LA CRISI ECOLOGICA NELL’EPOCA DEL CAPITALE. Sul concetto di Antropocene

La borghesia si crea un mondo a propria
immagine e somiglianza e lo impone a tutti.
K. Marx, F. Engels

Denaro, merce, lavoro salariato. Queste
formule portano segnate in fronte la loro
appartenenza a una formazione sociale
nella quale il processo di produzione
padroneggia gli uomini e l’uomo non
padroneggia ancora il processo
produttivo. K. Marx

 

La tesi centrale sostenuta in questo scritto è che la crisi ecologica di cui si parla ormai da fin troppo tempo è il necessario prodotto di una «società nella quale il processo di produzione padroneggia gli uomini e l’uomo non padroneggia ancora il processo produttivo»[1]. Questa società ha oggi la dimensione del mondo, e difatti spesso mi capita di usare, esibendo una scarsa originalità, il concetto di Società-Mondo, che preferisco a quello di Sistema-Mondo (o Sistema Terra, per dirla con Clive Hamilton[2]), un concetto invece assai caro al milieu ambientalista. Oppure, detto in altri termini, il Sistema a cui faccio riferimento in queste righe è quello capitalistico. Domanda: un’umanità che «non padroneggia ancora il processo produttivo», ma che anzi ne subisce essenzialmente il dominio, come attestano, fra l’altro, le frequenti crisi economiche che scuotono l’intera società; questa umanità, dicevo, può acquisire la capacità di prendersi cura razionalmente[3] dell’ambiente naturale? Ma procediamo con ordine. Si fa per dire!

Scriveva Pascal Acot nel 1988: «All’alba del XXI secolo, nel quadro delle contraddizioni che segnano talvolta tragicamente lo sviluppo e i cambiamenti dei moderni processi di produzione, non è, purtroppo, assurdo pensare che la posta in gioco sia la pura e semplice sopravvivenza della nostra specie»[4].  Non dimentichiamo che nel 1986 l’Europa aveva conosciuto il terribile disastro atomico di Chernobyl, che andava a sommarsi ad altri disastri di natura più “convenzionale” e al quotidiano e “normale” inquinamento ambientale causato dalle molteplici attività “antropiche”: produrre, spostarsi, sfamarsi, riscaldarsi, in una sola parola: vivere. Tre decenni dopo, «la posta in gioco» non sembra affatto cambiata, e anzi la questione in oggetto (la «sopravvivenza della nostra specie»: nientedimeno!)  si pone in termini ancora più stringenti e generali che nel passato. «No, non è come le altre volte. No, non si risolve modificando leggermente i nostri comportamenti. Sì, le conseguenze saranno irreparabili. E sì, la nostra sopravvivenza sul pianeta Terra è a rischio. Siamo con le spalle al muro, il tempo dei rinvii è finito».

Così scriveva Stefano Caserini in articolo apparso su Linkiesta del 29 marzo 2019. Se le cose stanno davvero così, si tratta di capire come scongiurare una volta per sempre la terribile minaccia che si erge sopra le nostre teste e che mette a rischio, come si diceva, la nostra stessa esistenza come specie nel pianeta che ci ospita – forse suo malgrado, o a sua insaputa. Ancora un brano dell’articolo citato appena sopra: «Quando i dinosauri si estinsero, non sapevano cosa stesse loro accadendo, e con chi prendersela. Anche le milioni di specie diverse che hanno popolato il pianeta e di cui rimangono tracce nei fossili che guardiamo nelle vetrine dei musei, anch’esse se ne sono andate nella beata ignoranza. AdChoicesL’Homo sapiens ha quindi un indubbio vantaggio. Possiede dati e informazioni su quanto gli sta succedendo. Se si estinguerà, assisterà cosciente alla propria distruzione, ne seguirà gli sviluppi e lascerà tracce inequivocabili e spiegazioni di come è successo». È esattamente questo approccio ideologico, apparentemente critico nei confronti dello status quo, del “sistema” ecologicamente sempre più insostenibile, che a mio avviso bisogna respingere, se intendiamo comprendere nella loro essenzialità e radicalità i termini storici, sociali e politici della questione che ci preoccupa. Tirare in ballo l’Homo sapiens non aiuta la comprensione del problema, ma piuttosto contribuisce a sviare dal corretto cammino il pensiero che vuole essere davvero critico.

Si tratta appunto di capire come, da quale prospettiva sia più fecondo approcciare la questione ambientale (che è questione sociale tout court) per un pensiero che intenda sottrarsi all’abbraccio mortale delle ideologie dominanti e delle mode politico-culturali.

Per Giuliano Ferrara «la salvezza del pianeta si fa ideologia dominante, impegno, moda, disciplina scolastica, obbligo civile, conformismo culturale, e riempie di sé la bocca di tanti governati e governanti»[5]: difficile dargli torto. Sono pochissimi i politici, gli intellettuali, gli artisti, i cantanti, gli attori, i campioni dello sport ecc. che non avvertono il “dovere civile” di dichiararsi inorriditi dal climate change e di esibire il loro impegno nella buonissima causa a favore della salvezza del pianeta[6]. Naturalmente Ferrara contrappone a questa «ideologia dominante» e a questo impegno modaiolo che si fa marketing nient’altro che un’apologia del realismo capitalistico: non è vero che siamo ai titoli di coda, e in ogni caso il capitalismo, per quanto stracarico di contraddizioni e di ingiustizie, è il migliore dei mondi possibili, come ha peraltro dimostrato la fallimentare “utopia comunista”. La democrazia ha mille difetti, diceva Churchill, ma è il migliore sistema politico-istituzionale che l’uomo è riuscito a inventare negli ultimi duemila e più anni, e la stessa cosa vale per il sistema capitalistico: si tratta di un pessimo sistema, ma in confronto agli altri sperimentati fin qui esso non ha paragoni. Siamo realisti!

Claudio Cerasa ribadisce il concetto: «I catastrofisti vogliono trasformare gli allarmi sul climate change in una leva contro il capitalismo. Fesserie. L’occidente forse non fa abbastanza ma è l’unico che sta facendo qualcosa»[7]. Certo, si tratta di fesserie: quelle che però scrive il direttore del Foglio, il quale mentre attribuisce, con risibile certezza, intenzioni anticapitalistiche ai «catastrofisti» del climate change, i quali sostengono piuttosto la possibilità di un capitalismo ecologicamente sostenibile, al contempo sembra stabilire un’altrettanto risibile identificazione tra capitalismo e Occidente (Unione Europea, in primis): e i Paesi capitalistici dell’Oriente (Cina e Giappone, in primis) a quale “specie sociale” apparterrebbero? Forse lo zelo inteso a difendere il capitalismo dai “catastrofisti” ha costretto Cerasa a qualche forzatura concettuale. Diciamo, più correttamente, che Paesi come la Cina e l’India oggi stanno dando il contributo maggiore all’emissione dei gas serra, e questo dipende dalla struttura capitalistica di questi Paesi, dalla loro storia, dallo loro demografia, ecc.

A proposito di catastrofismo! Anch’io sono un catastrofista, ma in un’accezione particolarissima. Infatti, per come la vedo io, la catastrofe è già in corso, e da moltissimo tempo; essa si rinnova sempre di nuovo, ogni giorno che l’umanità trascorre sotto il plumbeo cielo dei rapporti sociali capitalistici, mentre la Comunità senza classi, senza sfruttamento e senza oppressione di qualsiasi genere è materialmente sempre più possibile, oltre che auspicabile – quantomeno da chi scrive. «Ogni progresso della civiltà ha rinnovato, col dominio, anche la prospettiva di placarlo. La storia reale è intessuta di sofferenze reali, che non diminuiscono affatto in proporzione all’aumento dei mezzi per abolirle»[8]. Anzi, questa tragica dialettica acuisce il senso di disperazione e di impotenza negli uomini, almeno in quelli più sensibili – quelli che ancora oppongono una qualche resistenza al Nulla che avanza».

Viviamo in un tempo che è insieme catastrofico e tragico. La tragedia può lasciare il posto alla speranza solo se le classi subalterne e tutti i nemici della vigente società si costituiranno essi stessi in Speranza, solo se le daranno corpo, solo se la praticheranno attivamente, anziché aspettare il Salvatore – o il Deus ex machina – di turno. Le vie del Salvatore sono finite! Una volta si diceva: «La speranza è l’ultima a morire». Falso! La speranza è morta già da molto tempo, e tale resterà fino a quando non la richiameremo in vita: «Speranza, alzati e cammina!» Detto in termini evangelici, Lazzaro stesso deve chiamarsi in vita. «Ma come faccio, se sono morto?» Misteri del processo sociale! Mi scuso per questa scivolata “teologico-politica” e vado avanti.

Lo spettro della catastrofe ecologica futura rischia di occultare, anziché rivelare, di mettere in piena luce, la catastrofe umana del presente, quella che si consuma tutti i giorni, nei luoghi di lavoro, nelle case, lungo i marciapiedi, ovunque all’uomo non sia concesso di vivere umanamente. Credere che questa condizione disumana degli uomini non abbia nulla, o molto poco, solo marginalmente, a che vedere con la crisi ecologica, significa a mio avviso non aver capito la causa fondamentale di quella crisi e quale sia la posta in gioco.

Il 29 agosto del 2016 l’International Geological Association ha proclamato la fine dell’Olocene e l’inizio di una nuova età nella storia geologica terrestre. Il termine con cui battezzare questa nuova età geologica era pronto già da anni: Antropocene. Questo termine fu coniato negli anni ’80 dal biologo Eugene F. Stoermer e diffuso nei 2000 dal Premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen, con la pubblicazione del suo saggio Benvenuti nell’Antropocene (2005). Ma di cosa stiamo parlando? Il sottotitolo di quel libro ci offre la risposta: L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era. La Terra entra in una nuova era perché l’uomo ha cambiato il clima, ha cioè avuto, e continua ad avere in un modo sempre più spiccato, una funzione geologica, e non solo storico-sociale. «Se lo strato più superficiale del suo significato è direttamente connesso con il cambiamento climatico indotto dall’industrializzazione, le questioni soggiacenti riguardano, infatti, diversi nodi problematici su cui si è retta e continua a reggersi l’attitudine del pensiero occidentale, nonostante le scosse telluriche ricevute almeno da Nietzsche in poi: in primis l’opposizione tra natura e cultura e, come in un effetto a valanga, l’antropocentrismo, l’etnocentrismo, l’androcentrismo, il prometeismo, la razionalità illuministica, la stessa idea di telos e di storia universale nei suoi rapporti intrinseci con il Neolitico. In ultimo, ciò a cui l’Antropocene sembra chiamare, dagli scienziati naturali fino ai filosofi, agli economisti e alla politica, è la possibilità/necessità di pensare il futuro in quanto tale»[9]. Come si vede è notevole il groviglio di concetti e di problemi che si addensano intorno al termine qui in oggetto, il cui significato ad ampio spettro è peraltro controverso anche nell’ambiente scientifico-culturale che se ne serve come un fondamentale punto di riferimento concettuale e come chiave interpretativa di grande valenza euristica.  «Non esiste un Antropocene, ma molti “Antropoceni”, che si sovrappongono e giustappongono nelle analisi dei ricercatori che ne fanno il proprio oggetto di ricerca. O meglio esistono solo prospettive sull’Antropocene»[10]. È d’altra parte evidente che dinanzi a questo concetto devono – diciamo dovrebbero – evaporare tutte le tradizionali distinzioni tra scienze naturali e scienze umane, perché la dimensione umana vi è implicata sin dal nome della cosa.

