CANI SCHIFOSI, SOGNI INFRANTI E REALTÀ DELL’IMPERIALISMO

Recita il mantra dell’ormai famoso (e famigerato per molti dei suoi colleghi opinionisti più o meno retribuiti) Alessandro Orsini, Professore, direttore dell’Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale dell’Università Luiss di Roma, e già analista geopolitico al servizio dei servizi segreti italiani (e ho detto tutto!): «Se Putin è un cane schifoso, sicuramente siamo schifosi anche noi». Non vorrei far arrabbiare il suscettibile quanto affettato scienziato sociale finito incredibilmente al centro del dibattito politico del nostro Paese (della serie: ogni Paese ha il dibattito politico che si merita!), ma una domanda sale spontanea alla mia modestissima mente: «anche noi», chi? In attesa di una risposta, che ovviamente non arriverà mai, colgo l’occasione per precisare come la vedo io sulla faccenda: per me «cane schifoso» è il sistema capitalistico mondiale colto nella sua disumana e violenta totalità. Capisco che la mia precisazione è poca cosa al cospetto della scienza orsiniana, ma questo passa il mio convento!

Come Orsini non smette di ricordarci ospitata dopo ospitata, talkshow dopo talkshow, egli ha lavorato e continua a lavorare per questo schifosissimo Sistema – che si può anche “declinare” come Sistema Imperialista Mondiale, anche e soprattutto perché è nella natura del Capitale essere imperialista, nel senso più dialettico del termine: potenza sociale che domina e sfrutta l’umanità e la natura e che avverte qualunque limite come un ostacolo intollerabile alla propria vitale espansione. Il conflitto armato moderno non è che la fenomenologia del Capitale, nonché, e sempre dialetticamente, la continuazione della “normale” guerra sociale capitalistica (guerra tra classi, guerra nelle classi, guerra tra imprese, tra Stati, tra Potenze, tra individui) con altri mezzi. Non c’è dubbio, si tratta di una bestia schifosa.

Il Generale Carlo Jean ci dà, a mio avviso, una buona esemplificazione del concetto di imperialismo: «La ricchezza e quindi la potenza degli Stati derivano più dalla dimensione verticale della produttività che da quella orizzontale dell’estensione territoriale e del possesso di materie prime. La conquista dei mercati ha sostituito quello dei territori. Gli strumenti economico-finanziari sono subentrati a quelli militari come mezzi privilegiati della politica di potenza. La geoeconomia è subentrata in parte alla geostrategia. Il mercato non ha confini. Il conflitto economico è tendenzialmente mondiale. […] Nessuno fa la guerra per la guerra. Nei conflitti economici, mezzi e fini sono della stessa natura. Questo può rendere il conflitto permanente e molto più totale di quello armato» (1). Questo senza peraltro eliminare la possibilità di conflitti armati più o meno generalizzati: come ho scritto sul post dell’altro ieri, anacronistica nel XXI secolo non è la guerra, ma la società che ne crea i presupposti e che a un certo punto la rende necessaria. Si tratta di un anacronismo storico-sociale che si riesce ad apprezzare solo conquistando la prospettiva rivoluzionaria dell’anticapitalismo radicale – che poi è il solo anticapitalismo che riesco a concepire.

Scriveva Lenin nel 1915: «Il libro di Hobson sull’imperialismo è utile in generale, ma lo è in particolare perché aiuta a scoprire la fondamentale falsità del kautskismo su questa questione.  L’imperialismo produce sempre di nuovo il capitalismo, produce di nuovo i passaggi dal piccolo capitalismo al grande, dallo scambio di merci debolmente sviluppato a quello sviluppato, ecc. ecc. I kautskiani citano i fenomeni di capitalismo “sano”, “pacifico”, fondato su “relazioni pacifiche” e li contrappongono al saccheggio finanziario, ai monopoli bancari, agli intrighi affaristici delle banche con il potere statale, all’oppressione coloniale, ecc. Li contrappongono come il normale all’anormale, il desiderabile all’indesiderabile, il progressivo al reazionario, il sostanziale dal casuale. Questo è un nuovo proudhonismo» (2). Come per J. A. Hobson (L’imperialismo, 1902), anche per Lenin l’imperialismo ha una natura fondamentalmente economica, si spiega pienamente solo alla luce dei processi economici, i quali a un certo punto dello sviluppo capitalistico hanno investito in pieno lo Stato, ampliandone le vecchie funzioni e creandone di nuove in grado di supportare al meglio la potenza espansiva del Capitale.

