IL REALISMO STORICO E POLITICO DI ENRICO BERLINGUER

Luigi Berlinguer e Aldo MoroSecondo Fabio Vander, la storia del Pci, da Togliatti a Berlinguer, da Natta a Occhetto, fu parte integrante di quel moderatismo italiano, così incline all’arte del compromesso e alla politica trasformista, che da Cavour in poi rappresenta il vizio d’origine e la malattia della democrazia italiana. Una tesi che, sebbene da un punto di vista completamente diverso (direi opposto), mi sento in gran parte di condividere.

Il Pci, da Togliatti a Occhetto, non solo non fu mai un partito antiborghese, come da sempre sostiene – senza successo, mi duole riconoscerlo – chi scrive, ma non fu nemmeno un partito borghese “avanzato”, qualsiasi questo termine possa significare alle orecchie dell’intellettuale progressista. L’Occidente capitalisticamente sviluppato ha conosciuto partiti borghesi autenticamente riformisti e partiti borghesi autenticamente radicali; il Pci non fu mai né l’una n’è, tanto meno, l’altra cosa, o lo fu, tanto per essere anche noi inclini al compromesso, all’italiana, nell’accezione fortemente negativa che questa qualifica ha avuto e continua ad avere nel nostro Paese e all’estero.

Per molti versi, si può dunque applicare al Pci il concetto di «egemonia debole» sviluppato da Gramsci nei noti Quaderni per dar conto della debolezza ideologica e strutturale della borghesia italiana post-risorgimentale.

Ma veniamo a Vander, e alla sua interessante Introduzione al breve saggio di Enrico Berlinguer (si tratta di tre articoli scritti dal leader sassarese nel 1973, dopo il golpe militare in Cile) Per un nuovo grande compromesso storico (Castelvecchi, 2014): «Indubbiamente la continuità che Berlinguer rilancia fra il 1972 e il 1973, era quella con la politica di Togliatti. […] Fra “svolta di Salerno” del ’44 e “Compromesso Storico” c’è una linea retta. Una condivisione di cultura politica, di lettura dei processi di democratizzazione, di concezione della rivoluzione in Occidente e segnatamente in Italia». Condivido in linea generale la tesi della continuità e della condivisione; contesto invece il fatto che il Pci avesse un problema di lettura circa «la rivoluzione in Occidente e segnatamente in Italia», al di là delle solite fumisterie ideologiche e fraseologiche che potevano intrigare e/o ingannare solo degli intellettuali avvezzi all’italico amore per le frasi roboanti quanto prive di significato reale (inclinazione “parolaia” e “massimalista” già bastonato dal “tedesco” Antonio Labriola).

Ma andiamo avanti: «Una condivisione esiziale. Esiziale nel senso che implica una concezione della democrazia, del ruolo del Pci e della sinistra, che rimane tutta interna al vizio di fondo del nostro sistema politico. Vizio storico, ultracentenario, tale per cui mai c’è stata in Italia alternanza fra coalizioni e progetti politici distinti, ma sempre è stata necessaria la convergenza centrista per difendere una democrazia “imperfetta”, “debole”, “incompiuta”, ecc. Con questa storia si è andati avanti per oltre un secolo, da Cavour a Berlinguer (e Moro)» (p. 8). Naturalmente bisogna cogliere la differenza di epoca storica fra l’Italia di Cavour, che comunque attraversava un processo di rivolgimento sociale, sebbene gestito dall’alto e caratterizzato dalle tradizionali cautele antirivoluzionarie e dalle famigerate politiche compromissorie (a partire da quelle espresse dall’alleanza strategica tra grande capitale industriale del Nord e latifondismo meridionale), e l’Italia di Berlinguer e di Moro, un Paese da tempo inserito nel grande gioco capitalistico e imperialistico.

