Sulla Repubblica di oggi Bernard-Henri Lévy scrive che «l’antisionismo è diventato il principale pilastro dell’odierno antisemitismo»; lo stesso concetto si trova nell’intervista che sempre oggi Pier Luigi battista ha rilasciato a Libero. Entrambi attribuiscono l’involuzione antisemita del movimento studentesco occidentale come si esprime negli Stati Uniti e in Europa alla cosiddetta cultura Woke. Assai gradevole, si fa per dire, è poi la denuncia del «nazicomunismo» (ah! ah! ah!) che fa Battista, il quale peraltro difende la linea repressiva antistudentesca adottata dal Presidente Biden come la sola opzione possibile «per difendere la democrazia e la libertà». Per il Wall Street Journal, «Le scuole fanno la cosa giusta quando chiamano la polizia per ristabilire l’ordine su folle indisciplinate. Una solida politica di libertà di parola non è in conflitto con la richiesta agli studenti di seguire le politiche del campus o di affrontare conseguenze per azioni che minacciano i compagni ebrei». Quanto a repressione dei movimenti politici e sociali il “democratico” governo degli Stati Uniti non sfigura affatto nei confronti del governo “fascista” del nostro Paese, a ulteriore dimostrazione di quanto sia risibile la distinzione tra “destra” e “sinistra”.
La stringata riflessione che segue si propone di offrire qualche elemento critico utile a contrastare la propaganda ideologica degli apologeti dei cosiddetti valori occidentali (che nei fatti ha il significato di una difesa degli interessi che fanno capo all’imperialismo occidentale), e, soprattutto, di sollecitare un ulteriore approfondimento da parte dei lettori del tema qui trattato per sommi capi e senza alcuna pretesa di rigore storiografico. Davvero oggi l’antisionismo è una comoda quanto ipocrita e odiosa copertura per l’antisemitismo del XXI secolo?
Penso sia corretto giungere al concetto di antisionismo, di cui oggi tanto si parla, il più delle volte a vanvera, in Occidente prendendo le mosse dal concetto di sionismo. Dal positivo al negativo, dall’affermazione alla sua negazione. Il termine sionismo compare la prima volta, per quel che ne so, nel 1886, mentre il concetto che ne presuppone l’esistenza inizia a formarsi qualche anno prima, come risposta ai pogrom antisemiti che si scatenarono in Russia dopo l’assassinio dello Zar Alessandro II avvenuto il 1̊ marzo del 1881. Nei venti anni che seguono quelle violentissime persecuzioni «un milione e mezzo di ebrei emigrerà in direzione degli Stati Uniti, questa nuova Terra promessa. Solo un pugno di giovani idealisti decise, invece, di dirigersi verso la Palestina. Facevano parte della associazione degli Hovevé Zion, gli Amanti di Sion, di cui un medico di Odessa, Leon Pinsker, avava assunto la presidenza» (1). Per gli aderenti di questa associazione il duro lavoro della terra in Palestina doveva rappresentare per gli ebrei una vera e propria redenzione, dopo secoli di oppressione, di discriminazione e di sottomissione, e dopo il periodo di integrazione (assimilazione) degli ebrei nella società borghese che aveva finito per corromperne la cultura e l’etica. Soprattutto questi Amanti di Sion stigmatizzavano la funzione commerciale e creditizia che molti ebrei avevano svolto nella moderna società borghese, sebbene quella funzione fosse il retaggio delle leggi interdittive varate nei secoli dai cristiani ai danni della comunità ebraica. Guadagnerai il tuo pane col sudore della fronte: a questa massima biblica si ispirarono i pochi ebrei russi che decisero di andare in Palestina.