Il concetto di Antropocene è controverso a partire dalla sua datazione: quando siamo – o, meglio, saremmo – transitati dall’Olocene (l’epoca geologica più recente, quella in cui ci troviamo e che ha avuto il suo inizio convenzionalmente circa 10.700 anni fa)[11] alla supposta nuova era geologica? Paul Crutzen fa iniziare la nuova era nel 1784, quando James Watt brevettò la prima locomotiva a vapore, ponendo così le basi per una consistente e sempre crescente emissione di CO2, il gas serra più implicato nel cambiamento climatico. Alcuni fissano l’inizio dell’Antropocene nel 1945[12], anno delle prime esplosioni atomiche e dell’accelerazione/espansione del processo di industrializzazione del pianeta – che sarà poi battezzato con il termine globalizzazione. La nota rivista scientifica Natura ha addirittura individuato una data (il quarto trimestre del 1965), un luogo (l’isola Campbell, 600 chilometri a sud della Nuova Zelanda) e un albero (un peccio di Sitka) come indiscutibili prove del momento zero della nuova era[13].

Altri ancora fanno risalire l’inizio dell’Antropocene alla domesticazione da parte dell’uomo di piante e animali (circa 9.000 a. C.), mentre giustamente non pochi studiosi del Paleolitico e del neolitico consigliano di non sottovalutare l’impronta umana lasciata sul pianeta dai cacciatori-raccoglitori preistorici, responsabili dell’estinzione e della quasi-estinzione di molte specie animali, e dai primissimi “agricoltori”, in più casi responsabili di un uso a dir poco sconsiderato e irrazionale della terra. «In pratica, nelle società agli albori della civilizzazione, si disponeva di tecnologie primitive con un’impronta ambientale molto più rovinosa di quella delle tecnologie in uso nelle società contemporanee. Prendete ad esempio lo stile di vita di un paio di milioni di nordamericani nel tardo Pleistocene, che riuscirono a cacciare fino alla loro estinzione i grandi mammiferi del continente, e bruciare e distruggere intere foreste. Le estensive trasformazioni antropiche dell’ambiente sono proseguite durante l’Olocene: due terzi della deforestazione planetaria che ha trasfigurato la terra è avvenuta prima della Rivoluzione industriale. Le tecnologie in mano ai nostri antenati si distinguevano per un livello di soddisfazione qualitativamente molto inferiore e comportavano un impatto ambientale pro capite molto maggiore. Qualsiasi tentativo su vasta scala di simbiosi tra attività umane e ambiente naturale con il solo ausilio di quelle primordiali tecnologie, avrebbe comportato, se non un’estinzioni di massa della popolazione, un vero e proprio disastro ecologico e umano»[14]. Solo col tempo gli uomini impareranno a prendersi cura della natura che li nutriva e li proteggeva (attraverso la mediazione del lavoro), ma nel frattempo in molte parti del globo intere specie animali erano state sterminate da una creatura la cui intelligenza metteva fuori gioco anche l’animale più grosso e feroce[15]. Solo i mammiferi che ebbero il tempo di “prendere le misure” all’eccezionale (nel senso proprio del termine: ciò che fa eccezione) Homo sapiens, o che risultarono non idonei alla domesticazione, riusciranno a salvare la pelle, letteralmente.

Che le attività umane abbiano sempre avuto un preciso impatto sull’ambiente (ecosistema), è un’acquisizione tutt’altro che recente; già nel 1899 Émile Durkheim osservava che, dal momento in cui le società integravano sempre più, nel corso del tempo, l’ambiente (a partire dal suolo) nella loro vita e lo trasformavano per ricavarne un qualche profitto (qui inteso in senso lato), «non è più la terra a spiegare l’Uomo, ma l’Uomo a spiegare la terra[16]. Alla fine del XIX secolo l’impronta lasciata dal Moloch capitalistico sul nostro pianeta era già sufficientemente ampia e profonda per passare inosservata agli occhi degli studiosi della società, i quali si confrontavano anche con le grandi infrastrutture (ponti, dighe, canali, porti, ecc.) realizzate un po’ in tutto il mondo dal colonialismo e dall’imperialismo.

Nel corso del tempo storico ogni società ha stabilito con la natura un peculiare rapporto, il quale in radice riproduce le relazioni che gli individui stabiliscono fra loro. Ciò che da sempre media il rapporto Uomo-Natura è la relazione Uomo-Uomo, è il rapporto sociale che domina in una specifica comunità. Per comprendere questo è sufficiente attingere alle religioni, all’arte, a tutte le migliori espressioni della creatività umana, le quali ci raccontano appunto le diverse forme in cui prende corpo il vitale rapporto che lega l’uomo alla natura – compresa quella che costituisce il corpo umano, un corpo fatto di “carne” e di “spirito”.

Al cuore della mediazione Uomo-Natura c’è il lavoro: «Quindi il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile, è una condizione d’esistenza dell’uomo, indipendente da tutte le forme di società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini. […] In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo per mezzo della propria azione produce, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il giuoco delle loro forze al proprio potere. […] Il nostro presupposto è il lavoro in una forma nella quale esso appartiene esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell’idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà. […] Il processo lavorativo, come l’abbiamo esposto nei suoi movimenti semplici e astratti, è attività finalistica per la produzione di valori d’uso; appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani; condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura; condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita, e anzi è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana»[17].

«Ogni produzione è un’appropriazione della natura da parte dell’individuo, entro e mediante una determinata forma di società»[18], scrive sempre Marx; «ma è ridicolo saltare da questo fatto» a un’astratta (astorica) forma di appropriazione, magari per conferire alla proprietà capitalistica i caratteri di una categoria eterna, naturale, mentre già Adam Smith aveva fatto notare che la prima e originaria forma di proprietà (o di appropriazione) fu quella comune – «per es., presso gli indiani, gli slavi, gli antichi celti, ecc.» (Marx). Solo dalla disgregazione e dalla dissoluzione della proprietà comune prenderanno corpo le diverse forme di proprietà che si sono succedute lungo il processo storico. La struttura sociale conforme a una data forma di proprietà ha sempre determinato, “in ultima istanza”, il tipo di relazione che le comunità hanno stabilito con la natura.

Per Marx nel capitalismo la realizzazione del lavoro, la sua oggettivazione, appare «come un annullamento dell’operaio, come perdita e asservimento all’oggetto», e l’appropriazione «come estraniazione, come alienazione». «Se il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, e un potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso appartiene ad un altro uomo estraneo all’operaio. Se la sua attività è per lui un tormento, deve essere per un altro un godimento, deve essere la gioia della vita altrui. Non già gli dèi, non la natura, ma soltanto l’uomo stesso può essere questo potere estraneo al di sopra dell’uomo. […] Se si riferisce alla sua propria attività come a una attività non libera, si riferisce a essa come a un’attività che è al servizio e sotto il dominio, la coercizione e il giogo di un altro uomo. Ogni autoestraniazione dell’uomo da sé e dalla natura si rivela nel rapporto che egli stabilisce tra sé e la natura da un lato e gli altri uomini, distinti da lui, dall’altro»[19].

Per Crutzen «l’homo sapiens è abbastanza tecnologico da modificare il pianeta ma non abbastanza saggio da pilotare il cambiamento: buona parte delle modifiche è involontaria e minaccia il futuro dell’umanità». Senza averne la minima coscienza, lo scienziato olandese evoca un dato di fatto di enorme portata: nella società ultrascientifica e ultratecnologizzata del XXI secolo l’umanità non riesce a padroneggiare con le mani e con la testa una prassi sociale di cui tuttavia essa stessa è protagonista. Siamo ancora inchiodati a un tragico destino faustiano: non riusciamo a controllare le potenze che pure noi stessi evochiamo sempre di nuovo.

Il termine Antropocene per un verso mostra un dato di fatto molto importante: l’impronta umana sul pianeta, e per altro verso cela una realtà fondamentale: il carattere storico-sociale di quell’impronta.  Tale concetto si presta invece molto bene come metafora della vigente società basata sulla ricerca del profitto e plasticamente rappresentata dalla forma-merce (lavoro incluso) e dalla forma-denaro: il Capitale, come appena detto, domina la prassi sociale umana alla stregua di una potenza naturale, una potenza cieca e irrazionale che gli individui subiscono, non controllano, non padroneggiano, pur essendo essi stessi gli artefici di quella prassi.

Nella società capitalistica domina il principio: lo fanno, ma non lo sanno. Riferendosi a questo “principio” – meglio, a questo fatto – Smith ed Hegel parlavano di astuzia della storia, mentre si trattava appunto di un fatto che aveva precisi presupposti storico-sociali e conseguenze “strutturali” e “sovrastrutturali” che andavano indagate criticamente, e non accettate come puri dati di fatto.