A proposito della penetrazione cinese in Africa come «nuova forma di colonialismo», scrivevo su un post del 2018 (La natura dell’imperialismo cinese): «La Cina dei nostri tempi sembra aderire perfettamente, e sempre cambiando quel che c’è da cambiare, al modello “classico” di imperialismo appena abbozzato, e quindi esporta e prepara, insieme ai suoi competitori, le condizioni oggettive dei conflitti bellici e sociali ovunque entrino in gioco i suoi interessi economici e strategici: in Asia, in Africa, in America Latina. Com’è noto, questo modello è particolarmente attivo in Africa, un continente che ormai da anni vede il Celeste Imperialismo al vertice della catena alimentare del Capitalismo mondiale. In Africa, il Capitalismo/Imperialismo con caratteristiche cinesi sfrutta e saccheggia risorse umane e naturali forse come nessun altro Paese occidentale è oggi in grado di fare, e con ciò stesso promuove lo sviluppo capitalistico di molti Paesi africani. Rinvio al mio post L’Africa sotto il celeste imperialismo». Com’è noto, l’imperialismo cinese sta realizzando uno strumento militare in grado di reggere il confronto con quello statunitense, e lo può fare senza affossare lo sviluppo della sua economia perché la struttura capitalistica del Paese è ancora forte e dinamica. Questo oggi e nel breve termine; nel lungo termine… siamo tutti morti – sotto il cielo del Capitalismo!

Come ho scritto altrove, nella guerra di aggressione russa all’Ucraina si esprime tutta la violenza e tutta la debolezza di un sistema (economico, politico, sociale) che cerca di reagire come sa e come può (cioè rovesciando il tavolo) a una situazione di gravi difficoltà. Il capitalismo genera cataclismi d’ogni genere sia quando è forte, sia quando è debole e afflitto da molte e vecchie contraddizioni, com’è appunto il caso della Russia – che non a caso ha perso in modo disastroso la Guerra Fredda nella sua precedente configurazione politico-istituzionale. Il vittimismo propagandistico («L’Occidente ci vuole accerchiare!») venduto dal regime russo all’opinione pubblica internazionale esprime bene la contraddizione che corrode in profondità il sistema sociale russo e dalla quale la classe dirigente del Paese non sa ancora uscire, perché tale contraddizione (riassumibile come segue: grandi ambizioni geopolitiche, debolezza strutturale) si aggroviglia intorno a fortissimi interessi economici e politici.

La riduzione della Russia a «potenza regionale» (Barack Obama) non è stata dunque causata dall’iniquo e malvagio complotto dell’Occidente ordito ai suoi danni, ma dai problemi strutturali che da moltissimo tempo azzoppano l’Orso Russo. D’altra parte, la competizione interimperialistica non è un pranzo di gala, non è una festa di beneficienza, ma una contesa tra cani schifosi che si contendono l’osso del potere sistemico e che non perdono una sola occasione utile per azzannare la concorrenza.

Un’altra persona che non ha capito bene (eufemismo!) con che cosa abbiamo a che fare quando parliamo di Occidente e di Europa oggi, nel mondo del XXI secolo, è certamente la Professoressa di filosofia teoretica Donatella di Cesare, la quale anche ieri versava lacrime amare sul sogno infranto dell’Unione Europea, ma anche sull’Europa colta nella sua straordinaria singolarità storica, dall’Atlantico agli Urali: «Il suicidio dell’Europa è sotto gli occhi di tutti. Ed è ciò che ci angoscia e ci preoccupa. Perché riguarda il futuro nostro e quello delle nuove generazioni. D’un tratto non si parla più di Next Generation Eu – nessun cenno a educazione, cultura, ricerca. All’ordine del giorno sono solo le armi. C’è chi applaude a questo, inneggiando a una fantomatica “compattezza” dell’Europa. Quale compattezza? Quella di un’Europa bellicistica, armi un pugno? Per di più ogni paese per sé, con la Germania in testa? Non è questa certo l’Europa a cui aspiravamo. In molti abbiamo confidato nelle capacità dell’Unione, che aveva resistito alle spinte delle destre sovraniste e che sembrava uscire dalla pandemia più consapevole e soprattutto più solidale. Mai avremmo immaginato questa deriva. La faglia che si è aperta nel vecchio continente, in cui rischia di precipitare il sogno degli europeisti, è anche la rottura del legame che i due paesi storicamente più significativi, la Germania e l’Italia, hanno intessuto con la Russia» (Il Fatto Quotidiano).

