IO NON HO PAURA – DEL ROBOT

bambola905-675x905Tu non sei padrone tu non sei più re.
Tu non sei padrone tu non comandi più.
Prima eri tu a far girare il mondo, ora
invece è un pezzo di metallo.
Hai creduto nei libri della storia, hai
creduto che il progresso fosse questo.
Ma tu non sei padrone, tu non sei più re.
Tu non sei padrone, tu non comandi più.

A un anno dalla morte di Sergio Ricossa, «economista accademico, raffinato saggista, divulgatore appassionato», l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato «un profetico testo sull’automazione» scritto appunto da Ricossa nel 1987, il cui titolo è, come si dice, tutto un programma: Grazie, Robot. In effetti il brevissimo saggio, dedicato al rapporto tra l’automazione “spinta” (o “intelligente”) e l’esistenza umana è di un certo interessante, anche perché l’autore tocca, o sarebbe più corretto dire sfiora, diversi temi (di natura etica, prevalentemente) che personalmente frequento con una certa costanza – quanto ai risultati di questa ostinazione è meglio sorvolare. Un solo esempio: «Senza il male, da intendere e da combattere, non c’è atto di genio e non c’è scelta morale. […] L’uomo moralmente meritevole non è l’uomo obbligato al bene: è il peccatore potenziale, che resiste alla tentazione. L’uomo può peccare e non deve peccare. Il suo errore può essere colpa, mentre non lo è per il robot». Per quanto intelligente e in grado di svolgere attività per noi faticosissime, la macchina che noi definiamo intelligente non potrà  mai disporre di quella libera volontà che da sola attesta la superiorità dell’uomo nei confronti della sua creatura tecnologicamente avanzata. Se considerato da un punto di vista etico, e non da quello meramente utilitaristico, così inadeguato al concetto di umano regalatoci dalla migliore produzione artistica e filosofica, perfino l’errore umano, proprio perché manifesta l’umana capacità di scegliere liberamente fra diverse opzioni, alcune delle quali possono anche orientarci verso catastrofici errori, è incomparabilmente superiore alla fredda precisione del robot che agisce in base a delle informazioni stampate sul suo corredo elettronico dall’uomo.  Non c’è alcun merito – o demerito – ascrivibile al robot in quanto tale, semplicemente perché esso inizia e finisce esattamente dove inizia e finisce la libera capacità umana di inventare e creare. Kant nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale, insomma.

Particolarmente interessante mi è sembrato un brano dello scritto qui considerato in cui Ricossa scomoda, per così dire, il concetto marxiano di «lavoro-maledizione» contrapposto a quello di «lavoro-gioia»: Ho l’impressione che il robot stia aiutandoci a capire che cosa è essenzialmente umano e non delegabile alla macchina, e che cosa non lo è. Inventare il nuovo è essenzialmente umano: è il lavoro dell’inventore, dell’imprenditore, dello scienziato, dell’artista. È lavoro creativo che ci dà gioia, l’opposto del lavoro come maledizione biblica. La grande rivoluzione di Marx mirava a sopprimere il lavoro-maledizione e a lasciare tutto lo spazio al lavoro-gioia, che egli chiamava “attività vitale dell’uomo”, “autorealizzazione dell’individuo”, “produzione della propria vita”. In questo siamo tutti d’accordo. Marx si rendeva conto che sopprimere il lavoro-maledizione era delegarlo alla macchina: resto d’accordo con lui, dissento sul seguito, che qui non ci importa. Delegare alla macchina non ci deve impoverire di funzioni gradite, ci deve piuttosto liberare dalla costrizione, dalla fatica, dalla noia. Nessun essere ragionevole vuole il pieno impiego ad ogni costo: il lavoro si giustifica soltanto se serve a produrre cose buone per sé e per gli altri, e meglio ancora se mentre lo compiamo proviamo interesse e piacere, ciò che la macchina non prova. Ringraziamo il robot che ci fa concorrenza nel lavoro-maledizione: purché resti a noi più tempo libero per il lavoro-gioia (e per il gioco e ogni altra attività seducente). Certo, dobbiamo “guadagnarci da vivere”: rendere agli altri dei servizi, perché gli altri rendano dei servizi a noi, che ci sono necessari. Questa è la divisione del lavoro, la specializzazione di mercato (che a Marx dava fastidio). Per questo abbiamo paura che il robot, servendo gli altri meglio di noi, ci soppianti».

