico generale è racchiuso in questi passi: «Ipocrisia del tempo nostro! Si può giudicare come si vuole il modo in cui i Romani si comportarono con la superba Cartagine, ma si deve riconoscere nei Romani il coraggio di agire apertamente. Volevano annientare Cartagine, e non ne fecero mistero». La metafora è fin troppo scoperta: i Francesi come i Romani, solo più ipocriti e decadenti dei secondi; la superba Berlino come Cartagine, solo più potente e meno disposta della seconda a farsi annientare dal nemico storico.

Quando alla fine del 1931 Knickerbocker giunse in Germania, col mandato ufficioso di osservare in quali mani fossero finiti i cospicui capitali che dagli Stati Uniti erano affluiti in quel Paese, inquietante e inquieto, in soli cinque anni (dal 1924 al 1929), dovette costatare quanto diffusa fosse la sindrome di Cartagine presso tutti gli strati della popolazione, come essa attraversasse “trasversalmente” tutte le classi, tutte le correnti politiche e di opinione, tutte le generazioni, non lasciando immune praticamente nessuno. Naturalmente se ne trovavano tracce nello stesso Hitler, il quale ne fece cenno in un colloquio con il giornalista americano: «”Quasi ogni guerra fu composta per l’intervento di qualche potenza neutrale. Non parlo di quelle tra Roma e Cartagine”, aggiunse sorridendo». Capovolgere la Sindrome di Cartagine (con l’inversione dei ruoli fra annientatore e annientato), se non è possibile sconfiggerla, diventerà il Programma del futuro Führer.

Il risentimento nei confronti della Francia e l’ostilità al Trattato di Versailles erano particolarmente forti e diffusi fra la gioventù tedesca, di “destra” come di “sinistra” (il “centro” politico non aveva praticamente giovani fra le sue fila), non a caso generoso bacino di militanza per il Partito Nazionalsocialista fin dalla sua nascita. «Hitler vede le cose dal punto di vista della gioventù, quello che misura tutto in termini di forza e di volontà: volere è potere». Si tratta di capire su quale programma sociale si radica il «punto di vista della gioventù», ossia a servizio di quale prospettiva politico-sociale è messa la forza, la volontà e la speranza dei giovani. Intanto a Heidelberg «gli studenti cantano ancora la canzone prediletta Siegreich woll’n wir frankreich schlagen, Vittoriosi vogliamo battere la Francia». Più che una canzone, un programma politico.

La domenica di Pasqua del 1932 l’editorialista della Frankfurter Zeitung pubblicava, a mo’ di augurio, le parole del maggiore Schill, l’eroe della fallita insurrezione antinapoleonica del 1809: «Meglio una fine nell’orrore che un orrore senza fine». E l’orrore tanto invocato alla fine arriverà. Basta aver pazienza e lasciare che il Dominio faccia il suo corso.

Unanime nella Germania visitata dal giornalista americano è anche l’idea che le riparazioni di guerra non si potessero né si dovessero pagare; onorare i debiti privati, rigettare il debito politico: è il mantra ripetuto in tutte le salse dai Tedeschi all’indomani della firma del Trattato di Versailles. D’altra parte, per onorare entrambi i debiti alla Germania sarebbe occorsa un’assai sostenuta crescita economica, cosa che le era preclusa dalla tendenza autarchica e protezionista che proprio agli inizi degli anni Trenta iniziò a diffondersi in tutto il mondo. Per un’economia fortemente orientata alle esportazioni come quella tedesca ciò rappresentò il colpo di grazia, ricevuto peraltro proprio nel momento in cui il meccanismo dell’accumulazione sembrava essersi rimesso in moto dopo il duro periodo della razionalizzazione capitalistica finanziata in gran parte dal Capitale americano (Piano Dawes). Il giornalista americano chiese a Gustav Krupp, un’istituzione tedesca in carne ed ossa, se a suo giudizio la Germania fosse nelle condizioni di pagare le riparazioni. «teoricamente sì, se possiamo esportare, ma solo se possiamo esportare: e il guaio è che non possiamo esportare. Possiamo creare quanto ci piace; ma produrre non significa vendere; ci è indispensabile un mercato, e i mercati ci chiudono le porte in faccia. L’Inghilterra ha inaugurato le tariffe; in Francia, Italia, Svizzera, nei Balcani, ovunque si guardi, si incontrano barriere che stanno rapidamente diventando insormontabili». Al netto dell’interesse nazionale a esagerare l’impatto della gelata capitalistica sulla possibilità tedesca di pagare le riparazioni, il circolo vizioso individuato dal re dell’acciaio tedesco era reale. Ma a quali volti allude il titolo del libro in questione?