Poteva mancare la Terza via alternativa all’Antropocene e al Capitalocene[20]? Certo che no!  «Diversamente dall’Antropocene o dal Capitalocene, lo Chthulucene è composto da storie e pratiche multispecifiche ininterrotte di divenire-assieme in tempi in cui si resta in gioco, in tempi precari, nei quali il mondo non è finito ed il cielo non è ancora caduto. Siamo in gioco gli uni con gli altri. Diversamente dal dramma dominante del discorso dell’Antropocene e del Capitalocene, nello Chthulucene gli esseri umani non sono gli unici attori importanti, con tutti gli altri esseri in grado solo di reagire. L’ordine è riannodato: gli esseri umani sono con e della Terra, ed i poteri biotici e abiotici di questa Terra sono la stessa storia»[21]. Anche qui ci si rifiuta di fare i conti con la divisione classista degli individui, e «i poteri biotici e abiotici di questa Terra» sono evocati solo per cancellare i poteri sociali che oggi dominano su questo pianeta, e la riflessione su come sia possibile creare poteri sociali umani, cioè umanizzati, tenendo sempre fermo un fatto: il dominio dell’uomo sull’uomo deve con assoluta necessità riprodursi nel rapporto uomo-natura.

«L’efficacia retorica del concetto di antropocene sta nel suo richiamo alla scienza, ovvero all’unica impresa conoscitiva che la modernità riconosce. Nel rimandare alle stratigrafie della geologia, alle misurazioni dei biologi, alle tabelle dei meteorologi, esso entra nel quadro psichico portando con sé tutta la potenza persuasiva della veridizione scientifica. “Suona vero” e, per questo, suscita pensiero, posizioni, movimento. Qui sta la sua forza come anche il suo limite. Per quanto strategicamente efficace, il riferimento alla scienza come unica impresa conoscitiva affidabile denota la persistenza della cosmovisione colonialista, secondo cui solo la nostra cultura ha prodotto un’ontologia, un’epistemologia, un’etica, dei percorsi di conoscenza e delle forme umane degne e desiderabili. Il che ci riporta alla condizione di partenza: la nostra civiltà è un disastro planetario, ma non possiamo che portare avanti i suoi lineamenti fondamentali perché, nonostante tutto, è l’unica sensatamente fondata»[22]. La riflessione è interessante ma coglie solo un aspetto del problema, quello relativo alla cultura «colonialista» occidentale, mentre la natura sociale della scienza, la quale ha contribuito moltissimo al disastro planetario della nostra civiltà (capitalistica),  rimane ai margini di quella riflessione. Parlo della scienza – e del suo necessario “risvolto” tecnologico – come lo strumento di dominio e di sfruttamento più prezioso al servizio del Capitale, e non a caso Marx fa iniziare l’epoca della sottomissione reale del lavoro (e della natura) al Capitale, «il modo di produzione propriamente capitalistico», con l’uso su grande scala della scienza e della tecnologia «nel processo di produzione immediato»[23]. È la tecnoscienza che ha permesso al Capitale di assecondare la sua smisurata brama di profitto e di acquisire quel potere distruttivo che da tempo ci presenta quotidianamente il salatissimo conto. Di più: la tecnoscienza è essa stessa capitale.

Molti studiosi della crisi ecologica puntano il fuoco dell’attenzione sulla questione tecnologica: quali tecnologie impattano in modo più sostenibile, o semplicemente meno distruttivo (bisogna essere realisti!), sull’ecosistema, oltre che sulla società? Questa impostazione rivela una concezione priva di profondità analitica, la quale non coglie appunto il legame strettissimo che insiste tra la tecnologia e la natura di classe di questa società. Per non parlare poi dell’enorme carica feticistica che informa tutto il dibattito intorno alla cosiddetta Intelligenza Artificiale[24].

Cito dal Manifesto Ecomodernista: «Affermare che la terra è il pianeta degli esseri umani diventa ogni giorno più veritiero. Gli uomini sono fatti a partire dalla terra, e la terra è rimodellata dalle mani degli uomini. Molti geologi esprimono questo concetto affermando che siamo entrati in una nuova era geologica: l’Antropocene, l’Età degli esseri umani. In qualità di accademici, scienziati, attivisti e cittadini, scriviamo con la convinzione che la conoscenza e la tecnologia, applicate con giudizio, possano conseguire l’avvento di un positivo, persino superlativo, Antropocene. Un Antropocene generoso con la specie umana implica che gli uomini applichino con padronanza i loro crescenti poteri sociali, economici e tecnologici per migliorare il benessere dei loro simili, stabilizzare il clima e proteggere il mondo naturale»[25]. A mio avviso affinché si possa davvero parlare di «Età degli esseri umani»; perché si possa attribuire a quella locuzione un fondamento qualitativo (sociale, politico, etico, filosofico) che trascenda dalla mera e insignificante constatazione antropologica, occorre umanizzare l’intera esistenza degli individui, umanizzarne le relazioni e le pratiche, a cominciare da quelle connesse direttamente e indirettamente alla produzione e riproduzione della loro vita materiale. Non si tratta dunque di proclamare l’ennesimo “ritorno alla natura” dell’umanità; si tratta piuttosto di riaffermare la necessità e la possibilità di proseguire il suo cammino verso una Comunità autenticamente umana, la quale presuppone in primo luogo l’estinzione del dominio di classe. Il concetto di Comunità abbraccia l’uomo e la natura, considerato che il loro rapporto è assolutamente necessario. Si tratta piuttosto di riflettere sulla qualità di questo vitale rapporto.

L’uomo ha degli obblighi nei confronti della natura perché è la sola specie in grado di riflettere razionalmente sul complesso dei fenomeni naturali e sociali; questa diversità, che per millenni si è data come superiorità teorica e pratica ai danni della natura e degli stessi uomini, può invece rivelarsi una fonte di feconde possibilità per l’intero habitat terrestre, sempre concepito come inestricabile connubio di attività umane e naturali, di storia e natura. «In conclusione, nell’era dell’antropocene, dopo cinquecento anni di copernicanesimo, l’umanità si salverà se rimetterà al centro la Terra, se tornerà al geocentrismo non più astronomico, ma giuridico, politico e mutatis mutandis “religioso”»[26]. La mia conclusione è invece questa: nell’epoca del dominio totale e mondiale del Capitale l’umanità si salverà da una condizione disumana e disumanizzante solo se metterà al centro della Comunità, pensata come armonica relazione di umanità e natura, l’uomo in quanto uomo, l’uomo che non conosce né classi sociali né, quindi, rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. Ripeto sempre di nuovo lo stesso concetto? Esatto! E non ho ancora finito.

Cito ancora dal Manifesto Ecomodernista: «Abbiamo scritto questo documento mossi da un profondo legame affettivo ed emotivo per il mondo naturale. Apprezzare, scoprire, sforzarsi di comprendere e avvicinarsi alla natura ha rappresentato per molti l’opportunità di uscire da se stessi. Anche coloro che non hanno mai avuto occasione di confrontarsi direttamente con il mondo selvatico, ammettono che la conoscenza dell’esistenza di questi luoghi procura loro un senso di benessere psicologico e spirituale». Qui la natura è concepita come una realtà del tutto separata dalla prassi sociale umana; un ancorché da contemplare con ottima disposizione d’animo e che procura benessere spirituale e psicologico all’uomo che la guarda dalla sua postazione artificiale. In un certo senso riemerge il punto di vista “naturalistico” della borghesia del XVIII secolo, il cui illuminismo, che mostrava una luccicante patina di empatico rispetto e di curiosità “esotica” nei confronti della natura “selvaggia e incontaminata”, era in realtà fortemente impregnato di un’aggressiva superiorità nei suoi confronti. Lo sviluppo, prima graduale e poi sempre più rapido, della tecnoscienza rendeva oltremodo evidente la superiorità dell’Uomo nei confronti di tutte le creature, viventi o non viventi, del Creato. L’Uomo si era finalmente liberato dalla Grande Catena dell’Essere che, secondo la concezione platonica e aristotelica ereditata dalla Chiesa, lo teneva legato all’Universo secondo un preciso ordine gerarchico stabilito ovviamente da Dio. Adesso l’Uomo poteva osservare dall’esterno e dall’alto la Natura. «Gli uomini si distanziano col pensiero dalla natura per averla di fronte nella posizione in cui dominarla»[27]. Ma chi domina sulla natura, domina anche sull’uomo – e viceversa.

Se – e sottolineo se – qualcosa di buono è possibile rintracciare in quel Manifesto è là dove esso rigetta ogni concezione passatista del futuro fondata sull’idealizzazione di un passato idillico che non c’è mai stato, nemmeno in epoca preistorica. Per il resto si tratta di un’apologia del Progresso e del Capitalismo, il cui ottimismo ricorda da vicino il cosiddetto accelerazionismo.

 

Scriveva il professor James Dorst alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso: «L’Uomo è comparso come un verme in un frutto, come un tarlo in una balla di lana, ed ha rosicchiato il suo habitat secernendo delle teorie per giustificare la sua azione. […] Un terribile concetto utilitaristico si è impadronito di noi. Ci interessiamo soltanto a ciò che serva, a ciò che dà un rendimento, preferibilmente immediato. […] Un umile vegetale, un insetto minuscolo contengono più splendore e più mistero della nostra più meravigliosa costruzione»[28]. Dorst esprimeva un pessimismo antropologico che continua a informare una corrente di pensiero, probabilmente molto minoritaria, interna al movimento ecologista. La punta più estrema di questa corrente giunge a mettere in questione la stessa presenza dell’uomo su questo pianeta, ed auspica una rapida estinzione del maledetto Adamo, il quale avrebbe trasformato il Paradiso delle creature viventi e del loro incontaminato habitat in un vero e proprio Inferno. Dopo l’Uomo, la Terra ritornerà alla sua originaria e splendida dimensione ecologica. Diciamo che qui fa capolino una soluzione un tantino radicale della crisi ambientale… Documentari, film, romanzi e saggi ispirati al concetto: La Terra dopo l’uomo, esprimono bene quel punto di vista radicalmente inumano. «Sono giunta al punto di desiderare come Tiberio che l’umanità abbia una testa sola per avere il piacere di mozzarla d’un colpo», faceva dire Sade alla sacrilega e illuminista Juliette. Chissà quanti amanti della Natura hanno in testa quell’inconfessabile desiderio.

Il professor Dorst non era tuttavia incline a concezioni antropofobiche, nichiliste, tutt’altro; per lui l’uomo era, allo stesso tempo, il problema e la sua soluzione: «La natura sarà salvata, in definitiva, soltanto dal nostro cuore. Essa potrà essere preservata soltanto se l’uomo le manifesta un po’ d’amore». Affidare la salvezza della natura, e quindi, in definitiva, dello stesso uomo, al «nostro cuore» non mi sembra una buona idea. Solo «un po’ d’amore»: che economia d’affetti, professore!