imageCon la scusa di «non spaccare in due il paese», di «non determinare la divisione verticale del paese» che avrebbe avvantaggiato solo «le forze reazionarie», il Pci di Berlinguer portò avanti una politica di moderazione a tutto campo: dalla politica economica, tesa a non intaccare più di tanto né gli equilibri fra le diverse fazioni del capitalismo italiano né, tanto meno, la struttura largamente parassitaria della società italiana, alla politica dei «diritti civili» (diritto di famiglia, divorzio, aborto, ecc.), e questo soprattutto per non urtare la suscettibilità dei colleghi democristiani e del Vaticano. Nel 1973, in piena crisi economica, Luciano Barca difese (su Rinascita) la moderatissima linea economica dei “comunisti”, che sosteneva la necessità di un certo compromesso fra rendita e profitto in modo da «ridurre il settore improduttivo» senza tuttavia ricorrere a «soluzioni punitive», tirando in ballo il solito spauracchio fascista: non bisogna creare, scrisse il responsabile economico del Pci, «un clima favorevole per le provocazioni fasciste». Quello di non provocare la reazione fascista con atteggiamenti «inutilmente radicali» è un mantra che il Pci, da Togliatti in poi, ha ripetuto fino all’ossessione, naturalmente non per sabotare o esorcizzare una rivoluzione sociale cui esso nemmeno pensava lontanamente, ma per imbrigliare le forze riformiste e “moderniste” (ad esempio, quelle che guarderanno con simpatia al PSI di Craxi) che nascevano nel suo seno.

Più che su una profonda ristrutturazione capitalistica in grado di rendere più moderne, efficienti e produttive le aziende italiane, per uscire dalla crisi economica il Pci puntò sulla svalutazione della lira e sulla moderazione salariale, e qui naturalmente la CGIL di Lama ebbe un ruolo molto importante. Alla fine la moderazione “comunista” e il “liberismo” confindustriale raggiunsero un compromesso, che lasciò praticamente immutate le magagne strutturali del capitalismo italiano e che venne in parte superato negli anni Ottanti dal “decisionismo” craxiano.

Ritorniamo a Vander: «Berlinguer tentò di accreditare la sua strategia [di “compromesso storico”] con la scusa (letteralmente) del golpe fascista che aveva rovesciato nel settembre 1973 il governo legittimo del socialista Allende)» (p. 9). Come ricorda Vander, il leader “comunista” si servì dei fatti cileni, che non avevano nessun rapporto con la situazione italiana («Il Cile, a rigore, c’entra poco»), per criminalizzare (letteralmente) la cosiddetta politica dell’alternativa, considerata evidentemente dal gruppo dirigente del Pci “troppo spinta” e quindi tale da offrire pretesti alle solite forze della reazione, sempre pronte a sbarrare la strada a chi si fosse messo sulla (mitica) «via italiana al socialismo».

Ben presto anche le Brigate Rosse saranno arruolate dal partito delle Botteghe Oscure nell’esercito delle «forze reazionarie», tanto più per il fatto che l’impianto ideologico del “terrorismo rosso” aveva molto in comune con quello del Pci: stalinismo (soprattutto nella sua variante cinese e chevarista) e resistenzialismo (secondo lo schema della «Resistenza tradita» elaborato nella “sinistra comunista”). I “quadri” del Pci e della CGIL dovettero faticare molto per far comprendere a una parte della base militante del partito e del sindacato “rosso” che le Brigate Rosse non erano costituite da «compagni che sbagliano», bensì da oggettivi fiancheggiatori del fascismo. Punto.

Quello di accampare scuse per legittimare una linea politica è tipico di Berlinguer: se il golpe cileno del 1973 doveva provare la giustezza del “compromesso storico” (naufragato definitivamente con l’uccisione di Moro), i ritardi nei soccorsi e gli scandali innescati dal terremoto in Irpinia del 1980 dovevano testimoniare a favore della “questione morale”. «Quello che nei primi anni Ottanta cerca una via d’uscita, è un uomo consapevole del fallimento del progetto della sua vita, anche se letteralmente impossibilitato a pensarne un altro. È il problema della “questione morale” che Berlinguer individuò come fulcro della nuova strategia» (p. 19).  Altro che «questione morale come alternativa etica al discorso del capitalista», come scrive (forse abusando fino al ridicolo del linguaggio lacaniano) lo psicoanalista di successo Massimo Recalcati! Berlinguer avrà pure «storicamente vinto su Deleuze», per dirla sempre con il berlingueriano senza se e senza ma Recalcati, ma certamente egli ha «storicamente» perso il confronto con Andreotti e Craxi, la cui iniziativa politica costrinse all’angolo il Pci, ormai incapace di «uscire dal guado» di una strategia sempre più ambigua: metà filosovietica e terzomondista («sostegno ai popoli che lottano contro l’imperialismo con l’aiuto fraterno dei paesi socialisti») e metà filoatlantica («riconosciamo la collocazione internazionale dell’Italia e la necessità dell’ombrello atlantico»), in parte tesa a conseguire il vecchio obiettivo del “compromesso storico” e in parte orientata verso “l’alternativa di sinistra” – beninteso di stampo moderato, per evitare di lanciare pericolosi segnali “avventuristici” alle forze sempre in agguato della reazione…

berlinguer-forattiniRicordo con piacere le gustose vignette di Forattini che caricaturavano un segretario del Pci indeciso a tutto e “antropologicamente” vocato alla quiete del salotto borghese. Per non parlare delle spassosissime imitazioni di Alighiero Noschese. Ma basta con i ricordi nostalgici!