In effetti la Germania d’allora offriva il paradossale spettacolo di una Potenza economica di prima grandezza sullo scenario mondiale alle prese con una micidiale crisi economico-sociale prossima alla rivoluzione o alla più cupa e parossistica disperazione. Potenza economica attuale, dispiegata, certo, ma soprattutto potenziale, pronta a esplodere quando le condizioni interne e, soprattutto, internazionali si fossero messe per il verso giusto. Il che, per i tedeschi – ma anche per gli stessi americani –, voleva dire innanzitutto superare le vessatorie e ciniche clausole del Trattato di Versailles che riguardavano la Germania. «Fame e segreta potenza nel Reich. Senza nessuna prevenzione si può ora manifestare il parere che la Germania sia la maggiore potenza industriale d’Europa, ma, dal punto di vista finanziario, la più malsicura, da quello politico la più dilaniata, e da quello sociale una botte di polvere in cui può, ad ogni istante, cadere una scintilla. Non pochi milioni di abitanti hanno fame, nel mezzo di un equipaggiamento materiale ed industriale che non può non classificare il paese tra i paesi ricchi». Vediamo qualche esempio di questa paradossale situazione.

Berlino Nord-Est e Berlino Ovest: mentre nella prima città migliaia di proletari disoccupati e sottoccupati pativano la fame, sempre con «estrema dignità, con decoro» (insomma, “alla tedesca”, non “all’italiana”…), nella seconda si viveva «sontuosamente», e nei numerosi locali «dove si balla la rumba e si beve champagne» si viene respinti perché troppo gremiti. La Berlino da bere faceva impallidire la mondana Parigi. Chi visita la Berlino del ’32 «resta sbalordito» nel vedere come la più nera indigenza sociale possa convivere accanto all’opulenza più esibita, quasi a voler dar ragione al vecchio ubriacone di Treviri: la miseria a un polo si spiega con la ricchezza al polo opposto, e viceversa.

Informazione utile all’anima del vecchio comunista: nell’anno di grazia 1932 «Una bottiglia di vino della Mosella costa dodici marchi». Un abisso colmabile solo ricorrendo alle amichevole tasche di Engels. Inutile dire che a Nord-Est solo pochi fortunati si possono permettere un bicchiere di birra, e «quando un Tedesco è diventato così povero da non potersi pagare neppure una birra, ha toccato il sommo della disperazione». Di questi tempi (luglio 2012) la birra scorre a fiumi in tutta la Germania, mentre la Grecia è costretta alla più sobria acqua… Atene mostra un solo volto, bruttissimo.

La differenza fra la Berlino del «biennio rosso» (1919-1920) e quella della Fatale Vigilia ebbe anche l’aspetto di un Hotel: «Nell’Eden- Hôtel, la musica da ballo d’uno dei preferiti e più eleganti ritrovi di piacere ha già da lungo tempo fatto dimenticare che nell’anno 1919 Carlo Liebknecht e Rosa Luxemburg, fondatori del comunismo tedesco, furono trascinati fuori dall’Eden, dove erano tenuti prigionieri, da ufficiali e gregari di una Divisione di cavalleria, per essere assassinati nel Giardino zoologico»(2). Il massacro dei comunisti e del proletariato influenzato dagli “spartachisti” ordinato dai socialdemocratici nel momento più critico per la società tedesca ebbe una parte fondamentale, costitutiva, nel processo di maturazione del Terzo Reich.