Qui c’è un primo importante aspetto da cogliere: gli ebrei protagonisti della prima Aliah (ondata migratoria) che tra il 1882 e il 1903 vedrà giungere in Palestina circa 30.000 ebrei (ma alcuni studiosi parlano di 20.000) non praticarono un “sionismo” di matrice politica, «giacché per questi pionieri che fuggivano dalla Russia si trattava di porre le basi di una società nuova, senza che, al momento, venisse espressa l’idea di uno Stato ebraico» (2). Per quanto strano ci possa oggi sembrare, questi pionieri colonizzatori diedero per scontato ciò che col tempo non si rivelò affatto tale, ossia la possibilità di una pacifica e stabile convivenza con i residenti palestinesi, che iniziò a venire meno via via che il numero degli ebrei che arrivavano in Palestina dall’Europa, soprattutto dall’Impero Russo, cresceva. In ogni caso fino alla vigilia della Grande Guerra non si registrarono significativi conflitti tra arabi ed ebrei, soprattutto perché i primi non avvertivano come una minaccia la presenza dei secondi sul suolo palestinese. Tutto cambia dopo il primo conflitto imperialista, e il quadro qui abbozzato cambierà ancora, e molto più radicalmente, a causa del Secondo macello mondiale.
Il sionismo politico, espressione del peculiare nazionalismo ebraico, nasce “ufficialmente” nel 1897 a Basilea, dove si tenne il primo Congresso mondiale sionista organizzato da Theodor Herzl, considerato unanimemente dagli storici come «il padre del sionismo», e come tale ancora oggi venerato dai sionisti israeliani. Com’è noto, Herzel era stato in passato un acceso sostenitore della tendenza assimilazionista, posizione che cambiò radicalmente in seguito al famigerato caso Dreyfus (3), che ferì in profondità la coscienza di quegli ebrei che avevano individuato nella Francia dei diritti universali dell’uomo un vero e proprio faro di civiltà. Meglio volgere lo sguardo verso gli Stati Uniti! O verso la Palestina… Già nel 1882 A. A. Droujanoff aveva posto il dilemma: «Non ci resta che emigrare. Ma rimane il problema: dove? Chi vorrebbe la Palestina, chi l’America» (4). C’è da dire che anche nel seno del movimento sionista l’alternativa non venne sciolta subito, tant’è vero che lo stesso Herzel accarezzò l’dea di fondare lo Stato ebraico in un lontano Paese ricco di terre da coltivare e scarsamente popolato: Canada, Argentina e Nuova Zelanda furono vagliate come possibili focolai nazionali ebraici, come si diceva allora. Si sarebbe trattato di un “sionismo” rivisitato e corretto alla luce della dura realpolitik.
Il sionismo si sviluppa dunque storicamente come risposta all’antisemitismo che la società borghese occidentale non solo non era riuscita ad estirpare, nonostante il suo illuminismo, la sua scienza, il suo progresso civile e materiale, la sua democrazia e il suo gran parlare intorno ai «diritti inalienabili dell’uomo e del cittadino», ma che aveva di fatto dotato di strumenti potentissimi (immateriali e materiali: vedi i mezzi di comunicazione di massa e i mezzi di sterminio di massa) che facevano impallidire quelli di cui disponeva il vecchio antisemitismo.
Non molto paradossalmente furono gli antisemiti occidentali più incalliti che accolsero con entusiasmo la nascita del movimento sionista, in quanto vi videro un’eccellente soluzione del problema ebraico: finalmente gli ebrei potevano lasciare l’Europa in massa e “spontaneamente”: per gli antisemiti si trattava di un guadagno in termini politici ed economici – anche la violenza ha un costo! E qui finalmente arriviamo all’antisionismo.
La posizione antisionista nasce dentro la comunità ebraica, e non ha dunque storicamente e concettualmente nessun punto in comune con l’antisemitismo. I primi a rigettare in termini teologici e non politici il sionismo furono gli ebrei più ortodossi, i quali videro in quel movimento una vera e propria bestemmia, un’eresia indegna per il popolo prescelto da Dio e il cui ritorno a Sion non poteva avvenire senza la Santa guida del Messia: volendo precorrere i tempi i sionisti mandavano in frantumi la Santa Alleanza che legava Dio al suo Popolo Eletto. «Anatema su di voi!» A questa posizione religiosa e prepolitica bisogna naturalmente aggiungere l’antisionismo di matrice squisitamente politica, il quale faceva sostanzialmente capo a due grandi tendenze: quella assimilazionista liberale, che puntava su una graduale integrazione degli ebrei nella società borghese, e quella marxista, che individuava il superamento delle discriminazioni religiose e politiche nella rivoluzione sociale anticapitalista, e nell’emancipazione dell’intera umanità (ebrei compresi) che ne sarebbe seguita. I marxisti di origine ebraica cercavano dunque di orientare il proletariato ebraico in senso classista e internazionalista, e consideravano il cosiddetto sionismo socialista una contraddizione in termini, un ossimoro concettuale, una posizione che indeboliva tanto il proletariato ebraico quanto il proletariato della nazione che ospitava gli ebrei.
