POVERA PATRIA EUROPEA…

Eurozone Debt Crisis - General ImageryNon c’è editoriale dedicato all’odierna tornata elettorale europea che non punti i riflettori sul seguente (apparente) paradosso: l’Europa è, «nonostante tutto», la prima potenza economica mondiale (in termini di produzione industriale, di espansione commerciale, di Pil, di capacità tecno-scientifiche, di reddito pro capite, ecc.), ma il suo peso geopolitico è pressoché irrilevante. E questa contraddizione appare tanto più evidente e grave oggi, quando 1) l’attivismo russo a Est rischia di far precipitare il mondo in una nuova “guerra fredda”, 2) la relazione strategica sempre più stretta tra Russia e Cina sposta la bilancia del potere mondiale verso l’Oriente «autoritario», 3) gli Stati Uniti sembrano invischiati in un isolazionismo che pretende dai partner europei una partecipazione all’Alleanza Atlantica «più adulta e attiva».

Il paradosso è solo apparente perché, come sanno benissimo gli editorialisti che oggi versano molte lacrime sull’«identità perduta del sogno europeista», non esiste l’Europa come coerente e unitario spazio geopolitico (non esistono, tanto per intenderci, gli Stati Uniti d’Europa oggi evocati da Roberto Napoletano sul Sole 24 Ore). . Giustamente Adriana Cerretelli (Il Sole 24 Ore) fa notare che oggi la contesa sistemica fra gli Stati si dà come confronto fra «colossi regionali», e che in questo contesto, per la verità non nuovo, la dimensione degli Stati nazionali europei è troppo piccola per reggere il confronto con i protagonisti della politica mondiale: solo unendosi essi possono realizzare quella massa critica idonea a togliere il Vecchio Continente dall’attuale condizione di irrilevanza geopolitica. Ma questa necessità deve fare i conti ancora una volta con la maledetta Questione Tedesca.

Come ho altre volte scritto, la genesi dell’Unione europea ha due fondamentali, e alla lunga contraddittori, centri propulsori: uno fa capo alla necessità di mettere sotto stretto controllo la potenza sistemica tedesca, progetto che ha trovato il suo maggiore sostegno nella Francia, nell’Inghilterra e negli Stati Uniti; l’altro va individuato appunto nella necessità avvertita soprattutto dai Paesi europei di maggior peso politico-militare (Francia e Inghilterra) di non scivolare definitivamente nella più completa inconsistenza geopolitica, almeno là dove residua il loro retaggio coloniale. Soprattutto la Francia ha cercato di usare la potenza economica della Germania in questa chiave, che ben si armonizza con la famigerata, e sempre più insipida e annacquata, grandeur cucinata a Parigi.

L’atteggiamento dei francesi nei confronti dei “cugini” tedeschi è sempre stato (almeno dal 1870 in poi) piuttosto ambivalente, e per certi versi si può persino parlare di una sorta di amore-odio, di un’attrazione fatale respinta con tanta più sdegnata retorica nazionalista quanto più essa si è fatta forte e a volte irresistibile.

Nel 1946 George Orwell notava con la consueta cruda ironia: «In questo momento, con la Francia nuovamente liberata e con la caccia alle streghe verso i collaborazionisti in pieno corso, siamo inclini a dimenticare che, nel 1940, vari osservatori sul posto stimarono che circa il quaranta per cento della popolazione francese era o attivamente a favore dei tedeschi o completamente apatica» (Arthur Koestler).

Scrivevo su un post del 2013 (Francia e Germania ai ferri corti): Come ha dimostrato Robert Paxton nel suo studio sul regime di Vichy (Vichy, 1940-1944. Il regime del disonore, Il Saggiatore), l’impresa tedesca degli anni Quaranta «ebbe l’appoggio delle masse e la partecipazione delle élite francesi», perché esse videro nella Germania dell’epoca, «per quanto fosse malvagio il suo spirito», una via d’uscita da quella «Francia chiacchierona» che nascondeva la sua profonda crisi di sistema dietro una grandeur che ormai mostrava tutta la sua inconsistenza strutturale. Ai sogni di gloria, molti francesi preferirono il semplice ma concreto programma di Pétain: Travail, Famille, Patrie.