Un altro esempio dei «due volti»: Folkenstein, in Sassonia, e Jena, la città della celebre Università e delle Officine Zeiss. «Folkenstein presenta, fra tutte le città tedesche, la più alta percentuale di disoccupazione e di fame». Nel 1932 la Germania “vantava” circa cinque milioni di disoccupati e un totale di quindici milioni di cittadini assistiti dalla carità pubblica e privata. «Nessuno di essi ha tanto da mangiare quanto abbisogna». Il sussidio statale o federale non toglieva la fame, ma impediva al disoccupato e ai suoi figli di morire, almeno nell’immediato. D’altra parte, come diceva Keynes, nel lungo periodo siamo tutti morti! La dieta del proletariato tedesco “inattivo” si basava quasi esclusivamente sul consumo di pane e patate, e mai come allora il luogo comune tedescofobo del mangiapatate si identificò con la loro miserabile condizione. Qualche aringa domenicale interrompeva la monotona dieta.

La disperazione delle masse può trovare “sfogo” in una rivoluzione, o in una controrivoluzione, magari preventiva, ovvero in un “ritorno del religioso”. «Folkenstein ha abbandonato Marx e s’è convertita a Dio. Qui, nell’anno 1920, la popolazione, tenendo in una mano la bandiera rossa e nell’altra la fiaccola incendiaria, fondò un governo comunista e diede fuoco alle ville dei ricchi borghesi. [Un comunismo piuttosto rozzo, a quanto pare] Nell’anno 1932, qui, la popolazione tiene in una mano la Bibbia e nell’altra la tessera di disoccupazione». Nutrimento dello spirito e nutrimento del corpo, spirito divino e spirito di… patata. Annotazione assai interessante per lo studioso della psicologia delle masse: «Folkenstein è radicata nella sua religione come lo fu nella sua rivoluzione». Segno che la condizione di massa espone le classi dominate a rovesci politici e sociali altrimenti inspiegabili. Una complessa questione nota a chi si pone con serietà il problema della «palingenesi sociale». Comunque sia, quando alle otto del mattino della sospirata domenica il Testimone di Geova bussa ostinatamente alla tua porta, non mandarlo via, potrebbe essere lo zelante rivoluzionario con cui domani potresti fare i conti.

Knickerbocker riporta le ispirate parole, proferite da un predicatore della disgraziata cittadina, che cadevano sopra cinquecento persone affamate di tutto, verità compresa. «Che mondo è questo, in cui voi non vi potete vestire mentre milioni di balle di cotone e centinaia di migliaia di tonnellate di lana vengono distrutte? Che mondo è questo, in cui voi patite la fame, mentre milioni di tonnellate di cereali vengono distrutti?» Inutile dire che tra gli astanti non vi fu nessuno a cui balenasse in testa la semplice e abbagliante (appunto: abbagliante) verità: «È il Capitalismo, bellezza, e noi non possiamo farci niente, salvo che la Rivoluzione Sociale». Detto en passant, la prassi distruttiva denunciata dal predicatore si diffuse in tutto il mondo negli anni Trenta come resistenza del Capitale al processo deflattivo che restringeva i margini di profitto. La progressista America di Roosevelt si distinse nell’organizzazione e nella pianificazione di questa prassi altamente razionale, per il Capitale, beninteso (3).

Nessuno dei miserabili astanti proferì dunque parola: «I fedeli singhiozzavano», mentre il predicatore si avviava a concludere la sua invettiva contro un mondo che aveva deciso di voltare le spalle all’unica Potenza in grado di salvarlo. La divina punizione non poteva tardare, e alla fine è arrivata, improvvisa e dura come vuole l’Antico Testamento. «”Ma, concluse il predicatore, questo non è vero solo per la Germania. In tutto il mondo è così, e Dio punisce tutti”. – Non i francesi, mormorò un uomo dal viso cupo, accanto a me». Non i francesi, a quanto pare. E se il buon Dio si dimostrava incapace di somministrare anche alla Francia la sua giusta razione di punizioni, chi poteva supplire alla giusta bisogna? Se state pensando all’uomo coi buffi baffi avete indovinato la risposta.