Dinanzi a questo esempio di superficialità analitica, storica e critica; al cospetto di chi mette insieme l’Occidente dei Greci e dei Lumi con l’Occidente che ha generato l’imperialismo, due carneficine mondiali, lo sterminio pianificato di ebrei, zingari, omosessuali, dissidenti politici e altra gentaglia «indegna di vivere» (e tante altre mostruosità che sarebbe troppo lungo ricordare), e che sorvola come niente fosse sull’esistenza della divisione classista degli individui, con ciò che tale divisione presuppone e pone; davanti a tutto questo mi viene da dire, balbettando il solito ubriacone di Treviri e scusandomi per la brutalità, miseria della filosofia teoretica! «Chi si accontenta di ripetere il refrain “c’è un aggressore e un aggredito”, ciò che tutti riconosciamo, non si interroga sulle cause e non guarda agli effetti di questa guerra», scrive la Nostra Professoressa. Io invece sostengo che chi invoca l’Unione Europea, cioè un polo imperialista in via di difficile e problematica (in primis, a causa della ben nota e ancora irrisolta Questione Tedesca) formazione (3), come «protagonista dei negoziati», mostra di non essere in grado di comprendere le cause reali, profonde, della guerra in corso. «L’Europa tace, sovrastata dai tamburi di guerra dell’Occidente atlantico, a cui sembra del tutto abdicare»: ecco il solito refrain «Europa buona e pacifica, America cattiva e guerrafondaia». Venere versus Marte. Europei, brava gente…

Commentando nel settembre del 2021 il disastroso ritiro occidentale dall’Afghanistan, Paolo Mieli metteva bene in luce il “buonismo” interessato/ipocrita della Vecchia Europa: «Da decenni è un continente specializzato nell’arte di “salvare la pace” ricorrendo esclusivamente alla diplomazia. Ora si annuncia una forza di pronto intervento comune ma di qui alla creazione di una struttura militare continentale il passo è lunghissimo. L’Alleanza Atlantica ha perso la propria funzione primaria ben trentadue anni fa, con il crollo del muro di Berlino. Da allora è sopravvissuta come struttura militare, sostanzialmente a guida Usa, atta ad intervenire nelle crisi in ogni angolo del pianeta. Laddove un’Europa “parassita” non era ad ogni evidenza disponibile a fare la propria parte. Mai. Neanche negli incendi che si sviluppavano ai propri confini. All’Europa è stato concesso di addossarsi solo il 20% dei costi della Nato e anche per questo, ragionevolmente, la pari dignità ai vertici è stata pressoché formale» (Il Corriere della Sera). È facile e assai produttivo fare i “buoni” con i soldi e i morti degli altri! È ciò che pensano anche a Washington, e non da oggi: «Nei circoli strategici americani si dice con cinismo che gli europei si godono da sessant’anni un viaggio gratis sotto l’ombrello difensivo degli Stati Uniti» (4). Robert Kagan riconosce però almeno un grande merito al progetto di integrazione europea: «Aver integrata e ammansita la Germania è stata la più grande conquista dell’Europa».

Ed è proprio per non concedere altro spazio geopolitico alla Germania unificata, che gli Stati Uniti negli anni Novanta cercarono in tutti i modi, insieme alla Gran Bretagna e alla Francia, di impedire il totale disfacimento non solo dell’ex spazio sovietico, ma della stessa Federazione Russa preda di un pauroso marasma economico, politico e “morale”. Scriveva il già citato Generale Carlo Jean nel 1994: «Molti stati occidentali, in particolare gli Stati Uniti, ma anche la Francia e la Gran Bretagna, hanno tutto l’interesse a consolidare la Russia e a favorire il ripristino dell’impero interno di Mosca. Una sua frammentazione infatti faciliterebbe, secondo alcuni, l’espansione verso est della Germania e la destabilizzazione dell’intera Europa. L’ambivalenza dell’atteggiamento occidentale è confermata dal rifiuto di estendere ad est la Nato o la sua garanzia militare e dalle pressioni fatte da Washington su Kiev e su Alma-Ata per la consegna delle testate nucleari ancora schierate in Ucraina e Kazakhstan. È confermata soprattutto dalla mancanza di reazioni in occidente alla cosiddetta dottrina russa sul peace-keeping. Ciò di fatto autorizza Mosca ad avere l’esclusività dell’intervento nell’ambito della Csi, con buona pace dei principi sia dell’Onu che della Csce, che avocano a tali istanze internazionali ogni potere di decisione su interventi in territori di Stati sovrani. […] Comunque, l’Ucraina ed il Kazakhstan e forse anche l’Estonia, che hanno al proprio interno consistenti minoranze russe, potrebbero far la fine della Moldova e della Georgia, dove si è verificata la secessione di parte del territorio. Di fronte a tali azioni non sembra esservi risposta militare, se non quella di estendere la Nato ad est, per garantire la Polonia» (5).