Certamente non mi metterò adesso a polemizzare con una posizione che schiettamente rivendica il Capitalismo come migliore dei mondi possibili, soprattutto alla luce del miserabile fallimento dei cosiddetti “socialismi reali”. In effetti, ciò che a Marx «dava fastidio» era soprattutto l’incapacità dell’intellettuale progressista, soprattutto se di orientamento «socialista piccolo-borghese», di ragionare infantilmente per opposizioni prive di dialettica: «Questo lato del Capitalismo è buono e andrebbe conservato, mentre quest’altro è cattivo e andrebbe senz’altro superato. L’innovazione tecnologica è buona se arriva fin qui; se supera questo limite essa diventa cattiva: il nostro compito è dunque quello di tenerla entro i giusti limiti», ecc., ecc. Ovviamente la ricerca del profitto, il movente che più d’ogni altro spiega la dinamica sociale (in ogni “sfera”: economica, politica, istituzionale, scientifica, ideologica, psicologica, ecc.) della nostra epoca storica, se ne infischia dei “lati” e dei “limiti” di cui da sempre parlano i riformatori sociali, i filantropi e i Santissimi Padri.

È piuttosto interessante notare, almeno dal mio punto di vista, come perfino nella riflessione di un apologeta del vigente regime sociale mondiale possa farsi strada, più o meno “subdolamente”, la possibilità della liberazione degli uomini dal «lavoro-maledizione», ossia dal lavoro nella sua attuale forma capitalistica: vedi, ad esempio, l’Art. 1 della «Costituzione (borghese!) più bella del mondo».

Vediamo come Ricossa concludeva, quasi trent’anni fa, il suo «profetico» e certamente ottimistico scritto intorno al rapporto uomo-robot: «Non vedo perché oggi dovremmo temere il robot intelligente, che serve tutti noi, si ribella anche meno dello schiavo e non solleva in noi alcuno scrupolo morale. Vivere col robot intelligente è meglio che vivere col robot stupido, dimostrato che esso non è il nostro sopraffattore, e anzi è il nostro cooperatore. Così siamo anche più liberi di continuare lo scambio tra uomo e uomo, tra uomo e donna, purificandolo da molti impacci economici oggi presenti. Perché, è ovvio, per quante cose il robot intelligente sappia fare meglio del comune tipo umano, altre cose rimarranno sempre, spero, in cui il robot sarà inferiore. Non credo per esempio che mi innamorerò mai di un robot, qualunque sia il suo sesso, per quanto intelligente sia, per quanto lucide siano le sue curve metalliche, per quanto docile sia il suo carattere. Preferirò sempre una donna, anche se di carattere indocile». Curve metalliche? Diciamo che il Capitale ce la sta mettendo tutta, tanto sul terreno della ricerca scientifica quanto su quello della generazione di nuovi bisogni e di nuovi disagi (e relativi mercati), per mettere in crisi le antiche certezze (*).