Punire la Francia e redimere l’Occidente ormai assoggettato a un funesto destino, secondo la celebre profezia di Oswald Spengler, fu il programma politico dei reazionari tedeschi, che la situazione generale del Paese e del mondo fece apparire agli occhi delle masse in guisa di rivoluzionari e di messia. Tale è la “dialettica delle cose” in tempi eccezionali (4).

Al polo opposto di Folkenstein l’americano trovò Jena, con il Trust Zeiss come suo paradigma economico-sociale. A quei tempi La Fondazione Zeiss si compiaceva di destinare una parte dei suoi profitti ai lavoratori (una vera e propria aristocrazia operaia: salario settimanale di 50 marchi, a fronte di una media nazionale di 30 marchi, trattamento pensionistico assicurato a tutti, indennità di disoccupazione, ecc.), nonché «all’ingrandimento e al miglioramento delle officine e a scopi di pubblica utilità, e, anzitutto, all’Università di Jena». Anche i funzionari di alto rango del Trust ricevevano uno «stipendio» assai modesto in rapporto a quanto riscuotevano i manager impiegati in imprese analoghe in Germania e nei paesi capitalisticamente più avanzati del mondo, a cominciare dagli Stati Uniti. Insomma, quasi l’intero profitto della Zeiss era immolato sull’altare dell’accumulazione capitalistica, e qualche briciola cadeva pure su iniziative di grande «valore sociale».

Inutile dire che questa morigeratezza e lungimiranza capitalistica piacque assai all’americano, che credette di rintracciare nel «sistema Zeiss» caratteri analoghi a quello sovietico in vigore nella Russia di Stalin, sebbene nella «patria dei soviet» i lavoratori non godessero dello stesso alto standard di vita. «Però, il fatto che si mira ad ottenere un’eccedenza [un profitto] e che le diverse classi di lavoratori sono in misura variabile compensate [con un salario], attribuisce un carattere capitalistico ad entrambi i sistemi, indipendentemente dal modo con il quale l’eccedenza, infine, viene ripartita … Identica, infine, in entrambi i sistemi, la circostanza che gli operai partecipano all’eccedenza, ma non alla direzione. In teoria, nell’Unione Sovietica gli operai partecipano alla direzione, ma in pratica la loro partecipazione fu soppressa a favore della più efficace direzione dall’alto». L’aver correttamente individuato in entrambi i «sistemi» le caratteristiche fondamentali del capitalismo (profitto, lavoro salariato, controllo capitalistico della produzione, non importa se impersonato da un “privato” o dallo Stato), testimonia senza alcun dubbio dell’intelligenza di Knickerbocker (5). Detto per inciso, l’aliquota di profitto data (quando l’accumulazione lo rende possibile, ovviamente) agli operai non è che salario differito, volto a fidelizzare i lavoratori e accrescerne la produttività. È il «modello tedesco» che tanto piace in Italia, a “destra” come a “sinistra”, e anche questo ci dà l’idea di quanto avanzato sia il sistema capitalistico tedesco rispetto a quello italiano.

Nonostante la sua indiscutibile forza economica e il suo celebre dinamismo tecnico-scientifico, anche la Zeiss (ma lo stesso discorso vale pure per gli stabilimenti Leuna di Merseburg, «i più grandi stabilimenti chimici del mondo, la più forte potenza industriale del continente») si trovava in una fase critica. «Il nuovo dazio del 60% imposto dall’America sulle merci ottiche, quello inglese del 50%, il dazio francese, l’italiano ed altri, ma soprattutto la crisi del denaro e del credito che negli ultimi mesi ha colpito tutto il mondo, sono le ragioni capitali del regresso degli affari».