Tutte le correnti politico-ideologiche antisioniste non accettavano poi l’idea che si potesse fondare lo Stato nazionale ebraico a spese di popolazioni che abitavano da secoli le terre che finivano, anche se in modo pacifico (ad esempio comprando le terre dei proprietari terrieri indigeni), nella disponibilità dei coloni ebrei. Era più che legittimo aspettarsi una violenta reazione da parte di quelle popolazioni, il cui nazionalismo sarebbe stato radicalizzato dalla presenza dei sionisti-coloni altrettanto radicalizzati in senso nazionalista. Del resto le lettere che i pionieri del sionismo spedivano alla comunità ebraica d’Europa raccontavano di un’accoglienza tutt’altro che amichevole da parte degli arabi che abitavano la Palestina: «Non ci vogliono e ci tollerano appena». Anche perché quei pionieri introducevano “artificialmente” in quella regione del Medio Oriente la cultura e i metodi di lavoro appresi in Occidente, e questo creava i presupposti di un “conflitto di civiltà” dagli esiti tutt’altro che scontati. Anche senza volerlo, il sionismo si faceva strumento di una modernizzazione capitalistica che la popolazione locale (che viveva soprattutto di agricoltura di sussistenza, di artigianato e di piccolo commercio) non era pronta ad accettare.
C’era poi un altro fondamentale aspetto della questione da considerare. Il sionismo avrebbe potuto realisticamente portare a compimento il suo programma nazionale solo con il sostegno politico, economico e militare di una Potenza occidentale, e difatti Herzl cercò fin dall’inizio la benevolenza di Londra e di Parigi, non disdegnando neanche di cercare le simpatie di Mosca – ricevendone in cambio ironiche battute e sprezzanti giudizi sulla comunità ebraica russa, troppo incline alla sommossa per i gusti dei governanti dell’Impero Russo. Questa realpolitik sionista non poteva ovviamente trovare degli appigli in quella parte della comunità ebraica occidentale orientata in senso progressista, la quale guardava con orrore alla sola idea che potesse nascere in Palestina una nazione ebraica avente fin da subito i caratteri del colonialismo (di insediamento) (5) e che si candidava ad essere, necessariamente, nei fatti, la lunga mano dell’imperialismo occidentale nella regione mediorientale.
Qualcuno può forse rintracciare un solo atomo di antisemitismo nell’antisionismo come si è sviluppato storicamente in fortissima polemica con il progetto sionista? Io non credo.
Fu l’antisemitismo occidentale, che nel nazismo ebbe la sua forma più micidiale e conseguente, che rese possibile prima la nascita del sionismo e poi, dopo la Seconda guerra mondiale, il suo successo nei tempi e nei modi che sappiamo dal 1945 in poi. Lo sterminio degli ebrei, condotto con metodi industriali e con la tradizionale disciplina e serietà che tutti riconoscono alla nazione tedesca, convinse molti dei “salvati” che per loro non c’era più alcuna possibilità di vivere in Europa senza vedere tutti i giorni in ogni non ebreo un potenziale antisemita pronto a colpirli il giorno in cui la società avesse bisogno di un capro espiatorio. La nascita di Israele (14 maggio 1948) non fu insomma solo il frutto dell’ideologia sionista, ma fu soprattutto il frutto velenoso dell’imperialismo mondiale.
