RIFLESSIONI AGOSTANE INTORNO AL BELLICOSO MONDO

isisScriveva con legittimo orgoglio Aldo Bolognini Cobianchi il 21 luglio (Il Giornale): «La collaborazione tra gli italiani e le forze armate del Libano è alla base della stabilità dell’area che viene presa a modello in tutto il resto del Libano. Nonostante l’escalation militare tra Israele e i palestinesi, la pace qui regge bene. I razzi lanciati pochi giorni fa sono un fatto isolato e anche Hamas, seppur dietro le quinte, è interessata a mantenere la calma in quest’area, tant’è che ha aiutato a scovare chi materialmente ha lanciato gli ordigni verso Israele. […] Sui Lince stanno già sistemando le mitragliatrici in ralla, altri soldati arrivano correndo con cassette di munizioni: uno, due, tre, in un attimo otto mezzi bianchi con le scritte UN sono pronti a partire. Altrettanto rapidamente arriva l’ordine e la colonna si avvia a velocità sostenuta nella notte. Tutto si è svolto, quasi in un attimo, senza confusione e con grande professionalità». Si rimane davvero ammirati dinanzi all’ordinata professionalità dei soldati italiani, i quali dal 2006 operano come «forza di interposizione ONU» tra gli israeliani ed Hezbollah, i miliziani libanesi sciiti foraggiati dall’Iran e dalla Siria. Un intervento militare a suo tempo molto ben considerato anche da una parte del pacifismo militante, che vi vide – è il caso di dirlo? – un corpo contundente da agitare sulla testa di Israele. È anche di queste “buone intenzioni” che si nutre l’italico imperialismo.

Ma si ha appena il tempo di ringraziare i bravi ragazzi e le brave ragazze del Genova Cavalleria per il loro coraggioso impegno “pacificatore” in un luogo particolarmente vivace, per così dire, del pianeta, che subito bisogna passare alle dolenti note: «Milizie dell’Isis si scontrano con l’esercito nell’enclave sunnita nel sud dominato da Hezbollah. I sunniti non si sentono protetti. E il fragile equilibrio libanese è a rischio, suscitando le ire e le accuse degli sciiti Hezbollah, che in Siria combattono apertamente al fianco delle truppe di Damasco. Uno stallo su cui Arabia Saudita e Iran stanno giocando l’ennesima lotta di potere e che rischia di far precipitare il fragile equilibrio sul quale si regge il Libano» (A. Milluzzi, Pagina 99, 6 agosto 2014). Con il Grande Califfato dei pii sunniti è meglio non scherzare: ci si può perdere la testa, e qui, come attesta la cronaca giornalistica corredata di foto oltremodo realistiche, non si tratta di metafora.

La prospettiva dei miliziani dell’Isis di espandere lo Stato Islamico in direzione del Levante chiama in causa direttamente quantomeno il territorio di Libano, Giordania, Palestina e Turchia meridionale. Per Teheran la distruzione di Hezbollah rappresenterebbe un colpo davvero duro, perché indebolirebbe l’asse sciita in un momento in cui il caos generale che investe il Medioriente (e non solo: vedi crisi ucraina) lascia aperte soluzioni che non contemplano compromessi accettabili per le parti in conflitto. Per essi si dà la possibilità di vincere tutto, o di perdere tutto, almeno per un lungo periodo.

«L’aggravarsi della crisi irachena ha spinto il governo iraniano a organizzare le proprie forze e intervenire. L’Iran ha già mandato in Iraq circa 500 uomini delle forze Quds, il suo più temibile corpo d’élite appartenente alla Guardia Rivoluzionarie (forza militare istituita dopo la rivoluzione del 1979), specializzato in missioni all’estero e già attivo da tempo in Iraq. Le forze Quds sono probabilmente il corpo militare più efficiente dell’intero Medioriente, molto diverse dal disorganizzato esercito iracheno che è scappato da Mosul per non affrontare l’avanzata dell’ISIS. Con l’intervento dell’Iran e di altre milizie sciite che fanno riferimento a potenti leader religiosi sciiti locali, è difficile pensare che l’ISIS possa avanzare ulteriormente verso Baghdad – che tra l’altro è una città a grandissima maggioranza sciita – mentre è più facile che provi a rafforzare il controllo sulle parti di territorio iracheno a prevalenza sunnita che è già riuscito a conquistare. I rischi di un massiccio intervento iraniano in Iraq ci sono eccome, comunque (E. Zacchetti, Il Post, 19 luglio 2014).