Per Martin Heidegger, al punto in cui ci siamo spinti sul terreno della nostra stessa disumanizzazione, «solo un dio ci può salvare»; a mio modesto avviso, invece, solo «un’umanità socialmente sviluppata» (Marx), solo «un’umanità al suo livello più alto» (Schopenhauer), solo «l’uomo in quanto uomo» che vive come nostalgia e come splendida possibilità in tutte le migliori espressioni del pensiero e dell’arte dei millenni che ci stanno alle spalle; solo un Uomo, insomma, può salvare noi e ciò che rimane del nostro pianeta.

Transumanisti e postumanisti non sono in grado di vedere ciò che ai miei occhi appare come una gigantesca ed evidentissima realtà, ossia la presenza su questa Terra del non-ancora-uomo e la possibilità dell’uomo autenticamente umano. È chiaro che ciò che chiamo uomo (nel senso di umanità) ha precise connotazioni concettuali (filosofiche e politiche) che ho cercato di richiamare in questo scritto. A scanso  di equivoci, dico solo che l’uomo di cui parlo non ha nulla a che fare con l’uomo perfetto o con corbellerie di analogo conio. La perfezione, come si dice, non è di questo mondo, mentre l’esistenza di un uomo autenticamente libero, felice e in grado di provare amore disinteressato verso tutti e tutto è, sempre a mio avviso, non solo concepibile e auspicabile ma anche possibile, poste le condizioni sociali qui sommariamente richiamate. Per dirla con Ernst Bloch, l’uomo è «ciò che a tutti appare all’alba della fanciullezza ma ove nessuno ha ancora abitato». Il pianeta Uomo diventerà un giorno la casa dell’uomo? Lo confesso: a questa domanda non rispondo con un grande No solo perché non intendo essere presuntuoso: chi sono io per escludere quella splendida possibilità dall’orizzonte della storia? Proiettare la mia attuale impotenza politica e sociale su un futuro di cui non farò parte, non mi sembra un sintomo di intelligenza. A proposito: parlo di me come espressione di una situazione storica e sociale. Purtroppo.

Nella sua celebre Enciclica “ecologista” del 2015, diventata la Bibbia del progressismo mondiale, Papa Francesco si chiede cosa ha spinto l’umanità, almeno quella che ha la fortuna di vivere nei Paesi del cosiddetto Primo mondo, nel pozzo senza fondo del più sfrenato consumismo, il quale la spinge a divorare con insaziabile voracità cose, natura e persone – di qui il concetto di «scarti umani». E si dà questa risposta, a dir la verità tutt’altro che originale: incalzata dall’ideologia neoliberista l’umanità è sprofondata in una crisi spirituale, morale e culturale che ha pochi precedenti nella millenaria storia umana. Purtroppo le cose sono messe peggio di quanto i buoni di spirito sono disposti a credere: non si tratta dell’ideologia liberista ma del naturale modo di essere dell’economia basata sul profitto. Già Marx mise in luce lo «smisurato e cieco impulso» del Capitale (in quanto tale), «la sua voracità da lupo mannaro del plusvalore [che] scavalca non soltanto i limiti massimi morali, ma anche quelli puramente fisici». La «voracità da lupo mannaro» del Moloch capitalistico del XXI secolo fa impallidire quella raccontata dal comunista di Treviri 150 anni fa. Come mi piace dire con un gioco di parole che probabilmente piace solo a chi scrive, il nostro problema non è il Demonio, che con il suo sterco (il denaro!) tenta e irretisce la nostra debole volontà, ma il Dominio. Il saccheggio dell’ambiente naturale da parte del Capitale è un lato della medaglia che esibisce, al lato opposto, il saccheggio fisico e “spirituale” dell’ambiente umano, dell’uomo concepito nella sua totalità psicosomatica ed esistenziale. Il capitalismo divora il futuro perché la sua contabilità è centrata sul profitto da conquistare nel presente; esso è smisurato per definizione, e certamente per natura, e nessuna “rivoluzione antropologica” potrà mai addomesticarlo. Ho imparato a profetizzare? No, mi basta interpretare correttamente il passato e il presente, e in questa comprensione, che si arricchisce di elementi sempre nuovi, gli scritti marxiani continuano ad avere una grande importanza.

La natura non è, fondamentalmente, né buona né cattiva; essa si limita a essere, a esistere con implacabile e tetragona noncuranza circa lo sguardo etico che l’umanità vi posa. Ma l’uomo, così come ha il diritto di lodare le meraviglie che la natura offre al suo sguardo, ha pure tutto il diritto di deprecare, ad esempio, la cieca violenza che si abbatte sulle prede, spesso divorate vive dai predatori, e magari chiedersi, se credente, come Dio possa sopportare lo sguardo pieno di terrore e di dolore di una gazzella che giace a terra mentre impotente aspetta di venir dilaniata dalle unghie e dai denti della leonessa assetata di sangue e affamata di carne. I conigli cacciati dai suoi innumerevoli predatori letteralmente muoiono di paura, o di affaticamento, perché conoscono una sola difesa: scappare, correre alla ricerca di un nascondiglio. «Dio, perché hai creato i predatori e le prede?». Mistero della Fede! Di qui la splendida utopia di Isaia (quello serio e meritevole d’attenzione): «E il lupo dimorerà con l’agnello, e il pardo giacerà col capretto; e il vitello, il leoncello e la bestia ingrassata staranno insieme, ed un piccol fanciullo li guiderà. E la vacca e l’orsa pasceranno insieme», ecc., ecc (Isaia, 11/6). La Riconciliazione Universale, ovvero l’umanizzazione della natura per mezzo di Dio: è ciò che promette «Il regno pacifico e prosperoso del Messia». E cosa promette il regno pacifico e prosperoso dell’Uomo? Ovviamente non so dare una risposta a questa domanda, né desidero darla, per evidenti limiti oggettivi e soggettivi, e soprattutto per non correre il rischio di proiettare sul – possibile – futuro il cattivo presente. Sono convinto d’altra parte che una Comunità Umana – nell’accezione qui delineata – non possa non instaurare con gli animali rapporti adeguati alla sua natura, con ciò che ne potrebbe seguire anche in termini di “catena alimentare”. La formula è volutamente dubitativa per quanto specificato sopra.

Scriveva Max Horkheimer: «Le dottrine che esaltano la natura o la primitività a spese dello spirito non favoriscono la riconciliazione con la natura: al contrario, incoraggiano l’insensibilità e la cecità nei confronto di essa. Ogni volta che sceglie deliberatamente la natura come suo principio l’uomo regredisce agli impulsi primitivi»[29]. Non c’è dubbio. È il principio dell’uomo (dell’umanità) che dovremmo piuttosto scegliere per emanciparci da impulsi violenti e distruttivi che ereditiamo dalla natura e dalla società. Su questi temi rinvio a tre miei scritti: L’angelo Nero, Eutanasia del Dominio e La Comunità umana come opera d’arte.

Chi oggi parla di antropocentrismo, magari attribuendogli tutte le colpe, tutte le responsabilità circa la catastrofe ambientale prossima futura, non sa, letteralmente, di cosa parla. Lungi dall’essere al centro della scena, nella moderna società borghese l’uomo è stato sempre più messo ai margini della società, è stato ridotto ai minimi termini, non più che un residuo non si sa quanto destinato a durare. Nell’epoca delle masse e degli individui atomizzati l’uomo conduce un’esistenza anoressica, esangue, asfittica, al punto da giustificare domande circa la sua sopravvivenza: dopo Dio, non sarà morto anche l’uomo? In ogni caso, al centro della scena oggi c’è l’individuo in quanto lavoratore, imprenditore, consumatore, contribuente, cittadino più o meno modello; c’è, insomma, l’individuo fatto a immagine e somiglianza del Capitale, l’individuo plasmato e riplasmato dalla prassi sociale capitalistica, c’è insomma la negazione dell’uomo in quanto uomo. «Novissimum organum. È stato dimostrato da tempo che il lavoro salariato ha foggiato le masse dell’età moderna, e ha prodotto l’operaio come tale. In generale, l’individuo non è solo il sostrato biologico, ma – nello stesso tempo – la forma riflessa del processo sociale, e la sua coscienza di se stesso come un essente-in-sé è l’apparenza di cui ha bisogno per intensificare la propria produttività, mentre di fatto l’individuo, nell’economia moderna, funge da semplice agente del valore. […] Decisiva, nella fase attuale, è la categoria della composizione organica del capitale. Con questa espressione la teoria dell’accumulazione intendeva “l’aumento della massa dei mezzi di produzione a paragone della massa della forza-lavoro che li anima”. Quando l’integrazione della società, soprattutto negli stati totalitari, determina i soggetti, sempre più esclusivamente, come momenti parziali nel contesto della produzione materiale, la “modificazione nella composizione organica del capitale” si continua negli individui. Cresce così, la composizione organica dell’uomo. […] La tesi corrente della “meccanizzazione” dell’uomo è ingannevole, in quanto concepisce l’uomo come ente statico, sottoposto a certe deformazioni ad opera di un “influsso” esterno, e attraverso l’adattamento a condizioni di produzione esterne al suo essere. In realtà, non c’è nessun sostrato di queste “deformazioni”, non c’è un’interiorità sostanziale, su cui opererebbero – dall’esterno – determinati meccanismi sociali: la deformazione non è una malattia che colpisce gli uomini, ma è la malattia della società, che produce i suoi figli come la proiezione biologistica vuole che li produca la natura: e cioè “gravandoli di tare ereditarie”»[30].

La tanto esaltata oppure esecrata (due facce della stessa medaglia) onnipotenza dell’uomo è un’immagine ideologica  che si forma nella testa di chi non comprende la realtà del processo sociale e ha un’idea dell’uomo davvero miserabile. Se questo è un uomo, per dirla con Primo Levi.