Alla fine degli anni Ottanta Willy Brandt ricordava (soprattutto per giustificare la tiepida «epurazione antinazista» del dopoguerra messa in opera dal suo Paese), come al suo ritorno in patria il generale De Gaulle si stupisse della gran massa di antinazisti che vi incontrò: «se avesse contato i francesi che erano stati contro Pétain, sarebbero stati più di quanti cittadini avesse il paese» (W. Brandt, Non siamo nati eroi, Editori Riuniti). Evidentemente al generale salvatore della patria i conti non tornavano.

Questo solo per ribadire quanto stucchevole e ingannevole sia l’attuale piagnisteo intorno all’Europa «gigante economico e nano politico». Una credibile e sostenibile Unione europea non può non avere la Germania come suo asse centrale portante: è intorno a questo dato di fatto, che i critici europeisti dell’egemonia tedesca fanno finta di non vedere, che si gioca la guerra sistemica in corso in Europa.

Come sempre il processo storico non dipende dal “gioco democratico” che oggi celebra il suo momento più significativo (e ideologico, nell’accezione più pregnante del concetto), ma dai rapporti di forza e dagli interessi in gioco. Il rito elettorale è funzionale a un processo sociale di respiro nazionale e internazionale che annulla gli elettori come soggetti politici e, soprattutto, come uomini.

imagesDa Facebook (26 maggio)

La natura economica della supremazia tedesca nel Vecchio Continente

Scrive Hans Kundnani (Esporto, dunque sono. Il ritorno del nazionalismo tedesco, Limes, 26 maggio 2014):

I quotidiani greci hanno paragonato più volte il cancelliere Angela Merkel ad Adolf Hitler; quando Merkel ha visitato Atene, nell’ottobre 2012, manifestanti hanno bruciato bandiere tedesche con sopra la svastica, hanno indossato uniformi naziste e mostrato striscioni con lo slogan «Hitler, Merkel – stessa merda».

Sempre nel 2012 il Corriere della Sera ha dichiarato che «l’Italia non è più in Europa, ora fa parte del Quarto Reich». Nel 2013 anche un editoriale dello spagnolo El País ha equiparato Merkel al Führer. Molti studiosi parlano del riemergere della «questione tedesca»: vi è un intenso dibattito circa il vero o presunto esercizio da parte di Berlino di un’egemonia sul Vecchio Continente e alcuni, come George Soros o Martin Wolf, intravedono addirittura l’emergere di una sorta di «impero» tedesco dentro l’Europa. Persino Anthony Giddens scrive che «la Germania sembra aver raggiunto con mezzi pacifici quanto non era riuscita a ottenere mediante la conquista militare: il dominio dell’Europa».

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Tra l’altro, a mio parare, ciò avvalora la tesi secondo la quale l’Imperialismo moderno è innanzitutto un fenomeno la cui genesi è radicata profondamente e “strutturalmente” nell’economia capitalistica. La potenza economica degli Stati Uniti fu alla base del loro successo nelle due guerre mondiali del XX secolo e nella cosiddetta “guerra fredda”. La potenza economica tedesca ha permesso alla Germania di ricomporre il suo spazio nazionale, spezzato violentemente nel 1945, senza sparare un solo colpo di cannone. “Sparare” merci, invenzioni e tecnologie è alla base di quel successo tedesco che tanta invidia procura soprattutto ai “cugini” francesi.

La “pacifica” prassi economica attesta insomma la straordinaria forza dell’Imperialismo del XXI secolo – ovviamente sto parlando anche della Cina e della Russia.

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