Il libro si chiude con una lunga e interessante intervista a Hitler, alla fine della quale Knickerbocker si convince che ciò che differenziava il futuro Führer dagli altri leader politici tedeschi, compresi quelli socialdemocratici, non era tanto l’originalità della sua proposta politica, quanto la decisione e l’energia che egli metteva nel perseguirla. «Al confronto degli altri partiti, i nazionalsocialisti sono soltanto più ardimentosi … Gli analizzatori della personalità di Stresemann [Gustav, il moderato leader indiscusso della DVP, assassinato alla fine del ‘29] sono persuasi che egli non fosse meno nazionalista di Hitler e non meno di lui convinto che il destino di una nazione dipenda dai suoi strumenti di potenza. Nemmeno Stresemann acconsentì mai ad abbandonare la domanda di revisione delle frontiere orientali, ed ogni buon tedesco sincero ammette che il corridoio polacco verrà alla ribalta della politica estera germanica insieme con la questione del disarmo». Ogni «buon tedesco sincero» dava per scontato che si dovesse, alla fine, morire per Danzica, come credeva fermamente che fosse semplicemente ridicolo, oltre che delittuoso, imporre alla Germania uno stile militare modello svizzero (6). Lo stesso partito socialdemocratico «votò la primavera scorsa la costruzione di un incrociatore corazzato, manifestandosi così partigiano del principio di sfruttare al massimo le limitate possibilità d’armamento consentite dal Trattato di Versailles».

«Il capitale americano investito in Europa è investito in un campo di battaglia»: questo lo sconsolato, ma assai realistico, giudizio finale di Knickerbocker. Come sempre, la realtà si incaricherà di superare ogni più pessimistica previsione, confortando l’idea che il peggio è sempre, e che non smette di peggiorare.

(1) «Circa 4 miliardi di dollari, in totale, sono in gioco, per l’America, in Germania … L’America da sola partecipa nella misura del 38% alla totalità degli investimenti esteri diretti, in Germania, e ha quindi, più di ogni altro paese del mondo tranne la Germania stessa, interesse alla conservazione del capitalismo privato nel Reich. Dal 1924, ben ottantaquattro stabilimenti esclusivamente americani furono avviati in Germania, e la varietà delle loro attività è una riprova delle varietà dell’interessenza americana nella nazione» (H. R. Knickerbocker, I due volti della Germania, Bompiani, 1932 ). Per farsi un’idea «dell’interessenza americana nella nazione», basti pensare che la Opel, la più grande fabbrica automobilistica della Germania, diventò una succursale della General Motors.
(2) «All’hotel Eden l’assassinio di Karl e di Rosa era già stato deciso e organizzato sotto il comando del capitano Pabst. Al suo arrivo Liebknecht ricevette due colpi alla testa con il calcio del fucile … Poco dopo Liebknecht, Rosa Luxemburg venne portata fuori dall’albergo dal tenente Vogel … Davanti all’uscita aspettava Runge: con due colpi di calcio di fucile le fracassò il cranio. Più morta che viva, Rosa venne gettata su una macchina. Il tenente Vogel la uccise con un colpo di pistola al cervello» (Paul Frölich, Rosa Luxemburg). Nei loro ultimi scritti (L’ordine regna a Berlino, della Luxemburg, e Nonostante tutto!, di Liebknecht), i due comunisti spiegarono il senso dell’azione rivoluzionaria spartachista e i motivi della debolezza del proletariato tedesco. «”Spartaco è vinto” – scrisse Liebknecht –. È vero! Ma vinti sono stati gli operai rivoluzionari di Berlino! Centinaia tra i migliori assassinati, centinaia tra i più fedeli incarcerati, questa l’amara verità! … Sono stati sconfitti, è vero. Ma è stata una necessità storica. I tempi non erano ancora maturi».
(3) Dopo il ’29 i prezzi agricoli precipitarono a circa la metà del loro livello del periodo bellico. Per ripristinare prezzi di mercato remunerativi il governo del New Deal finanziò la distruzione di interi campi di cotone, di vigneti, di aranceti. «La devastazione di dieci milioni di acri di cotone fruttò agli agricoltori compensi per oltre 100 milioni di dollari» (Leuchtenburg, Roosevelt e il New Deal). Sotto la pressione della potente corporazione dei dirigenti agricoli, preoccupata di ricostituire i prezzi della carne macellata, il segretario all’agricoltura Henry Agard Wallace organizzò anche l’abbattimento di 6 milioni di porcellini e di duecentomila scrofe in procinto di partorire. Il grano già raccolto venne stipato nei silos in attesa di tempi (leggi: prezzi) migliori. Negli Stati Uniti lo svenimento in classe di un insegnante “malato” di inedia diventò un avvenimento tutt’altro che raro. Il nostro bravo giornalista americano avrebbe fatto bene a scrivere anche I due volti degli Stati Uniti.
(4) «Quelli che disertavano il partito comunista erano spesso elementi con una mentalità rivoluzionaria che non riuscivano a comprendere molte parole d’ordine contraddittorie del KPD, e in parte erano elementi che erano fortemente impressionati dalla fisionomia esterna del partito di Hitler, dal suo carattere militare, dalle dimostrazioni di forza, ecc.» (Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo). La stalinizzazione del KPD spiega ampiamente il carattere contraddittorio, a dir poco, della sua linea politica, ormai estranea a una prospettiva autenticamente rivoluzionaria. E anche questo fatto deve venir messo a bilancio nella valutazione di quel periodo storico.
(5) «La società della Russia aveva sostituito i capitalisti privati con l’illimitato dominio dello stato. Il capitalismo di stato si era sostituito al capitalismo privato. Il concetto di capitalismo non è determinato dall’esistenza di singoli capitalisti … In seguito alla crisi economica mondiale del 1929-1933, anche in Germania e in America cominciarono a verificarsi processi sociali che si svilupparono in direzione del capitalismo di stato» (Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo).
(6) Ogni «buon tedesco sincero» riteneva «il Trattato di Versailles obbrobrioso. Versailles significava per tutti i patrioti tedeschi oppressione nazionale, significava una Germania mutilata del suo territorio, significava lo sfruttamento del popolo tedesco fino alle generazioni che ancora dovevano nascere» (Walter Laqueur, La Repubblica di Weimar).