«Nonostante gli sforzi di Berlinguer, una compiuta teoria dell’alternativa nel corso della sua lunga esperienza politica non ci fu mai. Per questo la denuncia morale, risolvendosi nella formula per altro ambigua del governo degli onesti, prese presto le tinte di un moralismo, di una “diversità” senza sbocco politico. […] Del resto Berlinguer, nel corso della stessa conferenza stampa in cui annunciò la svolta [dal “compromesso storico” alla “questione morale”], affermò chiaramente che il Pci restava comunque contrario ad ogni forma di “alternativa di sinistra”, la nuova proposta volendo essere “una prospettiva di governo anche con chi non è di sinistra e tuttavia è fedele alla Costituzione”» (p. 20). Giorgio Napolitano a più riprese, anche recentemente, ha confermato la tesi secondo la quale dopo l’abbandono del “compromesso storico” il Pci sarebbe in sostanza rimasto «privo di una strategia, né l’avrebbe ritrovata col cambiamento di parola d’ordine del 1980». In buona sostanza, il Pci non riuscì a tirarsi fuori dalla strategia del “compromesso storico” elaborata da Togliatti già prima della “svolta di Salerno”.

«La morte politica del Pci data a ben prima del 1989. Il crollo del Muro di Berlino fu una liberazione. Liberazione per il resto del mondo, non per l’Italia però. Nel senso che in Italia ci si liberò dal comunismo senza liberarsi dal comunismo italiano» (p. 21). Qui con «comunismo italiano» Vander intende certamente riferirsi al carattere moderato, trasformista e avvezzo al compromesso che la sinistra italiana post “comunista” ha continuato ad avere anche dopo la svolta decisa dal gruppo dirigente del Pci dopo il massacro di piazza Tienanmen. In questo senso D’Alema ha potuto legittimamente affettare fino a poco tempo fa pose togliattiane e deridere l’”americanismo” d’accatto di Veltroni.

«E poiché la storia si ripete, prima in tragedia e poi in farsa, dopo Moro e Berlinguer oggi c’è Matteo Renzi» (p. 25). Più che una farsa, a me sembra una perfetta sintesi – o “compromesso storico”?

Scrivevo su un post del dicembre 2013: «Macaluso ha ragione quando sostiene che il Pci non è morto con Renzi: “Il Pci non esiste più dal 1991, quando fu travolto dalle macerie del Muro crollato due anni prima”. Il Partito Comunista d’Italia nato a Livorno nel ’21 per promuovere la rivoluzione sociale in Italia (e non per «fare avanzare la democrazia» o per «costruire equilibri sociali più avanzati») morì invece con la sua stalinizzazione iniziata “diplomaticamente” da Gramsci nel ’24 e continuata con mezzi più sbrigativi dall’erculeo Palmiro Togliatti» (Renzi e Togliatti). Il fatto che oggi si celebri la «caduta del Muro di Livorno» per via elettorale, e si ricordi con molta enfasi che Livorno è «la città che ha visto nascere il Pci», come se questo evento avesse qualcosa a che vedere con l’attualità, ebbene tutto ciò la dice lunga sul concetto di “comunismo” passato alla storia grazie alla versione italiana dello stalinismo (a partire dal Togliatti dei «fratelli in camicia nera») e sul miserrimo senso storico di Miserabilandia.

Gli articoli di Berlinguer pubblicati alla fine del ’73 su Rinascita, la rivista teorica del Pci fondata da Togliatti, sono un vero e proprio saggio di togliattismo in salsa berlingueriana. Si inveisce contro l’imperialismo americano, sostenitore del golpe militare cileno, si esalta la lotta di liberazione dei popoli oppressi (vedi «l’eroica esperienza cubana e vietnamita») e l’appoggio che essi ricevono dai «paesi socialisti», si citano – ovviamente del tutto a sproposito – le parole di Lenin sulla strategia della ritirata («Bisogna comprendere che non si può vincere senza aver appreso la scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata»), gli accordi di Brest-Litovsk del 1918 e la Nuova Politica Economica del ‘21: tutta questa fuffa ideologica, che tanto piaceva all’intellettuale “organico” che amava passeggiare con L’Unità e Rinascita sotto braccio, doveva veicolare  il tradizionale realismo dei “comunisti italiani”, ossia la richiesta alla Democrazia Cristiana di un governo dei responsabili.