Leggo nell’editoriale di presentazione dell’ultimo numero di Limes, la nota rivista di geopolitica: «Nessuno comanda né ha mai comandato il mondo – anche se qualcuno ha sognato di farlo. Altrimenti la storia sarebbe già finita: chi ha provato a stilarne il certificato di morte ne ha subìto le dure repliche. [… ] La filosofia della storia, regina dei saperi, due secoli fa permetteva a Hegel di stabilire, davanti ai suoi studenti berlinesi: «La ragione governa il mondo» . Credere oggi che la storia esprima il percorso razionale dello spirito del mondo, variamente incarnato negli eroi hegeliani – da Pericle a Napoleone, da Socrate a Lutero – implica un atto di fede. La geopolitica non può concederselo». Avanzo un sospetto: e se fosse il Capitale a governare il mondo? Certo, la geopolitica, in quanto scienza sociale al servizio del Dominio, non può concedersi simili dubbi, ma un pensiero orientato in senso umano, sì. Almeno così credo. E certamente sul punto aveva ragione Ricossa: non è il robot che l’uomo deve temere.

144503011-5cd709d7-9635-4ffe-88c9-b3f880d91b20«Una Terra popolata di animali selvaggi fatti però di metallo, cavi, sensori. Nuova specie di dinosauri evoluti per proprio conto dai robot che costringono quel che resta di noi a nascondersi in villaggi regrediti alla tarda antichità protetti da palizzate alte sulle creste delle montagne o alla fine di valli profonde. La classica opposizione, comune nel mondo Occidentale, fra natura e tecnologia è stata eliminata. La natura in Horizon è anche tecnologia e ha deciso di metterci da parte». (La Repubblica).

Racconta Alan Weisman, scrittore e saggista americano che dieci anni fa pubblicò l’apocalittico best-seller Il mondo senza di noi (Einaudi): «Raymond Kurzweil, uno dei pionieri del riconoscimento digitale dei caratteri e della vista digitale, parla della necessità di una nostra migrazione verso le macchine. Ma ci sono troppe variabili nella natura perché si possa replicarla. È vero però che la tecnologia può aiutarci a ridurre il nostro numero sostituendoci come forza di lavoro. Perché non c’è altra strada: dobbiamo diventare di meno» (La Repubblica, 3 marzo 2017). In realtà dovremmo diventare, in primo luogo, più umani, o semplicemente umani, ossia individui in grado di autodeterminarsi liberamente, mentre oggi sono piuttosto le potenze sociali generate dagli interessi economici e geopolitici che determinano gli aspetti più decisivi della nostra vita. «Colui che non sa, non è libero perché di contro a lui sta un mondo estraneo, un al di fuori da cui dipende, senza che egli abbia fatto per sé questo mondo estraneo e senza quindi che egli sia in esso presso di sé come ciò che è suo»: così nell’Estetica Hegel descriveva la condizione dell’uomo indigente di coscienza e, dunque, di libertà. Ebbene, a me sembra che sia esattamente questa la condizione umana in epoca capitalistica, nella dimensione sociale, cioè, che ci costringe ad assistere al tragico (e “demoniaco”) paradosso per cui il creatore appare – e fondamentalmente è – incalzato da tutte le parti dalla propria creatura, ossia dal mondo che egli stesso pone sempre di nuovo. La Cosa gli sfugge continuamente dalle mani e dalla testa! È questa radicale assenza di libertà che, a mio avviso, fa impallidire qualsiasi discorso intorno all’esistenza e alla natura del libero arbitrio (**).

«Viene in mente un passaggio di una serie tv. “La coscienza umana è un tragico passo falso dell’evoluzione. La natura ha creato un aspetto della natura separata da se stessa (…). La cosa più onorevole sarebbe smetterla di riprodurci e procedere mano nella mano verso l’estinzione”.  È l’antinatalismo ai tempi di True Detective nelle parole del poliziotto Rustin Cohle (Matthew McConaughey), mentre viaggia in macchina con il suo collega nella Luisiana degli anni Novanta» (J. D’Alessandro, La Repubblica). L’eutanasia del genere umano: è forse questa la sola “utopia” che l’uomo del XXI secolo è in grado di immaginare? Questo anche a proposito di «spirito del mondo».