isis-579979Non è un mistero per nessuno che l’Isis, una “scheggia impazzita” cresciuta nella galassia alqaedista,  sia stato foraggiato per anni dall’Arabia Saudita per colpire il regime siriano e i suoi alleati iraniani, e che gli Stati Uniti e la Comunità Europea abbiano lasciato fare il lavoro sporco ai futuri nemici convinti, come sempre, di poter controllare l’incendio orientandolo a loro piacimento. Salvo scottarsi, come è successo in Afghanistan e in Iraq. Oggi Stati Uniti e Iran sono costretti a marciare insieme contro un comune nemico strategico, e questo, detto di passata, non può non mettere in allarme Israele, che già si è visto rifiutare dagli amici americani un importante rifornimento di missili dopo gli “eccessi” di Gaza. Questo per dire quanto complessa sia la matassa della contesa interimperialistica.

La settimana scorsa l’ex Ministro degli Esteri Emma Bonino ha offerto un’analisi della situazione geopolitica del Medio Oriente di un certo interesse: «Dal risveglio arabo del 2011 è in corso una lotta all’ultimo sangue all’interno della comunità sunnita, e cioè da una parte tra Turchia e Qatar sostenitori dei Fratelli musulmani, e quindi di Hamas, Morsi, Ennahda, e dall’altra Arabia Saudita ed Emirati Arabi sostenitori dei salafiti. È in palio la predominanza geopolitica e geostrategica dell’intera regione, Libia compresa. Ma a questo conflitto mortale si aggiunge a quello tradizionale tra sunniti e sciiti, e dunque con l’Iran, che come vediamo ha come teatri l’Iraq e la Siria, e per completare il quadro è in corso una guerra di successione all’interno della famiglia Saud. Nel caso dell’Egitto o della Libia lo scontro è dunque intra-sunnita. In Siria, Iraq e Libano invece vi è un intreccio tra le due dimensioni che rende lo scontro ancora più acuto, e inefficaci i tentativi di mediazione come gli “Amici della Siria”. Ma il vero nodo è che questi “nuovi” attori regionali come Qatar, Turchia, Arabia Saudita, Emirati, dispongono di una potenza finanziaria e mediatica senza precedenti. Oggi, l’unica superiorità occidentale rimane quella militare, che è stata a volte, come nel 2003, malamente usata. E quei Paesi si muovono anche senza nessuna attenzione al diritto internazionale e umanitario» (La Stampa, 10 agosto 2014). Sul «diritto internazionale e umanitario» è meglio stendere un pietosissimo velo.

Ecco intanto la notizia del giorno: «I curdi, appoggiati dai raid americani, hanno riconquistato la diga di Mosul, la più grande in Iraq, strappandola ai jihadisti dell’Isis. Lo hanno annunciato funzionari curdi. La diga, a nord di Mosul, fornisce l’acqua e l’elettricità alla maggior parte della regione nel nord dell’Iraq, indispensabile per l’irrigazione dei campi nella provincia di Ninive. Attorno alla diga, conquistata dall’Isis dieci giorni fa, si è sviluppata una battaglia tra jihadisti e curdi, sostenuti dai ripetuti raid americani con caccia e droni, oltre 20 tra ieri ed oggi» (ANSA). Inutile dire che il Pentagono si è affrettato a ribadire la natura «strettamente umanitaria» dell’intervento militare USA in Iraq. Riuscirà Obama a vincere la resistenza dell’Isis facendo l’economia delle sue truppe di terra? Lo vedremo fra qualche giorno, o settimana.