11 pensieri su “LA GERMANIA E LA SINDROME DI CARTAGINE

  1. Caro Sebastiano, non capisco l’obiettivo del suo articolo, oppure se si tratta di una semplice revisitazione storica. Nel secondo caso non ho nessuna obiezione; nel primo allora mi chiedo se si voglia fare un parallelo con la situazione attuale: non mi sembra congruente. Nel caso in cui si voglia mostrare come la situazione attuale possa peggiorare fino ad oltrepassare in negativo la situazione degli anni 30 credo sia un azzardo.

    Che cosa intende quando dice che ci si puo’ attendere tutto il peggio? Intende guerre in seno ai paesi occcidentali?

    • Nessun parallelo storico fra ieri e oggi, naturalmente. Almeno se con ciò si intendesse suggerire una stringente analogia tra la Germania del 1932 e quella del 2012. D’altra parte, la storia non è “acqua fresca”, e il suo peso sul presente è più foriero di conseguenze di quanto non ci appaia prima facie. Con il concetto di peggio che non smette di peggiorare alludo in primo luogo alla condizione (dis)umana degli individui nella società-mondo del XXI secolo. A mio modesto avviso questa condizione si fa sempre più critica per l’individuo: infatti, cresce la sua alienazione, la sua mercificazione, la sua atomizzazione, la sua illibertà – al di là dell’ideologia individualista e liberista che cela la dittatura delle esigenze economiche su ogni aspetto della nostra esistenza. Proprio il trattamento che gli individui subiscono dal Dominio sociale li espone a ogni sorta di “avventura populista”, come ho cercato di argomentare nel post Fermate il mondo, voglio scendere! Insomma, per me il peggio è adesso. Guerra o non guerra. E non cessa di peggiorare… Per mutuare Dostoevskij, se l’uomo non esiste tutto il peggio è possibile. Quanto alla guerra, per me non si tratta di prevederla – purtroppo non sono un mago –, ma semmai di concepirla come una possibilità che sta naturaliter sul terreno dell’odierno sistema capitalistico mondiale. Ma, ripeto, quando ho scritto quella locuzione “peggiorativa” non pensavo alla guerra guerreggiata, bensì alla guerra che tutti i giorni questa società fa agli individui. In questo senso, la prima è la continuazione della seconda con altri mezzi. Saluto e ringrazio per l’attenzione critica, che mi ha permesso di chiarire meglio il mio pensiero.

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