Che ci piaccia o no, oggi gli individui sono «degli sciocchi figuranti nella dinamica della storia», non «attori consapevoli del loro destino sociale»; prendere coscienza di questo fatto e agire di conseguenza «è infinitamente più sovversivo dell’ultima candidatura verde a questa o quella carica elettiva»[31]. Per Immanuel Kant, il concetto di minorità applicato all’uomo va declinato come segue: «È l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro»[32].. Kant credeva che l’illuminismo, avendo gettato un potente fascio di luce su tutto ciò che accade ed esiste tra terra e cielo, rappresentasse «l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità»; ma il processo sociale ha dimostrato che lo stato di minorità dell’uomo continua anche nel mondo dominato dalla tecnoscienza. Di più: tale cattiva condizione si è piuttosto rafforzata, con le cieche forze sociali che hanno preso il posto di quelle naturali. Sotto questo aspetto il programma illuminista è totalmente fallito, e non poteva che fallire, visto che la razionalità umana si dà ancora dentro condizioni sociali radicalmente irrazionali – disumani. Questo fallimento ha dimostrato che l’emancipazione dell’uomo da ogni forma di sfruttamento, di oppressione e di oscurantismo deve necessariamente passare attraverso una rivoluzione sociale che crei i presupposti materiali per tale emancipazione. Fin quando esisteranno classi che sfruttano e classi sfruttate; classi che posseggono le condizioni oggettive della produzione (macchine, materie prime, ecc.), e quindi la proprietà dei prodotti del lavoro, e classi che posseggono solo capacità lavorative da mettere in vendita; fin quando esisterà il Moloch-Stato posto a difesa di questo status quo sociale, ogni discorso intorno alla libertà integrale dell’uomo o è una menzogna oppure è un incitamento alla rivoluzione sociale anticapitalistica.

Pensare di poter umanizzare i rapporti degli individui verso la natura senza prima umanizzare i rapporti interumani è, a mio avviso, un’illusione, un modo ideologico di impostare la “questione ecologica”. Qui per ideologia intendo, “classicamente”, un sistema di idee o di rappresentazioni che esprimono, appunto, un rapporto illusorio dell’uomo nei confronti del mondo.

Scriveva Heidegger: «Il disvelamento nella tecnica moderna è una provocazione la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata. Ma questo non vale anche per l’antico mulino a vento? No. Le sue ali girano sí spinte dal vento, e rimangono dipendenti dal soffio. Ma il mulino a vento non ci mette a disposizione le energie delle correnti aeree perché le accumuliamo. All’opposto una determinata regione viene pro-vocata a fornire all’attività estrattiva carbone e minerali. La terra si disvela ora come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali. In modo diverso appare il terreno che un tempo il contadino coltivava, quando coltivare voleva ancora dire accudire e curare. L’opera del contadino non provoca la terra del campo. Nel seminare il grano essa affida le sementi alle forze di crescita della natura e veglia sul loro sviluppo. Intanto, però, anche la coltivazione dei campi è stata presa nel vortice di un diverso tipo di coltivazione che richiede la natura. Essa la richiede nel senso della provocazione. L’agricoltura è diventata industria meccanizzata dell’alimentazione. L’aria è richiesta per la fornitura di azoto, il suolo per la fornitura di minerali, il minerale ad esempio è per la fornitura di uranio, l’uranio per l’energia atomica, la quale può essere utilizzata sia per la distruzione sia per usi di pace»[33]. Nella sua critica della modernità capitalistica, per molti versi simile a quella sostenuta da non pochi ambientalisti dei nostri giorni, il filosofo tedesco sembrava prospettare un anacronistico/reazionario ritorno alla natura, un ritorno alla terra – che, beninteso, non implica necessariamente un’ideologia Blut und Boden.

Per come la vedo io, non si tratta di ritornare indietro, posto che ciò sia “oggettivamente” possibile, in direzione di un assetto capitalistico meno predatorio e “selvaggio”, o addirittura verso società precapitalistiche, le quali avevano stabilito con l’ambiente naturale un rapporto molto più “sostenibile” di quanto non mostri di essere il nostro, ma di superare in avanti la vigente società di classe, anche perché superarla correndo in direzione del passato significherebbe lasciare intatte le condizioni oggettive che hanno reso possibile il processo storico-sociale che ha generato la società capitalistica. Per dirla con Marx, «ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda»[34]. Le condizioni oggettive di cui parlo si possono riassumere nel concetto di rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, rapporti che hanno segnato la millenaria storia delle società classiste. Si tratta di chiudere questa storia e di inaugurarne una interamente nuova sulla base di relazioni umane peculiari di una Comunità che con conosce la divisione classista degli individui né una divisione sociale del lavoro rigidamente precostituita e fissata tenendo conto di un qualche criterio che neghi la dimensione onnilaterale dei bisogni e delle capacità di ogni singolo individuo[35].

Concludo rapidamente riassumendo il mio punto di vista e scusandomi con i lettori per gli errori e le ripetizioni di frasi e concetti che non ho avuto il tempo di correggere e cancellare .

Ogni azione umana ha necessariamente un impatto sull’ambiente, e quindi tutta la questione ecologica si riduce a un problema politico: che tipo di società vogliamo sostenere o costruire? Per me non ha alcun senso entrare nel merito della disputa tra sostenitori del climate change e i cosiddetti negazionisti (secondo la malevola definizione datane dai primi); del resto, anche se volessi farlo non ne avrei le “competenze scientifiche”. In linea generale, posso dire che un cambiamento climatico innescato dalle pratiche “antropiche” (leggi: capitalistiche) mi appare tutt’altro che inverosimile[36]. Paradossalmente la disputa scientifica, politica e ideologica sulle “vere cause” del cambiamento climatico finisce per occultare, o comunque per sminuire, il disastro ambientale che già c’è, il quale “basta e avanza”, come si dice dalle mie parti, per condannare sotto tutti i punti di vista e senza appello (è l’unico “giustizialismo” che volentieri mi concedo) la società capitalistica.

Ciò che mi appare degno d’attenzione e di critica è piuttosto l’approccio ideologico che ha preso, già nel suo momento genetico, tutta la questione ecologica: per i “catastrofisti” si tratta di mettere da parte tutte le distinzioni di classe, di nazionalità, di religione e così via, in modo da concentrare tutti i nostri sforzi nella salvezza del solo pianeta che abbiamo («Non abbiamo un pianeta B!»); per i “negazionisti” il cambiamento climatico, se c’è, avrebbe poco a che fare con le attività umane, e puntano il dito piuttosto sull’attività solare e sui fenomeni naturali che da sempre modificano, periodicamente, il clima della Terra. Le due opposte fazioni condividono ovviamente un comune orizzonte sociale: il capitalismo, più o meno “ecosostenibile” (green), più o meno a misura d’uomo e di natura – sic! Scrivevo qualche mese fa: «Inutile dire che la “transizione ecologica” si configura a tutti gli effetti come una gigantesca occasione di profitto per il capitale e come una guerra sistemica (economica, tecnologica, scientifica) tra imprese e Paesi. La posta in gioco non è, ovviamente, la salvezza del pianeta, peraltro già abbondantemente violentato da ogni genere di inquinamento e minacciato da migliaia di bombe atomiche stipate negli arsenali di potenze grandi e piccole; la posta in gioco è la sopravvivenza del Capitalismo, la cui insaziabile fame di profitti oggi richiede ristrutturazioni tecnologiche e organizzative delle imprese e dei Paesi (a cominciare dalle infrastrutture “reali” e “virtuali”) di vaste proporzioni. Oggi una bella guerra mondiale insufflerebbe nuovo ossigeno nei polmoni di un Moloch affaticato e appesantito, bisognoso di rigeneranti distruzioni creative. Ma in mancanza di meglio, il Capitale si accontenta di rottamare vecchie auto, vecchie caldaie, vecchi edifici, vecchie abitudini (anche alimentari), vecchie figure professionali e così via. […] Se è vero che “un’estinzione di massa” è dietro l’angolo, ebbene non ci rimane che una sola strada da percorrere, quella che porta oltre la società fondata sulla ricerca del profitto. Altro che “cambiamento rapido dei modelli socio-economici imperanti”! Viceversa, possiamo considerarci già estinti, con buona pace di Greta Thunberg, Al Gore e degli altri VIP dell’ecologismo mondiale. L’urgenza della cosa non ammette altre realistiche opzioni. Tutto il resto è fumisteria politica e ideologica che ascoltiamo ormai da troppi anni e che ascolteremo ancora per decenni, chi più chi meno, secondo l’età e la fortuna.  Ragazzi, siate dunque realisti: non chiedete niente ai politici (di “destra”, di “centro” e di “sinistra”), i quali sono pagati per servire il “sistema”,  e mettetevi alla testa di una vera rivoluzione sociale, il solo “Nuovo Umanesimo” che a mio avviso è possibile concepire in questa disumana e inquinata epoca. […] E se Greta avesse ragione? Rivoluzione! Non c’è altro da fare»[37].

Scriveva Jeremy Rifkin in un suo libro ecologicamente corretto scritto qualche anno fa: «La verità è che le leggi che regolano il flusso dell’energia sono ferree e, se infrante, possono far crollare un sistema sociale. Le leggi della termodinamica stabiliscono, in ultima analisi, quali sono i limiti che l’uomo, nel tentativo di dominare l’ambiente, non potrà mai oltrepassare. Le società che tentano di superare i vincoli imposti dal loro stesso regime energetico rischiano la catastrofe»[38]. Ma è possibile che uno Scienziato Sociale del calibro di Rifkin non comprenda che le uniche Ferree Leggi (bronzee alla stregua di quelle naturali che scuotono il Pianeta) che oggi governano la Società-Mondo sono quelle che fanno capo alla prassi economica (organizzare, produrre, vendere, comprare, consumare le merci; il tutto in vista del vitale profitto)? Sì, è possibile, e ciò dimostra che più che di scienza, il pensiero che dice no a questo catastrofico mondo – con o senza combustibili fossili, con o senza energia nucleare – si nutre di coscienza. Ed è proprio la coscienza critico-radicale che latita nel cosiddetto mondo iperconnesso e straripante di informazioni. «Sono rari, nella storia, i momenti in cui una generazione di uomini ha a disposizione un nuovo strumento grazie al quale riorganizzare le relazioni reciproche e la struttura in cui si realizzano. Quello che stiamo vivendo è uno di questi momenti. Ci è stata donata l’energia del sole. L’idrogeno è una promessa per il futuro dell’umanità sulla terra. Dipenderà da noi se questa promessa verrà sprecata in avventure fallimentari e opportunità perdute, oppure saggiamente utilizzata a vantaggio dell’umanità e di tutti gli esseri viventi»[39]. Di certo il Capitale (“pubblico” e “privato”) sta investendo molto sulle cosiddette energie alternative o “dolci”, come dimostra il gran parlare intorno al già mitico Green New Deal, e lo farà con maggiore intensità man mano che l’iniziativa diventerà sempre più profittevole. È altrettanto certo che quando il noto guru sostiene la necessità di «riorganizzare le relazioni reciproche e la struttura in cui si realizzano», egli non pensa ad altro che a un capitalismo “ecosostenibile”, e di ciò non gli si può fare una colpa. È più facile pensare alla catastrofe imminente/definitiva, che alla fuoriuscita dell’umanità dal capitalismo, impresa che comunque necessiterebbe non di una rivoluzione tecnologica, energetica, ma di una rivoluzione sociale, la sola che può davvero «riorganizzare le relazioni reciproche e la struttura in cui si realizzano».