obama-drone-vignetta-579899Il conflitto in corso prende l’aspetto confessionale ed etnico ma la sua radice è squisitamente economico-sociale, come sempre e dappertutto del resto. L’elemento religioso e/o etnico della contesa, che naturalmente esiste e che sarebbe sciocco negare, offre agli interessi materiali dei diversi Stati e strati sociali il necessario collante politico-ideologico senza il quale questi interessi non potrebbero radicarsi in profondità né espandersi nello spazio e nel tempo. Come diceva qualcuno, l’ideologia è essa stessa una forza materiale al servizio di peculiari interessi nazionali e di classe. Si tratta piuttosto di afferrare questi ultimi seguendo anche le complesse mediazioni che si diramano dalla cosiddetta sovrastruttura. Chi leggesse la cosiddetta Primavera Araba a partire dalla coscienza che di essa hanno avuto i suoi protagonisti politici e sociali, capirebbe ben poco di ciò che veramente quella stagione mediorientale significò, e che in larga misura, mutatis mutandis, continua a rappresentare, perché le cause sistemiche che la generarono sono tutt’altro che scomparse. Si sono rafforzate, piuttosto. Il processo sociale (alcuni parlano di globalizzazione capitalistica) che ha minato i vecchi equilibri politici e sociali del Medio Oriente e dell’Africa alimenta sempre di nuovo tensioni d’ogni genere (comprese quelle rubricate come religiose, etniche, razziali, ecc.), conflitti sociali e guerre (ultrareazionarie, ça va sans dire) che hanno l’obiettivo di conquistare o difendere potere economico e/o politico.

Ancor meno capirebbe chi si approcciasse alla «Primavera Araba» sulla scorta delle analisi offerte al mondo in questi anni dai teorici della “rivoluzione permanente”, ossia dagli intellettuali basati in Occidente che vedono “rivoluzioni” un po’ dappertutto, non appena una qualsiasi piazza del bellicoso pianeta si riempie di gente che urla la propria insofferenza nei confronti di una condizione sociale sempre più disumana e incomprensibile.

imagesQI8T6Y6ATutti i fautori dell’intervento “umanitario” nel conflitto iracheno, alcuni dei quali propugnano apertamente una Crociata 2.0 sotto il misericordioso vessillo di Papa Francesco, sostengono che bisogna acquisire la capacità di distinguere tra aggressori e aggrediti. Come sempre accade nei momenti critici questa “capacità” deve tuttavia fare i conti con la prospettiva dalla quale si osserva il conflitto. La stessa cosa vale per la definizione di “terrorista”: chi stabilisce la natura terroristica di un soggetto che legittima e pratica la violenza per conseguire obiettivi politici? Ad esempio, il Partito-Stato cinese definisce terroristi – ma anche «teppisti» – della peggiore specie gli Uiguri (un’etnia minoritaria turcofona e islamica, concentrata principalmente nella regione semi-desertica dello Xinjiang, nel nord-ovest del Paese, dove costituiscono la maggioranza relativa regionale) che si battano per l’indipendenza dal Celeste Imperialismo. Viste però dalla Turchia, le sempre più numerose e violente azioni armate degli Uiguri appaiono come necessari momenti di una coraggiosa resistenza al processo di progressivo annientamento etnico e culturale della minoranza turcofona voluto da Pechino a esclusivo vantaggio dei «cinesi puri» (Han).

Come altre volte ho scritto, dalla mia prospettiva gli aggressori e i terroristi sono tutti i soggetti (Stati, nazioni, organismi internazionali tipo ONU, organizzazioni politico-militari nazionali e sovranazionali più o meno informali,  organizzazioni cosiddette non governative, e via di seguito) che in vario modo e a diverso titolo difendono lo status quo sociale del pianeta, magari attraverso il sovvertimento del suo status quo geopolitico e geoeconomico. Come si vede, non mi servo delle categorie offerte dal Diritto (borghese) per definire la natura dei miei nemici.