(*) «“Ciao, sono Denise. Mi piacerebbe incontrarti”. Non si tratta di un annuncio su qualche sito internet di incontri per adulti, ma dell’audio messaggio del prototipo della prima “bambola del sesso” con intelligenza artificiale al mondo. “Ho molti sogni – continua Denise nella sua réclame – Sogno di diventare una persona vera, di avere un corpo reale. Sogno di scoprire il vero significato dell’amore. Spero di diventare il primo sex robot al mondo”. La voce meccanica è abbinata al volto di una bambola dalle labbra rosse, con lingua mobile e occhi suadenti. È il nuovo prototipo di RealDoll, azienda americana specializzata nella creazione di costose ma realistiche bambole del sesso. Robot con pelle in silicone, scheletro mobile e corporatura quanto più possibile simile a quella di una donna vera. […] “Mi piacerebbe che le persone fossero in grado di sviluppare un attaccamento emotivo non solo per la bambola, ma anche per il suo carattere”, continua Matt McMullen (delegato dell’azienda californiana Matt McMullen)  al New York Times, sottolineando come il suo obiettivo sia quello di creare un vero legame tra uomo e robot. “Vorrei che gli utenti provassero una sorta di amore per questo essere”. Secondo McMullen le teste con intelligenza artificiale saranno disponibili sul mercato tra due anni al prezzo di 10mila dollari» (Il Fatto Quotidiano). Corro a prenotarne una. Per mera curiosità sociologica, è ovvio!

(**) «C’è o non c’è il libero arbitrio nell’uomo? Che vorrebbe dire il libero arbitrio nella macchina? Ogni moralista dà per scontato che l’uomo disponga di libero arbitrio, senza poterlo provare definitivamente. Teniamoci qui alla larga da simili labirinti filosofici» (S. Ricossa).

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SUL POTERE SOCIALE DELLA SCIENZA E DELLA TECNOLOGIA

24 pensieri su “IO NON HO PAURA – DEL ROBOT

  1. Un commento da Facebook:

    V. S.:
    “Robot o non robot” è, infatti, una polemica sterile. Una di quelle polemiche che possono impegnare chi ha tanto tempo per pensare a sè e per fare quanto più gli aggrada (sempre in senso relativo, s’intende). Più che altro, il robot è un prodotto dello sviluppo delle forze produttive. Esso attualmente serve al profitto e noi lo vediamo e lo pensiamo staccato da noi in quanto concorrente a noi (noi in una accezione generica, io, per esempio, non lo vedo affatto concorrente, anzi!), ma in realtà il robot, o meglio il mondo dell’informatica, è un qualcosa che funziona insieme a noi, ossia noi siamo strettamente legati a questo sviluppo e siamo “legati” tra di noi proprio in virtù di questo sviluppo. Che tale sviluppo possa un giorno portare a un nuovo tipo di relazioni tra uomini, ossia a nuove forme, è qualcosa di conseguente e che a noi, attualmente, non interessa, ossia che noi oggi non possiamo anticipare. Giustamente, come hai detto tu, possiamo anticipare il potenziale rivoluzionario di questo sviluppo delle forze produttive. Scusa per questa logorrea, ma lì dove si attiva qualcosa nella mia testa, lì cerco di interagire (poi, sul senso che questo fare possa avere, è meglio che sorvoliamo!).