Dopo aver tratteggiato la difficile transizione dal capitalismo con caratteristiche sovietiche a quello con caratteristiche oligarchiche, Paul Krugman scriveva nel 1999: «Dopo che persone ben informate avevano perso ogni speranza, gli Stati Uniti hanno continuato a sperare che i riformatori russi sarebbero in qualche modo riusciti a concludere la transizione interrotta, che gli oligarchi avrebbero smesso di mostrarsi così egoisti o, per lo meno, di avere una visione così miope; e il governo degli Stati Uniti ha spinto il Fondo Monetario Internazionale a dare in prestito del denaro alla Russia in modo da guadagnare del tempo, finchè la situazione non si stabilizzi. Il Medley Report, una newsletter economica internazionale, ha scritto che gli Stati Uniti non stavano, come ha detto qualcuno, gettando i soldi in una topaia; stavano gettando i soldi in un silos di missili nucleari. L’apparente abilità della Russia nell’utilizzare le sue armi nucleari come strumento di minaccia ha a sua volta incoraggiato gli investitori stranieri a correre a loro volta dei rischi e a investire nel paese» (6).

Com’è complicato il mondo del XXI secolo! E di certo non è il “pensiero critico” di Orsini, di Cesare e di Papa Francesco che ci aiuta a comprenderlo.

Scriveva Sigmund Freud nel 1932, sollecitato da Albert Einstein a esporre «il problema della pace mondiale alla luce delle Sue recenti scoperte»: «Ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora. Inoltre la guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità. Finché esistono Stati e nazioni pronti ad annientare senza pietà altri Stati e altre nazioni, questi sono necessitati a prepararsi alla guerra» (7). Sono necessitati. Come sappiamo la preparazione alla guerra non è mai priva di conseguenze più o meno immediate, più o meno generalizzate. L’esistenza di Stati e nazioni si spiega storicamente (e “materialisticamente”) con l’esistenza della divisione classista degli individui: e qui il cerchio torna a chiudersi.

Dice il Santissimo Padre: «Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia». Il tutto, ovviamente, senza abolire le cause sociali della guerra, cause compendiabili con i concetti di capitalismo e imperialismo. A occhio, mi sembra assai più realistica la mia utopia, la quale afferma la necessità – e la possibilità – di portare l’umanità fuori dalla storia delle società classiste – o «preistoria», come la chiamava il comunista di Treviri.

(1) C. Jean, Ripensare la sicurezza, Limes, 1/2/1993, p. 285.

(2) Lenin, Quaderni sull’imperialismo, 1915-1916, Opere, XXXIX,  p. 87, Editori Riuniti, 1971. I Quaderni raccolgono i materiali preparatori a L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, scritto nel 1916 e pubblicato l’anno successivo.

(3) «Eppure l’Europa esita, prende tempo. Lo fa per mille motivi diversi, fra i quali emerge una costante: la Germania frena su tutto, arrivando a un’invocazione a non interferire con il “libero mercato” che suona grottesca ora che i prezzi del gas sono determinati dal rombo dai cannoni. Dietro c’è una profonda insicurezza a Berlino, perché la cornice nella quale la Germania prosperava si sta sfasciando. Per vent’anni la prima economia d’Europa ha soppresso consumi e investimenti interni, si è assicurata materie prime dalla Russia a prezzi bassi e stabili e ha generato colossali surplus commerciali aprendosi nuovi mercati emergenti fra i quali, soprattutto, la Cina. L’industria italiana è in parte satellite di questo sistema. Ora la tragedia ucraina manda in pezzi l’intero modello tedesco di co-dipendenza economica dalle grandi dittature. “L’invasione russa ha messo fine alla globalizzazione che abbiamo vissuto negli ultimi tre decenni” dice Larry Fink, che di globalizzazione se ne intende: gestisce BlackRock, il più grande fondo d’investimento al mondo con oltre diecimila miliardi di dollari impiegati ovunque» (F. Fubini, Il Corriere della Sera, 26/3/2022).