A molti miei interlocutori rigorosamente “antimperialisti”, quelli che amo rubricare come mosche cocchiere, sfugge l’abissale differenza che corre, soprattutto nell’attuale epoca di dominio planetario e totalitario (oserei dire terroristico) dei rapporti sociali capitalistici, fra il concetto di status quo sociale e quello di status quo geopolitico, e così essi affettano di lanciare solidi ponti politico-concettuali fra le opposte sponde dell’abisso che esistono solo nella loro testa. Se le mosche cocchiere avessero avuto ragione contro i «”rivoluzionari” che non vogliono sporcarsi le mani col mondo reale», saremmo già da un pezzo nel migliore dei mondi possibili, magari in guisa “sovietica”, o “comunarda” – qui alludo al Grande Timoniere cinese, non a quello padovano che di nome fa Antonio. I realisti hanno bensì avuto ragione, ma come inconsapevoli strumenti del processo sociale capitalistico.

imagesUn esempio di politica estera tesa a prefigurare un radicale cambiamento negli assetti geopolitici del mondo l’ha offerto ultimamente il pentastellato Alessandro Di Battista, preso di mira da gran parte del carrozzone politico e dei media per le sue “scandalose” (in realtà semplicemente realistiche, a tratti perfino banali, nonché informate da quell’antiamericanismo che in Italia ha sempre trovato un certo riscontro, a “destra” come a “sinistra”) dichiarazioni a proposito del terrorista che non va sconfitto «mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore». Scrive l’amico del giaguaro, pardon, del Grillo: «L’Isis avanza, conquista città importanti e minaccia migliaia di cristiani. È evidente che la comunità internazionale e l’Italia debbano prendere una posizione. Innanzitutto occorre mettere in discussione, una volta per tutte, la leadership nordamericana. Gli Usa non ne hanno azzeccata una in Medio Oriente. Hanno portato morte, instabilità e povertà. L’Italia, ora che ne ha le possibilità, dovrebbe spingere affinché la Ue promuova una conferenza di pace mondiale sul Medio Oriente alla quale partecipino i paesi dell’Alba, della Lega araba, l’Iran, inserito stupidamente da Bush nell’asse del male e soprattutto la Russia un attore fondamentale che l’Ue intende delegittimare andando contro i propri interessi per obbedire a Washington e sottoscrivere il Ttip il prima possibile. Essere alleati degli Usa non significa essere sudditi. L’Italia dovrebbe porre all’attenzione della comunità internazionale un problema che va risolto una volta per tutte: i confini degli stati. Non sta scritto da nessuna parta che popolazioni diverse debbano vivere sotto la stessa bandiera».

Diciamo pure che le mappe geopolitiche del pianeta non sono mai scritte in modo definitivo. Stavo per dimenticare la cosa più importante della faccenda, almeno dal mio punto di vista: è con il sudore (leggi sfruttamento) e con il sangue degli individui, soprattutto di quelli che hanno la ventura di sopravvivere negli affollati piani bassi dell’edificio sociale, che il Potere scrive la storia del mondo, con allegate mappe geopolitiche. Terrorista, nell’accezione politica e filosofica più pregnante del concetto, è il Dominio sociale che molte persone vorrebbero rendere migliore attraverso robuste iniezioni di etica.

Solo per amore di polemicuccia agostana un sincero sovranista tricolore è stato fatto passare dai soliti «giornaloni servi dei poteri forti» per amico del terrorismo internazionale. Se fossi un pentastellato, e non un disfattista antisovranista non suscettibile di “elevazioni diplomatiche” di sorta quale invece mi onoro di essere, mi indignerei, e “di brutto”. Se!

8 pensieri su “RIFLESSIONI AGOSTANE INTORNO AL BELLICOSO MONDO

  1. Il tuo punto di vista di classe ha un orizzonte piuttosto limitato. Terroristi saranno pure tutti i movimenti politici che contestano il monopolio della violenza con la violenza stessa, però qui distinguerei movimento politici borghesi o fascisti. I primi usano la violenza come mezzo per ricavarne vantaggi economici e/o politici. Il fascismo – come i tagliatesta dell’ISIS – ne fanno un fine a sé stesso. Quali sono gli obiettivi dei integralisti islamici quando tagliano le teste alla popolazione yazida? Cosa vogliono i ragazzi europei che partono dall’Europa per la Siria e per l’Iraq per fare lo jihad? Che funzionalità hanno per il capitale? Per quanto brutti ne erano, ma i “vecchi” movimento di liberazione nazionale si fermavano con la loro violenza terrorista quando avevano conquistato gli apparati dello stato e diventavano loro stessi “Stato”. Ma i jihadisti stessi dicono di non voler liberare uno Stato, ma l’intero mondo.
    Questo dovrebbe entrare nelle riflessioni quando si giudica sul terrorismo come difensore dello status quo sociale.