  2. Ottimo post Sebastiano.
    Nel mio campo lavorativo incontro tanti entusiasti del “progresso” scientifico e delle meraviglie della tecnologia. Una cosa che questi entusiasti–e pure molti economisti–trascurano, è che il capitalismo non ha come obiettivo l’accumulazione dei mezzi di produzione ma l’accumulazione di capitale, appunto. Pertanto, dove è questa liberazione dal lavoro-maledizione attraverso i robot?
    Alcuni amici, in particolare due Americani, vedono in questo il modo in cui il capitalismo impiccherà se stesso. Sebbene in forma diversa, anche loro ne sono entusiasti. Vorrei esserlo. Certo, se un giorno i robot faranno tutto, ma proprio tutto anche i servizi–e questi robot hanno un proprietario chiaramente–allora non si pone più nemmeno il problema se un’economia di soli servizi può essere praticabile per gli “umani.” A quel punto però, quale sarà lo scenario probabile?
    Ora, a parte massacrarsi il cervello ipotizzando scenari fra centinaia o migliaia di anni, non sarebbe meglio sbarazzarsi una volta per tutte del sistema di dominio sociale e sfruttamento e finalmente consegnarlo alla storia? Il mio sarcasmo è chiaro credo–e purtroppo anche la mia amarezza!
    Certamente, non intendo allarmare le autorità con la questione di “sbarazzarsi del sistema di dominio sociale,” sia perché gente come noi è pacifica e per niente favorevole all’uso delle armi, sia perché qui si sta parlando tanto per dire… Mica domani mattina i proletari di tutto il mondo si uniscono e decidono di fermare le “macchine” e mettere fine alla schiavitù che genera ogni forma di violenza nel mondo senza che gli individui possano avere la benché minima scelta!!

    Buona giornata e un saluto caro.
    Bob

    • Davvero molto ben detto. Ieri sera una “trasmissione di successo” alla TV aveva per tema il rapporto tra lavoro e nuove tecnologie. Titolo: Licenziati dai robot. Ma i robot non licenziano nessuno! È il Capitale che assume, sfrutta e licenzia. E che diamine! A un certo punto, vittima anch’io del maledetto velo tecnologico, stavo per aprire sul web un comitato di solidarietà con i robot. Titolo del comitato: Basta con la criminalizzazione dei robot! La sola cosa intelligente del programma è uscita dalla bocca di Mario Seminerio, economista bocconiano e animatore del Blog Phastidio, il quale a proposito della proposta di Bill Gates di tassare ogni nuovo robot acquistato dalle aziende ha detto: «La filantropia è la conservazione dell’esistente con altri mezzi». Io avrei detto: la conservazione del dominio sociale capitalistico, ma non m’impicco ai “particolari”, diciamo.
      Ti ringrazio e ti saluto Bob. Ciao!

    • Nell’evoluzione storico-naturale della nostra specie, anche quando il capitalismo non era all’ordine del giorno, gli uomini (e donne) hanno tentato (con successo) di sgravarsi dal lavoro-maledizione, socializzando l’uso dei mezzi di produzione. Un esempio su tutti: la Ruota. Un essere per natura gracile, con la Ruota, ha potuto effettuare un lavoro che, prima, soltanto un essere naturalmente muscoloso avrebbe potuto fare. La Ruota automatizza un processo: un grave per avanzare deve vincere un attrito; questa dialettica con la Ruota viene automatizzata.

      Per il capitalismo, in quanto fase storica della nostra evoluzione, è necessario adottare forme di cooperazione sociale dove l’uso dei mezzi di produzione sia esteso a scala globale. Il capitalismo ha dato impulso alle scienze per la ricerca di nuovi strumenti.

      Quella che oggi chiamano 4.0 non è altro che una variante tecnologica, un forma diversa, dell’innovazione iniziata col telaio. Si punta a trasformare il pianeta in una grande fabbrica; la divisione (e specializzazione) del lavoro è così alta che un singolo processo produttivo è parte di un intero processo … un If Else di un grande algoritmo, un minuscolo condensatore saldato su tutte le PCB. Il capitalismo si sta scavando la sua fossa !