«Non oso più lamentarmi delle mie coliche dopo questa sventura», scrisse Voltaire dopo il catastrofico terremoto di Lisbona del 1° novembre 1755; mutuando il grande filosofo francese mi vien da dire che dinanzi all’immane e definitiva catastrofe che ci minaccia, non ha alcun senso parlare delle nostre metaforiche coliche. Che piccola cosa! La lotta per il lavoro, per il salario, per la casa, per migliori condizioni di vita quasi impallidisce ai miei occhi, diventa un’insignificante preoccupazione. Di fronte al ciclopico compito di salvare la nostra specie e il nostro pianeta mi sento piccolo, insignificante e inadeguato; ogni cosa si restringe e si relativizza, a cominciare dalla lotta di classe, che improvvisamente mi appare come una cosa vecchia e insignificante? Abbiamo un pianeta da mettere in sicurezza e c’è chi si attarda a parlare di “lotta di classe”: inammissibile! Faccio della facile ironia? Diciamo che il cambiamento climatico non mi ha – ancora! – fatto cambiare quelle quattro ideuzze che albergano nella mia testa.

A proposito del terremoto di Lisbona del 1755 vorrei aprire una breve parentesi. Com’è noto quell’evento ebbe anche importanti conseguenze filosofiche, perché sollecitò interessanti riflessioni che trovano tracce nelle opere di Voltaire, Rousseau e Kant e che forse dicono qualcosa anche a chi oggi si occupa dell’impronta che il Moloch lascia sul pianeta. Mentre Voltaire cercò di ridicolizzare l’ottimismo («Tutto è bene») di chi (Leibniz e Pope in testa) aveva creduto di poter dominare le forze della natura, mentre la vita dell’uomo continuava a essere appesa al Caso, Rousseau e Kant misero invece in luce il fondamento umano della catastrofe: gli uomini non avrebbero dovuto costruire abitazioni in luoghi continuamente soggetti ai terremoti, e comunque non avrebbero dovuto costruirle così alte, né in così grande quantità e in uno spazio così ristretto. L’uomo ha moltiplicato per mille le conseguenze di un fenomeno naturale. Non il Caso, o la Divina Provvidenza, né tanto meno la Natura, andrebbero dunque poste sotto accusa, ma l’uomo che costruisce città là dove il terremoto è un fenomeno frequente. Qui viene chiaramente avanti il rapporto che lega l’uomo alla natura: è possibile stabilire con quest’ultima un rapporto razionale, armonico, benevolo, in una sola parola: umano?

È impossibile separare l’odierna crisi ecologica dal capitalismo, e questo semplicemente perché solo l’esistenza, oggi estesa all’intero pianeta, del vigente modo di produrre e distribuire la ricchezza sociale spiega la distruzione ambientale e tutti i fenomeni connessi in qualche modo alla distruzione dell’ecosistema provocata dalle attività umane. Già solo questa elementare, e financo apparentemente banale, osservazione mostra tutta l’inconsistenza teoretica e l’ambiguità politica del concetto di Antropocene, il quale, come già detto, rinvia a un’umanità astorica, indifferenziata, priva di reali e vitali determinazioni storiche e sociali.

Da quando l’uomo ha acquisito la capacità di foggiare strumenti idonei a potenziare le sue capacità naturali, e di costruire manufatti in grado di emanciparlo dal totale dominio della natura, egli ha pure conquistato la capacità di autoprodursi, di cambiare cioè la propria dimensione biologica fuori e indipendentemente dai meccanismi e dai tempi dell’evoluzione. Homo causa sui, per dirla con il filosofo. Domesticazione di piante e animali e autoproduzione delle caratteristiche fisiche, intellettive e psicologiche umane sono parte di uno stesso processo. L’uomo che si appresta a entrare nella dimensione storica, lasciandosi dietro preziose testimonianze artistiche fissate nella pietra di manufatti (statuette) e cavarne (arte rupestre)[40], è il prodotto di un processo (velocissimo se confrontato con i tempi naturali) che costituisce la risposta peculiarmente umana al “cieco” dominio della natura su tutto ciò che esiste sulla Terra.

Quella umana è insomma la sola specie esistente sul pianeta che non è semplicemente né essenzialmente “per natura” ma, in primo luogo e fondamentalmente, “per società” – natura inclusa. Prim’ancora di stabilire se si è trattato di un acquisto positivo o negativo per la nostra specie e per la natura nel suo insieme, si tratta, a mio avviso, di prendere semplicemente atto di un fatto che non è più in nostro potere di modificare, e di trarne tutte le conseguenze.

Il rapporto dell’uomo con la natura si riduce dunque a una questione essenzialmente sociale: la comunità umana ha con la natura un rapporto di dominio e di sfruttamento, oppure la prima è in grado di stabilire con la seconda una relazione orientata all’armonia, al rispetto, alla cura, all’amore? Nella misura in cui le relazioni sociali capitalistiche sono relazioni di dominio e di sfruttamento (l’uomo domina sull’uomo, l’uomo sfrutta l’uomo), è del tutto ovvio che tra la società capitalistica e la natura insista un rapporto di dominio e di sfruttamento: il Capitale vede, per così dire, nella natura un immane serbatoio di materie prime da usare nel processo produttivo di merci; questo per un verso; per altro verso vi vede un immenso serbatoio dentro il quale scaricare tranquillamente gli scarti della produzione: prodotti della combustione, liquami più o meno velenosi, materiali di risulta, gas emessi dagli animali da macello e così via. Di qui, l’inquinamento dei cieli (stratosfera compresa), delle acque (mari, fiumi, laghi), delle terre – come vedono bene gli astronauti e i dispositivi ottici istallati nelle stazioni spaziali che orbitano intorno alla Terra.

Naturalmente i decisori politici cercano di mettere un argine alla forza distruttiva del Moloch capitalistico, che se fosse lasciato a se stesso distruggerebbe in poco tempo tutto ciò che gli serve per generare profitti. Già Marx ed Engels interpretarono le prime leggi orientate a proteggere i lavoratori come il tentativo di temperare e razionalizzare lo sfruttamento degli stessi lavoratori, una preziosa risorsa che il Capitale rischiava di bruciare completamente nel suo violento momento genetico[41]. Non dimentichiamo che lo Stato capitalistico difende gli interessi generali delle classi dominanti, e questi interessi impongono l’esistenza nel tempo di capacità lavorative e di materiale naturale da “mettere a profitto”; per non parlare dei problemi sociali legati al supersfruttamento della risorsa umana e all’inquinamento dell’ambiente – a partire da quello metropolitano. D’altra parte, questa “meritoria” opera di tutela del “capitale-Uomo” e del “Capitale-Natura” da parte della politica si rivela preziosissima per il sistema nel suo complesso, perché i capitalisti si vedono costretti a sviluppare, grazie alla tecnoscienza, macchine più produttive e più efficienti anche dal punto di vista del rendimento energetico, e a ricercare fonti energetiche meno inquinanti, a produrre nuovi materiali più resistenti e meno inquinanti, e così via. Tutto quello che non lo distrugge, rafforza il Moloch: è questa la severa lezione impartita dai secoli dominati dal Capitale. È l’epoca storica nella quale oggi viviamo, nella quale vive l’intero pianeta.

Parlare di specie umana nel seno della società classista a mio avviso ha un significato critico-rivoluzionario solo nel contesto di un discorso che mostri come il capitalismo, oltre tutto, metta in pericolo la stessa esistenza della specie umana. Non solo emancipando se stesse le classi subalterne emancipano l’intera umanità (Marx), ma nel XXI secolo possiamo certamente estendere questo compito storico a tutta la sfera “ecosistemica”: emancipando se stesse, le classi dominate liberano l’intero pianeta da un rapporto sociale altamente disumano e distruttivo. Per questo la causa anticapitalista non riguarda, oggi più che mai, solo i lavoratori e i proletari di marxiana memoria; essa ha da dire qualcosa di molto importante anche agli uomini e alle donne di qualsivoglia estrazione sociale che abbiano maturato un inestinguibile odio nei confronti della società che sfrutta, opprime, mercifica e distrugge persone, animali, piante, foreste, fiumi, mari, laghi, ghiacciai, terre, cieli: ogni cosa che giace su questo pianeta.

Di solito a questo discorso radicalmente anticapitalista viene legittimamente, ma del tutto infondatamente, obiettato che l’esperienza del socialismo reale (quello fallito: vedi Unione Sovietico, e quello trionfante: vedi la Cina) dimostrerebbe che lo sfruttamento dell’uomo e della natura non riguarda solo il capitalismo, e che per non pochi aspetti il socialismo reale ha mostrato e mostra (dove sopravvive) prassi oppressive e sfruttatrici ancora più aggressive rispetto al capitalismo occidentale[42]. L’obiezione è legittima perché l’esperienza sovietica e quella cinese (per parlare solo dei due grandi modelli) in effetti va nel senso da essa delineato; l’obiezione è però del tutto infondata perché quelle due esperienze cosiddette socialiste si collocano per intero sul terreno capitalistico, sia dal punto di vista economico, sia da quello politico-istituzionale. Il mio profondo disprezzo per gli stalinisti di ogni ceppo nazionale (dai togliattiani ai maoisti, dai castristi ai chávisti, ecc.) si spiega col fatto che ho sempre considerato quei sinistri personaggi i migliori difensori dello status quo sociale, avendo accreditato presso le classi subalterne un “socialismo” e un “comunismo” davvero ripugnanti. È soprattutto grazie a loro che, come ha detto qualcuno, oggi ci riesce più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. L’esperienza del cosiddetto socialismo reale (leggi reale capitalismo) ha contribuito enormemente all’evaporazione del futuro, del possibile cambiamento radicale, ed è una missione quasi impossibile far comprendere a chi ha in odio il capitalismo che la sua alternativa non è mai stata costruita[43]. Per questo non m’impunto quando qualcuno mi dice di essere «contro il capitalismo ma anche contro il socialismo», intendendo egli per socialismo quello che per me andrebbe chiamato senz’altro capitalismo (non importa se “privato” o “di Stato”): sulla sostanza della cosa (il capitalismo!) la pensiamo allo stesso modo. Mi importa la sostanza della cosa, il suo concetto, non il suo nome. Demistificare il cosiddetto “socialismo reale” per me ha questo significato particolare.[44]

Scriveva qualche mese fa Sandro Dell’Orco ricordando il 50° anniversario della pubblicazione di Dialettica negativa di Adorno: «Il problema non è solo abolire il capitalismo, ma lo stesso comportamento istintuale egoistico, il bellum omnium contra omnes, che lo produce e da cui è continuamente riprodotto. L’abolizione meramente economica del capitalismo – come i paesi socialisti hanno dimostrato – non solo non produce automaticamente la fine della condizione di possibilità del dominio, ma è compatibile con la sua degenerazione più brutale e totalitaria». Nell’ambito di quella Scuola fu soprattutto Herbert Marcuse che elaborò il concetto di «società industriale avanzata», seguendo il quale egli giun­se appunto ad assimilare il capitalismo occidentale con «le forme at­tuali di comunismo», dove l’errore evidentemente non stava in quella assimilazione, ma piuttosto nell’ac­creditamento comunista dei regimi “diversamente capitalistici” radicati in Russia, in Cina e altrove.