    • Sui limiti del mio «punto di vista di classe» sfondi una porta aperta: sono il primo a riconoscerli, e difatti non smetto di studiare e di confrontarmi con la realtà, che è fatta anche di critiche, più o meno fondate, alle mie posizioni. Detto questo, per amor di verità e non per sottigliezza diplomatica, debbo dire che non mi riconosco nel determinismo economico a cui cerchi di ricondurre la mia concezione. Ho scritto in risposta a un altro interlocutore: «La mia tesi è che tutto, compreso ciò che troppo spesso riconduciamo a una “natura umana” declinata in termini metafisici, si dà attraverso la mediazione dei rapporti sociali». Cogliere questa mediazione, che in pratica sostanzia ciò che alcuni definiscono un po’ troppo sbrigativamente (volgarmente?) «sovrastruttura», non è facile, e comunque questo sforzo che è insieme teorico e politico costituisce la sfida che un pensiero che aspira alla critica radicale dell’esistente deve cogliere.

      Adesso aggiungo che non bisogna sottovalutare, in questo sforzo di comprensione della dialettica sociale, il millenario retaggio storico che sta alle spalle della società capitalista; una storia fatta anche (soprattutto?) di sfruttamento, di dominio di classe, di pregiudizi, di violenze d’ogni sorta e quant’altro. La civiltà borghese ha ereditato molto di questo maligno retaggio, e in ciò risiede il fallimento storico del programma illuminista, il quale prospettava l’instaurazione dell’umana razionalità dentro la dimensione del dominio di classe. Come la storia lontana e recente dimostra, la vigente società ha dato agli “atavici” pregiudizi (ad esempio contro gli ebrei, contro gli “infedeli” di turno, contro le “persone di colore”, contro le donne, contro gli omosessuali, ecc., ecc.) strumenti di offesa capaci di portare il dantesco inferno al centro della Civiltà borghese. Inutile dire che, sotto questo aspetto, la Germania nazista si offre ai nostri sguardi come l’esempio paradigmatico. Ma, anche qui, il retaggio culturale, ideologico e psicologico (altri direbbero antropologico) deve fare i conti con il processo sociale del presente, ed è per questo che invito – in primis il mio pensiero – a non appagarsi di ciò che passa l’apparenza. Il vecchio è al servizio delle contraddizioni sociali generate sempre di nuovo dall’attualità capitalistica.

      Quando le barbe islamiche inveiscono contro il «demoniaco stile di vita occidentale», a cominciare dall’odiosa “emancipazione” femminile, esse agiscono per conto di interessi sociali minacciati dalla cosiddetta globalizzazione capitalistica, oppure come strumenti al servizio di chi le ha foraggiate (vedi, nella fattispecie, Arabia Saudita, o gli Stati Uniti ai tempi della Guerra Santa contro l’Imperialismo Sovietico in Afghanistan), salvo poi trovare ulteriori insospettate funzioni. Probabilmente i pii miliziani “di base” del Grande Califfato non lo sanno, ma lo fanno. Allah è gettato in una mischia la cui posta in gioco è come sempre il Potere (qui in una accezione profondamente critico-sociale, non sociologica né, tanto meno, politologica). Sotto questo aspetto, si sbaglia chi sottovaluta le capacità “imprenditoriali” dell’Isis*. Né bisogna sottovalutare la prassi del terrore più spietato e – apparentemente – “gratuito” in una strategia volta a conseguire obiettivi del tutto “razionali”. Anche su questo punto gli esempi storici (vedi, ad esempio, Seconda guerra mondiale) si sprecano.