(4) R. Kagan, Paradiso e potere, p. 60, Mondadori, 2003.

(5) La Russia e noi, Limes, 1/94, p. 162. L’editoriale che apre il numero di Limes qui citato è molto significativo, come si evince dai passi che seguono: «Una nostalgia percorre l’Occidente, la nostalgia dell’impero russo. Molti di coloro che ieri brindavano sulle macerie del Muro di Berlino, rimpiangono oggi il ben temperato mondo bipolare. […] Occorre saper percepire gli interessi nazionali russi, formulati secondo il loro proprio punto di vista e non quello che noi ameremmo fosse. I russi, da parte loro, hanno diritto di sapere che cosa vogliono l’Europa e gli Stati Uniti. Questa è la condizione per trovare un’intesa e tracciare i limiti delle rispettive aree di responsabilità geopolitiche [leggi zone di influenza]. Come non vedere che nelle ultime elezioni i russi hanno manifestato la volontà di recuperare l’orgoglio della loro grandezza, troppo repentinamente umiliata?» (A che serve la Russia, pp. 7-9)

Questa volontà nazionalista e revanscista fu allora ben rappresentata da Vladimir Žirinovskij, leader del partito Libertà e legge e teorico dell’alleanza strategica tra Russia e Germania, il quale vinse nel ’94 le elezioni parlamentari russe. Ecco un saggio del suo pensiero geopolitico: «Prima di tutto noi daremo la doppia nazionalità a tutti i russi che vivono fuori della Russia. Li difenderemo soprattutto grazie agli strumenti economici. Non useremo mai la forza militare, ma useremo invece la forza del diritto e dell’economia per proteggere gli interessi di quei russi. […] Ecco l’Estonia. Qui ci vive gente russa. Questo territorio deve essere incluso nella Russia. L’Estonia deve essere assegnata al distretto di san Pietroburgo. L’Estonia nordorientale è completamente russa. In Lettonia, più della metà della popolazione è russa. A riga, i lettoni sono solo il 35 per cento. Sicché tutta la Lettonia va alla Russia. La Lituania, con la sua capitale Kaunas e con le città di Panevezys e Siaulias, formerà un piccolo Stato lituano, una enclave. Tutto il resto è per la Russia. Königsberg: è Russia. Bene, un giorno noi potremmo ridare Königsberg alla Germania. Vorremmo ridare all’Occidente tutto ciò che l’Occidente desidera… La Prussia era uno Stato tedesco che includeva Danzica, Breslavia e Stettino: tutto questo spetta dunque alla Germania. E se la Polonia volesse avere Leopoli, per esempio, noi potremmo dare il distretto di Leopoli alla Polonia. Ritagliamo un pezzo di Ucraina occidentale e lo includiamo nella nuova Polonia. Questo per compensare i polacchi delle loro perdite. Questo è il regalo della Russia allOoccidente. Noi vi regaliamo un pezzo del nostro territorio! Questo distretto di Leopoli va dunque a Varsavia o a una repubblica ucraina occidentale. Ma l’Ucraina orientale è interamente russa. E così anche la Moldavia. Bielorussia: vorrà essere incorporata nella Russia. È tutta Russia! Un giorno, forse, la Slovacchia vorrà far parte della Russia. La Cechia, invece, è per la Germania. Suggerisco che vada alla Germania. Ripeto: la Bielorussia è russa, l’Ucraina è russa. Quei popoli vogliono far parte della Russia. […] Un giorno ci sarà una grande Germania, una nuova Russia, che formeranno con l’India una nuova intesa. L’India e la Russia insieme neutralizzeranno la Cina in Asia. E con la Germania, la Russia può neutralizzare l’Europa. Nessun problema! (Le mie frontiere, Limes, 1/94, pp. 28-32). Non fa una certa impressione leggere oggi le “sparate” geopolitiche di  Žirinovskij datate 1994?