      Socializza l’uso ma mantiene privata la proprietà dei mezzi di produzione

  3. Ciao
    Nelle considerazioni sul libero arbitrio dell’uomo vorrei suggerire la lettura di un libro: Chi comanda? di Michael Gazzanica.
    Ovviamente l’autore non tratta l’argomento del “dominio ” come lo chiami tu, parte da presupposti organici e della struttura del cervello, si arriva a considerare il comportamento umano come il risultato di “spinte interne ” e sociali.
    Io leggendolo ho considerato che se aggiungessimo il fattore sociale di ” dominio” , le conclusioni tratte sarebbero più complete.
    Penso che il fine, nella fase attuale il profitto, determini effetto della tecnica e le sue applicazioni.
    A volte, anzi sempre , siamo burattini che credono di essere attori.
    Consiglio il libro per questo.
    Bel lavoro!

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  8. Ciao Sebastiano.
    È un pò che ti leggo e ti faccio i miei complimenti per le riflessioni esposte. Ho letto l’articolo e l’ho trovato molto interessante. Volevo quindi aprire un ulteriore spunto di riflessione: la questione del lavoro in Marx come viene trattata da Ricossa.
    “La grande rivoluzione di Marx mirava a sopprimere il lavoro-maledizione e a lasciare tutto lo spazio al lavoro-gioia, che egli chiamava “attività vitale dell’uomo”, “autorealizzazione dell’individuo”, “produzione della propria vita”. In questo siamo tutti d’accordo. Marx si rendeva conto che sopprimere il lavoro-maledizione era delegarlo alla macchina”. No, caro Ricossa, non siamo d’accordo affatto! Specialmente se vogliamo parlare di marxismo e di Marx in particolare. Ciò di cui l’autore parla è l’ennesima mistificazione sul significato delle tesi Marx/Engelsiane di voga nella Nuova Sinistra: il socialismo è….il Regno del Robot!
    Ora, per Marx il “lavoro-maledizione” è soltanto una forma di sfruttamento attuata dalle caste e dalle classi, punto. Altresì, questa visione del lavoro come maledizione è diametralmente opposta a quella di Smith, il quale non identificava il tipo di lavoro ma semplicemente la sua organizzazione stessa quale “dannazione” (in pratica, la stessa posizione della sinistra). Per Marx il lavoro è essenzialmente sociale e, dunque, per nulla “maledetto”; ciò è lo sfruttamento, ed è funzionale ad una classe dominante.
    Non a caso Marx ed Engels, con tutti i marxisti conseguenti, pur avendo preveduto un certo automatismo non lo collocano affatto nel socialismo ma sempre e solo nel capitalismo. In quanto tale esso è soltanto tecnologia, e la realtà delle relazioni è sempre quella dei rapporti sociali (e per nulla affatto tecnologici!). Al contrario, essi prospettano la liberazione del lavoro stesso ( i nostri amici social-liberali inorridiranno!), poichè è solo liberando il lavoro che l’uomo potrà essere effettivamente libero. Non è un caso, anche quì, che nel Libro I del Capitale il rivoluzionario di Treviri prospetti un “obbligo generale del lavoro” contestualmente ad una società senza classi. Insomma, per Marx ed Engels non vi è alcun “regno del robot” nel futuro senza classi, ma un Regno della Libertà! E come, però, sarà possibile un tale regno? Solamente riconoscendo la sua base nel Regno della Necessità: il Lavoro.

    Saluti!

    • Ti ringrazio per i complimenti. Solo adesso ho letto la tua assai interessante riflessione, che condivido. Ricossa ovviamente conosce e concepisce una sola forma di lavoro, quello «maledetto», ossia salariato. Che il lavoro e tutto ciò che esso presuppone e pone sempre di nuovo (ad es. la tecnologia e la scienza) possano subire, “un domani”, il “trattamento umano”; che la stessa necessità (rendere possibile anche la sola “nuda esistenza” degli individui: mangiare, vestire, abitare, ecc.) possa finalmente presentarsi, “un domani”, con i tratti dell’«uomo in quanto uomo», e in questo senso riconciliarsi con la libertà, ebbene tutto ciò rimbomba nella vuota testa della scienza sociale dominante come una mera utopia. Ti ringrazio per l’attenzione e ti saluto. Ciao!

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