      Il disagio sociale dei «ragazzi europei che partono dall’Europa per la Siria e per l’Iraq per fare lo jihad» si alimenta di contraddizioni squisitamente capitalistiche. Come sanno benissimo i demagoghi e i populisti d’ogni tempo, il disagio, la frustrazione e la disperazione prendono come arma e come pensiero razionalizzante (dare un senso a ciò che ci accade) quello che trovano più facilmente a portata di mano, e non c’è dubbio che, falliti i miti del “socialismo arabo” e chiusasi per sempre in Medio Oriente la stagione del “nazionalismo progressivo”, per migliaia di giovani europei della seconda e terza generazione di immigrati il mito della Guerra Santa si presenta con un volto molto affascinante. La ricerca del capro espiatorio adempie ancora benissimo il suo maligno ufficio.

      Ma per apprezzare la cosa nella sua essenza, bisogna abbandonare l’approccio razionalistico-illuminista che dà per scontata la superiorità dei cosiddetti valori occidentali, e mettersi sulla strada dell’analisi profonda dei processi sociali, i quali si danno in una dimensione che è irrazionale (disumana) alla radice.

      Dal mio punto di vista è fondamentale mettere nel cono di luce la complessa dinamica, o dialettica sociale, che ho cercato di evocare abbastanza frettolosamente. Il pensiero non deve arrestarsi dinanzi a una fenomenologia sociale che ci spinge al disgusto e all’orrore, ma non alla comprensione dei fatti. E siccome la dinamica è, appunto, complessa, è assai probabile che il mio «limitato punto di vista di classe» non riesca sempre, o mai, nello sforzo. Per questo ti ringrazio per la critica che hai voluto offrirmi. Ciao!

      * «A differenza di altri gruppi islamisti che combattono in Siria, l’ISIS non dipende per la sua sopravvivenza da aiuti di paesi stranieri, perché nel territorio che controlla di fatto ha istituito un mini-stato che è grande approssimativamente come il Belgio: ha organizzato una raccolta di soldi che può essere paragonata al pagamento delle tasse; ha cominciato a vendere l’elettricità al governo siriano a cui aveva precedentemente conquistato le centrali elettriche; e ha messo in piedi un sistema per esportare il petrolio siriano conquistato durante le offensive militari. I soldi raccolti li usa, tra le altre cose, per gli stipendi dei suoi miliziani, che sono meglio pagati dei ribelli siriani moderati o dei militari professionisti, sia iracheni che siriani: questo gli permette di beneficiare di una migliore coesione interna rispetto a qualsiasi suo nemico statale o non-statale che sia. Come mostra una mappa risalente al 2006 trovata da Aaron Zelin, ricercatore al Washington Institute for Near East Policy, non si può dire che l’ISIS sia privo di una strategia economica precisa: già diversi anni fa aveva pensato a come sfruttare i giacimenti petroliferi per sostenersi finanziariamente (E. Zacchetti, Il post, 19 luglio 2014).
      Scrive Charlie Cooper, ricercatore alla Quilliam Foundation di Londra, think tank internazionale specializzato in terrorismo:
      «L’egemonia dell’Isis è estremamente preoccupante. Negli ultimi tempi questo gruppo è riuscito ad assicurarsi un immenso arsenale e un notevole potere finanziario così come un vasto territorio. Questo significa che abbiamo a che fare più con uno Stato di riferimento che con un gruppo terroristico. L’Isis è andato molto oltre rispetto a quello che ha rappresentato al Qaida anche nei suoi periodi di maggior forza. È molto più potente ed influente. In questi giorni si sentono spesso due definizioni dell’Isis: “collegato ad al Qaida” e “affiliato ad al Qaida”, sono ingannevoli , bisogna andare oltre» (Il Secolo XIX, 22 giugno 2014).

      • Ciao Sebastiano. Ammiro molto la tua pazienza e la tua comprensione che ti portano a rispondere a commenti come questi. Sei un grande!

  2. Porello Marx: si è dato tanto da fare per farci riconoscere un borghese anche quando indossa un turbante ma…niente da fare!
    assicurarsi il controllo delle anime non è altra cosa dall assicurarsi il controllo della produzione della ricchezza sociale

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