Scriveva G. D. H. Cole nel remoto anno di grazia 1961, in pieno boom economico postbellico: «La differenza fondamentale fra la civiltà occidentale moderna e tutte le altre civiltà che sono esistite in passato non è tanto che essa è dinamica mentre le altre erano statiche, perché la storia umana non è mai stata statica anche quando il ritmo delle trasformazioni tecnologiche era prossima a zero, quanto il fatto che le società industriali moderne hanno fatto del progresso, dell’ansia di cambiare, la loro seconda natura. […] L’uomo moderno è stato preso in un vortice immenso di sviluppo economico che finirà per inghiottirlo se egli non riuscirà a padroneggiare le forze che minacciano la società di distruzione»[45]. Il concetto di società industriale moderna non coglie l’essenza della cosa: è il dominio sociale capitalistico, infatti, che ha fatto dello sviluppo economico un imperativo categorico e degli individui delle “risorse” sottoposte alla cieca brama di profitti.

[1] K. Marx, Il Capitale, I, p. 113, Editori Riuniti, 1980.
[2] «In breve, il Sistema Terra opera ora in un modo diverso e nulla di ciò che gli umani possono fare, nemmeno la fine della combustione di carburanti fossili, potrebbe far tornare indietro l’orologio geologico all’Olocene» (C. Hamilton, The Anthropocene as rupture, «The Anthropocene Review», p. 8, N. 2/2016 ).
[3] «Dio il Signore prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse» (Genesi, 2/15).
[4] P. Acot, Storia dell’ecologia, p. 203, Lucarini, 1989.
[5] Il Foglio, 3 dicembre 2019.
[6] Strategie di marketing all’epoca di Greta Thunberg e del Green New Deal. Ovvero, siamo messi davvero male in ogni “comparto” esistenziale: «Celebrare la potenza della musica, che abbatte muri e costruisce ponti, con un disco che mischia il pop-rock occidentale con influenze mediorientali, e che parla di amore, uguaglianza, umanità e speranza, ma anche di guerre e razzismo: è quello che fanno i Coldplay con Everyday life, il loro nuovo lp (nei negozi da oggi), l’ottavo della loro carriera. “È la nostra reazione alla negatività che è in giro ovunque”, spiega il frontman della band britannica, Chris Martin, “se hai il privilegio di girare il mondo, capisci che siamo tutti sulla stessa barca”. Così i Coldplay annunciano anche lo stop ai tour: “I concerti inquinano. Finché non saremo certi che siano eco-sostenibili, staremo fermi”. Appena due esibizioni ad Amman, trasmessi in diretta su YouTube (all’alba e al tramonto). Lunedì saranno al Museo di Storia Naturale di Londra» (Il Messaggero, 22 novemnre 2019). E poi dice che uno si butta a… Woodstock!
[7] Ibidem.
[8] M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 47, Einaudi, 2000.
[9] S. Baranzoni, A. Lucci, P. Vignola, L’Antropocene. Fine, medium o sintomo dell’uomo? p. 5, Lo sguardo, N. 22/2016.
[10] Ivi, p. 7.
[11] «Attorno a questa data appaiono in varie parti del mondo i primi villaggi , si hanno i primi insediamenti umani certi in Nordamerica, finisce, con l’ultima glaciazione , il pleistocene e inizia l’Era geologica più moderna, chiamata Olocene o Postglaciale; e almeno in una zona del mondo [Mezzaluna Fertile] inizierà da lì a poche centinaia di anni la domesticazione di animali e piante» (J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, p. 21, Einaudi, 1998).
[12] «Trattando dell’impatto delle guerre, va ricordato che fra le ipotesi di inizio dell’Antropocene c’è anche lo scoppio degli ordigni nucleari del 1945, che oltre ad aver per la prima volta messo a disposizione degli umani la propria autodistruzione ha portato anche alla dispersione di radionuclidi nel suolo, negli oceani e nell’atmosfera in quantità estesa, ubiquitaria e rilevabile negli strati sedimentari. L’ambiente è una vittima silenziosa dei conflitti armati, la metrica convenzionale misura l’impatto grave più immediato: il numero di vite perdute, ma questo non rende in forma completa il danno causato. Le guerre sono anche catastrofi ambientali con effetti che perdurano ben oltre la fine degli scontri, con conseguenze ambientali che – come per le esplosioni nucleari – possono non avere mai fine. Ma le imprese belliche sono responsabili di un impatto senza precedenti» (E. Ferrara, Teorie e pratiche dell’Antropocene: storia e geologia dell’impatto umano sull’ambiente, Culture della Sostenibilità, 2016). Ma è corretto, ha un qualche significato storico e sociale parlare in questi termini della guerra imperialistica (perché di questo si tratta)? Per me non ha alcun significato, se non quello di mistificare e neutralizzare il contenuto sociale e politico di un dato di fatto che condanna in radice la vigente società.
[13] «L’Antropocene, cioè l’era geologica attuale caratterizzata dal forte condizionamento dell’uomo, ha una data di inizio precisa. È il quarto trimestre del 1965 tra ottobre e dicembre quindi – il periodo dei test nucleari del secondo dopoguerra. Lo ha stabilito Nature, la rivista scientifica inglese, su cui è appena stata pubblicata una ricerca che fissa a quella data il golden spike, ovvero l’evento in grado di segnare il cambio da un’era all’altra. […] La traccia che mancava ora sembra esserci, e si trova sull’isola Campbell, 600 chilometri a sud della Nuova Zelanda. Su questo sperduto e incontaminato territorio vive un unico albero – “il più solitario al mondo”, perché non ve ne sono di più vicini nell’arco di 200 chilometri. È un peccio di Sitka, una pianta che normalmente si trova a latitudini più a nord, ma che secondo la Bbc è stata portata su quell’isola intorno al 1905. L’albero è stato analizzato con il metodo del carbonio -14. Nei suoi anelli è imprigionato un picco di isotopi del carbonio che, secondo gli studiosi, proviene dai test nucleari dell’emisfero settentrionale avvenuti tra 1950 e 1960. E in particolare il picco è avvenuto negli ultimi mesi del 1965, “in concomitanza con la ‘Grande Accelerazione’ della produzione industriale e del consumo”, si legge nella ricerca. Il peccio di Sitka vive in un luogo incontaminato: è difficile pensare a un posto più sperduto di quello. Quella pianta è cioè la testimonianza di quanto sia globale l’intervento umano sull’ambiente» (Agi, 20 febbraio 2018).
[14] Manifesto Ecomodernista, http://www.ecomodernism.org/italiano.
[15] «Fu solo quattrocentomila anni fa che alcune specie umane cominciarono a cacciare in pianta stabile della selvaggina di grande taglia, e solo negli ultimi centomila anni – con la nascita dell’Homo sapiens – l’uomo è salito sulla vetta della catena alimentare. Quel salto spettacolare dalla posizione mediana al vertice ebbe enormi conseguenze. Altri animali in cima alla piramide, come i leoni e gli squali, erano saliti in quella posizione molto gradualmente, lungo milioni di anni. Ciò aveva consentito all’ecosistema di sviluppare filtri ed equilibri che impedivano ai leoni e agli squali di suscitare troppo sconvolgimento. Mentre i leoni diventavano micidiali, le gazzelle imparavano a correre più forte, le iene a cooperare meglio tra di loro, e i rinoceronti a diventare di carattere più iroso. Gli umani, invece, salirono in vetta così alla svelta che all’ecosistema non fu dato il tempo di equilibrare le cose. Non bastasse, non si adattarono neppure gli umani. Gran parte dei principali predatori del pianeta sono creature maestose. Il fatto di aver dominato per milioni di anni ha infuso loro un’assoluta sicurezza. Al contrario, il Sapiens somiglia al dittatore di una repubblica delle banane. Essendo noi stati, fino a poco tempo fa, tra le schiappe della savana, siamo pieni di paure e di ansie circa la posizione che occupiamo, il che ci rende doppiamente crudeli e pericolosi. Molte calamità storiche, dalle mortali guerre alle catastrofi ecologiche, sono la conseguenza di questo salto oltremodo veloce» (Y. N. Harari , Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, Bompiani, 2017). Sull’impatto “antropico” ai tempi del Neolitico Jared Diamond ha scritto pagine interessanti nel suo già citato libro Armi, acciaio e malattie (1997), ripubblicato quest’anno da Einaudi.
[16] É. Durkheim, Antropogeografia, in L’anno sociologico, 1899, p. 558.
[17] .K. Marx. Il capitale, I, pp.71-211-218 Editori Riuniti, 1980.
[18] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), I, p. 10, La Nuova Italia, 1978.
[19] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 35, Mia, 2007.
[20] Termine proposto da Jason Moore e Donna Haraway come critica del concetto di Antropocene. È un termine che non mi piace né dal punto di vista estetico, per così dire, né da quello concettuale, perché fa fin troppo il verso a ciò che pure intende criticare. Preferisco parlare di epoca capitalistica, un’epoca interamente interna alla dimensione storico-sociale – natura compresa.
[21] D. Haraway, Tentacular Thinking: Anthropocene, Capitalocene, Chthulucene, Settembre 2015.
[22] S. Consigliere, Lettere persiane agli abitanti dell’antropocene, in L’Antropocene. Fine, medium o sintomo dell’uomo? P. 149.
[23] K. Marx, Il Capitale, Primo libro, Capitolo sesto inedito, p. 63, Newton, 1976.
[24] Su tutti questi argomenti rinvio a: Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Io non ho paura – del robot; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.
[25] Manifesto Ecomodernista http://www.ecomodernism.org/italiano.
[26] F. Bellusci, Michel Serres: una filosofia su ciò che ci attende, in L’Antropocene. Fine, medium o sintomo dell’uomo? p. 87.
[27] M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 47.
[28] J. Dorst, Prima che la natura muoia, pp. 13-516, Labor, 1969.
[29] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, p. 111, Einaudi, 2000.
[30] T. W. Adorno, Minima moralia, p. 278, Einaudi, 1994.
[31] P. Acot, Storia dell’ecologia, p. 218.
[32] I. Kant, Scritti politici e di filosofia del diritto, p. 141, Utet, 1978.
[33] M. Heidegger, La questione della tecnica in Saggi e discorsi, p. 11, Mursia, 1976.
[34] «Questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda. […] Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in “una volta”  e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica» (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, pp. 33-34, Editori Riuniti, 1972).
[35] «E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico» (Ivi).
[36] Scrivevamo io e i miei compagni di Combat nel remoto febbraio 1986: «La distruzione della foresta amazzonica, con i cambiamenti climatici globali che induce, cesserebbe di avere un senso dal punto di vista capitalista solo quando i profitti, realizzati con la sua distruzione, fossero inferiori a quelli persi come conseguenza di ciò. Ad esempio con la drastica riduzione della produzione agricola causata dalla desertificazione, con la scomparsa di specie animali che entrassero nel ciclo produttivo ecc.». Diciamo che il concetto di cambiamenti climatici indotti dalle “attività antropiche” non mi è nuovo.
[37] E se Greta avesse ragione? Rivoluzione! Leggi anche: L’apocalisse al tempo di Greta Thunberg, Lettera di un anticapitalista a Greta Thunberg, Appesi alle opposte “evidenze scientifiche”, Salvare il pianeta! Ma da quale catastrofe esattamente?
[38] J. Rifkin, Economia all’idrogeno, p. 9, Mondadori, 2002.
[39] Ivi, p. 306.
[40] «Una nuova, importante scoperta archeologica potrebbe farci aggiornare i manuali di storia dell’arte al capitolo sull’arte rupestre: è stata infatti scoperta una scena di caccia dipinta sulla parete di una grotta che è stata datata dagli esperti a più di 44.000 anni fa (pur con qualche dubbio di cui si dirà sotto) e che pertanto la renderebbe la più antica del mondo. La caverna si trova sull’isola di Sulawesi, in Indonesia.  Il dipinto raffigura una scena di caccia con maiali e bufali (oltre agli animali compaiono alcune figure dalle sembianze umane che li inseguono) e, secondo gli archeologi che l’hanno studiata, è l’opera d’arte rupestre più antica al mondo tra quelle realizzate con intento narrativo» (Finestre sull’Arte, 12 dicembre 2019).
[41] «Il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro del plusvalore, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usura il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo [qui si allude anche al lavoro dei bambini]. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare. Lesina sul tempo dei pasti e lo incorpora, dove è possibile, nel processo produttivo stesso, cosicché al lavoratore vien dato il cibo come a un puro e semplice mezzo di produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapore, come si dà sego e olio alle macchine. […] Dunque, se il prolungamento contro natura della giornata lavorativa, al quale tende di necessità il capitale nel suo sregolato istinto a valorizzare se stesso, abbrevia il periodo di vita degli operai e, con esso, la durata della loro forza-lavoro, […] sembra che il capitale sia indotto dal suo stesso interesse a una giornata lavorativa normale. […] Il capitale non ha riguardi per la salute e la durata della vita dell’operaio, quando non sia costretto a tali riguardi dalla società. […] Ma considerando il fenomeno nel suo complesso, tutto ciò non dipende neppure dalla buona o cattiva volontà del capitalista singolo. La libera concorrenza fa valere le leggi immanenti della produzione capitalistica come legge coercitiva esterna nei confronti del capitalista singolo» (K. Marx, Il Capitale, I, pp. 300-306).
[42] Scriveva Acot: «Gli ecologisti sono “anti-produttivisti” e respingono contemporaneamente e in un sol colpo i “vecchi sistemi” economici (e, dunque, i partiti politici “tradizionali”). Capitalismo e socialismo avrebbero infatti la stessa finalità: la crescita economica a qualunque costo» (P. Acot, Storia dell’ecologia, p. 195).
[43] Scriveva Herbert Marcuse nel 1969: «Sotto certi importanti aspetti il “comunismo mondiale” è stato il Nemico che si sarebbe dovuto inventare se non fosse esistito. […] L’opposizione nei paesi a capitalismo avanzato è stata gravemente indebolita dall’involuzione stalinista del socialismo, che ha fatto del socialismo un’alternativa non esattamente piacevole al capitalismo» (H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, p. 100, Einaudi, 1973). «È difficile per me interpretare il progetto sovietico come rottura fondamentale. La grande spinta alla industrializzare degli anni Trenta si basava – massicciamente – sull’importazione di capitale fisso, che nel 1931 costituiva il 90% delle importazioni totali. I sovietici erano così affamati di valuta forte che “lo Stato era preparato a esportare qualsiasi cosa: dall’oro, il petrolio e le pellicce ai quadri dell’Hermitage”. Se il progetto sovietico assomiglia ad altri modi di produzione, è sicuramente a quello tributario, non a quello socialista, attraverso il quale lo Stato estrae direttamente il surplus. Tra l’altro, non è vero che i sovietici privilegiarono il mercato interno dopo il 1945. Gli scambi con i paesi ocse (in dollari) aumentarono del 8,9% annuo tra il 1950 e il 1970, fino a toccare il 17,9% nella decade seguente. Si tratta di una tendenza accompagnata dal costante deterioramento delle condizioni di scambio e dall’aumento del debito nella zona d’influenza sovietica. Occorre davvero ricordare che la crisi del debito negli anni Ottanta fu originata dal collasso non del Messico ma della Polonia nel 1981?» (J. W. Moore, Prefazione all’edizione italiana di Antropocene o Capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria, Ombre Corte, 2017). «Lo Stato estrae direttamente il surplus» nel capitalismo di Stato, non nel socialismo. Già Engels parlava dello «Stato capitalista [come] l’ideale capitalista complessivo» (o collettivo): «Recentemente, da che Bismarck si è gettato alla statizzazione, si è presentato un certo falso socialismo, il quale ogni monopolio, anche quello di Bismarck, dichiarò senz’altro socialista. […] Lo Stato moderno, quale che sia la sua forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, lo Stato capitalista, l’ideale capitalista complessivo. Quanto più si appropria di forze produttive tanto più esso diventa realmente il capitalista generale, tanto più sfrutta i cittadini. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La categoria del capitale non è abolita, ma è spinta al contrario al più alto grado» (F. Engels, La scienza sovvertita dal signor Eugenio Dühring, pp. 237-238, Avanti Edizioni, 1925). Sul significato storico-sociale dello stalinismo rimando a Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (1917-1924).
[44] S. Dell’Orco, Per il 50° anniversario della pubblicazione di Dialettica Negativa, Sinistrainrete.
[45] G. D. H. Cole, Storia economica del mondo moderno, pp. 176-177, Garzanti, 1961.