«Si tratta di agire – scriveva Berlinguer riferendosi alla DC – perché pesino sempre più, fino a prevalere, le tendenze che, con realismo storico e politico, riconoscono la necessità e la maturità di un dialogo costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari. [Occorre] battere le forze reazionarie, aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico» (p. 88). Chi allora affermava la necessità e la possibilità di una secca «alternativa di sinistra» (cioè un governo PCI-PSI magari allargato alla “sinistra” dei partiti laici) si proponeva, secondo l’Onesto Enrico, «qualcosa di assurdo, di velleitario, di antitetico» alla grande strategia chiamata via italiana al socialismo. Capite adesso perché parlo tanto male del «realismo storico e politico» del Pci?

Leggi anche La questione non è “morale” ma “strutturale”. Ovvero: eccheppalle!

 

9 pensieri su “IL REALISMO STORICO E POLITICO DI ENRICO BERLINGUER

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  2. Da Facebook:

    PER FAVORE, NON BANALIZZIAMO BERLINGUER!

    La “comunista” Luciana Castellina invita oggi dalle pagine del Manifesto a non banalizzare la figura umana e politica di Enrico Berlinguer, operazione che lei vede in atto da alcuni mesi attraverso «l’amplissimo florilegio di pubblicazioni» dedicate appunto alla memoria del leader sassarese scomparso trent’anni fa.

    Pubblicazioni «che suscitano, come è giusto e naturale, grandi emozioni e nostalgie — soprattutto quando si rivedono le immagini struggenti del dolore profondo e sin-cero di un intero popolo al suo funerale — ma non contribuiscano affatto a chiarire il profilo politico di Berlinguer. Un giovane nato negli ultimi decenni potrà desumerne che si trattava solo di un uomo onesto capace di suscitare affetto e consenso. Certo non è poco di questi tempi, ma pochissimo per far capire davvero chi era».

    Nel mio piccolissimo ho cercato di dare un contributo al chiarimento del «profilo politico di Berlinguer», sebbene da una prospettiva politica e “dottrinaria” che nulla a che fare ha con la tradizione del cosiddetto “comunismo italiano”, che ho sempre “declinato” nei termini di una variante nazionale dello stalinismo internazionale. (D’altra parte, la «via nazionale al socialismo» è la tesi centrale di quella teoria della «costruzione del socialismo in un solo Paese» che a ragione viene indicata dagli storici della Russia sovietica come l’architrave dell’ideologia stalinista). Il post pubblicato ieri sul blog credo lo dimostri.

    IL REALISMO STORICO E POLITICO DI ENRICO BERLINGUER

    Scrive Luciana Castellini: «Delle frasi pronunciate in quegli ultimi anni da Enrico vorrei ricordarne soprattutto una, che oggi mi pare essenziale: “Non c’è fantasia, invenzione o rinnovamento, se si smantella quello che vi è alle spalle”». Credo che la frase berlingueriana, non a caso ricordata dalla storica “manifestina” oggi impegnata a contrastare il “renzismo che avanza” (per il “comunismo italiano” c’è sempre qualcosa da contrastare PRIMA di “fare la rivoluzione”: il servilismo filoamericano di De Gasperi, il fascismo fanfaniano, l’andreottismo, il craxismo, il berlusconismo) ben si amalgama con la tesi del Pci come partito borghese moderato (conservatore) sostenuta nel mio post, per altro sulla scorta delle interessanti argomentazioni di Fabio Vander (vedi Per un nuovo grande compromesso storico, Castelvecchi, 2014).

    «Per finire, la memoria di una battuta di Lucio Magri: “Pensate la sfiga dei comunisti, muoiono tutti – Gramsci, Togliatti, Berlinguer, Andropov – proprio quando diventano più intelligenti”». Ora, non essendo io né intelligente né, tantomeno, “comunista”, questo fa di me una persona teoricamente immortale?

    Se non vuoi banalizzare il profilo politico di Berlinguer, leggi anche:

    Berlinguer, il tristo profeta dei sacrifici

    BERLINGUER, IL TRISTO PROFETA DEI SACRIFICI

    Sognando Berlinguer. Massimo Recalcati e i «falsi miti edonistici del capitalismo».

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