Nato, nelle intenzioni poi rimaste deluse di Londra, come lunga mano dell’imperialismo britannico nel Medio Oriente; divenuto poi gendarme – tutt’altro che sciocco e servile – dell’imperialismo Usa, Israele non può sopravvivere senza spostare in avanti, sempre di nuovo, i confine della sua dominazione, da un lato occupando nuovi territori, servendosi anche delle divisioni e delle rivalità interne al mondo arabo, e dall’altro disperdendo o/e eliminando fisicamente le masse palestinesi che si trovano ancora troppo a ridosso delle sue frontiere. E non può fare questo senza sconvolgere periodicamente gli equilibri geopolitici della regione mediorientale e, molto spesso, senza entrare in conflitto con gli interessi strategici degli Stati Uniti e, soprattutto, dei Paesi europei, ossia dei suoi migliori (vitali) alleati.
Veniamo, per concludere rapidamente, ai nostri giorni. Chi non fa alcuna distinzione tra gli ebrei (compresi quelli di nazionalità israeliana) e lo Stato colonialista/imperialista d’Israele; chi denuncia, molto giustamente, i crimini commessi da quello Stato contro i palestinesi, ma si schiera senz’altro con Hamas (che per i palestinesi di Gaza è parte del problema, non della sua soluzione) e con gli Stati (Iran in testa) che sostengono la “causa palestinese” solo strumentalmente, a chiacchiere, per ottenerne vantaggi economici, geopolitici e sociali: chi fa questo a mio avviso si presta per un verso alla facile propaganda filoisraeliana che tende a identificare l’antisionismo con i nemici di Israele (molti dei quali sono effettivamente antisemiti), e per altro verso, soprattutto, porta acqua al mulino di uno dei due campi imperialistici che si disputano il potere mondiale. Anche su questo terreno l’autonomia politica di classe sostenuta dall’anticapitalismo militante si rivela essere la sola strada da percorrere per chi vuole lottare contro le mille contraddizioni sociali generate sempre di nuovo dal capitalismo mondiale senza correre il rischio di farsi intruppare in uno degli eserciti che si fanno la guerra e che vanno combattuti entrambi “senza se e senza ma”. Vediamo ad esempio come una cospicua parte del mondo cosiddetto femminista occidentale non dice nulla sull’atroce repressione che stanno subendo in Iran le donne che cercano di ribellarsi all’odioso regime misogino degli ayatollah, e questo sostanzialmente perché molte femministe non vogliono apparire come complici dell’Occidente! Quale subalternità politica! Quale miseria umana! Purtroppo è così che ragione chi è intrappolato nella logica “campista”: o stai da questa parte del campo, o stai dall’altra parte di esso, mentre in realtà si tratta di mandare a gambe in aria il campo imperialista nel suo complesso.
(1) P. Maltese, Nazionalismo arabo nazionalismo ebraico. 1798-1992, p. 34, Mursia, 1992.
(2) «Certamente su questo punto non ci potevano essere dubbi [per Droujanoff] : l’America, terra della libertà, della giustizia, terra fertile, era chiaramente preferibile alla Palestina, che era arida, sotto il giogo della Turchia e boicottata dai filantropi ebrei dell’Occidente: “Dunque io partirò per l’America e soltanto per l’America, e insieme a un gruppo di persone costituiremo una colonia agricola”» 147-148, J. Frankel, Gli ebrei russi. Tra socialismo e nazionalismo (1862-1917), Einaudi, 1990.
(3) Scrive Francesca Trivellato commentando il saggio di Maurice Samuel Alfred Dreyfus. The Man at the Center of the Affair (Yale University Press, 2024): «La gamma di reazioni all’interno del mondo ebraico internazionale fu ampia, spingendo alcuni verso il sionismo, altri verso l’integrazione e dividendo i socialisti sulla questione religiosa. A dispetto di queste divergenze ideologiche, secondo l’autore fu l’affaire Dreyfus prim’ancora che la Shoa a fare della persecuzione il minimo comune denominatore dell’identità ebraica moderna» (Il Sole 24 Ore).
(4) Ivi, p. 35.
(5) Sul concetto di colonialismo di insediamento, che forse sarebbe più corretto definire di sostituzione, rimando a un interessante scritto (L’altra faccia del sionismo) di Arnon Degani, accademico israeliano, pubblicato dalla rivista il Mulino del 17/12/2023. Sulla prassi di questo colonialismo Lorenzo Cremonesi ha scritto un articolo molto interessante.
LENIN E LA QUESTIONE EBRAICA IN RUSSIA