13 pensieri su “LA CRISI ECOLOGICA NELL’EPOCA DEL CAPITALE. Sul concetto di Antropocene

  1. Da Italia Oggi del 17/12/2019:

    Il fallimento della conferenza Cop 25 di Madrid sul clima non deve stupire più di tanto. Ormai dietro le divisioni tra gli Stati non ci sono soltanto le profonde divergenze di interessi sul divieto progressivo dei combustibili fossili, ma anche il proliferare sul web di studi contrari al mainstream mediatico sulla cosiddetta emergenza climatica. Proprio alla vigilia del vertice di Madrid, sul sito canadese Global Research è stata postata un’inchiesta di William Engdhal, 75 anni, analista geopolitico americano e autore di best seller sulle guerre del petrolio, il quale, citando nomi e fatti precisi, sostiene una tesi clamorosa. Eccola: la grande finanza mondiale, alleata per l’occasione con l’Onu e l’Unione europea, si starebbe servendo in modo cinico di Greta Thunberg come icona mediatica per creare allarmismo sul riscaldamento climatico provocato dall’uomo (una fake news, sostiene Engdhal), e innescare di conseguenza il business più redditizio dei prossimi decenni, il cosiddetto Green new deal, la rivoluzione dell’economia verde. Il tutto con un piano di investimenti di oltre 100 trilioni di dollari, da raccogliere con massicce emissioni di obbligazioni speculative. Fondi da riversare, mediante il credito, sulle nuove imprese climatiche, anche a prescindere dal loro effettivo valore e know-how. Ovviamente a scapito dei settori dell’economia «colpevoli» di inquinare, e con duri sacrifici per milioni di lavoratori e consumatori, ma enormi profitti per gli istituti finanziari che hanno sposato questo business. […] Più avanti Engdhal scrive: «Gli eventi assumono una svolta cinica quando ci troviamo di fronte ad attivisti climatici molto popolari e fortemente promossi, come Greta Thunberg o la 29enne Alexandra Ocasio-Cortez di New York e il loro Green New Deal. Per quanto sinceri possano essere questi attivisti, c’è una macchina finanziaria ben oliata dietro la loro promozione a scopo di lucro».

    ***

    Da sempre sono un nemico della concezione complottista del mondo: il solo “complotto” a cui do senz’altro credito è quello che questa società organizza tutti i giorni ai danni degli esseri umani e della natura. Quale vera o presunta «macchina finanziaria ben oliata» ci sia dietro la promozione mediatica degli attivisti green che spopolano in Occidente non saprei dire né la cosa riveste ai miei occhi un particolare interesse politico; ciò che invece ritengo sia importante capire è che «il cosiddetto Green new deal» si configura a tutti gli effetti come un gigantesco affare per il Capitale (che infatti se la ride!) e come una competizione sistemica (economica, scientifica, tecnologica) tra Paesi, Continenti e imprese.

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