(6) P. Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione, p. 160, garzanti, 2001.0 «Boris Eltsin ha reso la Russia una democrazia, ma l’ha anche trasformata in una cleptocrazia, un governo di ladri. Un ristretto gruppo di “oligarchi”, che si servono del loro potere politico per acquistare privilegi economici e delle loro ricchezze per comprare i favori dei politici, hanno finito per dominare la parte più produttiva dell’economia, dopo aver utilizzato le privatizzazioni del paese a propri fini personali. Si poteva almeno sperare che, dopo aver derubato il paese, gli oligarchi avrebbero poi tentato di gestirlo come un’azienda produttiva; in realtà si sono comportati come rapinatori di bassa lega, facendo piazza pulita di tutto quello che trovavano e portando il denaro fuori da paese» (pp. 159-160). Appena diventato Presidente, Vladimir Putin disse al Financial Times che gli oligarchi sono «quelli che usano la propria prossimità con le autorità per ottenere grandi profitti»; usando il suo ormai consolidato potere di intimidazione, l’autocrate stabilì un “accordo” con gli oligarchi: «Io vi lascio arricchire tranquillamente, non vi creo problemi di sorta, e voi in cambio abbandonate ogni velleità politica». Per Putin non vi era altro modo di conseguire l’obiettivo di una forte centralizzazione del potere, indispensabile per dare al Paese una credibile postura di combattimento sistemico – soprattutto militare.

(7) S. Freud, Perché la guerra?, Opere, XI, p. 5403, Bollati Boringhieri, versione elettronica.

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12 pensieri su “CANI SCHIFOSI, SOGNI INFRANTI E REALTÀ DELL’IMPERIALISMO

  1. Le magagne capitalistiche dell’imperialismo russo

    Scrive il Generale Vincenzo Camporini sul Corriere della Sera:

    La logistica, arte negletta. Secondo le valutazioni di analisti occidentali, almeno il 60 % delle armi e del munizionamento impiegati dalle forze russe nella loro offensiva in Ucraina ha evidenziato gravi malfunzionamenti con una grande quantità di ordigni inesplosi. Si tratta di valutazioni basate sull’esame di quanto trovato sul terreno, la cui attendibilità, quindi, è ragionevolmente elevata e che fa sorgere seri dubbi sull’efficienza della macchina militare di Mosca.
    Non si tratta però di una sorpresa: senza andare troppo indietro nel tempo, una situazione analoga si presentò durante il breve conflitto tra Georgia e Russia nell’agosto del 2008.
    Si trattava di una situazione che presenta singolari analogie con quella che stiamo vivendo in queste settimane: due territori rivendicati dai georgiani, l’Abkhazia e l’Ossetia Meridionale, dove fin dai tempi dell’URSS erano in corso scontri interetnici, avevano proclamato la loro indipendenza; Tbilisi lanciò un’operazione militare che provocò un pesante intervento russo.
    Il conflitto durò solo cinque giorni e si concluse con una disfatta delle forze georgiane, ma l’analisi degli eventi evidenziò che oltre il 50 % del munizionamento impiegato dalle forze di Mosca non esplose, principalmente a causa del pessimo stato di manutenzione delle spolette: le esperienze del passato dovrebbero essere lezioni per il futuro, ma sembra che la logistica delle forze armate russe non ne abbia tratto il necessario giovamento.
    Esiste a monte un problema generalizzato di qualità. Gli uffici progetto dell’industria russa degli armamenti dispongono di qualità eccellenti, a volte al di sopra di quanto disponibile in Occidente: le conoscenze nel campo della fluidodinamica tridimensionale hanno consentito l’elaborazione di straordinari programmi aeronautici; purtroppo però, quando si passa dai progetti ai prototipi e da questi ai prodotti in serie vengono alla luci gravi carenze nella qualità dei materiali e in quella dei processi di fabbricazione.
    È accaduto, ad esempio, che l’esame dei rottami di un velivolo da combattimento russo abbia evidenziato l’utilizzo di leghe del tutto analoghe nella loro formulazione a quelle impiegate nelle nostre industrie aerospaziali, ma con un livello di omogeneità così scadente da richiedere spessori doppi a quelli possibili, con un incremento dei pesi a tutto scapito delle prestazioni finali del sistema d’arma.
    Un’altra conseguenza di questi insoddisfacenti livelli quantitativi è la scarsa vita operativa dei prodotti: il MiG29 Fulcrum, al suo esordio alla fine degli anni ’70, inizio degli ’80, era una macchina stupefacente e tutt’ora conserva una rilevante capacità operativa, ma deve cambiare i motori dopo pochissime centinaia di ore di volo, il che moltiplica i costi e la complessità della logistica e di conseguenza la sua disponibilità operativa. In estrema sintesi: senza una logistica efficiente le guerre non si vincono e questo sembra proprio il tallone d’Achille delle forze russe.

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